Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Sui rapporti, sostanziali e procedurali, tra l’amministrazione di sostegno e l’interdizione

di Luca Marzullo
Giudice del Tribunale di Spoleto
Commento a Trib. Vercelli 31 ottobre 2014, n. 147
Sui rapporti, sostanziali e procedurali, tra l’amministrazione di sostegno e l’interdizione

1. I fatti portati all’attenzione dei Giudici piemontesi possono così compendiarsi.

La sig.ra L.R., già amministratrice di sostegno in carica, s’era rivolta al Tribunale affermando che la misura disposta era divenuta insufficiente a causa del peggioramento delle condizioni di salute del beneficiario.

Senza voler indugiare eccessivamente sulla dinamica processuale, sia consentito unicamente notare, ai fini di quanto si dirà a breve, che la ricorrente aveva evidenziato, a fondamento della propria richiesta, il fatto che l’amministrato rivendicasse una sempre maggiore autonomia dalla persona della madre, come detto, amministratrice in carica con il conseguente aumento di rischi per lo stesso, sia perché maggiormente esposto a richieste da parti di terzi estranei aventi ad oggetto magari la sottoscrizione di contratti sia perché si sarebbe trovato nell’impossibilità di prestare un valido consenso informato in vista di possibili trattamenti sanitari.

Il quadro appena descritto non è stato, tuttavia, ritenuto tale da giustificare il “passaggio” alla diversa misura dell’interdizione.

La pronuncia in analisi offre un’utile occasione per tornare ad occuparsi dei rapporti tra le due misure di protezione, rapporto che verrà analizzato seguendo percorso argomentativo svolto dal Collegio piemontese.

Due, per vero, sono gli snodi motivazioni che suscitano particolare attenzione nell’interprete.

Il primo, sostanziale, involge i rapporti fra amministrazione di sostegno e interdizione; il secondo, di natura per così dire processuale, riguarda i poteri in capo al Tribunale, adito per ottenere la declaratoria di interdizione, in caso di rigetto della domanda, allorché, tuttavia, risulti già aperta una procedura di amministrazione di sostegno.

È su gli aspetti appena evidenziati che si appunteranno le brevi considerazioni che seguono, al fine di valutare la bontà della soluzione offerta nella sentenza in commento.

 

2. È bene, come di diceva, prendere le mosse dal profilo sostanziale.

Con argomentazioni più che condivisibili, il Tribunale di Vercelli ha rigettato la richiesta di interdizione avanzata dall’amministratrice in carica sull’assunto, in sintesi, che l’amministrazione di sostegno risultasse misura proficua ed efficace a perseguire le aspirazioni del beneficiario.

A riguardo, il Tribunale dimostra di aderire all’orientamento, oramai predominante, in dottrina e giurisprudenza (anche di merito), cui fa approfonditi e puntuali richiami.

Come noto, l’istituto dell’amministrazione di sostegno è stato introdotto dalla Legge 9 gennaio 2004, n. 6, la quale ha integrato il previgente sistema di misure poste a protezione degli incapaci, tradizionalmente costruito attorno alle figure della interdizione e dell’inabilitazione, quest’ultime distinte – questo sembra suggerire il tenore letterale degli artt. 414 c.c. e 415 c.c. – in base al maggiore (interdizione) o minore (inabilitazione) grado ed intensità della «infermità di mente» (che, quanto all’interdizione, deve rivestire anche il carattere della abitualità) presentato dai potenziali destinatari del provvedimento.

L’art. 1 della L. 6/2004 assolve la funzione di una vera e propria dichiarazione di intenti del nuovo istituto: suo scopo, infatti, è quello di «…tutelare con la minor limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo e permanente».

Si tratta, con maggior impegno esplicativo, di uno strumento che, seppur indubbiamente in grado di incidere sulla capacità di agire relativamente agli atti che richiedono l’intervento dell’amministratore, mira ad apprestare una tutela adeguata al beneficiario, prescindendo dal tipo ed il grado di infermità da questi presentato.

È proprio questa valutazione di adeguatezza della misura di protezione che, già da queste prime battute, rendevidente la differenza con il differente istituto dell’interdizione, che disposizioni come l’art. 413, c. 4, c.c. – ove viene richiamato il cennato giudizio di idoneità della misura – o lo stesso articolo 414 c.c. – dal cui testo, invece, è scomparso il riferimento all’obbligatorietà dello strumento  collocano, oramai, su un piano di residualità.

Invero, non è superfluo evidenziare che v’erano state, all’indomani dell’entrata in vigore della L. 6/2004 voci che avevano lamentato il rischio di una sovrapposizione tra i due istituti, posti, apparentemente, a tutela di patologie (il discorso valeva, precipuamente, per le infermità e le menomazioni psichiche) sostanzialmente identiche, così lasciando una eccessiva discrezionalità all’interprete sullo strumento da adottare nel caso concreto.

Sicché, nel tentativo di compiere una non semplice actio finium regundorum, erano stati individuati diversi criteri per definire il campo di applicazione fra le due misure: così accanto a coloro i quali si focalizzavano sull’entità della infermità, altri ponevano l’accento sul grado di limitazione della capacità negoziale – evidenziando che l’amministrazione di sostegno doveva essere preferita tutte le volte in cui il soggetto fosse, nonostante la propria patologia, in grado di compiere atti di contrattualità minima di cui all’art. 409 c.c. – o sulla consistenza del patrimonio del beneficiario: quanto più grande questo fosse stato, tanto più sarebbe stata necessaria la nomina di un tutore.

Tali elementi, tutti involgenti, sotto differenti aspetti, un dato meramente “quantitativo”, sono stati sconfessati dall’intervento della Cassazione, sent. 13584/2006 ove si è precisato che «…rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa…», appartenendo, proseguono i Giudici di legittimità, «…all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell'impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie…».

Viene, quindi, definitivamente consacrato un criterio funzionale e, per così dire, qualitativo dell’amministrazione di sostegno, che ha di mira la natura ed il tipo di attività che l’incapace non è più in grado di compiere da sé; la relativa valutazione deve essere compiuta dal giudice di merito in base a tutte le circostanze del caso concreto, alla luce di un criterio che assicuri la massima tutela all’incapace, col suo minor sacrificio.

Ebbene, così sinteticamente descritto il quadro interpretativo di riferimento, pare potersi affermare con sufficiente certezza che la pronuncia in analisi ben si inserisce nel filone interpretativo sopra richiamato e che oramai ben può ritenersi consolidato.

Ed infatti (in disparte il riferimento, richiamato a sostegno della richiesta di interdizione, al paventato rischio disottoscrizione di contratti e correttamente confutato dai Giudici con l’osservazione, in punto di fatto, che la differente misura non sarebbe comunque idonea a scongiurare siffatto pericolo ed, in punto di diritto, che l’eventuale contratto sottoscritto cadrebbe, in ogni caso, sotto la scure della previsione di cui all’art. 412 c.c., alla sostanziale attualità del quadro sanitario rispetto a quello esistente al momento in cui era stata aperta l’amministrazione di sostegnoil Collegio ha colto l’occasione per ribadire che «…il criterio che deve orientare il Giudice, allorquando si trovi a dover scegliere quale, tra le misure dell’interdizione e dell’amministrazione di sostegno, applicare al caso concreto, deve rinvenirsi nel disposto dei primi due commi dell’art. 410 c.c., i quali, dettati con esclusivo riferimento all’amministrazione di sostegno, impongono all’amministratore, da un lato, di “tenere conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario”, dall’altro di “tempestivamente informare il beneficiario circa gli atti da compiere, nonché il giudice tutelare in caso di dissenso con il beneficiario stesso…».

Più nel dettaglio, infatti, ad avviso del Collegio piemontese, l’amministrazione di sostegno è improntata ad un sistema di attivazione del contraddittorio che ha il proprio ubi consistam, per dirla con la Cortein una «gestione collaborativa» tra i protagonisti della procedura, a fondamento della quale si pongono non solo i principi di rango costituzionale, ma anche di livello internazionale.

È solo in ipotesi di suo mal funzionamento ovvero, riprendendo le precedenti considerazioni, qualora sia addirittura controproducente – o inidonea – rispetto al conseguimento del best interest del beneficiario che può farsi spazio alla diversa misura dell’interdizione.

È proprio in tale valutazione di adeguatezza e, dunque, di flessibilità, che risiede la chiave di volta nella risoluzione dei rapporti tra le misure di protezione: la misura dell’amministrazione di sostegno deve essere preferita tutte quelle volte sia possibile garantire, all’un tempo, una adeguata protezione con la minor compressione della capacità di agire del beneficiario.

La soluzione adottata sul punto è, dunque, ampiamente condivisibile

3. Prima di procedere all’analisi del secondo aspetto di particolare interesse, giova richiamare, ancorché con la sintesi imposta dalla sede, gli aspetti in punto di fatto della vicenda.

La ricorrente, per quel che in questa sede rileva, aveva posto a fondamento della richiesta di interdizione del soggetto già beneficiario dell’amministrazione di sostegno, il fatto che, qualora questi abbisognasse di cure, accertamenti e trattamenti sanitari, non sarebbe stato in grado di prestare un consenso informato a tali cure.

Tale assunto è stato disatteso dal Tribunale.

Ed invero, da un lato, si è rilevato che anche a fronte dell’omesso, esplicito, richiamo all’art. 357 c.c. da parte dell’art. 411 c.c., costituisce principio oramai consolidato quello per cui – sempre per usare le parole dei Giudici – tale «mancato richiamo dell’art. 357 c.c. dipenda dalla sua superfluità…» in quanto «…tutta la normativa sull’amministrazione di sostegno è teleologicamente diretta alla cura della persona del beneficiario in ogni suo aspetto, patrimoniale, ma anche personale…».

Dall’altro, prosegue il Tribunale, se anche tale omissione fosse espressione di una chiara scelta legislativa, alla stessa si potrebbe, ciò nondimeno, ovviare ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 411 c.c., il quale, come noto, consente al Giudice Tutelare, nel provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno od anche successivamente, di estendere determinate effetti, limitazioni o decadenze, previste in tema di interdizione o inabilitazione, anche al beneficiario dell’amministrazione di sostegno.

E, non a caso, pur con previsione ritenuta scarna, nel decreto di nomina era previsto il potere in capo all’amministratore di «…presentare domande di assistenza anche sanitaria…».

A questo punto, tale incidere argomentativo già di per sé sarebbe stato, probabilmente, sufficiente a condurre al semplicerigetto della domanda.

E tuttavia, dopo esser giunti, con tale percorso motivazionale, al rigetto anche sotto tale profilo della richiesta di interdizione, il Tribunale ha rilevato che, effettivamente, la patologia dell’amministrato era tale da rendere impossibile per lo stesso la prestazione di valido consenso informato agli accertamenti e cure che si fossero resi necessari.

Sicchépur ritenendo che la questione avrebbe dovuto essere scrutinata ed approfondita dal Giudice Tutelare, la ritenuta scarna previsione” contenuta nel decreto di nomina dell’amministratore ha indotto il Collegio a fare applicazione dell’art. 418, c. 3, c.c.conferendo all’amministratore, in una sostanziale integrazione del decreto di nominail potere in via provvisoria e «salva ogni nuova e diversa determinazione del Giudice tutelare» di prestare il consenso e/o il dissenso ad intraprendere i necessari accertamenti, cure e trattamenti.

Tale autorizzazione viene dal Collegio circoscritta unicamente ai trattamenti di natura routinaria mentre, qualora si rendessero necessari trattamenti più invasivi, è fatto onere all’amministratore di «investire della questione il Giudice Tutelare, peraltro non a fini autorizzativi, ma informativi».

È proprio questo il profilo di maggior interesse – ma, come si dirà, non pienamente convincente – della citata pronuncia.

Ma andiamo con ordine.

Gli scopi e la funzione che la misura di protezione intende di perseguire sono i confini entro cui vanno individuati l’estensione ed i contenuti dei poteri dell’amministratore di sostegno che, come è facile intendere proprio in ragione del carattere flessibile della misura di protezione, possono essere plasmati di volta in volta per meglio essere adeguati alle esigenze di tutela del beneficiario.

Al contempo, però, proprio il carattere particolarmente duttile della misura ed il contenuto non predeterminato dei poteri spettanti all’amministratore comporta la necessità di capire quali siano i poteri a questi effettivamente spettanti quanto più ci si avvicina alle prerogative che involgono i diritti personali del beneficiario, tra cui l’espressione di un consenso consapevole ed informato ai trattamenti sanitari.

Con specifico riferimento a tale profilo, accanto a chi esclude che tale prerogativa sia riconducibile nel novero dei poteri che ex se spettano all’amministratore, con la conseguenza che, se del caso, il decreto di nomina dovrà stabilire se all’amministratore competa anche la cura persona e nonché i compiti a tale ambito riconducibili, v’è la posizione – dalla quale pare muovere il Collegio – di quanti, proprio in forza dei principi anche di rango internazionale opportunamente richiamati nella sentenza in analisi, ritengono che il beneficiario possa prestare il suo consenso ai trattamenti sanitari per mezzo e, nell’ottica collaborativa di cui si diceva, con l’amministratore di sostegno, senza la necessità di ricorrere al Giudice tutelare.

La questione, come evidente, è oggetto di un intenso dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza non ancora sopito.

Senza dover far ricorso a interpretazione analogiche dalla dubbia tenuta, alla soluzione positiva ben si potrebbe, in effetti, pervenire proprio in forza della superfluità di un rinvio aspecifiche disposizioni (come quella dell’art. 357 c.c.) da parte di un istituto che è, per così dire, ontologicamente diretto alla cura personaecui faceva riferimento lo stesso Collegio, confortato sul punto anche dai puntuali riferimenti di rango internazionale.

Ed anzi, a ben vedere, pare andare proprio in questa direzione il Tribunale laddove, ampliando lo spettro d’intervento del decreto di nomina dell’amministratore ricomprendendovi l’autorizzazione a prestare il consenso per gli interventi routinari, ha poi affermato che, in caso di interventi più invasivi, sarebbe stato compito dell’Amministratore interloquire con il Giudice Tutelare, ma che ciò sarebbe avvenuto a scopo puramente informativo di quanto costituisce oggetto dell’intervento e non già autorizzativo.

Ma allora, con ciò venendo ai profili non del tutto convincenti della pronuncia, quale corollario di tale argomentazione, ne sarebbe dovuto discendere che è insito nei poteri dell’amministratore di sostegno quello di poter prestare il proprio consenso, se del caso, previa ricostruzione della volontà del beneficiario all’effettuazione di trattamenti sanitari senza dover richiedere l’autorizzazione del Giudice tutelare.

Con l’ulteriore conseguenza, poiche non v’era bisogno di una espressa – ed a questo punto quasi preventiva – autorizzazione a prestare il consenso e/o il dissenso per conto del beneficiario in considerazione della sua impossibilità poter esercitare tale facoltà.

Poco convincente, poi, la limitazione di tale consenso ai soli trattamenti sanitari di natura routinaria, identificati in quelli non invasivi e che non comportino lunghi periodi di degenza ospedaliera, difettando, a ben vedere il requisito dell’urgenza e della necessità, con evidente frizione rispetto ai presupposti diapplicazione della previsione di cui all’art. 418, c. 3, c.c.

L’osservazione appena svolta consente, con ciò avviandosi alle conclusioni di queste brevi osservazioni, di soffermarsi sull’ultimo aspetto, quello più propriamente procedurale, posto dalla sentenza relativa allo strumento utilizzato per conferire tale potere.

L’art. 418, c. 3, c.c., se da un lato conferma il carattere residuale della procedura di interdizione, dall’altro svolge una evidente funzione coordinamento fra i due istituti stabilendo che,qualora nel corso del giudizio di interdizione si renda opportunal’applicazione di una amministrazione di sostegno, il Giudice dell’interdizione dispone la trasmissione degli atti al Giudice tutelare, salva la possibilità di adottare i provvedimenti urgenti di cui all’art. 405, c. 4, c.c.

La funzione della norma di cui all’art. 418, c. 3, c.c. è, per vero, quella di coprire il vuoto di tutela che potrebbe derivare a seguito del rigetto della richiesta di interdizione ma prima che si sia formalmente aperta l’amministrazione di sostegno; proprio per prevenire questa situazione il Collegio investito dell’interdizione può, in tali ipotesi, ad adottare “i provvedimenti urgenti per la cura della persona”, “per la cura e l’amministrazione del suo patrimonio” fino alla nomina di un amministratore provvisorio, con espressa indicazione degli atti che questi è autorizzato a compiere.

È, dunque, alla luce di tali coordinate che occorre vagliare la ammissibilità della soluzione percorsa.

Già si è detto che la pronuncia in esame, pur dando atto che la questione avrebbe dovuto essere portata al vaglio del Giudice Tutelare, che avrebbe potuto rivedere od anche integrare il proprio decreto di nomina, nella parte in cui non disciplinava con puntualità i profili connessi alla manifestazione del consenso ai trattamenti sanitari, ha, sostanzialmente, integrato il decreto di nomina ai sensi dell’art. 418, c. 3, c.c., ritenendo applicabile tale previsione anche nel caso di amministrazioni aperte, conferendo il potere all’amministratore, ancorché per le attività routinarie, di prestare il consenso ai trattamenti sanitari.

E tuttavia, è proprio la funzione di raccordo svolta da tale previsione a suggerire che della stessa possa farsi applicazione, secondo una interpretazione quanto più possibile aderente al dato letterale, tutte quelle volte in cui la procedura di amministrazione di sostegno non risulti già aperta.

Una situazione, quella appena descritta – e la sola compatibile con lo stesso dato letterale dell’art. 405, c. 4, c.c. –che evidentemente non è dato riscontrare qualora l’amministrazione di sostegno sia già aperta, allorché è ben possibile coinvolgere Giudice della procedura per l’adozione di provvedimenti, anche urgenti, involgenti l’estensione dei poteri e delle facoltà conferite con il decreto di nomina dell’Amministratore.

Ne consegue che, nel caso come quello che occupava la Corte piemontese, sarebbe stato forse più opportuno, nel rigettare la misura dell’interdizione, prendere atto, se del caso, della non puntuale previsione in punto di prestazione del consenso ai trattamenti sanitari contenuta nel decreto di nomina dell’amministratore, e trasmettere gli atti al Giudice Tutelare, cui – ed esclusivamente a questi – compete il potere/dovere di integrare il provvedimento di nomina dell’Amministratore giudiziario.

 

20/02/2015
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