Magistratura democratica
Europa

I sintomi di ieri e quelli di oggi

di Zoran Herceg
Pittore e giornalista
La guerra in Bosnia: individuare i sintomi di una follia del passato per essere consapevoli delle follie dell'oggi
I sintomi di ieri e quelli di oggi

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Le volte in cui qualcuno mi ha chiesto com'è iniziata la guerra in Bosnia sono davvero numerose.

E' una domanda che reputo del tutto comprensibile e legittima, a differenza di molte altre,  poste non soltanto a me ma anche ai miei amici. Nel corso degli studi all'accademia di Brera, ad esempio, un assistente aveva chiesto una volta a un mio coinquilino croato, di qualche anno più vecchio di me e reduce, nel vero senso della parola, di guerra, se avesse mai ammazzato qualcuno. Quella domanda, si comprende, non costituisce alcuno strumento utile per capire qualcosa del mondo che ci circonda, e infatti il mio coinquilino non si è nemmeno degnato di rispondere.

La domanda sul come precisamente è iniziata la guerra in Bosnia, invece, è di quelle utili. Permette, in condizioni ideali, di indagare sui sintomi di una tragedia evitabile. Quando dico evitabile intendo, in modo assoluto, una tragedia che si può impedire, a differenza di un terremoto oppure, in modo personale, evitabile scappando con la propria famiglia. Per come la vedo io, quindi, individuare i sintomi di una follia del passato potrebbe essere utile per porsi in modo più consapevole nei confronti delle follie del futuro. E dei sintomi di oggi.

Io stesso avevo fatto, da bambino, la domanda sull’inizio del conflitto, in questo caso la Seconda guerra mondiale, a mio nonno. Leggi razziali, divieti di ingresso nei negozi agli ebrei, ai serbi e ai cani, era la sua risposta. Magari un nipote croato o bosniaco avrebbe avuto una risposta diversa, ma questa è stata la mia. Sintomi, oggi storicizzati, che probabilmente non faremo fatica a individuare nell’epoca odierna, giusto?

La risposta che ho dato io tutte le volte è molto diversa da quella che mio nonno ha dato a me. Ho sempre detto, all'amico regista Daniele Gaglianone, all'amica scrittrice Margaret Mazzantini e a molti altri, che la guerra, per me, era iniziata in mezzo a una puntata dei Simpsons. Stavo seduto sul divano guardando la tv e a un certo punto la puntata dei Simpsons si interruppe per lasciare spazio alle immagini in diretta di una manifestazione popolare davanti al parlamento bosniaco. Manifestazione che sarebbe in seguito sfociata in una tragedia. 

A questo punto, dovrei forse fare qualche precisazione. La prima potrebbe sembrare banale e probabilmente lo saranno anche le altre. Nello scrivere questo testo, chissà per quale motivo, ho cercato, dopo tanto tempo, di fare mente locale su questo punto dell'inizio della guerra, e mi sono svincolato dal racconto che ne ho sempre fatto, fino a questo momento. A ripescare nei ricordi autentici, mi accorgo di avere finora sempre raccontato una bugia. Quel giorno, e in quel momento, la tv di Sarajevo non trasmetteva i Simpsons, ma i Robinson, quella sitcom con Bill Cosby. I Simpson saranno andati in onda il giorno prima, o in mattinata, ma non in quel momento lì. E allora perché li ho sempre nominati? Forse per dare un riferimento culturale non scontato, o per farmi apparire come un tredicenne avanti nei gusti, che non guardava certe amenità. Mi riprendo dunque adesso, da solo, per avere detto una non verità. E il punto è proprio questo: le testimonianze sono raramente del tutto attendibili. Anche per quanto riguarda le banalità come questa, figuriamoci gli aspetti più seri di una vicenda già serissima come quella della guerra. Fatto da tenere, forse, presente, non soltanto per quanto riguarda le mie, di testimonianze.

Altra precisazione: ho sempre parlato dell'interruzione di un programma di intrattenimento perché, per come la ricordo io, la guerra non è stata preceduta da nessun sintomo. Non dalle mie parti, il centro della città di Sarajevo, almeno. Certo, c'è stata la vittoria dei partiti nazionalisti alle elezioni politiche e, certo, ci sono stati degli incidenti, ma l'entità, la portata della cosa mi sfuggiva completamente. E non soltanto a me, ragazzino di tredici anni. Ricordo mia madre che diceva "se scoppia qua, scoppierà anche a Berlino e a Roma". Quello che, col senno di poi, oppure a un osservatore esterno, potrebbe sembrare la causa scatenante della guerra, ovvero la presenza di diversi gruppi etnici e religiosi sullo stesso territorio, per mia madre e per i suoi amici rappresentava un punto di forza, un'ancora di sicurezza. Viviamo qui tutti quanti assieme, chi vuoi che ci attacchi?

I sintomi, ancora una volta col senno in poi, in realtà ci sono stati, e diversi, ma nessuno di essi assomigliava a quelli raccontati da mio nonno, e questo mi ha fatto tirare in ballo i Simpsons, ma ero giovane e stupido, e volevo, forse, provocare. Ora che sono un artista e giornalista serio, devo fare un passo indietro.

Quando dicevo “nessun sintomo” intendevo “nessun divieto di ingresso in alcunché”. Nessun topo morto sulle scale d'ingresso del tuo palazzo, come nel romanzo di Camus ma, anzi, abbiamo assistito, in quel periodo, a un sano ed euforico permesso di esibire col orgoglio tutte le nostre differenze etniche, dopo il buio della repressione comunista. Sarebbe stato molto più facile capire la situazione e scappare in tempo (o forse addirittura contrastare la catastrofe)  se ci fossero stati dei bei cartelloni di divieto di ingresso agli ebrei e ai cani. Certo, non siamo stati del tutto sprovveduti o fissati ciecamente sui sintomi del passato. Avrebbero aiutato anche cartelli con musulmani, serbi o croati al posto degli ebrei.

I sintomi di una catastrofe, ora lo so, prendono la forma che si merita l'idiozia di ciascuno di noi. Si nascondono, anzi, dietro le nostre idiozie. E' facile ridere delle idiozie di cui sono oggi pieni i telegiornali in Bosnia (e forse anche da voi), ma siamo idioti (nel senso greco della parola) anche noi se non riconosciamo in quelle idiozie degli sintomi.

Prima della guerra, qualche scusa per essere miopi c'era: si viveva bene insieme, tanto per cominciare. Ora invece viviamo in tanti ovili parcellizzati. In Bosnia, si intende. Non voglio nemmeno soffermarmi sulle idiozie a cui ricorrono quotidianamente i nostri sei leader politici (guarda caso, lo stesso numero dei rappresentanti delle repubbliche jugoslave alla vigilia della guerra degli anni Novanta).

Per prendere alla leggera il fatto che i bambini in Bosnia frequentano oggi scuole etnicamente pulite non devi forse essere un idiota, ma essere stupidi e miopi aiuta. Se questo non basta per preparare oggi una valigia con i documenti e dieci cambi di biancheria, da tenere vicino a ogni porta della Bosnia, abbiamo anche qualcosa di storicizzato. Abbiamo infatti una bella costituzione, concordata nel corso degli accordi di pace di Dayton, di cui celebriamo in questi giorni l'anniversario, che reca la scritta: vietato l'ingresso nella presidenza tripartita agli ebrei e ai rom.

 

Zoran Herceg nasce a Sarajevo nel 1979.

Frequenta l'Accademia di belle arti di Brera, a Milano e si laurea nel 2006.

Attualmente è corrispondente da Sarajevo per un'agenzia di stampa italiana e ha lavorato anche come vignettista politico, saggista, designer e pubblicitario.

Crea installazioni e performance a Sarajevo e dipinge.

Ha partecipato al documentario "La guerra non ci sarà (Rata nece biti)" di Daniele Gaglianone, premio Donatello alla 27ma edizione del Torino film festival.

Ha collaborato alle trasmissioni Estovest, Levante e Mediterraneo della Rai. 

Sul documentario "La guerra non ci sarà" dove vediamo e ascoltiamo Zoran in un lunghissimo e travolgente monologo, si veda

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26/11/2013
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