Magistratura democratica
Diritti senza confini

Le misure di accoglienza ai richiedenti la protezione internazionale e la loro revoca

di Elena Fiorini
avvocata del foro di Genova
La disciplina italiana della revoca delle misure di accoglienza ai richiedenti la protezione internazionale è in contrasto con la direttiva 2013/33/UE e può essere disapplicata. La sentenza del Tar Toscana, Sez. II, n. 437 del 15 aprile 2020 costituisce una tappa significativa nella costruzione di un percorso virtuoso

1. Il caso al vaglio del Tar e la decisione emessa

La fattispecie in rilievo è assai semplice. Il ricorrente, cittadino pakistano e richiedente la protezione internazionale ammesso alle misure di accoglienza, ne subisce la revoca da parte della Prefettura di Firenze con un provvedimento fondato su due motivi: da un lato l’asserita disponibilità di un reddito da attività lavorativa tale da consentirgli, a parere della Prefettura, di provvedere in modo autonomo al proprio sostentamento (nella specie, pari a € 3666 per l’anno 2019); dall’altro la violazione dell’art.3 del regolamento dei centri di accoglienza straordinaria, per avere omesso di comunicare al gestore del centro il reperimento del proprio impiego.

L’impugnativa lamenta che, nonostante il lavoro svolto, le risorse annue del ricorrente siano comunque inferiori a quelle considerate sufficienti dalla legge; inoltre eccepisce che la mancata comunicazione del reperimento di un lavoro non possa costituire una violazione tale da essere sanzionata con la revoca delle misure di accoglienza, richiamando al riguardo l’art.20 della direttiva 2013/33/UE, che sancisce i principi di eccezionalità, gradualità e proporzionalità.

Il Tar accoglie le prospettazioni del ricorrente da un duplice punto di vista. Nel merito, afferma infatti la sentenza, l’entità del reddito annuo percepito è inferiore all’importo dell’assegno sociale, “che costituisce il parametro legislativamente stabilito per valutare l’adeguatezza delle risorse al proprio sostentamento” e, quindi, il ricorso è fondato sotto tale profilo. Ma è laddove la decisione è chiamata a valutare la corrispondenza della asserita violazione del regolamento dei centri di accoglienza straordinaria che la motivazione riveste maggiore interesse: i giudici toscani, infatti, affermano che debba essere disapplicato l’art.23 d. lgs. 18.8.2015 n.142 per contrasto con l’art.20, par.5 della direttiva 2013/33/UE, che prevede, tra l’altro: a) l’obbligo di garantire al richiedente la protezione internazionale un tenore di vita dignitoso; b) la proporzionalità della sanzione rispetto alla violazione.

La decisione in parola fa espressa applicazione dei principi stabiliti dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 12 novembre 2019 nella causa C-233/18 (Haqbin), riportandone ampi stralci

2. La revoca dell’accoglienza, in breve: norme europee ed italiane e prassi nazionale

 

2.1 La direttiva

Prima di esaminare nel dettaglio il ragionamento svolto dal Tar Toscana vale la pena di rammentare in sintesi il quadro sistematico delle norme in rilievo e le fattispecie più ricorrenti di revoca delle misure di accoglienza che si verificano in concreto.

Come in molti ambiti, la disciplina delle misure di accoglienza e della loro revoca è inscritta nella cornice di norme di indirizzo dell’Unione, contenute principalmente nella direttiva 2013/33/UE, alla quale ha fatto seguito la trasposizione nazionale, avvenuta con d. lgs. n.142/2015. Le condizioni di accoglienza stabilite dalla norma europea prevedono “alloggio, vitto e vestiario, forniti in natura o in forma di sussidi economici o buoni (…) nonché un sussidio per le spese giornaliere ” (art.2 della direttiva). L’art.17 della direttiva richiede che esse siano assicurate dal momento in cui è manifestata la volontà personale di richiedere la protezione e che assicurino “un’adeguata qualità di vita che garantisca il sostentamento del richiedente e ne tuteli la salute fisica e mentale”.

La direttiva 2013/33/UE prevede poi, all’art.20, in conseguenza del venir meno dei presupposti fondanti l’attribuzione delle misure di accoglienza, la possibilità di progressiva e graduale limitazione delle stesse fino a giungere, quale extrema ratio, alla loro revoca, consentita “in casi eccezionali debitamente motivati”.

I casi di riduzione o revoca individuati dalla direttiva sono riconducibili alle seguenti ipotesi previste dall’art.20:

  • allontanamento volontario, par.1 lett.a;
  • mancanza di interesse nella procedura, par. 1 lett. b e par.2;
  • presentazione di una domanda reiterata, par. 1 lett.c;
  • occultamento di risorse finanziarie e conseguente indebito godimento delle condizioni di accoglienza, par.3.

Il par. 4 dell’art.20 prevede inoltre che “Gli Stati membri possono prevedere sanzioni applicabili alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, nonché ai comportamenti gravemente violenti”.

Le garanzie procedurali per la riduzione e la revoca dell’accoglienza sono previste dal par.5 dell’art.20: le decisioni devono essere “adottate in modo individuale, imparziale ed obiettivo e sono motivate” e “sono basate sulla particolare situazione della persona interessata, specialmente per quanto riguarda le persone contemplate all’art.21 (vulnerabili), tenendo conto del principio di proporzionalità”; inoltre gli stati devono assicurare “in qualsiasi circostanza l’accesso all’assistenza sanitaria (…) e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti”.

La collocazione di quest’ultima disposizione a sostanziale chiusura dell’art.20 evidenzia che il principio di gradualità della sanzione e di rispetto, in ogni caso, della dignità della persona, si riferiscono a tutte le violazioni indicate.

2.2 Il d.lgs. n.142/2015

La normativa italiana da attuazione alla direttiva europea con il d. lgs. n.142/2015 non prevedendo però alcuna ipotesi di graduazione della sanzione né di adeguamento alla gravità del fatto contestato.

Come noto il nostro sistema di accoglienza è caratterizzato dalla coesistenza di centri di accoglienza straordinari che, legislativamente previsti in casi eccezionali (art.11 D. Lgs. n.142/2015) costituiscono invece la norma, e centri SPRAR (ora SIPROIMI), delineati in origine dalla L. n.189/2002, che avrebbero dovuto invece costituire il sistema unico di seconda accoglienza, in rete con gli enti locali, la cui funzione è stata tuttavia incisivamente modificata con il D.L. n.113/2018..

La lettera della legge disciplina la revoca dell’accoglienza in modo distinto per le due tipologie di centri (tema neppure sfiorato dalla sentenza in commento e che ci limitiamo ad enunciare nella nostra disamina). Quanto ai CAS l’art.13 D. Lgs. n.142/2015 prevede che l’allontanamento ingiustificato dai centri di prima accoglienza e dai Cas comporti la revoca dell’accoglienza stessa, con le modalità di cui all’art.23, c.1 lett. a). Solo quanto ai centri già Sprar, invece, vi è una previsione dettagliata, l’art.23 c.1 D. Lgs. n.142/2015, che prevede che il Prefetto disponga la revoca delle misure di accoglienza nel caso di:

  • mancata presentazione o abbandono ingiustificati del centro (lett. a);
  • mancata presentazione all’audizione personale (lett. b);
  • presentazione di una domanda reiterata (lett. c);
  • accertamento della disponibilità di mezzi economici sufficienti (lett. d);
  • violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti (lett. e).

Il comma 7 dell’art.23 aggiunge poi l’ipotesi in cui i presupposti per la valutazione di pericolosità del richiedente emerga successivamente all'invio nelle strutture.

L’impianto e la strutturazione del 1° comma dell’art.23 segue pedissequamente, come è agevole constatare, la corrispondente norma della direttiva.

Due le differenze, entrambe importanti, tra direttiva europea e norma italiana corrispondente.

La prima, rilevantissima, è l’eliminazione da parte del legislatore italiano della possibilità di riduzione delle misure di accoglienza. L’unica opzione di sanzione prevista dal nostro ordinamento per comportamenti reputati non rispondenti alle funzioni dei centri è la revoca dell’accoglienza. L’esclusione della graduazione rende di fatto ben poco praticabile che l’applicazione delle misure sia contraddistinta dalla proporzionalità prescritta dalla direttiva europea.

Per fare un paragone con un altro ambito in cui si tratta di diritti soggettivi perfetti, quale è il diritto all’accoglienza, è come se, nel codice di procedura penale, l’unica misura cautelare prevista fosse la custodia cautelare in carcere.

La seconda differenza è che, mentre il legislatore europeo ha previsto, come indirizzo per gli Stati, non meglio precisate “sanzioni” per “gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza” e “comportamenti gravemente violenti” (art.20, par.4 della direttiva), il legislatore italiano, anche in questo caso, vede come conseguenza delle violazioni la sola ipotesi di esclusione dal circuito di accoglienza.

2.3 I dati delle prefetture italiane sulla revoca delle misure di accoglienza

Per avere la misura della rilevanza che la sentenza del Tar Toscana, se seguita da ulteriori pronunciamenti in senso conforme da parte di altri giudici amministrativi può avere nel nostro sistema, vale la pena brevemente esaminare i dati a nostra disposizione con riguardo alle prassi delle Prefetture sulla revoca delle misure di accoglienza.

Intanto occorre dire che non pare semplice avere numeri precisi. Sebbene nel gennaio 2018 il Ministero dell’Interno avesse affermato di avere in corso un monitoraggio ed una raccolta dei dati presso le Prefetture, sulla cui base avrebbe stilato una statistica, essa non risulta essere stata realizzata.

La mappatura a nostra disposizione trae origine grazie alla procedura di accesso civico generalizzato (Freedom of information Act, Foia), realizzata dalla rivista Altreconomia: sono state interpellati tutti i 106 uffici territoriali del governo italiano rispetto ai dati dal 2016 al settembre 2019. La stima effettuata valuta, in poco meno di 4 anni, non meno di 100.000 revoche delle condizioni materiali di accoglienza nel nostro paese.

Parliamo di stima perché solo 60 Prefetture hanno fornito i dati per quanto attiene al biennio 2016-17; e solo 54 Prefetture hanno provveduto per quanto attiene al periodo dal 1° gennaio 2018 al 30 settembre 2019.

Su questa base, quindi, dal dato reale di 41.761 revoche su 60 Prefetture negli anni 2016/17 può ricavarsi prudenzialmente una stima complessiva di 60.000 revoche in tale periodo (presenti nei centri di accoglienza 176.554 persone nel 2016 e 183.681 nel 2017, fonte elaborazione Openpolis su dati Istat e Def 2018). Per il periodo 2018-19, le 54 prefetture che hanno risposto hanno riportato 24.945 provvedimenti di revoca e, quindi, appare realistico ipotizzarne almeno 40.000 sul territorio nazionale (182.000 accolti nel 2018, 95.755 al 15.11.19, dati Ministero dell’Interno).

E, se è vero che la gran parte delle revoche delle misure di accoglienza è da ricollegarsi all’allontanamento volontario delle persone (il che potrebbe però forse evidenziare elementi poco edificanti sulla qualità del nostro sistema di accoglienza), non poche revoche appaiono legate alla violazione dei regolamenti dei centri, la cui particolarità è la predisposizione da parte delle singole prefetture, articolandosi quindi le regole da seguire in modo assai variegato e a macchia di leopardo sul territorio nazionale: a Napoli, ad esempio, il regolamento della prefettura ha previsto che un’assenza di un solo giorno dal centro comporti la revoca; a Genova l’accattonaggio determina una violazione delle regole del centro, la cui sottoscrizione (nella sola lingua italiana) è richiesta all’ospite; a Pistoia rientra tra le violazioni del regolamento dei centri anche il viaggio senza biglietto sui mezzi pubblici.

Di fatto, quindi, l’incrocio tra una disciplina legislativa che impone come unica sanzione di qualsiasi violazione la revoca delle misure di accoglienza e l’italico mosaico creato dalle prefetture con propri regolamenti ha comportato un’applicazione della misura della revoca dell’accoglienza assai incisiva, al quale ha fatto seguito un contenzioso complessivamente modesto, a causa, si suppone, dell’estrema fragilità dei soggetti sui quali questa misura incide.

Da due istanze di accesso civico presentate dal Naga alla Prefettura di Milano emergono alcuni dati che, se non possono avere evidenza statistica generale, suscitano riflessione: per il periodo gennaio 2018- agosto 2019 le revoche a Milano sono state 534 (presenze nei centri al 31 luglio 19 2.586). Di queste l’assoluta maggioranza delle revoche (465) deriva dalla mancata presentazione/abbandono del centro (art.23 c.1 lett. a). Solo 3 derivanti da mancate presentazioni all’audizione (art.23 c.1 lett. b), 2 dalla presentazione di una domanda reiterata (art.23 c.1 lett. b) e 2 casi di contestazione di disponibilità di mezzi economici sufficienti (art.23 c.1 lett. c). Sono invece ben 42 le revoche determinate dalla violazione delle regole dei centri ovvero comportamenti ritenuti gravemente violenti (art.23 c.1 lett. e), mentre in 20 casi, ai sensi dell’art.23 c.7, viene ritenuta la pericolosità del richiedente, ipotesi che comunque non sfugge al ragionamento svolto dal Tar e, prima ancora, dalla Corte di Giustizia.

In sintesi, l’ipotesi di cui alla lett. e) del primo comma dell’art.23 (che viene in rilievo nel caso di specie sottoposto al Tar) appare avere un’incidenza statistica molto elevata nelle revoche non riconducibili ad una mancata fruizione dell’accoglienza: sono circa il 65%, nel contesto milanese nel periodo considerato.

3. La motivazione della sentenza e i problemi aperti

Possiamo ora concludere l’esame della sentenza del Tar Toscana evidenziando la sua rilevanza.

La decisione, infatti, a quanto consta, è forse la prima a dare rigorosa applicazione al principio di prevalenza delle norme europee in materia di revoca delle misure di accoglienza.

Come noto, le direttive costituiscono atti che vincolano gli stati quanto al risultato da conseguire, lasciando ad essi la libertà di individuare gli strumenti e la forma per raggiungerlo, entro un termine dato. In caso di antinomie tra la normativa nazionale e quella europea, è quest’ultima che prevale, in forza anzitutto all’articolo 4 n. 3 TUE, secondo il quale «gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione». Il principio di leale cooperazione impone allo Stato di fare quanto in suo potere per dare effettiva attuazione al diritto dell’Unione. Il vincolo di prevalenza, che vale già per gli organi delle amministrazioni dello stato, è particolarmente penetrante per il giudice nazionale, in quanto, come sottolineato dalla Corte di giustizia (Corte giustizia, ordinanza 6 dicembre 1990, causa C-2/88, Imm., J.J. Zwartveld e altri, punto 10. 3), le autorità giudiziarie degli Stati membri sono incaricate di vegliare sull'applicazione e sull'osservanza del diritto dell’Unione nell'ordinamento giuridico nazionale.

L'obbligo di qualsiasi giudice nazionale di applicare integralmente il diritto dell'Unione e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, comporta il dovere di disapplicare la norma interna contrastante con quella europea, sia anteriore sia successiva a quest'ultima, così come affermato dalla Corte di giustizia fin dalla sentenza del 9 marzo 1978, causa 106/77 Simmenthal.

La disapplicazione, dunque, come tecnica di risoluzione delle antinomie, quando non sia possibile un’interpretazione conforme.

Un principio accolto e ulteriormente definito dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale che, fin dalla sentenza 8 giugno 1984 n.170, afferma che il contrasto tra la norma comunitaria e quella interna impedisce che «che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale». Sempre il Giudice delle leggi (Corte cost., 11 luglio 1989, n. 389) ha poi affermato in modo cristallino che poiché “spetta alla Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del medesimo Trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l'ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative”.

Pur essendo questi principi ormai incontestati ed applicati in molti differenti ambiti del diritto, tuttavia, la giustizia amministrativa aveva finora avuto una certa timidezza nell’utilizzarli in materia di revoca delle misure di accoglienza, come ha fatto il Tar Toscana in questa decisione.

Già alcune sentenze dei tribunali amministrativi hanno infatti in precedenza richiamato il principio di proporzionalità: a titolo di esempio si veda Tar Liguria (sentenza n.628/2018) che afferma che “emerge come la valutazione compiuta dalla Prefettura di Savona si ponga in contrasto con i principi di proporzionalità ed adeguatezza della sanzione rispetto alla condotta addebitata all’attuale ricorrente”, annullando così l’atto impugnato, senza però svolgere alcun approfondimento sul punto.

Anche la pur recente sentenza del Tar Toscana del 5.2.2019 (sentenza n.290/2019) si limita a rilevare che il comportamento addebitato (nella specie la mancata frequenza alle lezioni) “anche se certamente deplorevole”, “non pare configurabile in termini di grave violazione delle regole del centro, idonea a fondare il provvedimento gravato: il nostro ordinamento d’altra parte non ha previsto una gradazione delle sanzioni applicabili, come previsto dalla disciplina europea, con l’effetto che la condotta errata dello straniero, in mancanza di sanzioni meno afflittive di quella della revoca dell’accoglienza, finisce per rimanere senza sanzione”.

Solo un anno dopo, però, intervenuta la sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, 12 novembre 2019 nella causa C-233/18, lo stesso consesso giudiziario, facendo richiamo preciso e puntuale alla decisione del giudice europeo, pronuncia invece delle affermazioni nettissime, ampiamente tratte dal caso Haqbin, nel quale la Corte ha affermato che, sulla scorta dell’interpretazione dell’art.20, parr. 4 e 5 della direttiva 2013/33/UE, “uno stato membro non può prevedere, tra le sanzioni che possono essere inflitte ad un richiedente la protezione internazionale in caso di violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché di comportamenti gravemente violenti, una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza, ai sensi dell’art.2, lett. f) e g) della menzionata direttiva, relative all’alloggio, al vitto e al vestiario, dato che avrebbe l’effetto di privare il richiedente della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari. L’imposizione di altre sanzioni ai sensi del citato art.20 par.4 deve, in qualsiasi circostanza, rispettare le condizioni di cui al par.5, in particolare quelle relative al rispetto del principio di proporzionalità e di dignità”.

Il Tribunale toscano, riprendendo le affermazioni della Corte di Giustizia ed applicandole al caso sottoposto al suo esame, sottolinea che l’applicazione della sanzione della revoca sarebbe, in primis, incompatibile con l’obbligo di garantire un tenore di vita dignitoso al richiedente, privandolo della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari e che sotto questo profilo, inoltre, difetterebbe la proporzionalità della sanzione.

Le affermazioni del Tar riprendono i parr. 47 e 48 della sentenza Haqbin.

E proprio il par.48 di tale sentenza rammenta, qualora ve ne fosse bisogno, che “anche le sanzioni più severe intese a sanzionare, in materia penale, le violazioni o i comportamenti di cui all’art.20, par.5, di tale direttiva non possono privare il richiedente della possibilità di provvedere ai suoi bisogni più elementari”.

Sempre riprendendo la sentenza Haqbin (par.52), il Tar fiorentino ricorda che le gravi violazioni delle regole del centro di accoglienza potrebbero prevedere, conformemente alla direttiva e al decisum della Corte di Giustizia, altre tipologie di sanzioni rispetto alla revoca, che producano effetti meno radicali sulla condizione del richiedente: “la collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, eventualmente congiunta al divieto di contatto con taluni residenti del centro stesso, oppure il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio” e pure l’art.20, parr. 4 e 5 della direttiva 2013/33/UE “non osta ad una misura di trattenimento del richiedente”.

Nel panorama delle valutazioni relative alle possibili sanzioni a seguito di violazioni, anche gravi, dei regolamenti dei centri, entra così anche per il giudice italiano, seppur con un certo ritardo, il parametro di uno standard minimo di vita e, in sintesi, quello dell’effettivo rispetto della dignità della persona, del quale poco sembrano invece preoccuparsi le Amministrazioni quando procedono alla revoca.

E, seppure non siamo un paese di common law e la decisione valga solo con riferimento al caso concreto sottoposto al suo esame, pare abbastanza improbabile che la giurisprudenza e, prima ancora, le amministrazioni, possano sottrarsi al cambio radicale di prospettiva introdotto da una decisione così autorevole.

In attesa che il legislatore, eventualmente, prendendo atto del vuoto normativo del quale il Tar Toscana è ben consapevole e che espressamente richiama, si assuma la responsabilità di colmare la lacuna rappresentata dalla mancata previsione legislativa di sanzioni graduate: “non potendo questo Giudice -afferma il Tar- esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto comunitario così come fornita dalla Corte”.

13/05/2020
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