Magistratura democratica
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Conseguenze non intenzionali della giurisprudenza europea nella circolazione degli argomenti giuridici *

di Pasquale Annicchino
ricercatore-tipo B presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Foggia

La portata delle decisioni giudiziarie oltre gli ordinamenti di riferimento

1. Introduzione

Siamo abituati a concepire il diritto e i rapporti giuridici come governati da precisi meccanismi di causa-effetto che danno luogo alla produzione delle norme, alla loro interpretazione e all’esecuzione dei provvedimenti che ne conseguono. Accade tuttavia, in un mondo sempre più interconnesso, che gli argomenti circolino al di fuori degli ordinamenti giuridici di riferimento come formante culturale, capace di produrre precise conseguenze giuridiche. È questo il caso relativo ad una controversia, tutt’ora in essere, davanti ai tribunali algerini che porta gli studiosi e gli operatori del diritto ad interrogarsi sul ruolo “culturale” delle decisioni giudiziarie e sulla loro capacità di produrre concreti effetti giuridici anche al di fuori degli ordinamenti di riferimento. Nello specifico, ad essere meritevole di attenzione è il ruolo della Corte europea dei diritti dell’uomo nel fornire una sorta di interpretazione autentica del contenuto dei diritti umani, non solo per gli Stati che hanno ratificato la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ma anche per i Paesi dei sistemi regionali che hanno un debole o inesistente meccanismo analogo.

 

2. La vicenda

Il 22 aprile 2021 Said Djabelkhir, accademico e giornalista algerino, fondatore del circolo dei Lumi per il pensiero libero, è stato condannato dal tribunale di prima istanza a cinquantamila dinari di multa e a tre anni di prigione per aver pubblicato su Facebook dei contenuti ritenuti offensivi dell’Islam. La sua condanna è fondata sull’art. 144 comma 2 del Codice penale algerino, che punisce le offese al Profeta dell’Islam o le critiche ai precetti della religione musulmana. Djabelkhir, 52 anni, è stato incriminato e processato dopo che sette avvocati ed un collega d'università avevano presentato una denuncia contro di lui. La vicenda aveva avuto inizio quando Djabelkhir, nel rispondere ad un predicatore salafita, che aveva emesso una fatwa contro il Capodanno berbero, aveva sostenuto che alcuni rituali islamici esistevano in realtà da molto tempo prima che Maometto li codificasse. Allo stesso modo Djabelkhir aveva sostenuto che il pellegrinaggio alla Mecca ed altre tradizioni islamiche erano in realtà riti pagani e pre-islamici. Per l’accusa, le affermazioni di Djabelkhir erano da ritenersi lesive della dignità della religione islamica e per questo motivo da condannare. La vicenda ha, da subito, suscitato le attenzioni di organizzazioni non governative ed istituzioni che si occupano della protezione e promozione del diritto di libertà religiosa e di coscienza. Ad esempio, il caso di Djabelkhir è stato inserito nell’analisi prodotta dalla U.S. Commission on International Religious Freedom sulle violazioni dei diritti dei non credenti in Africa[1]. La vicenda ha inoltre suscitato l’interessamento diretto degli organismi delle Nazioni Unite che si occupano di libertà di religione e di credo e di libertà d’espressione. Infatti, con una lettera del 9 agosto 2021, i Relatori Speciali delle Nazioni Unite, Ahmed Shaheed e Irene Khan, hanno chiesto conto al governo algerino della condanna di Djabelkhir, soprattutto dal punto di vista della tutela della libertà d’espressione, avendo l’Algeria ratificato il Patto internazionale per la tutela dei diritti civili e politici il 12 settembre 1989[2]. Tale condanna potrebbe, secondo la lettera dei Relatori Speciali, costituire l’esito di una persecuzione giudiziaria risultato di ricorsi fondati sull’interpretazione soggettiva di «insulti o offese contro la religione»[3]

 

3. La risposta del governo algerino

Paradossale appare la risposta, contenuta nella lettera del 24 settembre 2021, alle richieste di chiarimento dei Relatori Speciali della Rappresentanza Permanente dell’Algeria presso le Nazioni Unite per conto del Governo di Algeri[4]. Nella lettera si difende l’operato dei giudici nazionali, argomentando come le norme del Codice penale algerino siano da ritenersi pienamente conformi ai trattati internazionali sui diritti umani. Nella lettera della Rappresentanza Permanente, per dare ulteriore forza alla posizione del governo algerino, si cita a supporto addirittura una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo[5], relativa al caso E.S. contro Austria del 25 ottobre 2018[6] con cui era stata riconosciuta la conformità all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo delle norme sulla blasfemia contenute nel Codice penale di uno Stato membro. Nel caso austriaco la ricorrente aveva tenuto una serie di insegnamenti presso il Bildungsinstitut der Freiheitlichen Partei Osterreichs, ovvero un istituto di formazione politica legato al Partito della Libertà austriaco. Un giornalista, che si era infiltrato per poter seguire e registrare i corsi, aveva poi consegnato le registrazioni alla procura di Vienna, in quanto da esse si sarebbe potuta evincere la realizzazione di una condotta di incitamento all’odio ai sensi dell’articolo 283 del Codice penale austriaco. Le parole incriminate riguardavano affermazioni relative al Profeta Maometto che aveva sposato sua moglie all’età di sei anni consumando il matrimonio quando Aisha aveva solo nove anni. Tra le parole incriminate si segnalano quelle relative al rapporto di Maometto con sua moglie Aisha: «Un cinquantaseienne e una bambina di sei anni? (…) Come chiamarlo, se non pedofilia?»[7]. Il 15 febbraio 2011 la ricorrente è stata ritenuta colpevole di aver “denigrato gli insegnamenti religiosi di una religione legalmente riconosciuta” ai sensi dell’articolo 183 del Codice penale che disciplina la fattispecie relativa alla «Denigrazione di dottrine religiose»[8]. Una diversa fattispecie rispetto a quella inizialmente prospettata dalla procura viennese. Tale decisione veniva poi confermata dalla Corte Suprema austriaca e successivamente anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in quanto: «(…) l’accusa mossa dalla ricorrente nei confronti del Profeta dell’Islam, mancando di una sufficiente base probatoria ed essendo invece gratuitamente oltraggiosa nei confronti di Maometto, non poteva contribuire ad un ‘objective public debate’», par. 37)[9].  In questo, come in altri casi, decisivo è stato il ruolo del riconoscimento del margine di apprezzamento statale che la Corte di Strasburgo ha inteso riservare alle decisioni degli Stati firmatari in contesti particolarmente sensibili e nei quali è difficile riscontrare un consenso fra gli Stati firmatari della Convenzione. La Corte ha infatti riconosciuto un ampio margine di apprezzamento allo Stato convenuto al fine di ritenere come proporzionata una «sanzione penale per una condotta, la blasfemia, che è, almeno negli ordinamenti della stragrande maggioranza degli Stati membri del Consiglio d’Europa ormai depenalizzata»[10].

 

4. Conclusioni

Provoca oggi un certo sgomento ritrovare riferimenti alla giurisprudenza del massimo organo europeo per la tutela dei diritti umani come argomento a sostegno dell’incarcerazione di un individuo, colpevole di aver esercitato il suo diritto alla libertà d’espressione. A maggior ragione quando questo accade contro una persona ripetutamente presa di mira per le sue opinioni, sia con campagne d’odio nei suoi confronti, sia mediante vere e proprie minacce di morte. Quella di Djabelkhir è, purtroppo, solo una storia del grande buco nero che sta inghiottendo minoranze e dissidenti in tanti Paesi del mondo. Quel che è certo è che, come ha sottolineato l’ex giudice della Corte Suprema Anthony Kennedy, i giudici con le loro pronunce, oltre a risolvere controversie, «insegnano»[11]. Patrick Gleen aveva già accennato all’«autorità persuasiva» (per indicare l’influenza, non giuridica ma culturale) delle pronunce straniere e il ricorso ad esse da parte dell’interprete al fine di supportare la sua argomentazione mediante un’indagine di carattere comparatistico[12]. Era stato questo il caso nella decisione Lawrence v. Texas[13], con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto l’incostituzionalità delle leggi “anti-sodomia” dello Stato del Texas secondo cui erano passibili di sanzione penale i rapporti sessuali fra adulti dello stesso sesso, anche nel caso in cui si fossero svolti all’interno delle mura domestiche. La Corte statunitense aveva in quel caso riconosciuto un’analogia con un precedente caso deciso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e nel farvi riferimento aveva sottolineato come «(…) il diritto rivendicato dai ricorrenti è stato riconosciuto come aspetto della libertà personale in molti Paesi e non vi sono argomenti per concludere che negli Stati Uniti interessi statali legittimi o cogenti giustifichino una maggiore limitazione della libertà personale»[14]. Oggi una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo viene invece invocata per giustificare una repressione della libertà d’espressione e le conseguenti sanzioni penali applicate. Si tratta di un esito paradossale per un’istituzione che si pone al vertice della tutela europea dei diritti umani. Un esito tuttavia non sorprendente viste le incertezze, le incoerenze e la pavidità che ha caratterizzato la giurisprudenza della Corte su tali questioni. Come tutti i docenti anche i giudici a volte “insegnano” e decidono male. Anche oltre le loro intenzioni.


 
[1] U.S. Commission on International Religious Freedom, Factsheet: Non believers in Africa, giugno 2021, disponibile su: https://www.uscirf.gov/publication/factsheet-nonbelievers-africa (ultimo accesso 16/12/2021).

[2] Il testo della lettera è disponibile al seguente indirizzo: https://spcommreports.ohchr.org/TMResultsBase/DownLoadPublicCommunicationFile?gId=26573 (ultimo accesso: 13/12/2021).

[3] Come scrivono i Relatori Speciali nella loro lettera: «Nous sommes particulièrement inquiets que des recherches de nature historique, des réflexions et des arguments académiques autour de certaines pratiques religieuses, qui aurient pour but de faire advancer le savoir et le dialogue sur leur compréhnsion, conjuguant ainsi tradition et modernité, puissent faire l’object de persécution judiciaire suite à des plaints individuelles motivées par des sentiments et des interprétations subjective d’insulte ou d’offense à l’encontre de la religion».

[4] Il testo della lettera è disponibile al seguente indirizzo: https://spcommreports.ohchr.org/TMResultsBase/DownLoadFile?gId=36556  (ultimo accesso: 13/12/2021).

[5] Secondo la nota verbale della rappresentanza permanente algerina presso le Nazioni Unite le previsioni dell’articolo 144 comma 2 del codice penale algerino sarebbero conformi alla «più avanzata giurisprudenza dei diritti dell’uomo in materia».

[6] CEDU, E.S. c. Austria, ric. 38450/12 (2018). La decisione è diventata definitiva il 18 marzo 2019.

[7] Secondo la ricorrente tali affermazioni non costituiscono opinione personale, ma una mera descrizione di fatti supportata dalle fonti, ovvero dagli hadith (raccolte di detti e fatti della vita di Maometto).

[8] Secondo tale norma: «Chiunque, nelle circostanze in cui è probabile che il suo comportamento susciti indignazione, denigri pubblicamente o offenda una persona, o un oggetto che è oggetto di venerazione da parte di una Chiesa o di una comunità religiosa riconosciuta nel Paese, o un dogma, una consuetudine legittima o un’istituzione legittima di una tale Chiesa o comunità religiosa, sarà passibile di una pena detentiva fino a sei mesi o di una multa da calcolare su base giornaliera, fino a 360 giorni».

[9] C. Morini, Blasfemia e tutela della pace religiosa: i limiti alla libertà di espressione in un recente caso davanti alla corte europea dei diritti dell’uomo, in Media Laws, 10 marzo 2019, p. 293, disponibile su: https://www.medialaws.eu/blasfemia-e-tutela-della-pace-religiosa-i-limiti-alla-liberta-di-espressione-in-un-recente-caso-davanti-alla-corte-europea-dei-diritti-delluomo/

[10] Ibid., p. 296.

[11] Come ha sottolineato Lawrence Tribe: «Justice Kennedy’s opinions have repeatedly emphasized the notion that, through the decisions it announces and the reasons it offers for those decisions, the Court does more than resolve the particular ‘cases’ and ‘controversies’ entrusted to it for resolution. He has observed: ‘By our opinions, we teach’ (…) the idea that the populace at large will actually read the Court’s opinions may seem naïve. But if one reflects on how those opinions reverberate through both traditional and social media outlets, the idea’s innocence may come to be appreciated and even admired in time», L. Tribe, Equal Dignity: Speaking Its Name, in Harvard Law Review, 129, 2015, pp. 23-24. Disponibile su: https://harvardlawreview.org/2015/11/equal-dignity-speaking-its-name/ (ultimo accesso: 16/12/2021).

[12] H.P. Gleen, Persuasive Authority, in McGill Law Journal, 32, 2, 1987, pp. 261-298.

[13] Corte Suprema degli Stati Uniti, Lawrence v. Texas, 539 U.S. 588 (2003).

[14] Ibid., par. 16. (nostra traduzione).

[*]

L’articolo costituisce un ampliamento e rivisitazione di quello apparso sul quotidiano Domani il 30 novembre 2021, del medesimo autore

07/01/2022
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