Magistratura democratica
Diritti senza confini

La sanatoria ai tempi del coronavirus

di Marco Paggi
avvocato in Padova
Tra i provvedimenti adottati per reagire agli effetti devastanti della pandemia causata dal COVID19 è inclusa anche la regolarizzazione dei lavoratori stranieri presenti in Italia, frutto di un difficile compromesso politico che emerge nelle diffuse aporie del testo normativo e nei numerosi ostacoli presenti sia nei presupposti sia nelle procedure

1. Premessa
2. Gli ambiti lavorativi che consentono la regolarizzazione
3. La prova della presenza sul territorio
4. I destinatari della regolarizzazione: gli “stranieri presenti sul territorio”
5. segue: gli “ex regolari”
6. L’ostacolo dei passaporti
7. Ulteriori rischi della procedura e oneri connessi al contratto di soggiorno
8. Disposizioni di contrasto al lavoro sommerso ed allo sfruttamento

 

 1. Premessa

L’ art. 103 del dl n. 34 del 19 maggio scorso, dedicato all’emersione dei rapporti di lavoro, non si presta ad una facile interpretazione: di certo risulta immediatamente chiaro che le sue disposizioni sono frutto di una tribolata mediazione tra diverse visioni politiche, ciò che ha prodotto una serie di disposizioni connotate – quantomeno sotto il profilo tecnico – da scarsa organicità e da elementi di evidente incoerenza, rispetto alle intenzioni dichiarate di volere regolarizzare il lavoro sommerso e contrastare lo sfruttamento. Verranno di seguito esaminate le condizioni essenziali per l’accesso alla regolarizzazione, tralasciando in questa sede di trattare, per esigenze di sintesi, le condizioni di estinzione della punibilità per le pregresse violazioni e le specifiche causa ostative e di inammissibilità, rispettivamente previste per i lavoratori ed i datori di lavoro, sostanzialmente connesse a circostanze rilevanti sotto il profilo penale o della pericolosità.

Si tratta in realtà di due tipologie distinte di regolarizzazione: una per i lavoratori già occupati con precedente soggiorno recentemente scaduto (oltre agli italiani e ai comunitari, che ovviamente non necessitano di alcuna regolarizzazione ai fini del soggiorno)[1], che potremmo chiamare “ex regolari”; l’altra per gli stranieri che vengono definiti "presenti sul territorio", senza specificare se irregolarmente soggiornanti o meno, da regolarizzare per un rapporto di lavoro già in corso contra legem oppure – in alternativa e molto più probabilmente – da assumere ex novo; tuttavia, per l’ammissibilità tanto dell’uno che dell’altro percorso, sono poste già a monte drastiche restrizioni a limitati settori di attività della platea dei beneficiari, quindi per il più ristretto ambito dei potenziali fruitori vengono dettati ulteriori requisiti, che non solo appaiono notevolmente onerosi, quanto ad adempimenti della P.A., ma soprattutto ben difficilmente ottemperabili da parte degli interessati.

Tutto ciò senza tenere conto dell’univoca esperienza delle precedenti sanatorie, non essendovi nemmeno in questo provvedimento alcuna misura concretamente idonea a prevenire, nelle more della procedura, il diffusissimo assoggettamento dei lavoratori a condizioni estorsive o di ulteriore sfruttamento da parte di intermediari e datori di lavoro.

Verso i datori di lavoro, peraltro, l’impianto della norma mostra una strana fiducia differenziata: i datori di lavoro stranieri legalmente soggiornanti, che non abbiano già acquisito il soggiorno a tempo indeterminato (magari solo perché “bocciati” alla prova di conoscenza della lingua italiana), non potranno regolarizzare i loro dipendenti <> od assumerne con effetto “sanante” il soggiorno ai sensi del comma 1, venendo così discutibilmente esclusi dal beneficio dell’estinzione delle violazioni pregresse; gli stessi, invece, nel silenzio della norma potranno come tutti gli altri assumere ai fini della procedura di cui al comma 2 gli “ex regolari”. Per converso, alla generalità dei datori di lavoro viene assegnato di fatto il potere di annullare la regolarizzazione intrapresa, semplicemente astenendosi dalla firma finale del contratto di soggiorno.

2. Gli ambiti lavorativi che consentono la regolarizzazione

Anzitutto, non si comprende la drastica restrizione (v. comma 3) del campo di applicazione della regolarizzazione ai soli settori occupazionali dell’agricoltura, della pesca e acquacoltura e attività connesse[2] e del lavoro domestico, che è prevista con l’aggiunta di altre e distinte condizioni per entrambe le ipotesi di regolarizzazione.

Certo, si tratta di settori quantitativamente significativi ma che complessivamente rappresentano solo una parte del lavoro sommerso o da stabilizzare regolarmente, basti pensare ad altri settori fortemente interessati dall’impiego di manodopera in condizioni variamente irregolari, come l’edilizia, la logistica ed i pubblici esercizi (ma si potrebbe aggiungere la metalmeccanica, il tessile, ecc...). Questa limitazione, senza considerare le altre che verranno di seguito esaminate, pare ben poco coerente con lo scopo dichiarato dell’emersione e con lo stesso obiettivo iniziale della misura, ovvero garantire la sicurezza e la salute di tutti i cittadini, sicché in mancanza di un ampliamento della platea dei destinatari – come auspicato da più parti- non sarà difficile prevedere un esito scarsamente efficace sotto tutti i profili, quale risultato di una mediazione politica avulsa dalla realtà che si vorrebbe governare

Resterebbe chiaramente nella condizione di irregolarità un’ampia parte della popolazione priva di soggiorno attualmente occupata od occupabile nei settori esclusi, così destinata verosimilmente a sostituire nel prossimo futuro l’ultimo anello del lavoro sommerso nei settori oggi ammessi alla regolarizzazione, quello degli irregolari, che di fatto funge da “calmiere” nel mercato del lavoro sfruttato. Per dirla in breve, poiché anche a fronte di questa regolarizzazione è ben difficile immaginare che il mercato del lavoro sommerso cambi improvvisamente le sue abitudini, avremo una nuova linfa per il caporalato e lo sfruttamento [3], che non mancherà di aggiungersi ai fin troppo prevedibili taglieggiamenti per la presentazione della domanda di regolarizzazione dei lavoratori occupati nei settori ammessi [4].    

A ciò si aggiunga che tale limitazione settoriale non varrebbe solo per i pregressi rapporti di lavoro interessati all’emersione su istanza del datore di lavoro (che come vedremo si avvarrà assai poco di tale facoltà) ma altresì per i nuovi rapporti di lavoro che si andranno a costituire, escludendo la possibilità di occupazione in settori diversi, nonostante sia previsto "che nelle more della definizione dei procedimenti di cui ai commi 1 e 2 la presentazione delle istanze consente lo svolgimento dell’attività lavorativa" (v. comma 6, 2° periodo).

Per l’appunto, nelle more della procedura, vale a dire chissà per quanto tempo, i "presenti sul territorio" di cui al comma 1 dovrebbero addirittura continuare a lavorare "esclusivamente alle dipendenze del datore che ha presentato l’istanza" (v. comma 6, 2° periodo); mentre agli “ex regolari” viene imposto di stabilire rapporti di lavoro esclusivamente nei settori di attività di cui al comma 3, sia nelle more del rilascio del permesso temporaneo e sia durante la sua validità, sino alla successiva conversione (v. comma 16, 2° periodo). Sicché parrebbe di capire che solo al termine del percorso di regolarizzazione, col rilascio del permesso per lavoro subordinato, sarà consentita la “libera” occupazione in qualsiasi settore. Ciò presupporrebbe, specie per quanto riguarda il lavoro in agricoltura e il lavoro domestico, una relativa continuità occupazionale in ambiti che all’opposto sono contrassegnati dalla stagionalità o comunque dalla precarietà (si pensi alla raccolta stagionale e alla frequente breve durata del lavoro domestico, spesso legata alla fase terminale del cd. “badato”).

Tale limitazione dell’ambito occupazionale, chiaramente destinata a durare molto tempo, sembra contraddetta dalla possibilità, espressamente prevista (come per gli “ex regolari”) anche per i "presenti sul territorio", che l’assunzione possa avvenire pure a tempo determinato o per lavoro stagionale (v. comma 4)[5], che non si concilia certo col precetto di lavorare solo per il datore di lavoro che ha proposto l’istanza nelle more della procedura. Se durante l’attesa prevedibilmente estenuante della definizione dell’emersione essi perderanno il lavoro cosa potranno fare? Il comma 4 prevede infatti che, sia nei casi dei "presenti sul territorio" di cui al comma 1 che nei casi degli “ex regolari” di cui al comma 2, "se il rapporto cessa, anche nel caso di contratto a carattere stagionale, trovano applicazione le disposizioni di cui all’art.22, co. 11, del d.lgs n.286/1998 e successive modificazioni, al fine di svolgere ulteriore attività lavorativa"; vale a dire che anche nelle more della regolarizzazione chi perde il posto di lavoro ha diritto di iscrizione al centro per l’impiego[1] e avrebbe altresì il diritto di poter cercare un altro lavoro, come sancisce l’art.22 citato, "per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno e comunque, salvo che si tratti di permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per un periodo non inferiore ad un anno".

 

[1] Contrariamente a quanto ancora sostenuto presso molti centri per l’impiego l’iscrizione può avvenire anche tramite il portale dell’ANPAL compilando la richiesta online, così come stabilito dagli artt. 19 e 20 d.lgs n.150/2015 (cfr. C. app. Venezia n.15 del 27.4.2020).

 

Una interpretazione che tenti di conciliare l’apparente conflitto di tali disposizioni dovrebbe far ritenere che il <> debba proseguire il rapporto regolarizzato senza poter rassegnare le dimissioni (quantomeno con l’eccezione della giusta causa, ad es. il mancato pagamento delle retribuzioni o l’impiego in condizioni illecite), salvo perdere il lavoro per causa a lui non imputabile (licenziamento o scadenza del termine contrattuale), potendosi quindi in tal caso iscrivere al CPI; in occasione della convocazione presso lo sportello unico per l’immigrazione andrebbe quindi formalizzato un contratto di soggiorno riferito ad un rapporto di lavoro nel frattempo cessato ed egli dovrebbe ricevere un permesso di soggiorno ex art.22, comma 11, T.U. per “attesa occupazione” della durata di un anno. Se invece, nelle more del rilascio del permesso, il "presente sul territorio" avesse nel frattempo cessato il rapporto di lavoro che ha dato luogo all’istanza di regolarizzazione ed avesse reperito una nuova occupazione in un settore diverso, dovremmo ritenere che ciò sia ammesso e che debba comunque essere rilasciato un permesso per lavoro.

Analogamente, per quanto riguarda gli “ex regolari”, entro i sei mesi di durata del permesso temporaneo [7] dovrebbe assumere rilievo utile l’esibizione di "un contratto" di lavoro – quindi, si dovrebbe ritenere ne basti uno soltanto – in uno dei settori limitati, ancorché cessato come abbiamo visto, per dar luogo al rilascio di un permesso per lavoro a fronte di una nuova occupazione o, in mancanza, per “attesa occupazione” di un anno. Da un lato, secondo il comma 16 (v. 2° periodo) l’attestazione della questura che consente il soggiorno provvisorio nelle more della procedura abilita allo svolgimento di attività di lavoro subordinato esclusivamente nei settori di attività di cui al comma 3, dall’altro ciò presenta anche in questo caso un apparente contrasto con il richiamo espresso del comma 4 all’art.22, comma 11, T.U., ma appunto l’unica verosimile soluzione interpretativa è di considerare tale limite settoriale come applicabile soltanto al primo rapporto di lavoro, quello che ha fondato la richiesta di conversione entro i 6 mesi di validità del permesso temporaneo.

Peraltro, essendo prevedibilmente lungo lo smaltimento delle domande, dobbiamo considerare che interpretando diversamente il decorso del tempo non sarebbe affatto neutro, ampliando le chances di impiego per chi ha la fortuna di essere convocato più rapidamente alla conversione e restringendola per chi, senza colpa, dovrà attendere molto di più.  

In ogni caso, il rinvio alla disciplina generale di cui all’art.22, comma 11, T.U. in tema di “attesa occupazione” dovrebbe assicurare, a seguito dell’iscrizione al CPI, il pieno accesso all’intero mercato del lavoro, non solo perché gli stessi meccanismi di gestione della relativa banca dati e delle comunicazioni di assunzione UNILAV non sembra conoscano espedienti limitativi a determinati settori, ma soprattutto perché diversamente interpretando o disponendo si presenterebbe una irragionevole disparità di trattamento tra le due categorie con possibili profili di incostituzionalità del sistema.

3. La prova della presenza sul territorio

Non meno determinante sugli esiti della regolarizzazione risulta un altro fortissimo limite costituito dalla richiesta prova della presenza: requisiti comuni, ma a condizioni stranamente diversificate, sono infatti la verifica della presenza in Italia anteriormente all’8 marzo 2020 e del non allontanamento successivo dal territorio nazionale. Certo, in tutte le norme eccezionali di regolarizzazione dal 1986 ad oggi (v. l’articolo di Sergio Briguglio qui pubblicato) un termine è sempre stato segnato per evitare o contenere l’effetto richiamo di nuovi afflussi di immigrati, tuttavia in epoca di pandemia non si può certo dire che vi possa essere un timore di ingressi dall’8 marzo fino a questi giorni: sbarchi praticamente azzerati e ingressi “a lumicino” dalla frontiera dell’Est [8] avrebbero tutt’al più consentito di aggiungere una manciata di persone.

A maggior ragione, non si vedono ragioni né logiche né pratiche nella prevista verifica della ininterrotta permanenza successiva sul territorio nazionale: di questi tempi, con la quasi soppressione di moltissimi servizi di trasporto e le quarantene in entrata e in uscita, non sembra possa esservi una numerosa categoria di persone al tempo stesso prive di permesso di soggiorno (quantomeno con permesso scaduto dal 31 ottobre) che fosse già presente in Italia ante 8 marzo, ne sia uscita e vi abbia fatto reingresso dopo tale data… Si spera che tale verifica venga quantomeno limitata al controllo di eventuali timbri sul passaporto, almeno per chi ce l’ha (v. infra, par.5), si pensi altrimenti all’enorme quanto inutile aggravio per gli interessati e per la stessa pa qualora fosse richiesto di documentare ulteriormente la presenza in tale brevissimo arco di tempo, cosa quanto mai difficile per persone che evidentemente hanno vissuto in condizioni di sostanziale invisibilità. C’è da confidare che tale circostanza verrà acquisita tramite dichiarazione ex art. 47 del dpr 445/2000, salvo verifica[9]; d’altronde, ciò è ammesso in relazione ad adempimenti molto più essenziali, come l’asseverazione da parte del datore di lavoro della disponibilità di alloggio idoneo in sede di proposta e quindi di sottoscrizione del contratto di soggiorno, atto che pure va formalizzato col primo contratto di lavoro, con buona pace della discutibilissima efficacia ed effettività della “garanzia” sulla disponibilità di alloggio idoneo ad esso sottesa.

Ma il problema ben più serio è rappresentato dalla curiosa differenziazione del regime della prova della presenza ante 8 marzo. Per i "presenti sul territorio" è necessario provare tale circostanza in tre modi alternativi: risultando già stati sottoposti a rilievi fotodattiloscopici entro tale data; dimostrando di avere regolarmente soggiornato prima della stessa data in forza della dichiarazione di presenza resa ai sensi della legge 68/2007; disponendo di "attestazioni costituite da documentazioni di data certa provenienti da organismi pubblici". Per gli ex regolari, invece, è pure prescritto che debba essere verificata la presenza sul territorio nazionale ante 8 marzo (ciò che dovrebbe far pensare anche in questo caso ad una qualche disposizione o circolare di attuazione che richiederà una forma di prova della presenza), tuttavia non si fa riferimento agli specifici mezzi di prova espressamente previsti per l‘altra categoria, che posti nei termini di cui sopra appaiono difficilmente realizzabili.

È infatti ben noto che i rilievi fotodattiloscopici vengono eseguiti nei confronti delle persone indagate, espulse o che abbiano avuto in precedenza un permesso di soggiorno (la dichiarazione di presenza non comporta tecnicamente la fotosegnalazione, è quindi da ritenersi una prova totalmente alternativa), ma nella maggior parte dei casi, pur vivendo in Italia anche da molti anni, la persona irregolare tout court – specialmente se impegnata a lavorare in nero – non è stata sottoposta a fotosegnalazione. È del pari notorio che quasi mai ha adempiuto alla dichiarazione di presenza chi ha fatto ingresso a suo tempo da altro paese Ue con un visto cd. Schengen od è entrato nel territorio in regime di esenzione da visto, come normalmente avviene per i cd. overstayers [10]. Paradossalmente, potremo immaginarci la badante o il bracciante che non possono regolarizzarsi perché hanno sempre vissuto sostanzialmente relegati sul posto di lavoro e il cameriere occupato in città che invece potrebbe ottenere la regolarizzazione perché ha la “fortuna” di essere stato più facilmente intercettato e quindi fotosegnalato ai fini dell’espulsione, se non fosse che ciò gli sarebbe impedito a priori perché impiegato, appunto, in un settore escluso dalla regolarizzazione.

Se si eccettua la fotosegnalazione, è pure evidente quanto sia rara per un irregolare la disponibilità di attestazioni costituite da documentazioni di data certa provenienti da organismi pubblici, sostanzialmente ridotta alla possibilità di eventuale possesso di referti rilasciati da presidi sanitari pubblici, notoriamente frequentati con molta diffidenza e per lo più solo in caso di urgenze, oppure di eventuali verbali applicativi di sanzioni amministrative, ancor più raramente conservati dagli interessati.

E tutto questo per avere una prova la cui risibile utilità meglio si può intendere esprimendola in altri termini, poiché a ben guardare tale requisito molto somigliante ad una prova diabolica si può anche definire come “la prova di non essere entrati in Italia dopo l’inizio della pandemia”, come se ciò potesse riguardare delle improbabili moltitudini e cambiasse veramente qualcosa…

C’è quindi da augurarsi che in occasione di emendamenti questo regime della prova, impraticabile per i più e che potrebbe da solo far fallire almeno in buona parte l’obiettivo dell’emersione, venga soppresso o quantomeno vengano introdotte disposizioni che, in analogia con le precedenti regolarizzazioni, ammettano diversi e più umanamente disponibili mezzi di prova della presenza, sempre che ciò sia considerato politicamente importante.

 4. I destinatari della regolarizzazione: gli “stranieri presenti sul territorio”

Di fatto, la categoria dei “presenti sul territorio” di cui al comma 1 è amplissima ed in un certo senso destinata – non si comprende se per scelta consapevole o meno del legislatore – ad un ruolo complementare rispetto al campo di applicazione espressamente previsto per gli “ex regolari”. Infatti, la procedura di cui al comma 1, sottoposta alle prove dianzi accennate, potrà essere utilizzata solo dai pochi irregolari che disporranno delle rare prove della loro presenza ante 8 marzo, ma in misura sicuramente maggiore proprio dagli “ex regolari” che hanno posseduto un permesso di soggiorno a qualsiasi titolo, compresi ovviamente gli ex richiedenti la protezione internazionale, che all’esito negativo della procedura non dispongono più di un permesso, e persino quelli con permesso scaduto dal 31 ottobre di cui al comma 2, poiché per essi è certamente sempre avvenuta la fotosegnalazione di rito in occasione del rilascio del permesso di soggiorno (senza contare che al tempo stesso tale procedura ex comma 1 non richiede la difficile dimostrazione dei pregressi rapporti di lavoro, di cui si dirà più oltre).

Non solo, l’espressione “presenti sul territorio” indica chiaramente una situazione di dimora di fatto, che prescinde dalla regolarità o meno del soggiorno, di talché si presta all’istanza di autorizzazione alla regolarizzazione di un rapporto in corso, ovvero all’assunzione ex novo di cui al comma 1, anche la condizione di persona in possesso di un permesso di soggiorno in corso di validità, rilasciato per i motivi più diversi. Dunque – fermi restando il rispetto delle predette limitazioni settoriali e la verifica della presenza – si deve ritenere consentito il rilascio di un normale permesso per lavoro non solo a chi possiede un titolo di soggiorno che attualmente non abilita all’attività lavorativa od alla sua stabilizzazione – si pensi, ad esempio, ai titolari di valido permesso di soggiorno per lavoro stagionale o per studio o per tirocinio, che in mancanza delle cd. “quote” non possono convertire il permesso per lavoro non stagionale[11] – ma anche a coloro che attualmente possiedono un soggiorno ad altro titolo, che già consente l’attività lavorativa ma di cui non è sostanzialmente assicurato il rinnovo in relazione alla condotta lavorativa; laddove è evidente che la casistica più tipica, o quantomeno la più numerosa, sarebbe appunto quella dei richiedenti protezione internazionale attualmente legalmente soggiornanti, che in considerazione del tasso statistico dei dinieghi in sede amministrativa e giudiziaria hanno da temere l’esito negativo della procedura in corso[12]. Tutti sembrano dunque ammessi al rilascio di un permesso per lavoro subordinato a fronte della emersione del rapporto in corso o della costituzione di un nuovo rapporto di lavoro nei settori ammessi. Vi è però da chiedersi se, a fronte di un’attività lavorativa già in corso in uno dei settori di cui al co.3, possa utilmente rilevare, ovviamente col concorso del datore di lavoro, la mera volontà di ottenere un normale permesso per lavoro, nulla sostanzialmente mutando nel rapporto di lavoro che prosegue, o se invece si debba immaginare in tal caso, per accedere alla stabilizzazione, una previa risoluzione del pregresso rapporto per dare luogo ad un’assunzione formalmente nuova. Pure, nel diverso caso di un’attività lavorativa già in corso in un settore diverso da quelli di cui al co.3, ci si deve chiedere se possa ammettersi la stabilizzazione a fronte della costituzione ex novo di un rapporto di lavoro in uno dei settori ammessi.

Non è dato sapere al momento quale sarà al riguardo l’interpretazione di fonte governativa, tuttavia pare che si possa rispondere positivamente proprio in ragione dell’ampia formulazione della norma di cui al co.1: essa sembra infatti presentarsi come una sorta di “decreto flussi” speciale, che in deroga al requisito della residenza all’estero, generalmente prescritto per i lavoratori interessati, stanzia la possibilità per tutti i "presenti sul territorio" di occupazione in determinati settori mediante emersione o costituzione ex novo di un rapporto di lavoro, senza tuttavia sottoporla a limiti numerici, le cd. “quote”. Sotto questo profilo, poiché non siamo qui in presenza di una “conversione” del titolo di soggiorno, per la quale sarebbero previsti distintamente specifici presupposti, bensì di una procedura che prevede in modo del tutto autonomo e tassativo le condizioni di rilascio del titolo di soggiorno per lavoro, dovrebbe ritenersi generalmente ammissibile l’istanza rivolta alla conclusione di un contratto di lavoro subordinato ovvero alla sua trasformazione, emersione o regolarizzazione, a fronte della mera verifica della presenza e del settore di impiego.

Per i richiedenti protezione internazionale in corso di procedura, inoltre, si porrebbe tuttavia l’ulteriore problema della “convivenza” tra l’acquisizione del nuovo titolo di soggiorno per lavoro e la prosecuzione della procedura di protezione internazionale, poiché già in alcune questure si ventila che la possibilità per i richiedenti asilo di beneficiare della regolarizzazione sarà subordinata alla previa dichiarazione di rinuncia alla protezione internazionale

Nel silenzio della norma, che non prevede in alcun modo forme di estinzione, ovvero di rinuncia alla procedura od agli eventuali atti del procedimento giudiziario, dovremmo ritenere pienamente compatibile con l’istanza ex comma 1 la prosecuzione della procedura finalizzata al conseguimento dello speciale status giuridico richiesto, senza che a ciò possa opporsi la domanda di rilascio di un permesso per lavoro in luogo del permesso per “attesa protezione internazionale”, ciò che di per sé non impedirebbe la prosecuzione della procedura di protezione internazionale e l’eventuale successivo riconoscimento del diritto azionato con rilascio del corrispondente titolo di soggiorno. Né si potrebbe validamente obiettare che la struttura informatica della piattaforma Vestanet, per la gestione della posizione di soggiorno dei richiedenti protezione internazionale, non consentirebbe la “coesistenza” della procedura con il rilascio di soggiorno ad altro titolo[13], dal momento che ciò attiene soltanto ad una conformazione standardizzata della piattaforma, che certo non è di per sé atta a dirimere le questioni giuridiche.

Non si vuole certo omettere di considerare che la possibilità di stabilizzazione per motivi di lavoro dei richiedenti protezione internazionale potrebbe rappresentare un’opportunità di notevole deflazionamento del contenzioso amministrativo e giudiziario, oltre che di prevenire la ripopolazione delle sacche di sfruttamento, però non si può fare a meno di ricordare che l’eventuale imposizione della rinuncia alla domanda di protezione porrebbe gli interessati di fronte ad un bivio pericoloso, che potrebbe scoraggiarli e mantenere l’elevato contenzioso in corso: se infatti per qualche ragione – dipendente o meno dal datore di lavoro (v. infra) – la domanda venisse rigettata, risulterebbe definitivamente perduta la possibilità di esercitare il diritto soggettivo alla protezione internazionale. D’altra parte, va pure sottolineato l’evidente contrasto che si verrebbe a creare con l’intero quadro normativo del diritto di asilo, sia a livello costituzionale che comunitario, qualora si sostenesse l’incompatibilità della procedura in essere con la distinta procedura speciale di cui al comma 1.

L’estinzione o il mantenimento in atto della domanda di protezione internazionale non potrà dunque che essere rimessa ad una scelta libera e facoltativa dell’interessato all’esito della procedura di regolarizzazione, scelta che sarà essenzialmente determinata dalla sua valutazione sui rischi concreti in caso di ritorno anche temporaneo in patria e sulla possibilità di richiedere o meno assistenza presso la propria rappresentanza diplomatica, a partire dal rilascio del passaporto, ciò che vedremo essere un ostacolo diffusissimo e pressoché assorbente ai fini della regolarizzazione dei richiedenti la protezione internazionale.

5. Segue: gli “ex regolari”

Per quanto concerne invece gli “ex regolari”, quelli con «permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019», la prova della presenza sembra costituire un problema più attenuato poiché non si richiedono espressamente quelle prove rigorosissime stabilite per gli irregolari tout court, ma si dovrà vedere “quanto” e “come” tale onere di verifica sarà attenuato in base alle successive disposizioni di attuazione.

Sembra invece chiaro che possa valere per la richiesta di regolarizzazione qualsiasi tipologia di permesso scaduto. E’ Verosimile immaginare che negli intenti si pensasse essenzialmente ai richiedenti protezione internazionale, divenuti irregolari dal 31 ottobre a seguito dell’esito definitivamente negativo della procedura, od il cui permesso per “casi speciali” non sia stato convertito per mancanza di lavoro o di altri requisiti; tuttavia, in mancanza di specificazioni, non si potrà negare che qualsiasi altra tipologia di soggiorno scaduto debba essere considerata utilmente (ad es.: permesso unico per lavoro, attesa occupazione, per lavoro stagionale cure mediche, affido minore ex art. 31 T.U., motivi umanitari, studio, tirocinio, permessi ex artt. 27 e 27 quater T.U., ecc.).

Molti si sono chiesti cosa abbia voluto intendere il legislatore con l’espressione «scaduto dal 31 ottobre 2019», ovvero se ci si riferisca ai permessi scaduti “a partire dal 31 ottobre”, cioè “dopo”, od a quelli “già” scaduti alla data del 31 ottobre, essendo evidente che a seconda dei casi avremmo una potenziale platea di destinatari notevolmente diversa, soprattutto in termini quantitativi. Se, come pare, si dovesse interpretare nel senso di “scaduto dal 31 ottobre in poi” il campo di applicazione sarebbe di fatto ristretto solo all’esiguo numero di persone divenute definitivamente irregolari (escludendo peraltro l’esito positivo di domande di rinnovo o conversione proposte entro i 60 gg. successivi al 31 ottobre) nel breve intervallo di tempo dal 31 ottobre 2019 al 31 gennaio 2020, dovendosi considerare che i soggiorni scadenti dopo il 31 gennaio sono stati automaticamente prorogati dalle norme eccezionali dedicate alla pandemia[14]; per converso, se ci si riferisse ai permessi “già scaduti dal 31 ottobre 2019” potremmo considerare le molto più numerose posizioni degli stranieri divenuti irregolari prima di tale data, ovvero coloro che sono tuttora presenti sul territorio e che in un passato più o meno recente sono stati titolari di un permesso di soggiorno che non sono riusciti a rinnovare o convertire, spesso a causa della disoccupazione perdurante (concomitante col lavoro in nero), della scadenza del permesso stagionale (complice la mancata emanazione del c.d. decreto flussi) od anche per mancanza di una stabile o documentabile abitazione, oltre naturalmente alla folta schiera degli ex richiedenti protezione internazionale divenuti irregolari in questi anni di contenzioso massivo.

Ebbene, non si può francamente negare che l’espressione letterale "scaduto dal 31 ottobre 2019" possa plausibilmente intendersi come riferita ai permessi scaduti “dopo” tale data; tuttavia, se pensiamo a quella che dovrebbe essere la ratio della norma – la dichiarata volontà di far emergere il lavoro sommerso – sarebbe stato forse più logico pensare l’opposto [15].

Al riguardo non si potrà che attendere e sperare in un emendamento che ampli il campo di applicazione ai destinatari naturali della regolarizzazione, magari superando l’ulteriore limite “interno”, secondo cui la pregressa attività lavorativa da accertare rileverebbe utilmente solo se svolta nei settori di cui al comma 3, ciò che peraltro presenta possibili profili di illegittimità costituzionale: infatti, se anche ammettiamo che l’individuazione di settori di lavoro limitati in cui ammettere la regolarizzazione possa esprimere una scelta – per quanto molto discutibile nel merito – pur sempre rientrante nel potere discrezionale del legislatore (volgarmente traducibile nel “mettere in regola solo quelli che vanno a fare i lavori più ingrati e rifiutati dagli italiani”), non si vede con quale ragionevolezza e compatibilità, rispetto alla tutela costituzionale del lavoro, si possa sostenere la scelta di prescrivere, così come è testualmente prescritto dal comma 16, un accertamento istituzionale caso per caso del pregresso lavoro, per lo più in nero, limitandolo tuttavia solo a determinati settori merceologici, sostanzialmente discriminando a parità di tutte le altre condizioni tra le vittime di sfruttamento [16].

 6. L’ostacolo dei passaporti

Il legislatore non può non aver pensato che il potenziale “bacino d’utenza” della regolarizzazione è composto da moltissimi richiedenti la protezione internazionale: parte di questi ha tuttora un permesso di soggiorno in corso di validità nelle more del procedimento ma risulta oggettivamente interessata all’opportunità di regolarizzazione, ovvero a stabilizzare il proprio soggiorno evitando l’alto rischio statistico di un imminente diniego; altra parte, a seguito delle modifiche introdotte con dl 113 /2018, pur avendo proposto ricorso in cassazione avverso la decisione negativa del tribunale molti non beneficiano più del diritto di soggiorno; moltissimi altri ancora sono “ex richiedenti la protezione internazionale” la cui procedura ha dato un esito definitivamente negativo. Praticamente tutti sono accomunati dalla condizione di mancanza del passaporto all’arrivo in Italia, realtà certamente ben nota alle questure, ma ciò nonostante si è omesso di considerare l’oggettiva impossibilità di disporre di un passaporto entro gli strettissimi termini assegnati per l’inoltro delle istanze di regolarizzazione. Infatti, anche a prescindere dal conflitto che la domanda di rilascio alle proprie autorità diplomatiche comporterebbe rispetto ad una domanda di protezione ancora pendente, al pari dell’eventuale rientro in patria finalizzato al rilascio del passaporto[17], è notorio non solo che molte ambasciate non sono organizzate (a differenza del rinnovo) per il rilascio del passaporto ma che le autorità di molti paesi di provenienza, in specie di un’ampia quota dei richiedenti o ex richiedenti la protezione internazionale, attualmente non dispongono fisicamente di passaporti da rilasciare oppure, nella migliore delle ipotesi, invitano il proprio cittadino a rientrare in patria per provvedervi, mentre è chiaro che ciò risulterebbe sostanzialmente impossibile nelle more della regolarizzazione.

È fin troppo prevedibile, dunque, che tale mancanza costituirà un problema insormontabile (già a partire dall’impossibilità di indicazione nella domanda – che sarà verosimilmente informatizzata – del numero di passaporto quale campo obbligatorio di compilazione), di per sé determinante il drastico restringimento del campo di applicazione del campo di applicazione della regolarizzazione, a meno di specifiche disposizioni di attuazione atte a consentire la produzione del passaporto entro un termine successivo.

7. Ulteriori rischi della procedura e oneri connessi al contratto di soggiorno

La complessa ed articolata determinazione dei diversi requisiti di ammissibilità fin qui commentati è ovviamente destinata a tradursi in un complesso di attività di verifica in sede amministrativa e di modalità procedurali volte al perfezionamento della regolarizzazione, che prefigura una serie di “strettoie” ed una conseguente tempistica di smaltimento burocratico, pari se non anche superiore a quella ormai “tradizionale” delle precedenti sanatorie.

Lo sportello unico per l’immigrazione del luogo in cui si assume o si regolarizza il rapporto di lavoro dei «presenti sul territorio», cui rivolgere le istanze di cui al comma 1, dovrebbe interfacciarsi con le varie questure volta per volta in possesso delle relative informazioni, per acquisire i rilievi fotodattiloscopici, le dichiarazioni di presenza (in caso di necessità farne verificare la corrispondenza) e le altre prove della presenza, verificare l’insussistenza di motivi ostativi o di inammissibilità rispettivamente a carico del datore o del lavoratore; quindi, verificare il contratto di lavoro e la capacità economica del datore di lavoro interfacciandosi con l’ispettorato territoriale del lavoro (v. comma 15), infine convocare le parti per verificare l’assunzione e stipulare il contratto di soggiorno, formalizzando la domanda del permesso (spesso il rapporto sarà cessato nelle more e dovrà essere verificata l’iscrizione al centro per l’impiego); la questura provvederà poi ad ulteriore convocazione per fotosegnalazione di rito, acquisizione della documentazione alloggiativa e successiva decretazione del rilascio del permesso; resta poi ancora da vedere chi e come verificherà anche la perdurante permanenza sul territorio nazionale dopo l’8 marzo.  

Per gli “ex regolari”, invece, la domanda di permesso “temporaneo” va da loro stessi inoltrata alla questura, che dovrà verificare con modalità ancora da definire la presenza sul territorio nazionale alla data dell’8 marzo e la perdurante permanenza sul territorio, l’insussistenza di motivi di inammissibilità, quindi acquisire gli elementi informativi e documentali sui pregressi rapporti di lavoro, verosimilmente attendere l’esito della verifica al riguardo da parte dell’Ispettorato Nazionale del lavoro “cui l’istanza è altresì diretta” (v. comma 16) , verifica destinata ad un’attesa che non potrà certo essere di breve momento, se si considera che essa dovrebbe essere peculiarmente rivolta al lavoro nero o comunque irregolare, ciò che comporta un difficile e quantomeno complesso accertamento, richiedente tempi lunghi già in situazioni normali, che peraltro non è certo immune da contenzioso. Pensiamo infatti ai prevedibili quanto numerosi casi in cui fosse disconosciuto il rapporto di lavoro sostanzialmente denunciato dal lavoratore e questi chiedesse un accertamento giudiziale, ovvero alle opposizioni all’accertamento da parte del datore di lavoro: non si potrebbe certo impedire un’azione giudiziaria e nelle more sarebbe legittimo disporre la sospensione del procedimento e/o della determinazione negativa.

Quindi, entro sei mesi dal successivo rilascio del permesso “temporaneo” (che in pratica avverrà dopo moltissimo tempo dalla domanda di regolarizzazione), la questura dovrebbe – previa nuova prenotazione- esaminare la domanda di conversione per lavoro, verificando il contratto di soggiorno – in relazione ad un rapporto spesso cessato nel frattempo-- e l’assunzione effettiva, ovvero la sussistenza di cause di forza maggiore non imputabili al datore di lavoro che non vi abbia provveduto (v. comma 9), nonché l’iscrizione eventuale al centro per l’impiego e (perché no) di nuovo la documentazione sulla sistemazione alloggiativa, altamente soggetta a variazioni nel tempo.             

Vi è in questi percorsi un rischio che sembra quasi “voluto”, rappresentato dalla specifica previsione di automatico rigetto delle domande (v. comma 9) in caso di successiva mancata sottoscrizione del contratto di soggiorno da parte del datore di lavoro ovvero di mancata assunzione effettiva del lavoratore, salvo cause di forza maggiore. Si tratta infatti di due adempimenti ben distinti e tra loro ben distanti nel tempo per entrambe le ipotesi di regolarizzazione: nel caso dei «presenti sul territorio», mentre l’emersione del rapporto di lavoro già precedentemente in corso o, in alternativa, l’assunzione ex novo avvengono a partire dalla presentazione dell’istanza, quindi si dovrà attendere la convocazione presso lo sportello unico per la sottoscrizione del contratto di soggiorno; per gli “ex regolari”, invece, si dovrà attendere prima il rilascio del permesso di soggiorno temporaneo e quindi, a seguito dell’esibizione del contratto di lavoro, la convocazione presso lo sportello unico. In entrambi i casi ciò potrà avvenire solo a seguito delle macchinose verifiche rispettivamente prescritte, cui si è già accennato, il che comporterà tempi di attesa lunghissimi.

Nel frattempo si dovrebbe immaginare che gli interessati, essendo a ciò immediatamente abilitati a partire dall’inoltro della domanda (v. ultimo cpv. comma 6), abbiano svolto lecita attività lavorativa ma ciò non cambierebbe l’esito negativo della domanda a fronte della mancanza di collaborazione da parte del datore di lavoro: questi è certamente interessato a partecipare all’iter per beneficiare della prevista estinzione delle violazioni di legge quando fa “emergere” un pregresso rapporto, ma lo stesso non si può certo dire quando invece assume ex novo nell’ipotesi di cui al comma 1, come pure quando assume ex novo il titolare di permesso temporaneo di cui al comma 2; ciò per il semplice motivo che egli non ha da temere alcunché, non essendosi in tal modo “autodenunciato” per pregresse violazioni ed avendo comunque posto in essere all’atto dell’assunzione gli adempimenti di comunicazione obbligatoria (non sono infatti previste sanzioni di sorta a carico del datore di lavoro per la mancata sottoscrizione del contratto di soggiorno).

Da un punto di vista pratico, dobbiamo peraltro considerare come sarà ben difficile assistere a vere dichiarazioni di emersione (se non nei pochi casi di datori di lavoro già sottoposti a procedimento penale o ad accertamento ispettivo), essendo data ai datori di lavoro l’alternativa ben più vantaggiosa – quasi il suggerimento – di assumere ex novo, ciò che verosimilmente dovrebbe evitare non solo l’autodenuncia ma altresì il pagamento del contributo forfettario ancora da determinare di cui al secondo periodo del comma 7, poiché non essendovi responsabilità pregressa non si vede come legittimamente addebitare alcunché al datore di lavoro[18].

Il contributo per i “presenti sul territorio” di 500 € di cui al primo periodo dello stesso comma, stando all’attuale formulazione della norma, viene addebitato “per ciascun lavoratore”, lasciando intendere che esso debba essere pagato dal datore di lavoro all’atto dell’istanza e della contestuale emersione o – molto più facilmente – della costituzione di un rapporto di lavoro ex novo; tale interpretazione trova conforto nella diversa espressione utilizzata con riferimento agli “ex regolari”, per i quali il minor contributo di 130 € è espressamente previsto “a carico dell’interessato”. Lascia francamente perplessi l’imposizione di un contributo fisso e di un ulteriore contributo forfettario, quest’ultimo da determinare con successivo decreto, nei confronti di un datore di lavoro che si limiti ad assumere ex novo , ovvero che non confessi colpe pregresse, ad ogni buon conto si tratta di un dubbio molto teorico se si pensa che l’esperienza delle precedenti regolarizzazioni ha dimostrato come, di fatto, i costi della regolarizzazione sono stati quasi sempre addossati ai lavoratori, ancorché “ufficiosamente”. Ciò che più conta, dal punto di vista pratico, è che detti costi vanno affrontati immediatamente e che il successivo perfezionamento della regolarizzazione con la firma del contratto di soggiorno (salvi i casi di procedimenti pendenti a carico del medesimo datore di lavoro per l’impiego precedente del medesimo lavoratore) non costituirà necessariamente una priorità per il datore di lavoro.  

In altre parole, per varie ragioni non necessariamente commendevoli ma purtroppo facilmente immaginabili, il datore di lavoro potrebbe disinteressarsi al perfezionamento della regolarizzazione, senza subirne alcuna conseguenza. Potrebbe essere che il legislatore dalla memoria corta non si sia accorto di questa vera e propria falla: è infatti di già facilmente prevedibile, se la storia delle precedenti regolarizzazioni insegna qualcosa, che in moltissimi casi, oltre all’altro contributo forfettario rispettivamente di 500 e 130 Euro, il pagamento del contributo di cui al secondo periodo del comma 7, se non anche di ben maggiori importi per “rimborso spese”, sarà di fatto addebitato ai lavoratori quale condizione per l’avvio della domanda ex comma 1 o dell’assunzione ex comma 2. È altrettanto evidente, allora, che costituire una posizione chiaramente dominante del datore di lavoro, addirittura nella fase successiva all’inoltro dell’istanza, riconoscendogli un “potere” sostanzialmente arbitrario – in mancanza di cause di forza maggiore – di declinare puramente e semplicemente la firma del contratto di soggiorno, significherebbe offrire un’ulteriore occasione per pratiche estorsive, nonostante l’avvenuta prestazione lavorativa.

Certo non basta ad evitare abusi la previsione di salvezza della regolarizzazione qualora il datore non sottoscriva per impedimento causato da forza maggiore (trattasi peraltro di concetto di stretta interpretazione); al riguardo, si deve invece quantomeno ritenere che al lavoratore debba essere espressamente riconosciuto, come avvenuto nella precedente regolarizzazione del 2012[19], il diritto di presentarsi alla convocazione per far constare l’attività lavorativa effettivamente svolta e l’inadempimento del datore di quello che, in base alla ratio della norma speciale ed alla normativa generale del T.U., costituisce un preciso obbligo a suo carico (anche a prescindere dall’intervenuta cessazione del rapporto di lavoro).

8. Disposizioni di contrasto al lavoro sommerso ed allo sfruttamento

Quanto alle disposizioni di contrasto al lavoro sommerso ed allo sfruttamento, che ci si sarebbe potuto attendere da una norma espressamente rivolta al contrasto di tali fenomeni, il testo in esame mostra una preoccupante superficialità e scarsa coerenza. Al comma 18 si prevede infatti la nullità del contratto di soggiorno, con conseguente revoca del permesso, nel caso di istanza contenente dati non corrispondenti al vero (a quanto pare sia quella ex comma 1 e sia quella di conversione per l’ “ex regolare” di cui al comma 2), ma la formulazione non solo è così generica da poter comprendere dati di qualsiasi tipo – anche scarsamente rilevanti ma molto frequenti, come le imprecisioni nelle generalità o le difformi translitterazioni sui diversi documenti – ma addirittura suscettibile di rivolgersi contro il lavoratore a causa di falsità imputabili esclusivamente al datore di lavoro. Pensiamo ad esempio al caso non così astratto in cui il datore di lavoro dichiari una data di assunzione postuma, quindi falsa, a fronte della effettiva preesistenza del rapporto di lavoro che avrebbe dovuto (il condizionale è d’obbligo) essere dichiarata: ne dovrebbe conseguire la nullità ai danni del lavoratore, di fatto sanzionandolo per una violazione del datore di lavoro verso cui non ha certo interesse ad essere “complice”. Ad analoghe conclusioni, sempre in forza dell’attuale formulazione, si potrebbe pervenire con riferimento al caso, pure non infrequente, in cui il datore di lavoro dichiarasse un orario contrattuale part-time a fronte di una prestazione a tempo pieno (basterebbe ricordare che la regolarizzazione di colf e badanti del 2009 ha visto ben pochi contratti con orario superiore alle 25 ore settimanali, persino nei casi di assunzione in regime di convivenza per l’assistenza di persone non autosufficienti). Va poi ricordato che nei casi che ci occupano il contratto di soggiorno dovrà contenere espressamente – mediante compilazione del noto “modello Q” – la cd. dichiarazione di garanzia sulla disponibilità di alloggio idoneo, che specie nell’impiego in agricoltura rappresenta spesso, se non normalmente, una dichiarazione “pro forma” sulla cui veridicità si è voluto raramente indagare. A ben guardare, infatti, anche la frequentissima non corrispondenza al vero di tali dichiarazioni potrebbe annullare la regolarizzazione.

D’altra parte, è il caso di notare che la prevista sanzione di cui al comma 22 per le dichiarazioni fraudolente, rinviando all’art.76 del dPR n.445/2000, risulta semplicemente pleonastica, perché non introduce nulla di nuovo nell’ordinamento rispetto a quanto già dettato dall’art.483 c.p., né tantomeno prevede l’aumento della pena ivi prevista in considerazione di eventuali e prevedibili condotte mendaci del datore di lavoro, nemmeno qualora esse risultino chiari indicatori della volontà di occultare condizioni di sfruttamento. Mentre risulta chiaro, per converso, che a pagare cara l’eventuale verifica di tali falsità sarebbe il lavoratore, di fatto coartato ad una condotta omertosa.  

Peraltro, il comma 14 prevede nel caso di utilizzazione lavorativa irregolare successiva all’istanza di cui al comma 2 il raddoppio della c.d. “maxisanzione” amministrativa (art.3, co.3, dl. n.12/2002) e della sanzione di cui all’art.603 bis c.p., mentre nulla prevede per analoga condotta ai danni degli istanti di cui al comma 1, ciò che è di già curioso in quanto non si comprende il motivo di tale differenza di trattamento.

L’applicazione così selettiva di tali sanzioni “raddoppiate” appare peraltro alquanto improbabile: in primo luogo, infatti, la predetta “maxisanzione” non applicabile al lavoro domestico per espressa previsione normativa[20]; d’altra parte, essa è espressamente riferita ai soli casi di mancata comunicazione preventiva di instaurazione del rapporto di lavoro, non invece ai rapporti di lavoro “grigio”, come ad esempio nel caso frequentissimo di lavoratore stagionale agricolo di cui sia stata comunicata l’assunzione ma dichiarata solo una parte infima delle giornate lavorative effettive.

Per quanto attiene poi l’applicazione “raddoppiata” dell’art.603 bis c.p., anch’essa riguardante i soli "istanti di cui al comma 2", essa pare riferita alla sola fase dell’impiego occupato durante il soggiorno temporaneo e/o in occasione della domanda di conversione del permesso, ma non sembra troppo malizioso immaginare che sia alquanto difficile accertare lo sfruttamento in atto nelle more della regolarizzazione (se non pressoché impossibile in ambito domestico), quando il lavoratore dipende – come esposto poc’anzi – dalla disponibilità del datore alla firma del contratto di soggiorno. L’ispettorato del lavoro dovrebbe di già controllare i pregressi rapporti di lavoro irregolare su dimostrazione del lavoratore, ciò che comporterebbe una notevole mole di lavoro, sicché possiamo considerare poco probabile e non meno difficile una sistematica verifica ispettiva delle concrete condizioni di lavoro sui rapporti in corso.

Per il resto, il comma 20 si limita a prevedere del tutto genericamente, nell’ambito delle invariate risorse finanziarie delle Amministrazioni dello Stato e delle Regioni, "soluzioni e misure urgenti idonee a garantire la salubrità e la sicurezza delle condizioni alloggiative, nonché ulteriori interventi di contrasto del lavoro irregolare e del fenomeno del caporalato", mentre la previsione "per i predetti scopi" di utilizzo della Protezione civile e della Croce Rossa Italiana, da parte del Ministero del lavoro, si presenta evidentemente come una ipotetica risorsa assistenziale ma nemmeno lontanamente come mezzo di contrasto al caporalato e allo sfruttamento, date le ben diverse attribuzioni di tali enti, che non si vede come potrebbero assolvere a tali scopi.

È da notare, infine, che stiamo sempre attendendo che la Cabina di regia della rete del lavoro agricolo di qualità si avvalga della sua “nuova” attribuzione specificamente prevista dalla l. n.199/2016 sul contrasto al caporalato (v. comma 4 bis dell’art.6 dl. n.91/2014, introdotto dall’art. 8 della l. n.199/2016), ovvero provveda a formulare i previsti indici di coerenza del comportamento aziendale strettamente correlati alle caratteristiche della produzione agricola del territorio; questi, semmai, potrebbero costituire uno strumento utilissimo per il monitoraggio del mercato del lavoro in agricoltura e l’individuazione delle moltissime aziende che denunciano una quantità di giornate lavorative palesemente sproporzionata all’entità delle estensioni terriere ed alla tipologia di colture, ma forse sarebbe troppo facile.

 

 

[1] È noto che il cittadino comunitario può in qualsiasi momento regolarizzare la propria posizione di soggiorno a fronte della disponibilità di un reddito sufficiente e di una copertura per le prestazioni sanitarie, che vengono normalmente garantiti dall’assunzione. Quindi la casistica dei lavoratori italiano e comunitari interessati alla possibilità di “regolarizzazione” riguarda più che altro i loro datori di lavoro, che per lo più a seguito di accertamenti ispettivi potrebbero avere interesse a definire a stralcio le obbligazioni contributive e fiscali nonché le sanzioni amministrative pendenti per il pregresso.

[2] Per attività connesse si intendono quelle di trasformazione dei prodotti dell’agricoltura, della pesca e acquacoltura. Al riguardo, salvo interpretazioni estensive adottate con le consuete circolari, per l’identificazione delle attività connesse dobbiamo pensare alla definizione di cui all’art. 2135 cc., mentre dovrebbero essere escluse dall’ambito delle attività connesse le attività di trasformazione o commercializzazione svolte da imprenditori che non siano anche i produttori dei generi formanti oggetto della loro attività. Rientrano invece le cooperative o i consorzi di produttori agricoli, così come sembra poter rientrare nel campo di applicazione della regolarizzazione l’attività delle cd. “cooperative senza terra” che eseguono lavorazioni agricole in regime di appalto (al di là delle più o meno lecite condizioni di esecuzione dell’appalto).

[3] L’argomento non può essere qui approfondito, pur dovendosi quantomeno ricordare l’esistenza di ampia letteratura e reportistica anche istituzionale sul fenomeno dello sfruttamento in agricoltura, che ne mette in evidenza la diffusione non solo negli ambiti produttivi condizionati dai prezzi al massimo ribasso determinato dalla GDO (ad es.gli agrumi) ma anche nelle produzioni agricole (e vinicole) ad alto margine di valore aggiunto.

[4] D’altra parte, non sarà nemmeno difficile prevedere, lo insegna la sanatoria del 2009 per sole a colf e badanti, un’exploit di contratti “ad hoc” nei settori di attività di cui al comma 3, che risulteranno ancor più facilmente disponibili e lucrativi in agricoltura dove non mancano i faccendieri, magari contratti di lavoro stagionale per una manciata di giornate lavorative dichiarate, che per di più potranno provvidenzialmente “coprire” il concomitante impiego del bracciantato in condizioni di sfruttamento, cui ben difficilmente si rinuncerà.

[5] Lo conferma il fatto stesso che la norma preveda per tale categoria l’indicazione nell’istanza di cui al co.1 della durata del contratto di lavoro, oltre alla prevista possibilità di cessazione del rapporto di lavoro anche nel caso di contratto a carattere stagionale, con successiva iscrizione al centro per l’impiego.

[6] Contrariamente a quanto ancora sostenuto presso molti centri per l’impiego l’iscrizione può avvenire anche tramite il portale dell’ANPAL compilando la richiesta online, così come stabilito dagli artt. 19 e 20 d.lgs n.150/2015 (cfr. C. app. Venezia n.15 del 27.4.2020).

[7] Si tratta di un tipo di permesso “innominato” ma dichiaratamente “temporaneo” e non espressamente riconducibile alle tipologie elencate nel T.U., ciò che non mancherà di dar luogo a fin troppo prevedibili problemi per l’accesso ai servizi pubblici quali ad es. le asl o le anagrafi, solo ai fini dell’iscrizione al centro per l’impiego è previsto espressamente dal comma 16 che nelle more dell’istanza di cui al comma 2 l’attestazione della questura consente l’iscrizione.

[8] Non è qui il caso di ricordare con quanta “rudezza” e quale notoriamente triste efficacia le autorità dei paesi balcanici e macedoni provvedono a bloccare il transito dei profughi.

[9] Il monitoraggio del traffico passeggeri aeroportuale e portuale può essere comodamente eseguito in via telematica dalle questure.

[10] Così vengono definiti coloro che entrano regolarmente con un visto per soggiorno di breve durata o in regime di esenzione dal visto e che, sostanzialmente abusando del diritto all’ingresso e al soggiorno limitato così esercitato, decidono di trattenersi illegalmente sul territorio. Peraltro, la formulazione attuale della norma non prevede espressamente nemmeno la possibilità di provare la data di ingresso mediante il timbro apposto sul passaporto dalla polizia di frontiera, che comunque non sempre viene apposto.

[11] Lo stesso ragionamento potrebbe valere per i possessori di altre tipologie di soggiorno, non solo in relazione alla costituzione di un rapporto ex novo ma anche con particolare riguardo alla vera e propria emersione di rapporti di lavoro precedentemente instaurati – anche in forma apparentemente regolare – in violazione delle limitazioni imposte dal titolo di soggiorno posseduto, quindi rapporti irregolari Pensiamo ad es. all’impiego per mansioni non altamente qualificate di un titolare di soggiorno ex art.27 quater T.U., all’impiego a tempo indeterminato di un lavoratore abilitato al solo lavoro stagionale, all’impiego a tempo pieno di un titolare di permesso per studio, all’impiego di un titolare di permesso per motivi religiosi o per motivi di salute.

[12] Certamente meno numerosa ma non meno interessata alla possibilità di stabilizzazione risulta la categoria dei soggiornanti ex art.31 comma 3 T.U. a seguito di decisione del tribunale minorile, la cui possibilità di proseguire il soggiorno ed il lavoro regolare è legata ad una aleatoria determinazione di proroga dell’autorizzazione al soggiorno per “assistenza minore”.

[13] Ciò che invece già normalmente avviene per moltissimi minorenni, ai quali in corso di procedura viene rilasciato non già un permesso per “attesa protezione internazionale” bensì per “minore età”.

[14] V. l. n. 27 del 24 aprile 2020 di conversione del dl. n.18/2020. Pur in mancanza di una indicazione normativa sulla data entro cui devono essere scaduti i permessi per essere prorogati sino al 31 agosto dall'art. 83 comma 2 quater del dl. n.18/2020, si ritiene che possano rientrare in tale novero quantomeno quelli scaduti dopo il 31 gennaio 2020 (termine previsto dal dl. n.18/2020 ante conversione). In tali casi dal 31 agosto 2020 potrà essere fatto decorrere il termine fino a 60 gg per la richiesta di rinnovo/conversione (salvo i casi di conversione da studio a lavoro subordinato o da lavoro stagionale a lavoro subordinato non stagionale, in cui i termini devono ritenersi sospesi fino al 31 agosto).

[15] Avrebbe infatti consigliato di propendere per una scelta diversa anche la prescritta necessità di ulteriormente provare di “aver svolto attività di lavoro, nei (soli) settori di cui al comma 3, antecedentemente al 31 ottobre”, sembrando logico che tale verifica debba essere rivolta in particolare al lavoro in nero, altrimenti non si spiegherebbe lo specifico accertamento al riguardo demandato all’Ispettorato Nazionale del lavoro (v. comma 16) , mentre i pregressi rapporti regolari di lavoro possono essere acquisiti direttamente dalla questura e verificati telematicamente (come avviene normalmente per i rinnovi dei permessi di soggiorno). Se infatti l’intento è di far emergere i pregressi rapporti di lavoro nero (cessati e quindi non più regolarizzabili dai datori), per i quali la normativa generale imporrebbe comunque l’accertamento e l’applicazione delle sanzioni di legge, allora sarebbe stato più coerente rivolgere tale verifica al lavoro di coloro che hanno un soggiorno scaduto prima del 31 ottobre 2019 e magari da molto tempo, certamente più esposti al lavoro nero ed allo sfruttamento di chi abbia avuto un soggiorno valido sino a poco fa.

[16] Cfr. l’art. 9 Conv. O.I.L. n.143/1975: «Il lavoratore migrante deve, nei casi in cui detta legislazione non sia rispettata e in cui la propria posizione non possa essere regolarizzata, beneficiare, per sé stesso e per i familiari, della parità di trattamento per quanto riguarda i diritti derivanti da occupazioni anteriori, in fatto di retribuzione, di previdenza sociale e di altre facilitazioni. 2. In caso di contestazione dei diritti di cui al precedente paragrafo, il lavoratore deve avere la possibilità di far valere i propri diritti innanzi ad un ente competente sia personalmente, sia tramite suoi rappresentanti».

[17] V. art. 9 d.lgs n.251/2007, in cui fra le cause di cessazione dello status di protezione internazionale vengono considerati i casi di chi «a) si sia volontariamente avvalso di nuovo della protezione del Paese di cui ha la cittadinanza», laddove si può ricondurre a tale fattispecie anche la semplice richiesta di assistenza diplomatica costituita dal rilascio del passaporto, e di chi «b) si sia volontariamente ristabilito nel Paese che ha lasciato o in cui non ha fatto ritorno per timore di essere perseguitato».

[18] Va poi annotato che il comma 6, laddove demanda a successivo decreto interministeriale la definizione di un contributo forfettario, lo imputa a pagamento non solo delle somme dovute dal datore di lavoro a titolo contributivo e fiscale, ma anche a titolo <<retributivo>>… Dobbiamo immaginare si tratti di un “refuso” sopravvissuto ai vari “taglia e incolla” intercorsi in sede di sofferta elaborazione, dal momento che non si vede alcuna ragione per cui lo Stato sia legittimato ad introitare le differenze salariali dovute al lavoratore.

[19] L'art. 5 comma 11-bis del d.lgs 16 luglio 2012, n.109 (introdotto dall'art.9 comma 10 del dl. 28 giugno 2013 n.76, convertito dalla l. 9 agosto 2013 n.99), aveva disposto in occasione di tale regolarizzazione che «Nei casi in cui la dichiarazione di emersione sia rigettata per cause imputabili esclusivamente al datore di lavoro, previa verifica da parte dello sportello unico per l'immigrazione della sussistenza del rapporto di lavoro, dimostrata dal pagamento delle somme di cui al comma 5, e del requisito della presenza al 31 dicembre 2011 di cui al comma 1, al lavoratore viene rilasciato un permesso di soggiorno per attesa occupazione». Il senso di questa disposizione è stato chiarito dal Ministero dell'Interno con circolare del 10 luglio 2013, nella quale si è precisato: «nei casi in cui la dichiarazione di emersione sia rigettata per cause imputabili esclusivamente al datore di lavoro (…), la notifica di rigetto inviata al lavoratore verrà integrata dalla convocazione dello stesso presso lo Sportello Unico. Quest'ultimo ufficio, previa verifica dei pagamenti delle somme previste dall'art. 5 comma 5 del d.lgs n109 del 2012 consultabili sui citati elenchi forniti dall'INPS, e del requisito della presenza sul territorio nazionale al 31 dicembre 2011, provvederà al rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione a favore del lavoratore» (v. T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 03-02-2020, n.75). Nello stesso senso, sempre con riferimento al d.lgs n.109/2012, cfr. T.A.R. Toscana Firenze Sez. II, 10/04/2019, n. 537: «In materia di dichiarazione di emersione da lavoro irregolare il concetto di cause imputabili esclusivamente al datore di lavoro che consentono il rilascio comunque del permesso di soggiorno per attesa occupazione è da intendersi riferito ad alcuni comportamenti successivi (come la mancata presentazione alla sottoscrizione del contratto di soggiorno) e non ai comportamenti indispensabili per l'attivazione della procedura».

In senso contrario, invece, ma con riferimento alle diverse condizioni stabilite in occasione della regolarizzazione di colf e badanti di cui al dl 1° luglio 2009 n.78 conv. con l.102/2009, cfr.. C.d.S. sez. III, sentenza n. 524 del 25 gennaio 2018, secondo cui (ndr: in un caso di disconoscimento della proposta di emersione da parte del supposto datore di lavoro) «è dirimente considerare che la presentazione della dichiarazione di emersione di cui all'art. 1-ter del dl. 1 luglio 2009, n. 78….non dava avvio a un procedimento destinato a concludersi, una volta iniziato, anche contro la volontà delle parti...Non ha, pertanto, errato la Prefettura di Reggio Calabria nel ritenere che pure il formale disconoscimento della domanda di emersione, da parte della signora .., fosse un elemento sufficiente a dimostrare la mancanza del presupposto volontaristico, indispensabile per la definizione della relativa procedura... Non era, conseguentemente, necessario - stante il principio del divieto di aggravamento del procedimento - che la Prefettura si impegnasse in complesse indagini per stabilire se la signora .. avesse realmente inviato, o no, la dichiarazione di emersione».

[20] V. art. Art. 22, comma 1, d.lgs n.151/2015: «All'articolo 3 del dl. 22 febbraio 2002, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73, e successive modificazioni, il comma 3 è sostituito dai seguenti: 3. Ferma restando l'applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore, in caso di impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato, con la sola esclusione del datore di lavoro domestico, si applica altresì la sanzione amministrativa pecuniaria: …».(omissis”). Vedasi poi il comma 4 della stessa norma che prevede: «Le sanzioni di cui al comma 3 non trovano applicazione qualora, dagli adempimenti di carattere contributivo precedentemente assolti, si evidenzi comunque la volontà di non occultare il rapporto, anche se trattasi di differente qualificazione».

28/05/2020
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