Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

Due parole sull'appello penale

di Luigi Marini
consigliere Corte di Cassazione
Il dibattito che si è aperto sulla sentenza Dan c/ Moldavia della Cedu può essere occasione nel nostro Paese per una riflessione sul ruolo del giudizio di appello che costituisce oggi una sorta di imbuto per il processo penale
Due parole sull'appello penale

La non recente decisione Dan c/ Moldavia della Cedu non sembra seguita da nuove pronunce di segno identico.E così dobbiamo ritenere che per adesso non ci siano ragioni per desumere l'esistenza di principi e obblighi esportabili anche nel nostro sistema.

Del resto, in materia processuale, i particolari possono assumere un grande significato. Tuttavia, il dibattito che su quella sentenza si è aperto può essere occasione nel nostro Paese per una riflessione sul ruolo del giudizio di appello e le sue caratteristiche.

Mi pare evidente che la fase dell'appello costituisce oggi una sorta di imbuto per il processo penale, con una costante incapacità di fronteggiare i processi che arrivano e una grande difficoltà a rispondere in tempi ragionevoli.

Alcune corti reagiscono lasciando in secondo piano i processi a prescrizione breve o brevissima, che tanto non arriverebbero al traguardo, altre dando priorità ai processi semplici, che fanno statistica, e trattando con difficoltà i processi complessi.

In questo contesto, l'ipotesi di rinnovazione del dibattimento è considerata una iattura, più che una soluzione "eccezionale", come viene definita dalla corte di cassazione nell'interpretare l'art.603 c.p.p.

Eppure, vista dall'ottica della cassazione, non mancano i casi in cui la corte di appello dovrebbe colmare i vuoti probatori. Soprattutto quando intende modificare la decisione di assoluzione del primo giudice.

Qualche settimana fa abbiamo annullato una sentenza di appello che aveva condannato l'imputato su impugnazione del solo PM e lo aveva fatto dopo avere ritenuto tardiva la richiesta di rinnovazione del dibattimento avanzata dalla difesa in apertura di giudizio.

Peccato che la difesa chiedesse di sentire due testi a discarico che il primo giudice, evidentemente maturata la decisione di assolvere l'imputato, non aveva sentito, benché ammessi, perché non più necessari.

Con la nostra decisione abbiamo considerato che l'imputato, non appellante, era stato in tal modo condannato per la prima volta in appello dopo essere stato privato di prove da lui richieste e inizialmente ammesse.

Una violazione del diritto alla prova palese, che avrebbe richiesto al giudice di appello di superare eventuali questioni di forma e di provvedere anche d'ufficio a integrare le fonti.

È ovvio che la sessione Cedu va ben più in là di quanto da noi deciso e sembra imporre una totale coincidenza, quanto meno per le prove orali, fra il giudice che le assume e quello che decide.

È da tempo evidente che il sistema italiano ha caratteristiche ibride, con un processo di primo grado fondato su contraddittorio e immediatezza e un giudizio di appello cartolare e privo di coerenza di sistema.

L'altro giorno alla Scuola superiore durante il corso dedicato al rapporto fra merito e legittimità il tema della condanna in appello è stato molto dibattuto e le soluzioni via via proposte si sono scontrate con commenti che evidenziano come il numero di processi pendenti e le difficoltà di gestione impediscano di pensare allo svolgimento di un nuovo dibattimento in appello.

Molto meglio, si è detto, pensare a soluzioni diverse, come quella del rinvio del processo al tribunale per nuovo giudizio. Magari con decisione non più appellabile e con un giudizio di cassazione che non preveda più il vizio di motivazione che incide sul fatto.

Ancora una volta dobbiamo capire cosa fare e come farlo in attesa che qualcuno metta finalmente mano a un sistema di impugnazioni incoerente che non regge alla prova dei fatti.

17/04/2013
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