Magistratura democratica
Europa

Cedu, la causa Riina contro Italia

di Francesco Buffa
consigliere della Corte di cassazione
Due sentenze di marzo della Corte relative all’Italia. Nella prima si torna sulla compatibilità del regime ex art. 41 bis con la Convenzione europea per i diritti dell'uomo. Al centro della causa Varesi c. Italia la rendita degli ex dipendenti dell'INAIL
Cedu, la causa Riina contro Italia

Tra le cause riguardanti l’Italia, decide dalla seconda sezione della Corte in marzo, si segnala la causa Salvatore Riina c. Italia, Ricorso n. 43575/09.

Il ricorrente è, come noto, condannato all’ergastolo per avere commesso reati gravissimi, tra i quali quello di associazione per delinquere di tipo mafioso e numerosi omicidi, detenuto e sottoposto al regime speciale di detenzione previsto all’articolo 41 bis, comma 2, della legge sull’ordinamento penitenziario, come modificato dalla legge n. 279 del 23 dicembre 2002.

Invocando l’articolo 3 della Convenzione, il ricorrente sostiene che il suo mantenimento in stato detentivo sotto il regime 41 bis costituisce un trattamento inumano e degradante, che ha avuto ripercussioni sul suo stato di salute.

Invocando l’articolo 3 della Convenzione, il ricorrente lamenta l’illuminazione notturna della sua cella.

Invocando gli articoli 3 e 8 della Convenzione, il ricorrente lamenta la videosorveglianza costante nella sua cella, ed anche nel bagno.

Invocando l’articolo 8 della Convenzione, il ricorrente denuncia la violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare a causa delle restrizioni applicate nei suoi confronti.

In particolare, egli lamenta la frequenza, a suo dire insufficiente, delle visite e la presenza di un vetro divisorio che non gli consente di avere un contatto fisico con le persone che vanno a trovarlo.

Invocando l’articolo 8 della Convenzione, il ricorrente lamenta il controllo della sua corrispondenza e sostiene che le autorità penitenziarie hanno trattenuto parte delle lettere inviategli.

La Corte rammenta di avere esaminato il regime 41 bis in più occasioni e di averlo giudicato compatibile con la Convenzione.

Secondo la sua giurisprudenza, il regime previsto all’articolo 41 bis mira a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e l’ambiente criminale d’origine, al fine di ridurre al minimo il rischio di contatti personali di quei detenuti con le strutture delle organizzazioni criminali di tale ambiente.

Prima dell’introduzione del regime speciale, un gran numero di detenuti pericolosi riuscivano a mantenere la loro posizione in seno all’organizzazione criminale di appartenenza, a scambiare informazioni con gli altri detenuti e con l’esterno e ad organizzare e a fare eseguire reati.

Pertanto, la Corte ritiene che, tenuto conto della natura specifica del fenomeno della criminalità organizzata, in particolare di tipo mafioso, e del fatto che molto spesso le visite familiari hanno consentito la trasmissione di ordini e istruzioni verso l’esterno, le restrizioni, certamente importanti, alle visite e i controlli che ne accompagnano lo svolgimento non possano essere considerati sproporzionati agli scopi legittimi perseguiti (Salvatore c. Italia (dec.), n. 42285/98, 7 maggio 2002, e Bastone c. Italia (dec.), n. 59638/00, CEDU 2005 II).

La Corte ha dovuto anche approfondire la questione se l’applicazione prolungata di questo regime ad un detenuto violasse il diritto sancito dall’articolo 8 della Convenzione.

Nella causa Gallico (sopra citata, § 29; si veda anche Enea, sopra citata, § 131), essa ha ritenuto utile precisare che non vedeva una violazione di tale disposizione in conseguenza del mero trascorrere del tempo.

Al contrario, secondo la Corte la durata deve essere esaminata alla luce delle circostanze di ogni caso di specie, il che implica in particolare di verificare se il rinnovo e la proroga delle restrizioni in questione fossero giustificati o meno (Argenti c. Italia, n. 56317/00, § 21, 10 novembre 2005, e Campisi c. Italia, n. 24358/02, § 38, 11 luglio 2006).

Nel caso di specie, la Corte rileva dalle ordinanze dei giudici di sorveglianza in atti che le restrizioni imposte al ricorrente in conseguenza del regime speciale di detenzione erano necessarie per impedire all’interessato, soggetto molto pericoloso, di rafforzare il suo ruolo in seno all’organizzazione criminale e di mantenere i contatti con questa.

Con riferimento agli altri motivi di ricorso (salvo quello relativo alla videosorveglianza in cella, che non è stato deciso ma è stato comunicato al Governo per approfondire la questione), la Corte ha ritenuto che le restrizioni apportate al diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata e familiare non abbiano ecceduto quanto, ai sensi dell’articolo 8 § 2 della Convenzione, è necessario, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati.

Con riferimento al ricorso n.49407/08, Ivo Varesi e altri c.Italia, è stato esaminato dalla Corte il tema dell’indicizzazione della rendita degli ex dipendenti dell'Istituto nazionale per le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) che,secondo le disposizioni del decreto ministeriale del 22 ottobre 1948 («Regolamento INAIL»), al momento del collocamento a riposo, avevano scelto, piuttosto che ottenere un capitale, di percepire una rendita vitalizia a tasso variabile.

Ora, lo stesso decreto prevedeva un adeguamento automatico indicizzato sugli aumenti del trattamento economico del personale in servizio, mentre la sopravvenuta legge finanziaria n. 449 il 27 dicembre 1997 dispose che per l'adeguamento della maggior parte delle forme pensionistiche sostitutive dell'assicurazione generale obbligatoria trovava applicazione esclusivamente l'articolo 11 del decreto legislativo n. 503 del 30 dicembre 1992, secondo cui l’adeguamento veniva effettuato in base al meno favorevole sistema dell’ indicizzazione applicabile a tutte le prestazioni pensionistiche.

I ricorrenti, esperite infruttuosamente le vie di ricorso interne e reclamando il loro diritto di percepire la rendita vitalizia nei termini previsti dalla normativa in vigore al momento del versamento dei loro contributi e del loro collocamento a riposo, avevano quindi adito la CEDU invocando l'articolo 1 del Protocollo n. 1, in relazione al meccanismo di adeguamento applicato alle loro rendite vitalizie, e l'articolo 14 della Convezione, in relazione al diverso trattamento subito rispetto ai lavoratori che non avevano optato per la rendita vitalizia ma per il capitale.

La Corte ricorda preliminarmente che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 esige, prima di tutto e soprattutto, che una ingerenza dei pubblici poteri nel godimento del diritto al rispetto dei beni sia legale.

Inoltre, una ingerenza di questo tipo è giustificata solo se persegue un interesse pubblico (o generale) legittimo.

Le autorità nazionali, grazie ad una conoscenza diretta della loro società e dei suoi bisogni, si trovano in linea di principio ad avere una posizione migliore di quella del giudice internazionale per stabilire ciò che è di «pubblica utilità».

Di conseguenza, nel meccanismo di protezione creato dalla Convenzione, spetta in primo luogo a loro pronunciarsi sull'esistenza di un problema di interesse generale.

Pertanto, su questo punto, come in altri campi ai quali si estendono le garanzie della Convenzione, esse godono di un certo margine di apprezzamento (Wieczorek c. Polonia, n. 18176/05, § 59, 8 dicembre 2009).

L'articolo 1 del Protocollo n. 1 esige anche, per ammettere un’ingerenza, che vi sia un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito (Jahn e altri c. Germania [GC], nn. 46720/99, 72203/01 e 72552/01, §§ 81-94, CEDU 2005-VI).

Questo giusto equilibrio è rotto se la persona interessata deve sopportare un onere eccessivo ed esorbitante (Sporrong e Lönnroth c. Svezia, 23 settembre1982, §§ 69-74, serie A n. 52, e Maggio e altri, nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08, § 63, 31 maggio 2011, § 57).

Infine, quando l'importo di una prestazione sociale è ridotto o annullato, può esservi una ingerenza nel diritto al rispetto dei beni che richiede di essere giustificata (Kjartan Ásmundsson, sopra citata, § 40; Rasmussen c. Polonia, n. 38886/05, § 71, 28 aprile 2009; e Maggio e altri, precitata, § 58).

La Corte rileva che la legge n. 449 del 27 dicembre 1997 non ha disciplinato retroattivamente i loro diritti alla pensione, essendosi limitata a stabilire che a partire dal 1° gennaio 1998, e quindi per il periodo successivo alla sua entrata in vigore, gli adeguamenti della rendita dei ricorrenti dovevano essere calcolati in base al sistema di indicizzazione applicabile a tutte le pensioni.

L'ingerenza lamentata dai ricorrenti era dunque prevista dalla legge ai sensi della giurisprudenza della Corte.

La Corte ritiene inoltre che la norma perseguisse l'interesse pubblico all'armonizzazione del regime pensionistico allo scopo di rendere il sistema di previdenza sociale equo e sostenibile, e dunque perseguisse un fine legittimo.

Quanto al giudizio di proporzionalità dell’interferenze legislativa, la Corte ricorda che nella causa Maggio e altri (sopra citata, §§ 62-64) ha escluso l'esistenza di una violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 nei confronti di un pensionato che, nell'ambito di una armonizzazione retroattiva del regime pensionistico, aveva subìto una sostanziale riduzione della sua pensione ed ha osservato che si trattava di una riduzione ragionevole e proporzionata, e non di una totale privazione dei suoi diritti che aveva avuto l'effetto di evitare il conferimento di privilegi ingiustificati al ricorrente e alle persone che si trovavano in una situazione simile alla sua.

La Corte ha ritenuto quindi che queste considerazioni fossero applicabili al caso di specie, dove la modifica del regime pensionistico non è stata applicata retroattivamente e ha interessato soltanto il meccanismo di adeguamento della rendita vitalizia dei ricorrenti al costo della vita.

L'importo della loro pensione in quanto tale non è stato toccato e gli interessati non sono stati privati di un meccanismo di adeguamento all'inflazione.

Questo meccanismo è stato semplicemente sostituito da un altro meccanismo, peraltro comune alla maggior parte dei pensionati.

Infine,la Corte ha respinto anche in motivo di ricorso relativo alla discriminazione, rilevando che, in una situazione in cui coesistono diversi metodi di calcolo del meccanismo di adeguamento delle pensioni, ogni misura volta a uniformare questi regimi ha come inevitabile conseguenza quella di trattare allo stesso modo persone che, in precedenza, si trovavano sottoposte a regole diverse o avevano espresso la loro preferenza per un metodo di calcolo particolare.

Tuttavia ciò non può costituire una discriminazione vietata dalla Convenzione, che non può semplicemente ostacolare le politiche di armonizzazione delle prestazioni della previdenza sociale.

Il ricorso è stato quindi del tutto respinto.

10/05/2013
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