Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

Il Fisco (ora) abita qui

di Antonello Cosentino
Consigliere della Corte di cassazione
Commento a Cass. S.U. 17.9.15, n. 18213

La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 18213/15 costituisce un significativo revirement nella giurisprudenza di legittimità in materia di locazioni abitative.

Il tema è quello della validità del patto con cui locatore e conduttore convengono una misura del canone superiore a quella risultante dal contratto scritto e registrato.

Si tratta di un patto abbastanza diffuso nella prassi, evidentemente finalizzato all’evasione fiscale. Registrando un contratto con un canone inferiore a quello effettivamente pattuito, infatti, si risparmia sia sull’ammontare dell’imposta di registro (gravante su entrambi i contraenti, a meno che il locatore non abbia optato per il regime della cedolare secca), sia sull’ammontare dell’imposta sui redditi (gravante, in relazione ai canoni, sul solo locatore); al contempo, si evitano i rischi dell’omissione totale di registrazione, che sono connessi alla possibilità che il rapporto locatizio totalmente “al nero” venga scoperto mediante accertamenti fondati sulla crociatura dei dati accessibili all’amministrazione finanziaria (si pensi all’obbligo, previsto dall’articolo 1, comma 333, della legge n. 311/04, legge finanziaria 2005, di comunicare agli erogatori di energia elettrica, servizi di telefonia e servizi idrici e del gas i dati catastali dell’immobile a cui si riferisce la fornitura richiesta).

In proposito, il primo comma dell’articolo 13 della legge n. 431/98 sancisce la nullità di «ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quella risultante dal contratto scritto e registrato».

Le prime interpretazioni offerte dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito su tale testo normativo lo riferirono all’ambito della simulazione oggettiva relativa (sul corrispettivo contrattuale) e lo intesero nel senso che la norma - sanzionando con la nullità la pattuizione avente ad oggetto un canone maggiore di quello risultante dalla scrittura registrata - impedisse l’operatività del meccanismo di prevalenza del contratto dissimulato previsto dall’articolo 1414, comma 2, c.c. e imponesse di attribuire efficacia tra le parti alla pattuizione sul canone contenuta nella scrittura registrata. Si trattava di una interpretazione fondata su una lettura piana del testo della legge, che non pareva presentare particolari oscurità interpretative, se non con riferimento alla questione - che in effetti dette luogo ad un vivace dibattito giurisprudenziale - della possibilità che la nullità della convenzione sulla misura del canone effettivamente voluta dalle parti e contenuta nella controdichiarazione fosse sanata, con efficacia ex nunc o ex tunc, dalla tardiva registrazione di tale controdichiarazione.

Gli orientamenti della giurisprudenza di merito e dei primi commentatori vennero completamente disattesi dalla Cassazione, la quale, nella prima pronuncia emessa sull’argomento - la sentenza n. 16089/03 - affermò una lettura dell’art. 13, primo comma, l. n. 431/98 sostanzialmente inedita (era stata sostenuta solo da N. Izzo, in La rilevanza degli adempimenti tributari, in Rass. Loc. Cond., 1999, pag. 372),  stabilendo che tale disposizione non si riferisce all'ipotesi della simulazione relativa del contratto di locazione rispetto alla misura del corrispettivo, ma colpisce la pattuizione, intervenuta nel corso di svolgimento del rapporto di locazione, di un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario; in tal modo esprimendo il principio della invariabilità, per tutta la durata del rapporto, del canone fissato nel contratto (salva la previsione di forme di aggiornamento, come quelle ancorate ai dati Istat).

Alla base della decisione del 2003 c’era un assunto molto netto: la violazione di disposizioni tributarie non produce effetti nei rapporti civili. Tale assunto si fondava, oltre che su una risalente tradizione dottrinaria, sulla valorizzazione del rilievo che nessuna disposizione sanzionava con la nullità il contratto scritto e non registrato, cosicché doveva ritenersi irragionevole un’interpretazione del sistema che conducesse a sanzionare con la nullità la meno grave ipotesi della sottrazione all'imposizione fiscale di una parte soltanto del corrispettivo (quello eccedente il canone risultante dal contratto scritto e registrato) mediante una pattuizione scritta ma non registrata. D’altra parte, si argomentava nella sentenza n. 16089/03, nel caso della simulazione relativa al canone non si configura un contrasto tra due diversi canoni, perché, una volta provata ed accertata la simulazione, mediante la controdichiarazione scritta, il canone è soltanto quello effettivamente voluto dalle parti, cosicché il conflitto tra scrittura registrata e controdichiarazione va composto secondo i principi propri dell'istituto della simulazione.

I principi fissati nella sentenza n. 16089/03 sono stati recepiti dalla Cassazione, senza alcun dissenso, per oltre dieci anni (si vedano le sentenze nn.19568/04, 8148/09, 8230/10), finché, con l’ordinanza interlocutoria n. 37/14, non si è sentita la necessità di una rimeditazione del tema e dunque, pur in assenza di precedenti difformi, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite per evitare «un contrasto potenzialmente foriero di disorientanti oscillazioni interpretative».

L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite mette in discussione proprio l’assunto di base della sentenza n. 16089/03, ossia quello della irrilevanza civilistica delle violazioni di norme tributarie. A tale risultato si perviene sulla scorta di una duplice prospettiva argomentativa. Per un verso, si valorizza l’elaborazione giurisprudenziale sulla causa in concreto (per l’accoglimento, da parte della Cassazione, della teoria della causa concreta, con superamento del tradizionale orientamento che ravvisava nella causa l'astratta funzione economico sociale del contratto, si vedano, fra le tante, le sentenze nn. 10490/06, 23941/09, 7557/11) e, in particolare, si afferma che non può riconoscersi validità alla pattuizione di un canone superiore rispetto a quello indicato nel contratto scritto e registrato perché la causa concreta di tale pattuizione risiede nell’esigenza di conseguire uno specifico risultato vietato dalla legge, vale a dire quello di garantire al locatore di ritrarre dal concesso godimento dell’immobile un reddito superiore  rispetto a quello assoggettato a tassazione.

Per altro verso si valorizzano i risultati interpretativi a cui la Cassazione è pervenuta in tema di abuso di diritto, tanto in materia civile (sentenze nn. 20106/09, 17642/12), quanto, più specificamente, in materia tributaria; con riferimento a quest’ultima, in particolare, si richiama l’orientamento della Sezione tributaria che - sulla scorta della giurisprudenza in materia fiscale della Corte di giustizia dell’Unione Europea (a partire dalla sentenza Halifax del 21.2.06, in causa C-255/02) e, comunque, valorizzando l’articolo 53 della Costituzione come norma fondativa di un principio antielusivo di diritto interno - ha elaborato il principio secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni che, seppure realmente volute e quand’anche immuni da invalidità, risultino, alla stregua di un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale, che giustifichino l’operazione (si vedano, tra le tante, le sentenze nn. 30055/08, 10807/12, 21390/12).

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 18213/15, recepiscono le sollecitazioni dell’ordinanza di rimessione e sconfessano radicalmente l’orientamento inaugurato dalla sentenza n. 16089/03, criticandone anch’esse, al pari del Collegio remittente, il presupposto fondante, ossia l’assunto della irrilevanza civilistica delle violazioni di norme tributarie.

La decisione che qui si commenta postula, infatti, che la causa negoziale “concreta” di un patto di maggiorazione del canone risultante dalla scrittura registrata consista nell'occultamento al Fisco della differenza tra la somma indicata nel contratto registrato e quella effettivamente incassata dal locatore e argomenta che «La sostituzione, attraverso il contenuto della controdichiarazione, dell'oggetto apparente (il prezzo fittizio) con quello reale (il canone effettivamente convenuto) contrasta con la norma imperativa che tale sostituzione impedisce, e pertanto lascia integra la (unica) convenzione negoziale originaria, oggetto di registrazione» (§ 9.5.4.).

Per pervenire a detta conclusione le Sezioni Unite - dopo aver precisato che il contratto dedotto in giudizio soggiaceva, ratione temporis, al disposto dell’articolo 13 l. 431/98, essendo stato stipulato prima dell'entrata in vigore dell' art. 1, comma 346, l. n. 311/04 (alla cui stregua i contratti di locazione sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati) - sviluppano il seguente percorso argomentativo:

- l’ipotesi di un patto occulto con cui le parti convengano un canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato va ricondotta nell'ambito dell'istituto della simulazione (simulazione oggettiva relativa del prezzo);

- il procedimento simulatorio si sostanzia in un accordo simulatorio e in una successiva, quanto unica, convenzione negoziale, contenente l'indicazione di un canone fittizio, al quale accede  la  controdichiarazione, contenente l'indicazione del prezzo realmente convenuto;

- l'atto stipulato dalle parti è unico e la  funzione della controdichiarazione resta rigorosamente limitata al piano interpretativo (perché essa  consente di disvelare e far prevalere la realtà sull'apparenza) ed al piano probatorio (perché essa costituisce l’unico mezzo attraverso cui è possibile provare l’accordo simulatorio nel giudizio tra le parti);

- l’omogeneità tra la fattispecie descritta e l’ipotesi del contratto scritto e non registrato, assunta a fondamento del ragionamento decisorio svolto nella sentenza n. 16089/03, deve ritenersi solo apparente, in quanto la questione non è quella della relazione tra registrazione del negozio e validità dello stesso ma quella della nullità della (sola) pattuizione occulta di una maggiorazione del canone rispetto a quello indicato nel contratto registrato; nullità espressamente sancita dal primo comma dell’articolo 13 l. 431/98, con una disposizione da qualificare come lex specialis, derogativa, ratione materiae, alla lex generalis (benché posteriore) costituita dall’articolo 10 l. 212 del 2000 (statuto del contribuente), laddove dispone che «Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto.»

In sostanza, secondo le Sezioni Unite, la previsione legislativa di nullità colpisce «non la mancata registrazione dell'atto recante il prezzo reale (attesane la funzione già in precedenza specificata di controdichiarazione), ma la illegittima sostituzione di un prezzo con un altro» (§ 9.5.4)Da tanto discende, per un verso, la perdurante validità della clausola relativa alla misura del canone risultante dal contratto scritto e registrato (la cui sostituzione con la clausola relativa alla misura del canone contenuta nella controdichiarazione non si può verificare proprio per la nullità ex lege di quest’ultima); per altro verso, l’impossibilità di riconoscere efficacia sanante alla eventuale tardiva registrazione della controdichiarazione. Quest’ultima conclusione viene infine suffragata con il rilievo, di carattere teleologico, che il riconoscimento di una efficacia sanante alla eventuale tardiva registrazione della controdichiarazione contrasterebbe con la ratio legis, indubbiamente tesa al contrasto all’evasione fiscale.

Con la sentenza in commento le Sezioni Unite compiono una operazione di chiarezza su un duplice piano.

In primo luogo, detta sentenza riporta la lettura dell’articolo 13 l. 431/98 nell’alveo della interpretazione letterale della legge, la quale - e questo era il punto più critico dell’operazione ermeneutica svolta nella sentenza n. 16089/03 - nel sancire la nullità delle pattuizioni che determinano un importo del canone maggiore di quello risultante dal contratto scritto e registrato non opera alcuna distinzione tra pattuizioni contemporanee e pattuizioni posteriori alla formazione della scrittura registrata. Resta semmai da chiedersi che fine farà, adesso, la teoria dell’invariabilità del canone per l’intera durata del contratto di locazione ad uso abitativo; nella sentenza non si affronta il tema espressamente, ma la nuova interpretazione dell’articolo 13 l. 431/98 pare sottrarle la base normativa e del resto, le perplessità esibite al riguardo nell’ordinanza di rimessione lasciano presagire un ripensamento anche su questo tema.

In secondo luogo, le Sezioni Unite consegnano definitivamente al passato il dogma della irrilevanza delle violazioni tributarie agli effetti dei rapporti civili. Al riguardo va sottolineato che solo nella legislazione successiva all’epoca di stipula del contratto esaminato dalla sentenza in commento sono entrate nell’ordinamento disposizioni di diritto positivo che espressamente condizionano la validità ed il contenuto dei contratti locatizi  all’adempimento degli obblighi fiscali; si pensi, in primo luogo, al già menzionato comma 346 dell’ articolo 1 della legge finanziaria 2005, che, come sopra ricordato, prevede la nullità dei contratti di locazione non registrati; nonché, in secondo luogo, ai commi 8 e 9 dell’articolo 3 D.Lgs. 23/11 (dichiarati costituzionalmente illegittimi, per eccesso di delega, con la sentenza C.Cost. n. 50/14),  che eterodeterminavano ex lege, quanto a durata e canone, il contenuto dei contratti di locazione ad uso abitativo non registrati tempestivamente (o registrati con l’indicazione di un canone inferiore a quello effettivo). Ma non è su tali disposizioni (del resto inapplicabili alla fattispecie ratione temporis) che le Sezioni Unite fanno leva per inquadrare il tema degli effetti civili della violazione di disposizioni tributarie, bensì su una lettura del sistema che muove dal presupposto che  «l'imposizione e il corretto adempimento degli obblighi tributari, lungi dall'attenere al solo rapporto individuale contribuente-fisco, afferiscono ad interessi ben più generali, in quanto il rispetto di quegli obblighi, da parte di tutti i consociati, si risolve in un miglior funzionamento della stessa macchina statale, nell'interesse superiore dell'intera collettività» (§ 15) e che quindi consente loro di valorizzare la ratio di contrasto all’evasione fiscale sottesa all’articolo 13 l. 431/98 (non colta dalla sentenza n. 16089/03) e di riconoscere in tale disposizione la previsione di una sanzione di nullità dei negozi la cui causa “concreta” sia quella di sottrarre abusivamente al Fisco materia imponibile; emblematico, in questo senso, è l’inciso - fortemente valoriale - ove si afferma l’inaccettabilità che «dinanzi ad una Corte suprema di un Paese europeo, una parte possa invocare tutela giurisdizionale adducendo apertamente e impunemente la propria qualità di evasore fiscale» (§ 15).

Netta dunque appare - ancorché la registrazione di un contratto di locazione che indichi una misura del canone inferiore a quella realmente convenuta integri una ipotesi di vera e propria evasione, e non di mera elusione, fiscale - l’oggettiva sintonia culturale della sentenza in commento con la giurisprudenza della Sezione tributaria della Cassazione sull’abuso di diritto.

Sempre più, insomma, in questo inizio di secolo, il Fisco si siede, come il Convitato di pietra, ai tavoli dove si stipulano i contratti tra privati e sempre più la “questione fiscale” si mostra come un prisma attraverso il quale è possibile scomporre ed analizzare le linee di forza della crisi italiana.

 

 

03/11/2015
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