1. Premessa
Il tema affidatomi mi porta ad affrontare, dall’osservatorio specifico della dirigenza di un ufficio, alcune questioni e nodi di fondo inerenti agli effetti e trasformazioni in atto prodotte sull’attività giudiziaria, (intesa come servizio pubblico essenziale reso ai cittadini) dalle robuste “iniezioni” di nuove tecnologie e “cultura manageriale”, profuse nella nostra organizzazione e raccomandate da più parti (legislatore, Ministero, organi dell’autogoverno) in questa fase iniziale del terzo millennio. E questo tenendo conto del tema generale dell’incontro, incentrato sulla suggestiva e stimolante questione del “benessere organizzativo”, che dovrebbe a buon diritto divenire un tassello non certo secondario dei nostri orizzonti formativi ed operativi.
Queste dinamiche si cercherà allora di analizzarle nel contesto reale degli uffici giudiziari in cui appare sicuramente arduo, in molti casi, parlare oggi di “benessere organizzativo” e di “buona organizzazione” anziché piuttosto del loro contrario, posto che nella gran parte di questo comparto della PA si resta ancora pesantemente condizionati da una grave ed endemica disorganizzazione di base, carenze di risorse storiche ed ancora adesso a supporto del pur grandioso cambiamento tecnologico in atto, irrazionale distribuzione territoriale degli organici e delle relative risorse, carichi di lavoro conseguentemente diseguali e mediamente di gran lunga superiori alla soglia della sostenibilità , stress lavorativo diffuso, carenze profonde di direzione e leadership in tanti uffici.
La situazione concreta è dunque certamente molto lontana, quanto a realizzazione effettiva di risultati, dall’obiettivo di fondo degli ordinamenti statali contemporanei di rendere ogni ambiente lavorativo integralmente “salutare” (fisicamente, psicologicamente e socialmente) per chi vi opera all’interno in ogni livello e ruolo e di far seguire ai processi di cambiamento tecnologico quei coerenti cambiamenti organizzativi in grado di migliorare in primo luogo le attività lavorative e di ridare quindi efficienza a tutte le PA, settore-giustizia per primo.
L’occasione odierna appare dunque ghiotta in primo luogo per misurare, purtroppo, la distanza ancora siderale che corre tra i propositi della Direttiva 24.3.2004 del Ministero della funzione pubblica sulle misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni (1), e la concreta realtà della nostra organizzazione che , tra l’altro, presenta la peculiarità di essere – per dirla con i sociologi che la studiano da qualche tempo (V. S. ZAN, “Le organizzazioni complesse”, Roma 2011), una organizzazione complessa e di non facile gestione per la compresenza di due burocrazie professionali, caratterizzate da tipologie differenti di legami interni, una di tipo gerarchico tradizionale come tutte le burocrazie statali e l’altra qualificata per uno statuto normativo costituzionalmente garantito che necessariamente pone limiti, rigidità e vincoli a qualsiasi tipo di gestione organizzativa si voglia intraprendere.
L’occasione, però, è altrettanto utile per fare anche un po’ il punto su una serie di questioni conseguenti a questo assetto peculiare rispondendo ad alcune precise domande: negli uffici giudiziari cosa significa oggi realmente “benessere organizzativo”? Da cosa e quali variabili dovrebbe dipendere? Quali invece le cause del profondo malessere che vi si riscontra? Le tecnologie nuove e un serio management favoriscono e se si, in che modo, con il cambiamento organizzativo che comportano, la costruzione e la crescita del benessere? Cosa ci vuole però ancora d’altro? Quali strade vanno percorse? Che ruolo, da ultimo, stanno svolgendo in tutto questo processo di cambiamento i dirigenti degli uffici giudiziari italiani?
Cercherò di dare quindi, nei limiti di questo intervento e della mia esperienza un tentativo di risposta a questi interrogativi indicando alcune strade che ritengo obbligate per migliorare la situazione complessiva.
2. Un “test” ripreso da GOOGLE.
Costituisce un dato di indubbia realtà che, oggi, il ruolo dirigenziale, pur rimodellato negli ultimi lustri rispetto a quello consegnatoci dall’ordinamento giudiziario del 1941, non più legibus solutus come una volta ma ipercontrollato ed inserito ormai organicamente in una mini scala gerarchica costituita, alla base dai magistrati e quindi, salendo, dagli organi di amministrazione della giurisdizione collegiali e misti (Consigli giudiziari e CSM), continui a rappresentare, nel complesso, un punto dolente e poco incisivo dell’organizzazione giudiziaria. Perché? E' una questione di strutturazione dell’organizzazione? Oppure le cause sono di diversa natura?
Venendo quindi più vicino al tema cruciale dei poteri organizzativi del dirigente che ne costituiscono da tempo la fondamentale sostanza e che, se funzionano, sono in grado di creare all’interno dell’ufficio una situazione di buon andamento e dunque tale da favorire oggettivamente il benessere per chi ci lavora, può essere utile, cercando di fornire una prima analisi un poco diversa dal solito, partire dalla ricetta che Google offre sulle organizzazioni aziendali per stabilire quali siano gli indicatori da cui ricavare se un’organizzazione ha un futuro positivo in cui sperare oppure se è destinata inesorabilmente all’insuccesso e dunque al fallimento. Si tratta di cinque punti o indicatori di forza che si misurano, specularmente, con altrettante situazioni di debolezza. Ora, questi indicatori o situazioni ben possiamo verificarle nella realtà giudiziaria, pur con i necessari e ovvii adattamenti (prendiamolo quindi quasi come un gioco…) e con l’avvertenza in ogni caso arcinota che, anche se i nostri uffici non sono sussumibili affatto nel modello aziendale in senso stretto, rappresentano comunque realtà organizzative che erogano servizi ai cittadini e debbono quindi comunque rispettare canoni di efficienza, economicità e razionalità gestionale.
Cominciamo dagli indicatori ritenuti fonte di debolezza: un’organizzazione senza futuro è quella in cui esistono: a) troppi livelli gerarchici che la ingessano; b) il “mantra” più ricorrente e ripetuto dalla dirigenza è che “tutti gli addetti sono sostituibili e quindi fungibili”; c) il lavoro è strutturato secondo un orario rigido e uniforme; d) tutta l’attività si svolge all’interno dell’ufficio ed, infine: e) i processi decisionali discendono solo dall’alto.
Al contrario, gli indicatori positivi che segnalano la capacità dell’organizzazione di rilanciarsi e di sperare in un futuro migliore, come suoi punti di forza, risultano essere: a)pochi livelli gerarchici (massimo tre); b) un mantra fondato sull’idea della persona giusta al posto giusto e nel momento giusto; c) la mancanza di un orario predefinito (essendoci soprattutto obiettivi da raggiungere); d) l’inesistenza di un obbligo di stare sempre in ufficio; e) l’esistenza di processi decisionali che partono anche dal basso.
Ora, se si calano questi indicatori (che avendo come parametro ideale l’impresa, danno per scontato che la questione delle risorse non sia un problema) nella realtà organizzativa dei nostri uffici si constata immediatamente, con una certa sorpresa, che l’ordinamento giudiziario vigente è strutturato in un modo tale da vedere realizzati pressoché tutti quelli che abbiamo definito “forti”. Infatti: parlando di magistrati i livelli di sovraordinazione (se non piace chiamarla “gerarchia”) sono, a partire dagli uffici di dimensione media, solo due (il magistrato semidirettivo ed il dirigente dell’ufficio), altrimenti c’è solo il dirigente.
Qui, se vogliamo, una determinante complicazione è però data dalla parallela presenza di una struttura amministrativa con i propri diversi livelli gerarchici e le cui note insufficienze (vuoti d’organico per carenza di risorse; mancata riqualificazione professionale; assenza di formazione; demotivazione diffusa a tutti i livelli a cominciare da quello dirigenziale), si sommano negativamente alle nostre, interferendo pesantemente quindi sull’efficienza complessiva del servizio. Così come altro potente fattore di complicazione e condizionamento esterni è costituito , per quanto attiene ai flussi di lavoro ed alla durata dei processi, dall’avvocatura, il cui numero enorme non può non esserne quanto meno concausa efficiente. Ma ritornando agli indicatori: detto dei pochi livelli gerarchici, non esistono nella nostra attività un orario di lavoro predefinito e tanto meno un obbligo di costante permanenza in ufficio (ergo l’attività lavorativa è improntata a canoni di notevole flessibilità e da pochi momenti di coercizione organizzativa).
Tutte le procedure di selezione del personale, dal conferimento degli incarichi semidirettivi e direttivi fino all’ assegnazione dei magistrati negli uffici sono incentrate ormai prioritariamente sui parametri delle attitudini e del merito (essendo l’anzianità parametro sempre più recessivo) nell’ottica dell’individuazione dell’idoneo per ogni funzione determinata, e quasi nessuno crede più alla fungibilità di tutte le funzioni o, che è la stessa cosa, alla possibilità per chiunque di svolgere qualsiasi funzione (il c.d. giudice tuttofare di un tempo), possibilità che era figlia dell’idea, basata su un vero e proprio fraintendimento del concetto di eguaglianza delle funzioni ex art. 107 Cost., che tutti i magistrati fossero, in carne ed ossa, eguali e quindi fungibili e surrogabili. I processi decisionali di tipo organizzativo e gestionale, da ultimo, non promanano più da quel dì dall’unico pulpito insindacabile del “capo” ma sono strutturati formalmente sul coinvolgimento procedimentale e sul concorso di diversi soggetti, entro una logica quindi molto partecipativa e (qui si giustamente) egualitaria.
E allora, se tutto ciò corrisponde alla struttura formale del nostro ordinamento, in cui fanno capolino tutti quegli indicatori “virtuosi” che si sono indicati sopra, perché, ciò nonostante, i nostri uffici, mediamente, alla fine funzionano male e sono inefficienti?
La risposta, credo, implichi una serie di riflessioni che, pur scontando la loro opinabilità e discutibilità, vanno a parare su una serie di debolezze e vizi, strutturali ed anche culturali, che, come categoria e come istituzione intesa come organizzazione, ci portiamo dietro dal passato senza averli ancora del tutto superati.
3. Alcune debolezze dell’organizzazione giudiziaria.
Il problema è, in primo luogo, evidentemente più ampio di quello a cui rinviano quegli indicatori, utili per l’analisi di partenza, ma non sufficienti di sicuro per decifrare la complessità dell’organizzazione giudiziaria e le vere cause del suo cattivo funzionamento : è proprio sui suoi tratti specifici che occorre soffermarsi, perché in essa operano, accanto ai giudici, altri soggetti, interni ed esterni (già si è accennato al ruolo decisivo che giocano la struttura amministrativa con il nodo introdotto dal D. Leg. n. 240 del 25.7.2006, della doppia dirigenza e gli avvocati, con la loro incidenza sulla quantità e durata dei processi) che ne determinano fortemente le performance.
Il problema della struttura amministrativa chiama poi immediatamente in causa il Ministero e la sua responsabilità per le croniche inadempienze in punto compiti derivanti dall’art. 110 Cost. al punto da caratterizzarsi, a seconda dei periodi storici, più quasi come “disorganizzatore” che “organizzatore” del servizio giustizia. Basti pensare ai 40 anni di totale assenza di interventi (all’incirca dal 1950 al 1990) di “manutenzione ordinaria” nel comparto della giustizia civile (v. P. D’ASCOLA, “Sulla giustizia civile”, in Micromega n. 7/14, pag. 148 e ss) per finire alla politica del personale degli ultimi 20 anni, assottigliatosi senza alcun ricambio di oltre 10.000 unità (l’ultimo concorso di reclutamento del personale amministrativo, se non erro, è del 1998 e l’età media del personale è ormai salita attorno ai 53/54 anni!). Lo sfascio di tanti uffici ha dunque cause e colpevoli ben precisi, e tale stato miserevole produce inevitabilmente profondo malessere negli addetti (oltre che demotivazione, irresponsabilità e spinte corporative) ma anche quella che giustamente si è chiamata, per quanto riguarda i magistrati (v. M PERINI, “Il mutevole cuore del Giudice: basi emozionali dell’inefficienza nell’organizzazione della giustizia”, relazioni svolta all’incontro di Formazione “Efficienza e giurisdizione”, svoltosi a Roma l’11 marzo 2015) “giustizia difensiva” (con i relativi addentellati) per le forti analogie con la situazione dei medici esposti all’espansione selvaggia del contenzioso da asserita malpractice ospedaliera.
Lo sfascio organizzativo di tanti uffici, unito a recenti riforme giustamente “mal digerite” dalla categoria, crea certamente un mix diffuso, assolutamente da non sottovalutare, di ansie e inquietudini che facilmente si possono trasformare in vere patologie da stress lavorativo, essendo sempre in agguato, aumentando ciò a dismisura le ansie, le ispezioni ministeriali e le possibili azioni disciplinari collegate, spesso, ai ritardi nel deposito dei provvedimenti ma anche ad una vigilanza burocraticamente esercitata dai dirigenti, senza equità e lungimiranza.
Un magistrato, quindi, che vive costantemente nella paura di sbagliare e di essere punito, isolato e magari senza aiuti da colleghi e dirigenti, destinatario solo di inviti più o meno perentori a “smaltire”, definire, ridurre l’arretrato, far più veloce ecc. ecc. rischia fortemente di non essere (o essere più) un magistrato indipendente ma sempre più condizionabile ed incline ad adottare le scelte e soluzioni più tranquille e meno coraggiose e responsabilizzanti, a privilegiare la quantità sulla qualità, a selezionare opportunisticamente le cose da decidere (le più semplici) e quelle da rinviare (le più complicate e rischiose), a trovare gli escamotages procedurali più cavillosi e formalistici pur di eliminare in qualche modo i fascicoli.
La stessa questione dei c.d. “carichi massimi esigibili”, che tanto ci ha tormentato negli ultimi anni a cominciare dal dibattito associativo, rientra esattamente in questo quadro di rimedi difensivi escogitati e proposti per far fronte alle situazioni insostenibili di tanti uffici, essendo stata quanto meno all’inizio elaborata come fissazione di un tetto rigido invalicabile di produttività richiedibile al singolo, e quindi come garanzia, nel caso di suo superamento a causa di un ruolo maggiore scaricato sulle spalle, di non correre comunque rischi nelle valutazioni professionali, nel disciplinare, nei rapporti con i dirigenti.
Tutti gli addetti sono così, per causa, in primo luogo, del disastro organizzativo che caratterizza molte realtà giudiziarie, sottoposti a pressioni e tensioni che sovente conducono, quando va bene a rivendicazioni corporative di basso profilo, e quando va male a vere e proprie distorsioni nell’esercizio delle rispettive funzioni : che è quello che rischia di capitare o è già capitato a molti dirigenti in relazione ai quali, in particolare, l’emergenza-arretrato e la questione dei tempi irragionevoli delle cause e processi, insieme al martellamento ossessivo da parte di tutti i vertici istituzionali da qualche anno in qua sulla necessità del suo smaltimento a qualunque costo e sul loro contenimento, ha sicuramente provocato l’emersione della figura del capo “iperproduttivista”, insensibile alle condizioni effettive, materiali e logistiche, di lavoro dell’ufficio e dei propri magistrati. Capo, inoltre, proteso solo ad alzare sempre più l’asticella della produttività quantitativa, imponendo autoritativamente dall’alto obiettivi via via più ambiziosi e irrealistici, e tutto questo solo per non incorrere in “grane” con i livelli istituzionali superiori: sta di fatto che “smaltire, smaltire, smaltire….” ha preso così il posto come parola d’ordine centrale (ma anche un po’ deprimente) del ben più nobile e fondato “resistere, resistere, resistere…” di qualche anno fa!
Certo, questa riflessione non può riguardare tutti gli uffici perché la realtà di questi, grazie agli squilibri e cattiva distribuzione delle risorse esistenti nonché all’incidenza di fattori locali, è molto variegata ed irriducibile ad un’unica diagnosi drammaticamente negativa, ragione per la quale occorre ormai ragionare, al di la della formale omogeneità per assetto amministrativo e competenze di tutti gli uffici, sull’esistenza di un doppio e profondamente contrapposto circuito, diffuso nel paese in maniera casuale ed a macchia di leopardo, di uffici organizzati e funzionanti ed uffici disorganizzati a cui, ovviamente, si accompagnano situazioni più o meno eclatanti di malessere o di benessere lavorativo, (che, sia detto chiaramente, non necessariamente coincidono con il mal o buon funzionamento dell’ufficio). Dove per uffici organizzati e funzionanti si sottintendono realtà a loro volta diversificate stante l’estrema variabilità e reciproca combinazione dei fattori che hanno giocato un ruolo rilevante nella loro conformazione e crescita positiva (es. carichi e flussi di lavoro, organici, ruolo dei dirigenti giudiziari e amministrativi, prassi consolidatesi, rapporti più o meno collaborativi e sinergici tra avvocatura e magistratura, presenza o meno di osservatori, ruolo degli enti locali, tessuto connettivo sociale esterno, ecc.).
E’ del resto in questo doppio circuito di realtà giudiziarie che si sono manifestate le buone prassi, sono nati i protocolli e gli osservatori, si sono preparati a poco a poco l’humus ed il contesto propizi per far nascere e decollare le esperienze di Torino e via via di altri Tribunali collocati tra quelli c.d. “virtuosi”.
A tutti questi dati strutturali negativi (le debolezze) si aggiungono poi alcuni pesanti vizi del nostro corpo professionale ancora diffusi tra noi : una malintesa concezione dell’indipendenza e autonomia, estesa impropriamente al di là degli spazi interpretativi e decisori di ogni regiudicanda anche all’organizzazione del lavoro; una insofferenza congenita alla fissazione nell’ufficio di programmi, obiettivi, costrizioni organizzative, in quanto appesa ad una visione individualistica e “leibniziana” del lavoro giudiziario, rispetto a cui l’eccessiva monocraticità, a sua volta, induce ad una scarsa propensione al lavoro collettivo, coordinato e per obiettivi favorendo al contrario metodi di lavoro improntati ad una sorta di “taylorismo giudiziario”; un’idea egualitaria delle funzioni che confonde erroneamente i profili giudiziari con quelli organizzativo-ordinamentali finendo per cancellare o delegittimare quel “grumo di gerarchia”, insito ed io credo ineliminabile nell’esercizio delle funzioni semidirettive e direttive: l’evaporazione dei controlli e vigilanza interne in un quadro sempre più marcato di omogeneità tra “controllori e controllati”, che spiega la disapplicazione in almeno della metà degli uffici giudiziari dell’art. 47 quater OG e la diffusa insofferenza nei suoi confronti e accompagnano proposte riformatrici tali da aumentare ulteriormente quella omogeneità ed indistinzione di ruoli, come mi è sempre apparsa la proposta di “tabellarizzazione” degli incarichi semidirettivi.
Come scriveva lucidamente qualche anno fa G. BORRE’, “C’è ancora una carriera in magistratura?” nei Quaderni di Questione giustizia, 1986, sulla professione del giudice, pag. 104 -105: “per gli incarichi direttivi è poco pertinente invocare il principio dell’eguaglianza delle funzioni. Pari possono essere le funzioni sebbene collocate più in alto o più in basso nella scala processuale, perché la loro sovraordinazione o sottordinazione esprime diversità di compiti e non scalini di “gerarchia”, mentre nella sovraordinazione del “capo” è insito un elemento amministrativo di gerarchia”.
Sempre sul versante delle debolezze e ritardi culturali del corpo occorre poi segnalare che la stessa penetrazione della c.d. “cultura organizzativa” ha fatto ancora passi modesti, dovendosi, da questo punto di vista, considerare che, a monte, vi erano almeno tre scissioni (veri compartimenti stagni) storicamente sedimentate da superare: tra i giudici indipendenti e l’organizzazione circostante come altro da sé, vale a dire un qualcosa di cui poter far meno ritenendosi erroneamente che bastasse l’ombrello protettivo dell’indipendenza per far crescere automaticamente in efficienza ed efficacia l’intera istituzione (“il giudice senza organizzazione”); tra l’organizzazione, intesa come comparto amministrativo, cresciuta a sua volta per conto suo, e i giudici (la c.d. “organizzazione senza il giudice”); e la separazione tra giudici civili e penali rispetto al problema dei tempi dei processi, questione del tutto assente nello statuto professionale dei primi fino agli ultimi anni e, viceversa, ben presente nell’attività quotidiana dei secondi - i termini di carcerazione preventiva, il calcolo della prescrizione, e così via - (C. VIAZZI, “L’inefficienza della giustizia civile e l’organizzazione del lavoro giudiziario : un rimedio decisivo”, in “Tecnologia, Organizzazione e Giustizia, a cura di S. ZAN, Bologna 2004, pag. 285 e ss; e “I quadri dirigenti oggi, tra giurisdizione e organizzazione”, in Questione giustizia, n. 2/3 del 2013, pag. 167 e ss).
4. La questione organizzativa e le strade giuste da percorrere :
L’analisi, necessariamente sintetica per ragioni di economia della relazione, che precede è stata fatta solo per contestualizzare meglio le molteplici difficoltà che nella nostra realtà ha avuto e continua in parte ad avere l’affermazione della cultura dell’organizzazione intesa come sistematica attenzione ai fini e risultati del lavoro, ai tempi e durata dei procedimenti, alle priorità da garantire nel servizio reso, al contesto dei servizi amministrativi a monte e a valle del lavoro giudiziario in senso stretto che svolgiamo e che dovremmo conoscere e valorizzare, alle condizioni materiali in cui è svolta l’attività giudiziaria, all’uso oculato e razionale delle risorse messe a disposizione, alla coerenza tra processi di cambiamento tecnologico e di cambiamento organizzativo.
Il Giudice, pur con tutti i retaggi culturali che si porta dietro da un passato neppure tanto lontano, è ormai attore collocato organicamente “dentro” l’organizzazione e non più da essa separato, e i problemi organizzativi si collocano ormai inevitabilmente al centro delle cure e impegni di ciascuno. Ma ciascuno (e qui intendo ciascun livello istituzionale) deve fare la sua parte, a cominciare dalla politica che deve far seguire alle parole i fatti mettendo in grado l’intera macchina giudiziaria di funzionare accompagnando l’innovazione tecnologica con le indispensabili risorse di supporto.
E allora non ci si può più accontentare (è ora di dirlo finalmente a voce alta) di una realtà degli uffici a macchia di leopardo, delle isole felici, delle dinamiche di autoriforma, dei colpi di fortuna che a volte ci assistono nella ricerca delle risorse aggiuntive, che, sebbene fondamentali per la tenuta complessiva oggi del sistema, non possono alla lunga bastare. Esse ci hanno, tuttavia, dimostrato alcune cose importanti: che nessuna situazione per quanto disastrata è insuscettibile di qualche tentativo o sforzo dal basso per determinarne il suo miglioramento; che nessun carico di lavoro “inesigibile” può costituire alibi per non introdurre nessun rimedio (anche se parziale) di case-management atto a renderlo più gestibile; che un nuovo modo di lavorare è possibile pur con tutti i condizionamenti noti e che è quello che poggia sull’idea di lavorare “per” e “con” obiettivi e insieme, e non più quello segmentato, casuale e burocratico tradizionale: ma per far questo occorre trovarsi in un ufficio dove si “fa squadra” si lavora conoscendosi e frequentandosi, e si condividono obiettivi, non si è isolati o lasciati soli, ma si è seguiti, diretti e aiutati dal dirigente e dal semidirettivo che remano tutti nella stessa direzione di far funzionare almeno i servizi più importanti dell’ufficio, assumendosi la responsabilità di dire pubblicamente perché non si riesce a far funzionare adeguatamente il resto e che quindi si privilegiano alcune priorità.
Occorre infatti, a questo proposito, intraprendere un piano organico d’interventi che abbia a monte, come presupposto politico indefettibile, una precisa inversione radicale di tendenza rispetto alle politiche fino ad oggi perseguite: basta quindi con la bulimia legislativa processuale (invochiamo anche noi, insieme all’associazione dei processualcivilisti e ad altre associazioni, per la giustizia una sorta di “fermo biologico” di questo tipo di interventi!); basta con l’illusione delle riforme “a costo zero” che tutto sono tranne riforme significative; basta con la parola d’ordine delle “risorse aggiuntive” da reperire a tutti i costi in sede locale come (pericoloso) surrogato di risorse centralizzate che continuano a scarseggiare. Cominciamo dunque ad abbandonare laicamente questi “dogmi” che hanno accompagnato negli ultimi vent’anni la politica, si fa per dire, riformatrice in materia di giustizia, in primo luogo, civile.
Fatto questo in negativo, bisogna procedere, in positivo, :
a) a una fortissima riorganizzazione interna rivedendo massicciamente l’attuale geografia giudiziaria e la distribuzione delle piante organiche, a cominciare dalle Corti d’Appello per finire ai Tribunali troppo piccoli, dove non si distingue neppure tra penale e civile e che, costituendo ormai un vero non senso storico, vanno semplicemente accorpati ad altri più grandi;
b) ad una seria analisi territoriale delle cause dell’eccesso di domande per poter individuare specifici rimedi area per area (v. A. LEPRE, “Analisi della giustizia civile”, Catanzaro, 2014, pag. 71);
c) ad una progressiva implementazione dell’innovazione tecnologica che non sia però una sorta di sostitutivo della non-riforma della restante organizzazione: copertura organici, riqualificazione del personale, introduzione di nuove figure professionali indispensabili al funzionamento del PCT e dell’Ufficio per il processo di recente istituzione (v. A. LEPRE, “Analisi della giustizia civile”, Catanzaro, 2014, pag. 71);
d) a rafforzare tutta la componente pubblica del servizio giustizia parallelamente al giusto sviluppo dei rimedi alternativi nell’ottica della degiurisdizionalizzazione e del principio di sussidiarietà, “guardandosi dal credere che basti ampliare il campo di applicazione dei primi perchè anche la seconda si risollevi” (Così R. RORDORF, “Giurisdizione e rimedi alternativi”, in Questione Giustizia, n. 3/14 pag. 32) e perché si determini un circolo virtuoso tra rimedi alternativi e giustizia pubblica “è necessario che la spinta verso i sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, lungi dall’accompagnarsi a un tendenziale disinteresse per l’esercizio della giurisdizione ordinaria, si saldi con ulteriori interventi volti a migliorare e a rendere ques’ultima più efficiente” (R.RORDORF, op. cit., pag. 33);
e) a ridefinire infine il ruolo dei dirigenti-magistrati come motori del cambiamento organizzativo dell’ufficio ma al contempo custodi della qualità della giurisdizione “erogata”. Quest’ultimo obiettivo merita tuttavia uno specifico discorso a parte insieme a quello, con cui si intreccia, dell’innovazione tecnologica. Cominciamo da quest’ultima.
5. L’innovazione tecnologica e i suoi attuali limiti :
Nella recente delibera del CSM del giugno 2015 si legge, al par. 1, una netta e condivisibile affermazione, quando, nel richiamare il ruolo più incisivo assunto negli ultimi anni dal ministero in materia di buone prassi, si segnala al contempo che: “ Occorre rifuggire dalla tentazione di intendere l’organizzazione come sostitutiva delle risorse e non, invece, come un metodo di ottimizzazione e di migliore gestione delle stesse che, in ogni caso, devono essere costantemente assicurate in maniera adeguata”.
In questa frase si annida quella che è forse la principale contraddizione della “via italiana” all’innovazione tecnologica nel settore giudiziario. In cosa consiste questa contraddizione? Nel fatto che il nostro paese si mostra da un lato, a livello europeo, all’avanguardia come forse il più innovativo ed avanzato sul piano delle nuove tecnologie (ad es. il PCT non ha eguali negli altri ordinamenti) laddove, a questo dinamismo, si contrappone l’estrema e perdurante arretratezza e disorganizzazione dell’apparato che continua a collocarlo in una posizione di drammatica retroguardia.
Qui si colloca il nodo e pericolo di fondo: che l’innovazione tecnologica serva a “coprire” le altre e irrisolte magagne organizzative del sistema, perpetuando una politica di spesa improntata a progressivo “pauperismo” delle risorse impiegate specie in materia di personale.
Se il PCT continua ad essere invero orientato unicamente verso il contenimento dei costi e come veicolo per la riduzione del personale e non per un profondo ripensamento delle professionalità occorrenti all’amministrazione, faremo sicuramente poca strada e si perderà, non risolvendo le tante criticità comparse nell’ultimo biennio, una storica occasione per “ridefinire gli assetti organizzativi, deburocratizzare il processo e riportare qualità all’interno dello stesso ad opera di tutti gli operatori” (S. ZAN, “Dall’ufficio del giudice all’ufficio del processo”, 2004).
Il sicuro risparmio in termini di tempo e di risorse innescato non può occultare, viceversa, la necessità che resta prioritaria per la nostra amministrazione di affrontare la questione dei vuoti d’organico che l’affliggono da tempo. Solo una concezione pericolosamente riduttiva dell’informatica giudiziaria può indurre a pensare, infatti, che la stessa sia la soluzione a quel problema, non essendoci invece alcun automatismo tra l’introduzione delle macchine e la riduzione del personale ma piuttosto la sua riqualificazione.
Per ora, purtroppo, l’avvento del PCT, con tutti i problemi di mal funzionamento e di carenze croniche in punto formazione, assistenza e, appunto, riqualificazione del personale, è stata per tutti (personale, magistrati, avvocati) più fonte di stress lavorativo che di benessere organizzativo né appare accettabile, usando una metafora, che si sia messa nelle nostre mani una Ferrari priva però di tutto quello che serve per utilizzarla adeguatamente (dalla benzina ai pezzi di ricambio ai meccanici).
6. Il ruolo dei dirigenti giudiziari:
Il terreno delle innovazioni tecnologiche ha sicuramente reso ancora più nervralgico il ruolo organizzativo dei quadri direttivi giudiziari degli uffici.
Invero, parallelamente alla crescita del sistema di autogoverno ed alla progressiva complessificazione della “gerarchia diarchica” che regge la governance dell’organizzazione degli uffici giudiziari specie dopo l’assetto introdotto dal D.Leg. 240 del 2006 (S. ZAN, “Le organizzazioni complesse”, cit. pag. 154 e ss), tale ruolo ha subito una profonda trasformazione a livello normativo primario e secondario per quanto concerne le funzioni direttivo-organizzatorie, collocandosi sempre più sul delicato crinale rappresentato dall’essere il dirigente un organo “dipendente da più enti” (mutuando una nota classificazione del diritto amministrativo), vale a dire dall’essere al contempo parte integrante e terminale-periferica del sistema di governo autonomo della Magistratura (che ha al vertice il CSM e in sede decentrata i Consigli giudiziari), e come “capo dell’ufficio” anche dal punto di vista amministrativo, organo soggetto alle direttive e determinazioni dell’amministrazione centrale fino al Ministro della giustizia. ù
In questa duplicità di “soggezioni” si annidano evidentemente alcuni pericoli che ne possono compromettere il delicato equilibrio, tanto più se i due circuiti istituzionali di riferimento finiscono da un lato per confrontarsi sempre più su terreni comuni perché appartenenti a competenze tra loro interferenti (qual è appunto, in primo luogo, quella dell’organizzazione degli uffici) e, dall’altro, per effetto di riforme sparpagliate (v. art 37 l.111/11; v. introduzione dell’UPP; v. normativa sul PCT), frutto di un certo “dinamismo interventista” ministeriale, che hanno finito per sottoporre i dirigenti a sempre nuove tipologie di adempimenti e di diretto coinvolgimento.
Da questa compresenza di “due catene di comando” (di cui quella ministeriale è, obiettivamente, in questa fase storica molto più attiva e vivace), è così derivato negli ultimi tempi uno slittamento (che definirei non del tutto tranquillizzante per l’autonomia della giurisdizione) della dipendenza dei dirigenti dalle direttive sempre più stringenti e numerose del Ministero, con rischi di alterazione degli equilibri del meccanismo di “governance” che regge il tutto. Si assiste invero ad una progressiva espansione del ruolo del Ministero che stila graduatorie/pagelle degli uffici, ne misura le performance, detta regole, impone termini e obiettivi (2), sovente nel fragoroso silenzio (assenso?) del CSM.
Si assiste così ad una strisciante deriva delle dirigenze verso un ruolo sempre più dipendente da un solo ente. Il che spiega, a mio avviso, lo sbilanciamento netto delle funzioni c.d. “manageriali” del capo in una dimensione esclusivamente produttivistica di rottamatore dell’arretrato a tutti i costi, in un’ottica precisa in cui il fine giustifica i mezzi! Mancano poi le risorse e il personale ausiliario? Non importa: il capo-manager si armi di fantasia trovando altrove le risorse aggiuntive necessarie, aggiungendosi così al ruolo di rottamatore quello di procacciatore di mezzi supplementari. Il tutto in una situazione di totale anomia, senza paletti, regole, o direttive predeterminate, in un far west del fai da te che aggiunge, (se vogliamo riportare anche questa riflessione al tema di fondo del convegno), nuove ansie nella nostra attività per i rischi che comporta questa ricerca, del tutto “sregolata”, per il ricercatore innanzi tutto ma anche per la stessa indipendenza dell’ufficio.
Quest’ultima infatti può essere messa a repentaglio se la ricerca si dovesse avventurare lungo crinali opachi o non disinteressati (per chi dona la risorsa) laddove si coinvolgessero, specie in certi contesti territoriali, realtà private o anche pubbliche di un certo tipo (es. istituti bancari, fondazioni, enti locali). Facile può essere per i sociologi discettare, a questo proposito, dell’importanza che l’ufficio giudiziario, in quanto operante su un certo territorio, scenda dal “castello” (cioè dalla tradizionale turris aeburnea separata dal suo contesto territoriale) ed entri nella “rete” delle relazioni sociali ed istituzionali che in esso operano, posto che il bene-giustizia è anche un bene del territorio ed il processo in atto di suo “razionamento” impone una gestione nuova e strategica del medesimo (priorità, obiettivi e programmi, risorse aggiuntive oculatamente individuate), ma certamente meno facile risulta poi tradurre questo auspicio in legittime iniziative sul campo che dovrebbero comunque essere improntate a particolare prudenza. Occorrono regole comportamentali precise che assicurino uniformità di condotte : insomma il calarsi nella rete potrà anche andare bene come obiettivo di rottura di una certa separatezza. Ma non va più bene se questo calarsi avviene senza alcun “paracadute”. E soprattutto non deve più coprire, con questo alibi delle risorse supplementari provenienti dai rami bassi dell’ordinamento o delle società, le inadempienze che vengono dai rami alti e perdurano!
Proprio queste ultime considerazioni su certe derive in atto del ruolo dei dirigenti rendono ancor più importante recuperare una serie di “qualità” che dovrebbe avere l’identikit di un “buon capo” : essere prima di tutto garante e custode dell’indipendenza dell’ufficio e dei giudici che in esso operano; consapevole delle criticità e dei carichi più o meno sostenibili esistenti nell’ufficio; promotore di una dirigenza integrata e dialogante col dirigente amministrativo, attento alle priorità da assicurare e salvaguardare con interventi sinergici; realizzatore di una dirigenza altresì partecipata attraverso il costante coinvolgimento della conferenza dei presidenti di sezione e dei magistrati dell’ufficio, l’interlocuzione con il Consiglio giudiziario e il Consiglio dell’Ordine; vigilante sul rispetto dell’art. 47 quater OG e sulle disfunzioni interne all’ufficio, ponendo in essere tutte le misure positive (supplenze, applicazioni, piani di rientro dai ritardi, e così via) atte ad evitare che le disfunzioni, ove non affrontate tempestivamente, degenerino in patologie irrecuperabili (3); persona che si preoccupa anche del benessere organizzativo del suo ufficio e dei suoi giudici; proponente e controllore non ossessivo ed oppressivo dei programmi di gestione ex art. 37 l.111, improntati ad un equilibrato bilanciamento tra obiettivi di rendimento quantitativi e qualitativi e ad assicurare le priorità individuate in ogni sezione; organizzatore dei servizi strettamente serventi rispetto alla giurisdizione in accordo col dirigente amministrativo privilegiando quelli che debbono funzionare come un orologio (riesame, GIP/GUP, famiglia, lavoro, locazioni, cautelare civile, volontaria giurisdizione).
Ogni scelta organizzativa deve, in altri termini, essere trasparente, discussa, concertata e auspicabilmente condivisa, facendo ciascuno la propria parte e non aspettando che sia sempre qualcun altro a prendere l’iniziativa. Ma al contempo ferma deve rimanere la denuncia delle inadempienze dei vertici istituzionali non potendosi più accettare che le trasformazioni organizzative continuino ad avere un’attuazione ed una resa asimmetriche, per la diseguale realtà degli uffici a causa dell’irrazionale dislocazione delle risorse e per l’incidenza casuale dei fattori locali. Per poter elevare questa denuncia, tuttavia, lottando contro questa crescita interna asimmetrica degli uffici, dobbiamo avere le carte a posto avendo fatto fino in fondo ciascuno il proprio dovere.
Se questo abbiamo fatto, avremo sicuramente contribuito non solo ad aumentare il nostro benessere psicologico, proprio di una coscienza a posto, ma anche quello di chi lavora con noi, essendo riusciti a dare un senso a quel lavoro, a farlo amare, a far accettare di buon grado l’impegnarsi insieme per obiettivi condivisi e, alla fine, a far superare la vergogna di lavorare in un servizio inefficiente ed inefficace e di non far nulla per migliorarlo dando così un senso alla propria attività.
Insomma, e concludo, se riusciremo, noi dirigenti per primi, a far scoccare questa scintilla nelle teste e volontà degli addetti, convincendoli che un modo diverso di lavorare è possibile, anche nei contesti organizzativi più difficili, avremo la conferma ulteriore della giustezza e saggezza di quel detto Hiddish, coniato contro il fatalismo distruttivo, che così suona : “Quando le tenebre calano e ti avvolgono, anziché limitarti a piangere e maledire il destino, cerca di accendere almeno un lumicino”.
NOTE
(1) La direttiva si divideva sostanzialmente in tre parti dedicate alle:
a) finalità: valorizzare le risorse umane; aumentare la motivazione; migliorare i rapporti tra dirigenti e operatori; accrescere il senso di appartenenza e di soddisfazione per la propria amministrazione; migliorare l’immagine interna ed esterna e la qualità complessiva dei servizi forniti; diffondere la cultura della partecipazione al posto della cultura dell’adempimento; realizzare sistemi di comunicazione interna; prevenire i rischi psicosociali di cui al D.Leg 682/94.
b) variabili da tenere in considerazione per accrescere il benessere organizzativo: caratteristiche dell’ambiente di lavoro; chiarezza degli obiettivi organizzativi e coerenza tra enunciati e pratiche organizzative; riconoscimento e valorizzazione delle competenze; circolazione delle informazioni; clima collaborativo; apertura all’innovazione; stress da tenere sotto controllo; gestione delle conflittualità.
c)ai profili delpiano di miglioramento del benessere organizzativo : ruoli organizzativi; innovazione tecnologica; processi organizzativi; cultura organizzativa; comunicazione; procedure e norme da modificare
(2) Si tratta della circolare del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria del personale e dei servizi del 30 settembre 2015 intitolata “Aggiornamento del Progetto Strasburgo 2”. Si tratta di un piano definito strategico per abbattere l’arretrato civile e ridurre parallelamente i risarcimenti della legge Pinto. Esso prevede dei termini, per gli uffici, molto stringenti : 4 mesi per smaltire le cause iscritte fino all’anno 2000; 8 mesi per quelle fino all’anno 2005. Si introduce in altri termini un inedito controllo governativo sui tempi di definizione delle cause più vecchie e sugli obiettivi di rendimento che vengono fissati dalla stessa circolare.
Il tutto mentre il CSM, con l’ultima delibera dello scorso 17 giugno 2015 intitolata “Nuovo progetto sulle buone prassi di organizzazione degli uffici giudiziari”, si attarda nel censimento e catalogazione delle buone prassi, nel redigerne il “manuale”, progettare un nuovo sito internet, interpellare gli uffici sull’attualità delle buone prassi già censite e sulle eventuali nuove, limitandosi a condividere col Ministero (sic!) “l’auspicio che i dirigenti degli uffici giudiziari tengano conto del censimento dell’arretrato (elaborato dagli uffici ministeriali) adottando metodologie come quelle adottate nel progetto Strasburgo 2, volte a privilegiare il suo abbattimento” e manifestando l’impegno, nell’ambito degli “interventi immediati” di sua competenza, di “fornire al Ministero un supporto alla divulgazione del progetto Strasburgo 2 per l’abbattimento dell’arretrato ultratriennale e progressiva riduzione del debito Pinto”.
Dal che traspare, all’evidenza, chi è oggi il vero motore della politica organizzativa giudiziaria e chi il semplice organo subalterno di mero supporto! E in quale direzione si cerca di orientare il ruolo dei dirigenti giudiziari quando lo stesso Ministero – v. recente documento sulle “performance dei Tribunali italiani settore civile” – prevede che a cura di ogni Presidente di tribunale si debba eseguire la “Misura dell’avanzamento della performance del tribunale e di ogni singolo magistrato con frequenza mensile”.
C’è da domandarsi, dunque, se l’introduzione di tutte queste direttive e controlli ministeriali sia veramente l’attuazione del principio di leale collaborazione tra organi dello Stato affermato in alcune sentenze della Corte Costituzionale a proposito dell’equilibrio tra le competenze dell’art. 105 e quelle dell’art. 110 Cost. (analiticamente riportate nella parte introduttiva della circolare Strasburgo 2), oppure un andare ben oltre sbilanciando il delicato equilibrio costituzionale a vantaggio dell’esecutivo.
(3) La triste vicenda di qualche anno fa del giudice destituito dalla sezione disciplinare del CSM per il ritardo di diversi anni nel deposito di una sentenza in materia di criminalità organizzata, segnala abbondantemente il fatto che quando certe vicende finiscono con assumere aspetti patologici ed abnormi come avvenuto in tale occasione, non sono mai il frutto della sola condotta del “colpevole” ma la risultante a dir poco di tante altre omissioni e disinteresse addebitabili all’intera organizzazione circostante: dov’erano tutti i “controllori” negli anni in cui si è lentamente accumulato l’incredibile ritardo? Che aiuto si è tentato di offrire al collega “schiacciato” dall’incubo di dover scrivere una sentenza che non riusciva a scrivere? Perché è stato lasciato solo di fronte al suo problema