Magistratura democratica

Per l’indipendenza della magistratura. Sintesi degli interventi svolti al seminario promosso da “Appello Segre”, 10 febbraio 2025

di V.P. Grossi e E. Palomba (a cura di)

1. Roberto Zaccaria (presentazione)

Questo Seminario nasce con il nome prestigioso di “Appello Segre contro il premierato”, e si allarga presto al tema dell’autonomia differenziata, seguendo le due decisioni della Corte sulla legittimità e sull’ammissibilità. 

Ha sempre mantenuto un impianto sobrio nonostante gli oltre 140 partecipanti, in gran parte amministrativisti e giuspubblicisti, ma anche magistrati e giornalisti. 

La regola è quella di una riservatezza costantemente osservata sui contenuti. 

Le regole d’ingaggio sono strette. Ci scambiamo prevalentemente articoli e locandine di convegni sui temi costituzionali di attualità. 

L’oggetto della nostra attenzione si è allargato inevitabilmente a tutte le modifiche costituzionali espresse e anche a quegli interventi normativi che incidono pericolosamente sui principi costituzionali. In particolare, in tema di sicurezza e di immigrazione.

Questo è il secondo Seminario, molto snello, che organizziamo su temi di attualità. Il primo ha riguardato l’innesto tra i due decreti-legge: Paesi sicuri e flussi. 

La seconda iniziativa è quella di oggi. Il tema generale è quello della cd. riforma della magistratura. Abbiamo notizie molto fondate che questo ddl costituzionale cammini più rapidamente degli altri. Si potrebbe concludere l’iter costituzionale entro la fine dell’anno in corso e la data del referendum confermativo potrebbe collocarsi intorno alla primavera del 2026.

Nella prospettiva del referendum dovremo essere capaci di toccare le corde più sensibili dell’opinione pubblica. Il voto popolare in un referendum si basa generalmente su valori che dobbiamo saper leggere prima e bene. È inutile che vi sottolinei l’importanza dei mezzi d’informazione. Ma questa è un’altra storia.

 

2. Roberto Romboli (introduzione)

L’Autore si concentra sull’indipendenza esterna della magistratura, ambito sul quale la Costituente ha posto particolare attenzione nei propri lavori, configurando l’ordine giudiziario come autonomo e indipendente da ogni altro potere.

Un elemento centrale di questa autonomia è rappresentato dal Consiglio superiore della magistratura (Csm), al quale sono stati trasferiti i poteri precedentemente esercitati dal Governo tramite il Ministro della giustizia, con l’obiettivo di impedire qualsiasi condizionamento dell’indipendenza dei magistrati attraverso interventi sulle loro carriere.

Attorno al Csm si è sviluppato il modello italiano di ordinamento giudiziario, delineando un assetto che ha poi costituito un punto di riferimento per altri ordinamenti, come quello spagnolo.

Nell’attuale contesto storico, l’A. evidenzia due principali minacce per l’indipendenza della magistratura. Da un lato, le possibili ripercussioni della riforma costituzionale attualmente in fase di approvazione (AS 1353); dall’altro, il tentativo in atto di delegittimare la magistratura, pensando così di incidere sull’eventuale referendum costituzionale sulla riforma.

 

2.1. I contenuti della riforma e le sue criticità

L’A. rileva che, in contrasto con quanto affermato nella Relazione al disegno di legge di riforma costituzionale (oggi AS 1353), tale intervento normativo non si configura come un’attuazione dell’art. 111 Cost., sia perché l’attuazione delle norme costituzionali avviene di regola attraverso legge ordinaria, sia perché, in questo caso, si introduce una modifica profonda della Carta, con l’obiettivo di sopprimere il Csm nella forma in cui è attualmente concepito. Si tratta dell’organo attorno al quale si è strutturato il modello italiano di ordinamento giudiziario.

La riforma viene presentata dai suoi promotori come finalizzata alla separazione delle carriere, ma il suo impatto appare ben più ampio. La separazione delle carriere rappresenta infatti solo un aspetto marginale della riforma, che determina, in realtà, una frattura tra il pubblico ministero e la magistratura giudicante, con il rischio di un assoggettamento del primo al Governo. Inoltre, si rileva una confusione terminologica tra separazione delle funzioni e separazione delle carriere, concetti spesso utilizzati impropriamente come sinonimi.

Uno degli aspetti centrali della riforma riguarda l’istituzione di due distinti Consigli superiori della magistratura, rispettivamente per i magistrati giudicanti e per quelli requirenti. Concepiti come organi “del tutto sovrapponibili”, la loro separazione potrebbe generare criticità, soprattutto per quanto concerne l’attività consultiva. Rimane da chiarire se ciascun Consiglio sarà chiamato a esprimere un proprio parere autonomo o se verrà adottato un meccanismo di raccordo, simile a quello della “navetta” nel bicameralismo, al fine di armonizzare eventuali divergenze. Analoghe incertezze emergono con riferimento all’attività para-normativa e alla gestione interna dei due organi. L’A. ritiene preferibile la soluzione di un unico Csm strutturato in due sezioni, come suggerito, tra gli altri, da Nicolò Zanon e Cesare Pinelli.

Un ulteriore profilo critico della riforma riguarda la sottrazione della funzione disciplinare al Csm e il trasferimento delle relative competenze alla neo-istituita Alta Corte disciplinare. I promotori della riforma giustificano tale scelta con la necessità di superare l’eccessiva autoreferenzialità del sistema attuale e la presunta commistione tra funzioni giurisdizionali e amministrative all’interno del Csm. Tuttavia, l’istituzione dell’Alta Corte non sembra risolvere queste criticità, soprattutto in considerazione della sua composizione: il numero dei componenti chiamati a giudicare in materia disciplinare passa da 6 a 15, con una maggioranza ancora in mano alla componente togata (9 su 15), rendendo poco chiaro in che modo si intenda effettivamente superare il carattere “domestico” della giustizia disciplinare. Inoltre, possono farne parte esclusivamente magistrati che abbiano esercitato o esercitino funzioni di legittimità, escludendo i giudici di merito, il cui contributo, secondo l’esperienza diretta dell’A., risulta essenziale.

Ulteriori criticità emergono con riferimento alla natura stessa dell’Alta Corte, configurata come un giudice speciale esterno al Csm. Si pone, dunque, il problema della sua previsione esclusivamente per i magistrati appartenenti alla giurisdizione ordinaria e non anche per quelli appartenenti alle giurisdizioni speciali, quali il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, determinando un evidente profilo di illogicità.

L’Alta Corte, inoltre, esercita anche le funzioni di appello, e la riforma stabilisce che l’impugnazione possa avvenire «soltanto davanti allo stesso organo». Sebbene si tratti chiaramente di un collegio diverso, la previsione solleva interrogativi, in particolare sulla possibilità che l’unico grado di impugnazione sia riservato all’Alta Corte, con conseguente deroga all’art. 111, comma 6, Cost., e possibile esclusione del ricorso per Cassazione.

Un elemento di particolare rilevanza riguarda la selezione dei membri del Csm, con l’introduzione del sorteggio. La Costituzione, tuttavia, prevede espressamente un meccanismo di elezione, sia per i togati che per i laici.

L’elezione garantisce la rappresentazione del pluralismo delle posizioni culturali presenti nella magistratura, sia attraverso il voto dei magistrati stessi sia attraverso quello del Parlamento, evitando il rischio di un corporativismo. L’introduzione del sorteggio nel Consiglio superiore determina una frattura rispetto ai principi della democrazia rappresentativa, poiché il sorteggiato è estraneo al criterio di rappresentatività. Il Viceministro Sisto, nel presentare l’emendamento poi ritirato da Forza Italia, ha definito il sorteggio temperato per i laici come un principio «che per la democrazia rappresentativa può significare un punto di non ritorno».

Le valutazioni sul sorteggio sono state prevalentemente negative: Sergio Bartole lo ha definito un elemento «solipsistico», Nicolò Zanon lo ha qualificato come una «soluzione bizzarra», mentre Gaetano Silvestri ha affermato che «ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere», e Mauro Volpi ha evidenziato come esso produrrebbe un «esito affidato del tutto alla casualità». Di contro, Sabino Cassese ha sostenuto che il sorteggio garantirebbe pari opportunità a tutti i magistrati di far parte del Consiglio superiore della magistratura, contribuendo a restituire all’organo il suo ruolo di ponderazione, esame e valutazione delle carriere.

 

2.2. La delegittimazione della magistratura

L’A. analizza un ulteriore aspetto critico della riforma, ossia il rischio di delegittimazione della magistratura e della sua funzione. In questa prospettiva, evidenzia come una legge trovi la propria legittimazione nel fatto di essere emanata dal Parlamento, i cui membri sono eletti dal corpo elettorale, mentre una sentenza è rispettata non perché emessa da un soggetto investito di un mandato elettorale, ma in virtù dell’indipendenza, dell’imparzialità e della preparazione professionale del giudice che l’ha pronunciata. Mettere in discussione questo principio significa mettere in discussione la stessa legittimazione dell’organo giudicante, con la conseguenza che l’accettazione delle sue decisioni risulterebbe compromessa qualora venissero meno tali caratteristiche.

Nel ripercorrere le dinamiche di delegittimazione della magistratura nel corso del tempo, l’A. richiama il periodo del Governo Berlusconi, caratterizzato da un aperto conflitto tra potere politico e magistratura. In quel contesto, i magistrati vennero dipinti come un «cancro da estirpare» e accusati di essere tutti schierati politicamente, fino al punto di essere definiti «matti, mentalmente disturbati e antropologicamente diversi dalla razza umana». Tra le misure proposte in quegli anni si collocava anche l’introduzione di un test psicoattitudinale per i magistrati, che è stato poi, come noto effettivamente approvato e inserito in un decreto legislativo solo dopo che il Csm aveva espresso il suo parere, impedendo quindi al Consiglio di pronunciarsi su tale misura.

Attualmente, la delegittimazione della magistratura non si manifesta più come un attacco generalizzato all’organo in quanto tale, ma si concentra su singoli magistrati. La critica più ricorrente riguarda l’accusa di politicizzazione e il presunto tentativo, da parte della magistratura, di sostituirsi al legislatore. Tuttavia, tale accusa non viene rivolta in maniera indistinta a tutti i giudici. A tal proposito, il Ministro Musumeci ha dichiarato che a essere ideologizzata sarebbe solo una parte della magistratura, formata in specifici ambienti accademici e con un passato nella Federazione Giovanile Comunista Italiana.

L’A. riporta che un noto commentatore ha quantificato il numero dei magistrati politicizzati in circa 150 su un totale di 9000, suggerendo implicitamente che la grande maggioranza dei giudici, pari a 8850, si limiterebbe ad applicare la legge in modo serio e corretto. Tuttavia, l’A. richiama alcune vicende emblematiche che mettono in discussione tale narrazione. In particolare, ricorda il caso di Francesco Lo Voi, il quale, prima di pronunciare una certa decisione a tutti nota, sarebbe certamente stato inserito tra gli 8850 magistrati “buoni” – egli infatti era stato designato dal Governo Berlusconi come rappresentante italiano in Eurojust e iscritto alla corrente conservatrice di Magistratura Indipendente. È bastata una decisione non gradita al Governo per farlo immediatamente transitare tra i “giudici politicizzati”. Episodi analoghi hanno riguardato Marco Gattuso e Iolanda Apostolico, dimostrando come l’etichetta di politicizzazione venga spesso attribuita in modo strumentale e sulla base del fatto che il dispositivo (senza neppure leggere la motivazione) sia in linea o meno con l’indirizzo governativo.

L’A. rileva, inoltre, che la delegittimazione della magistratura sembra assumere una valenza strategica in previsione di una futura campagna elettorale per il referendum costituzionale. In questo senso, appare significativa la dichiarazione del Ministro Nordio, secondo cui la magistratura godrebbe soltanto del 30% della fiducia dei cittadini. L’A. critica l’atteggiamento del Ministro della giustizia, che sembra compiacersi di questo dato anziché preoccuparsi di intervenire per migliorare il funzionamento dell’apparato giudiziario.

Un’ulteriore considerazione riguarda l’efficacia della riforma rispetto alle problematiche reali del sistema giudiziario. Evidenzia l’A. come la riforma non offra soluzioni concrete ai problemi strutturali della giustizia italiana, primo fra tutti la lentezza dei processi. A suo avviso, si tratta di una riforma che lascia ampi spazi alla legge di attuazione (per molti versi una sorta di scatola vuota), dal momento che il contenuto reale dipenderà in larga misura dalle modalità con cui sarà attuata. Tra gli aspetti che richiederanno un intervento urgente, egli menziona la necessità di riscrivere l’ordinamento giudiziario, di disciplinare le modalità di svolgimento dei concorsi per l’accesso alla magistratura requirente e giudicante, nonché di definire il numero e i requisiti dei componenti dei due Consigli superiori della Magistratura.

 

3. Edmondo Bruti Liberati

Nei titoli di diversi quotidiani ricorre lo “scontro” tra politica e magistratura, spesso, negli ultimi giorni, accomunando tre vicende che debbono invece rimanere ben distinte: 1) provvedimenti di giudici su immigrazione; 2) caso Almasri/Corte penale internazionale; 3) riforma sulla separazione delle carriere.

1) Non scontro, ma insofferenza per il merito dei provvedimenti adottati in tema immigrazione da magistrati indipendenti, in questo caso giudici, non pm. Attacco personale ai giudici, tutte toghe rosse nonostante siano ormai intervenuti numerosi giudici e anche la Cassazione, mutamento di competenza con un’inedita corte di appello come giudice democratico.

2) Abbiamo visto di tutto. Messaggio sui social della Presidente del Consiglio con inelegante attacco personale al Procuratore Lo Voi e riferimento fuorviante all’avviso di garanzia. Maldestre acrobazie del Ministro Nordio. Dapprima tenta di trincerarsi dietro il provvedimento della Corte di appello di Roma, quindi, in Parlamento, si attribuisce una valutazione del merito del provvedimento della Cpi che gli è preclusa. Ma infine, ammettendo la sua interlocuzione «con altri organi dello Stato», ha palesato che la scelta di non rispondere alla Corte di appello è stata dettata dalla considerazione, da parte del Governo, dell’«interesse nazionale». Se questa tardiva assunzione di responsabilità politica può aprire la strada al Tribunale dei ministri anche per una archiviazione diretta delle ipotesi penali, rimane l’inadempimento dell’«obbligo generale di cooperare» previsto dall’art. 86 di quello Statuto di Roma cui siamo vincolati. Non basta: si è addirittura tentato di rovesciare la situazione con un attacco a tutto campo alla Corte penale internazionale. Colpisce che, sul Messaggero del 10 febbraio [data che coincide con quella del presente intervento - ndr], Sabino Cassese affermi che, in questa fase pre-trial, «ovviamente lo Stato ha anche una certa discrezionalità», e ancora, sulla Cpi: «un organismo che non si è ancora sufficientemente radicato nel diritto e nella prassi internazionale».

3) Il Ministro degli esteri e Vicepremier Antonio Tajani, parlando di «Proditorio attacco al Governo attuato da quella magistratura che non tollera che ci sia una riforma della giustizia», ha introdotto un collegamento con la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere. In molte democrazie la separazione è netta, con sistemi molto diversi tra loro. Ma in tutte è prevista, in forma più o meno penetrante, un’influenza dell’Esecutivo sull’organo di indagine e di accusa, che peraltro è esercitata con rigoroso self restraint. E, quando ciò non avviene – come nel caso dell’Ungheria –, è lo stesso Stato di diritto che entra in crisi. 

Gli esponenti del Governo rassicurano sull’indipendenza del pm, ma si apre di fatto un’autostrada al ripristino di un’influenza dell’esecutivo sul pm. Iniziative di pm, ma anche decisioni di giudicanti sono definite «abnormi» da parte del Ministro della giustizia e accusate, da parte di esponenti governativi al massimo livello, di non adeguarsi al «mandato ricevuto dai cittadini». Per ora sono valutazioni, talora invettive. Domani potrebbero essere direttive.

Qui e oggi ci dobbiamo confrontare non con una delle possibili articolazioni della separazione delle carriere, ma con il ddl n. 1917 Meloni/Nordio: radicale riscrittura del sistema di governo della magistratura e dell’equilibrio tra i poteri dello Stato previsto dalla Costituzione del 1948. Presentata come dogma, non ammette discussioni o distinguo, e infatti il testo è “blindato”. 

Due distinti Csm... Parte notevole dell’attività riguarda la magistratura nel suo insieme: proposte di riforma, pareri, ma soprattutto quotidianità dei provvedimenti sull’organizzazione della macchina giudiziaria. Come valutare il progetto organizzativo di una procura senza coordinarlo con quello del tribunale? E che sarà della Scuola superiore della magistratura, ove oggi, nei corsi di formazione e di aggiornamento, pm e giudici siedono fianco a fianco? 

Si mantiene per i due Csm la proporzione 1/3 laici e 2/3 togati, ma il sorteggio è “temperato” per i laici, “secco” per i togati. Una legittimazione più “forte” per i laici e più “debole” per i togati. Il Parlamento, dichiarandosi incapace di nominare i togati, si auto-umilia sia pure “temperatamente”. I magistrati sono seccamente delegittimati.

Ma gestire il corpo giudiziario e la sua organizzazione è cosa diversa dal giudicare e dall’investigare. Uno non vale uno. La realtà ci mostra capi di ufficio ottimi giuristi e ottimi organizzatori, ma anche il caso di ottimi giuristi e disastrosi organizzatori.

Per fare la guerra alle “correnti” si affida alla sorte la composizione di organi che, seppur stravolti, rimangono di “rilevanza costituzionale”, tanto da essere presieduti dal Capo dello Stato, e che manterranno un ruolo centrale nell’organizzazione del ruolo giudiziario. Con quali benefici per la funzionalità del sistema giustizia sia l’affidarsi alla sorte è facile immaginare.

L’istituzione di un’Alta Corte disciplinare per la sola magistratura ordinaria sarebbe giustificata dal lassismo dell’attuale “giustizia domestica” del Csm. Non è così. I numeri sui provvedimenti adottati nel 2024 confermano il particolare rigore che già emergeva dalle statistiche dell’anno precedente. Delle 24 pronunzie di sanzioni, la maggioranza riguarda le tipologie di sanzioni più severe: ammonimenti 0, censura 10, perdita di anzianità 8, rimozioni 2. La sanzione massima, espulsione dall’ordine giudiziario, è stata pronunciata in 2 casi. Ma si devono aggiungere 8 decisioni di «non doversi procedere» basate sulla cessata appartenenza del magistrato all’ordine giudiziario: si tratta di dimissioni volontarie anticipate a seguito di apertura del procedimento disciplinare, quasi sempre a fronte di addebiti gravi. Questi 10 casi in totale (su circa 9000 magistrati in servizio), uniti all’applicazione prevalente delle sanzioni più gravi, attestano il rigore del sistema disciplinare del Csm. Si devono aggiungere, poi, 4 casi di sospensione dalle funzioni, misura cautelare applicata per gli addebiti più gravi e che, ferma la presunzione di innocenza che potrebbe portare nel giudizio di merito anche al proscioglimento, in molti casi si conclude con l’applicazione delle sanzioni più gravi. Naturalmente vi sono state anche pronunzie di assoluzione: una percentuale “fisiologica”, a meno che per il giudice disciplinare debba valere il principio di accogliere tutte le richieste dell’accusa.

L’iniziativa per il procedimento disciplinare è attribuita al Ministro della giustizia e al Procuratore generale della Cassazione: le iniziative del Ministro, che pure dispone per le indagini dell’Ispettorato generale e che, nelle sue frequenti esternazioni, addita le “malefatte” dei magistrati, sono state nel 2024 il 33.8%, un terzo del totale. Il Ministro smentisce se stesso.

Alle particolari garanzie di cui godono i magistrati deve corrispondere il livello professionale ed etico più elevato, ma non vi è dubbio che la giustizia disciplinare del Csm produce un rigore nemmeno lontanamente paragonabile a quello di altre giurisdizioni disciplinari. La dizione “giurisdizione domestica”, spesso usata con accento polemico, è in realtà caratteristica tipica dei sistemi disciplinari. Le norme disciplinari sono stabilite di regola per legge, ma si ritiene che l’applicazione nei casi specifici debba essere attribuita a un’istanza dello stesso corpo che, da un lato, conosce le dinamiche concrete di quell’organismo e, dall’altro, ha interesse a tutelare l’elevato livello professionale ed etico del corpo. La Costituzione, innovando sulla tradizione che prevedeva come giudici disciplinari istanze della stessa magistratura (corte di appello, Corte di cassazione), attribuendo tale funzione a un Csm in composizione mista, ha attenuato il carattere di giustizia domestica.

Questa blindata riforma sulla separazione delle carriere, alquanto sgangherata nella sua articolazione, costituisce – come dicevo – una radicale riscrittura del sistema di governo della magistratura e dell’equilibrio tra i poteri dello Stato previsto dalla Costituzione del 1948. E ciò avviene in un contesto di esibita e proclamata insofferenza di esponenti di governo a fronte di decisioni non gradite di giudici e pm. 

Dovrebbero misurarsi su questo non eludibile nodo anche quegli studiosi, in particolare processual-penalisti, che si trincerano dietro la pretesa ineluttabilità della separazione una volta adottato un codice di procedura penale di tipo accusatorio. Mai come ora, lo dico in questo contesto accademico, ci si aspetta che i “chierici” svolgano il loro ruolo.

Infine, un cenno all’eventuale referendum. È lo stesso Ministro della giustizia ad auspicare che in Parlamento non si realizzi la maggioranza dei 2/3 e si vada al referendum: «la vittoria al referendum sulle carriere dei magistrati sarà a portata di mano se la comunicazione politica verrà affidata a una semplice domanda: “Siete contenti, cari cittadini, di com’è oggi la magistratura? Se non lo siete votate sì al referendum confermativo»[1]. Più che un referendum un plebiscito proposto su un quesito tendenzioso.

 

4. Mauro Volpi

La cd. “riforma della giustizia”, già approvata dalla Camera, va inserita in un contesto caratterizzato da un attacco frontale del Governo e della maggioranza alla magistratura e a singoli magistrati, accusati di disapplicare gli atti normativi italiani in contrasto con quelli europei o di osservare la legge costituzionale n. 1/1989 sui reati ministeriali, e dal tentativo ripetuto di avere magistrati à la carte, che siano compiacenti nei confronti dei provvedimenti governativi.

Il ddl costituzionale è stato preceduto ed è accompagnato da leggi e ddl ordinari che esprimono una linea repressiva e panpenalista, e ledono la garanzia di diritti fondamentali, in particolare di quelli che costituiscono l’espressione del dissenso e della protesta.

Il metodo seguito prevede un’approvazione rapida della riforma (secondo il Ministro Nordio, entro l’estate 2025), che in pratica escluderebbe la possibilità di apportare emendamenti (anche di maggioranza) e dimostra la volontà di non avere nessun effettivo confronto né con l’opposizione né con la magistratura.

Nel merito, il ddl non dà nessuna risposta ai problemi reali della giustizia, a cominciare da quello della eccessiva durata dei processi. La separazione delle carriere proposta ha un’impronta fortemente ideologica, a fronte di dati che attestano l’esistenza, da anni, di una forte separazione delle funzioni e la non sudditanza dei giudici nei confronti dei pubblici ministeri. Il rischio derivante dalla separazione dei pm dai giudici e dalla cultura della giurisdizione è che tendano a trasformarsi in un corpo di superpoliziotti, che avrebbe a propria disposizione un Consiglio superiore nel quale sarebbero maggioranza (mentre nel Csm attuale sono 5 su 30 magistrati elettivi). L’approdo naturale sarebbe la loro subordinazione al Governo e alle direttive ministeriali.

Il modello disegnato dalla Costituzione viene stravolto con un Consiglio spaccato in due, privato della rappresentatività, garanzia del pluralismo, e della potestà disciplinare.

Quanto all’Alta Corte disciplinare, anche qui i dati dimostrano che non c’è buonismo nelle decisioni della sezione disciplinare del Csm, e che il numero dei procedimenti disciplinari è di gran lunga superiore a quelli che riguardano altre categorie di dipendenti pubblici e gli ordini professionali. L’ipotesi, ventilata in passato, di un’Alta Corte come giudice di appello per le decisioni in materia disciplinare competente per tutte le magistrature, richiederebbe – quanto meno – che fosse predisposto un codice deontologico comune.

L’opposizione al ddl Nordio va fatta in difesa dell’indipendenza della magistratura e mettendo l’accento sulla tutela dei diritti fondamentali sanciti nella Costituzione.

 

5. Giovanna De Minico

L’Autrice apre il suo intervento con uno slogan che sintetizza i tratti essenziali del ddl di riforma costituzionale (AS 1353): «Separare le carriere per concentrare i poteri». 

Quindi, spiega l’espressione: separare le carriere è l’obiettivo immediato della riforma, mentre il fine ultimo, intravisto sullo sfondo, è un processo diretto a sintetizzare poteri un tempo diffusi. In linea con le osservazioni di Roberto Romboli, l’A. teme che i pm distinti dai giudici possano diventare dei giganti dal corpo snello, perché esigui nel numero, robusti nella rinnovata professionalità e iperprotetti da un proprio autogoverno, fatto di togati di esclusiva derivazione requirente, e come tale più propenso a tutelarli rispetto a un Csm a composizione togata eterogenea. 

Inoltre, l’A. sottolinea che, benché la riforma mantenga inalterato l’articolo 109 Cost., e quindi la disponibilità alla magistratura della polizia giudiziaria, sarebbe innegabile un’attrazione di fatto dell’intera attività probatoria nelle mani del pm. Ne conseguirebbe che, nella successiva fase giudiziale di presentazione delle prove innanzi alla magistratura giudicante, le stesse sarebbero considerate un dato già compiuto, simile a “un pacco con un fiocco”, il cui nodo sarebbe difficile da sciogliere. 

L’accresciuta forza del pm dipenderebbe non solo dalla creazione di un suo Csm, ma anche dalla definizione di un’inedita posizione processuale, distinta e atipica al punto che la tradizionale concezione di un organo giudicante imparziale, equidistante tanto dall’accusa quanto dalla difesa, verrebbe meno a favore di un sostanziale rovesciamento di ruoli ed effetti. 

L’A. legge in questa inversione “a U” di prospettiva l’effetto finale della riforma, cioè l’attribuzione al pm di una forza soverchiante.

De Minico traccia una linea di continuità sostanziale tra l’attuale ddl costituzionale sulla giustizia e l’AC 4275 di rev. cost., presentato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (XVI Legislatura, 7 aprile 2011), al quale il primo si ispira. Con la differenza fondamentale che nella riforma “madre” la separazione delle carriere comportava una più evidente attrazione del pm nell’alveo dell’Esecutivo, mutando da obbligatoria a discrezionale l’azione penale. 

Nell’attuale disegno di legge di riforma costituzionale (AS 1353), tale slittamento non è immediato e diretto perché è formalmente mantenuta la vincolatività dell’azione penale. Tuttavia, secondo l’A., sarebbe difficile immaginare che un pm con poteri così ampi resti a lungo “acefalo”, cioè privo di una guida, mentre questo vertice di riferimento potrà essere facilmente individuato nell’Esecutivo.

Da qui la ratio dello slogan iniziale: “separare le carriere per concentrare i poteri”.

Secondo l’A., la suddivisione dell’attuale Csm unitario in due distinti autogoverni (uno per i magistrati giudicanti e l’altro per i requirenti) rappresenta un obiettivo ulteriore e secondario rispetto al primo. 

Tale previsione rimane critica sia per il profilo genetico che funzionale.

1) Profilo genetico. Si ricorda che ogni organo di autogoverno si può definire tale solo se è in grado di esprimere la sua base associativa, la quale a sua volta, votando, sceglie coloro che offrono maggiori garanzie di capacità nella cura futura dei propri interessi. Ebbene, nella riforma questa proiezione soggettiva viene meno perché la sorte si sostituirebbe al voto, rimettendo alla Dea bendata la pesca non dei migliori e dei più adatti, ma unicamente dei più fortunati, avendo negato a ciascun magistrato la possibilità di scegliere tra i suoi pari chi più lo convince per esperienza, capacità e consonanza di idee. L’A. si chiede perché i magistrati, ritenuti idonei a pronunciare condanne all’ergastolo, sarebbero poi incapaci quando si tratta di eleggere un componente del Csm.

2) Profilo funzionale. Ad avviso dell’A., un Csm diviso non sarebbe in grado di rendere una funzione unitaria, e questa sua debolezza si rifletterebbe in un grave difetto di imparzialità e di autonomia del potere giudiziario.

L’Autrice dedica un’ultima riflessione all’Alta Corte, organo di nuova istituzione dalla composizione peculiare, destinataria esclusiva di un potere disciplinare verso giudici e pm, sottratto al sindacato della Corte di cassazione. Il testo del ddl prevede, infatti, l’espressione «soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte» in relazione al regime di impugnazione delle sentenze emesse da quest’organo, il che viola il dettato dell’art. 111, comma 6, Cost., nella parte in cui prescrive il principio assoluto della ricorribilità in Cassazione di ogni provvedimento limitativo delle libertà – categoria, questa, alla quale apparterrebbero anche le pronunce disciplinari in oggetto. Rimane senza risposta la domanda del perché creare l’Alta Corte se la sua necessaria indipendenza sarebbe già stata recuperata dalla duplicazione dei Csm, entrambi non più inquinati dalla coincidenza soggettiva rappresentante/rappresentato, vista la non elettività del secondo, individuato per sorte. Al momento, manca la ragione giustificativa della deroga al divieto costituzionale di creare un nuovo giudice speciale. 

Infine, l’A. contesta che la riforma non abbia finora rispettato nella sostanza la procedura dell’art. 138 Cost., poiché il testo del ddl è uscito dall’Aula di Montecitorio così come è entrato in I Commissione, cioè i parlamentari non hanno di fatto modificato il testo normativo, il che ha reso la prima lettura un’anticipazione della seconda, cioè una pacata riflessione, a distanza di tempo, sull’opportunità di addivenire alle modifiche costituzionali consegnate nel primo accordo. Ma questo sincopare il momento decisorio del 138 per ordini dalle segreterie di partito è uno strappo alla democraticità che neppure una revisione costituzionale è in potere di fare. 

L’A. attende gli sviluppi della riforma auspicando la proposta di un referendum costituzionale, in modo da consentire una battaglia politico-culturale volta a recuperare la separazione dei poteri.

 

6. Dario Scaletta

L’Autore dichiara di condividere la quasi totalità delle argomentazioni che sono state spese nel corso dell’incontro e, in particolar modo, le osservazioni riguardanti l’Alta Corte, il sorteggio e la separazione delle carriere. 

Inoltre, condivide pienamente quanto affermato da Roberto Romboli, che ha individuato come tema centrale la necessità di garantire e preservare l’indipendenza esterna della magistratura in ossequio al principio della separazione dei poteri. 

Riprendendo una provocazione di un noto commentatore, l’A. evidenzia come, «per effetto della separazione delle carriere si passerebbe da una tripartizione di poteri ad una quadripartizione di poteri». Questo perché, separando la funzione giudicante da quella requirente (inclusi i relativi organi di autogoverno) e promettendo al contempo di garantire al pm la medesima autonomia e indipendenza attualmente riconosciute all’intero ordine giudiziario, inevitabilmente si pone il problema di verificare come tale potere venga effettivamente declinato.

L’A. sottolinea, inoltre, come il riferimento ad altri ordinamenti europei e internazionali che hanno adottato la separazione delle carriere all’interno dell’ordine giudiziario non risulti pienamente coerente, poiché in tutti questi casi il pm è stato sottoposto, direttamente o indirettamente, al controllo del potere politico. Nel contesto del nostro ordinamento, quindi, potrebbe emergere in maniera immediata un problema di responsabilità del pm. Ad avviso dell’A., dunque, il passo successivo post-riforma non 0potrebbe che essere sottoporre il pm al controllo diretto o indiretto del potere esecutivo, frammentando così uno dei principi fondamentali del nostro assetto costituzionale, ovvero il principio di separazione dei poteri.

L’A. invita a riflettere non solo sulle possibili future conseguenze della riforma, ma anche sull’attuale ruolo e funzione svolti dal pm. Sebbene non si possa negare l’esistenza di alcune storture e criticità nell’esercizio della funzione requirente, l’A. sostiene che la separazione delle carriere non ne rappresenti la soluzione. A suo avviso, è necessario individuare altre soluzioni a livello normativo e processuale. 

Inoltre, partendo dalla propria esperienza di pm, l’A. evidenzia un ulteriore aspetto critico della riforma: la separazione delle carriere potrebbe produrre come effetto immediato la riduzione delle garanzie per il cittadino. La proposta di un pm concepito come “avvocato dell’accusa” non solo lo distanzierebbe fisicamente dall’organo giudicante, ma lo allontanerebbe anche dalla “cultura della giurisdizione”, privandolo del proprio fondamentale ruolo di organo di garanzia e di tutela dei diritti di libertà del cittadino.

Attualmente, infatti, soprattutto nella fase delle indagini, il pm è l’unico organo chiamato a svolgere il ruolo di garanzia e di tutela dei diritti di libertà delle persone, proprio in ragione della sua funzione di magistrato e della prospettiva di un eventuale futuro giudizio.

L’A. riprende un esempio concreto: se la polizia giudiziaria (pg) compie una perquisizione, è il pm che verifica, attraverso la convalida, se tale atto invasivo e limitativo della libertà personale è stato eseguito nel rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale. Analogamente, quando la pg propone di intercettare determinati soggetti, il pm deve verificare se effettivamente sussistano tutti i presupposti normativi per giustificare tale attività, fortemente compressiva del diritto alla riservatezza e della libertà individuale, in ragione delle esigenze investigative.

L’A. avverte che, qualora si procedesse alla separazione delle carriere della magistratura e si allontanasse il pm dalla “cultura della giurisdizione”, quest’ultimo assumerà sempre più spesso le vesti di “superpoliziotto” o “avvocato dell’accusa” e sarà sempre più incline a sostenere la prospettiva della pg rispetto a quella del giudizio, con conseguente danno per la tutela dei diritti di libertà dei cittadini.

In conclusione, l’A. ritiene che la separazione delle carriere non risolva i problemi di parzialità e di eccessiva discrezionalità del pm nell’esercizio dell’azione penale, denunciati dai sostenitori della riforma, ma sollecita la proposizione di soluzioni alternative volte ad affrontare e risolvere tali criticità.

 

7. Federico Sorrentino

L’Autore riprende la Relazione che accompagna il disegno di legge costituzionale sulla giustizia, evidenziando come essa sembri suggerire che la ratio della riforma e la separazione delle carriere all’interno dell’ordine giudiziario discendano direttamente dal principio del giusto processo. Partendo dal presupposto che tale principio sia già sancito nell’attuale quadro costituzionale, l’A. si interroga sulle ragioni di un’insistenza così marcata nel promuovere la riforma, chiedendosi quali effettive novità essa introdurrebbe, al di là dell’istituzione di due distinti Consigli superiori della magistratura (uno per la magistratura requirente e uno per la magistratura giudicante) e dell’introduzione del meccanismo del sorteggio.

L’A. affronta, quindi, quello che ritiene essere l’aspetto più delicato della riforma in esame: le disposizioni riguardanti l′Alta Corte e i profili disciplinari. Egli condivide le posizioni di quanti sostengono che l’Alta Corte disciplinare dovrebbe essere un organo unico per tutte le magistrature. Per quanto concerne i provvedimenti emessi da tale organo, l’A. si esprime a favore della loro impugnabilità dinanzi alla Corte di cassazione. Riprendendo e sviluppando le considerazioni di Roberto Romboli, osserva che nel termine «soltanto» non si rinviene un ostacolo all’impugnazione davanti alla Cassazione. Se si affermasse che l’unico giudice dell’impugnazione è la stessa Alta Corte, chiamata a rivedere le proprie decisioni, si creerebbe con norma costituzionale un organo giurisdizionale sottratto alla giurisdizione della Corte di cassazione, in deroga all’art. 111, comma 6, Cost.

L’A. rileva, inoltre, che il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale non subisce modifiche con il ddl in esame e continua a costituire un elemento essenziale per garantire l’indipendenza della magistratura. Non condivide, invece, la posizione di quanti vedono nella separazione delle carriere un rischio di assoggettamento del pm al controllo dell’Esecutivo, in quanto non ritiene che un simile automatismo possa essere desunto dal testo del ddl.

Secondo l’A., i principali motivi di perplessità sulla riforma risiedono sia nella ferma volontà dell’Esecutivo di procedere alla sua approvazione, nonostante la ristrettezza dei tempi imposti, che finirebbe per impedire l’introduzione di emendamenti, sia nelle numerose criticità sollevate dagli altri Relatori nel corso del Seminario.

Infine, l’A. si interroga su un aspetto specifico della riforma: se, per la nomina dei professori universitari quali componenti dell’Alta Corte disciplinare e dei due Csm, debba applicarsi il principio sancito dall’art. 135 Cost., come interpretato estensivamente dalla Corte costituzionale, secondo cui essi possono essere scelti anche se «in riposo». A suo avviso, tale previsione potrebbe – e, forse, dovrebbe – essere esplicitamente inserita nel ddl in sede di emendamenti, tenuto conto delle numerose limitazioni normative già esistenti che riducono sensibilmente il numero di docenti effettivamente disponibili a ricoprire tali incarichi.

 

8. Vittorio Angiolini

L’Autore dichiara di condividere le osservazioni di Roberto Romboli, così come approfondite da Federico Sorrentino, secondo cui l’atteggiamento dell’attuale maggioranza si contraddistingue per un’impronta «eminentemente distruttiva», differenziandosi persino da precedenti maggioranze che avevano avanzato proposte analoghe.

Tale carattere emerge chiaramente dalla configurazione del Consiglio superiore della magistratura prevista dalla riforma, che risulta profondamente disfunzionale. Ciò vale sia per il sorteggio della componente togata, in particolare rispetto alle funzioni organizzative del Csm, sia per il meccanismo di elezione o sorteggio della componente laica, se si considerano le difficoltà recentemente emerse, ad esempio, nell’elezione dei giudici della Corte costituzionale.

Secondo l’A., questa impostazione non riguarda esclusivamente la riforma della giustizia, ma più in generale caratterizza l’azione del Governo. A tal proposito, egli richiama le dichiarazioni rese in Parlamento dal Ministro della giustizia Nordio, che ha preteso un sindacato sugli atti della Corte costituzionale e, a nome del Governo, ha contestato l’idea stessa di una competenza del Tribunale dei ministri in materia di responsabilità penale dei membri dell’Esecutivo, come emerso nel caso Almasri.

Un ulteriore esempio è rappresentato dalla questione relativa alla sentenza della Corte di giustizia del 4 ottobre 2024, in cui la maggioranza di governo sembra aver ritenuto che, per avallare la propria posizione sui cd. “Paesi sicuri”, si potesse mettere in discussione il “concordato giurisprudenziale” del 1984 tra la Corte costituzionale, la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte costituzionale tedesca con riferimento alla prevalenza del diritto UE.

L’A. sostiene che l’atteggiamento della maggioranza di governo sia espressione di una precisa dottrina secondo cui la magistratura e la giurisdizione non dovrebbero essere considerate un potere dello Stato. Al massimo, esse potrebbero essere intese come un semplice “Ordine”, ma non come un elemento essenziale della struttura statale, poiché l’unico potere che dovrebbe realmente contare è quello politico.

Si torna, così, alle teorie di Carl Schmitt espresse ne Il Custode della Costituzione, dove si affermava che solo il potere politico può garantire l’«obbligazione politica», ossia lo scambio tra l’obbedienza dovuta dai cittadini e la protezione accordata dallo Stato. In questa prospettiva, i giudici cesserebbero di essere custodi della Costituzione e dell’integrità del sistema giuridico nel suo complesso.

Secondo l’A., tale impostazione, definita «degenerativa ed estremamente pericolosa», va colta nella sua reale portata: non si tratta di un semplice incidente di percorso, ma del riflesso di una precisa volontà politica. Per questo egli ritiene necessario un intervento critico non solo sugli aspetti specifici della riforma, ma anche e soprattutto sul piano culturale, affinché si possa contrastare una deriva che rischia di minare i fondamenti dello Stato di diritto.

In chiave provocatoria, l’A. suggerisce che, in un eventuale referendum costituzionale, si potrebbe porre ai cittadini una domanda radicale: vogliono ancora che i giudici pronuncino le loro sentenze in nome del Popolo italiano, oppure nel nome del Presidente del Consiglio?

La differenza tra le due opzioni è netta, ma il rischio è che questa distinzione venga progressivamente erosa.

 

9. Silvia Albano

L’Autrice osserva che, nonostante gli obiettivi dichiarati della riforma – ossia l’attuazione del giusto processo e del sistema accusatorio puro –, essa non può essere considerata espressione di una cultura liberale. Al contrario, si assiste a un radicale mutamento della Costituzione materiale, alla trasformazione del rapporto tra Stato e cittadino e a un cambiamento del concetto stesso di “ordine pubblico”, con una significativa inversione del fondamento personalistico della Costituzione.

In questa direzione si inserisce la recente produzione normativa, dal decreto rave al ddl sulla sicurezza, atti che riflettono una visione dello Stato non liberale, bensì autoritaria, destinata ad influenzare anche il progetto di riforma in discussione.

L’A. evidenzia, inoltre, che il ddl di revisione costituzionale della giustizia non ha carattere garantista. La mancata modifica dell’art. 109 Cost. Impedisce, infatti, di realizzare un sistema in cui accusa e difesa siano poste su un piano di parità, con la magistratura giudicante a garanzia dell’equilibrio processuale. Il pubblico ministero continuerebbe a disporre della polizia giudiziaria, rafforzando, anziché riducendo, lo squilibrio tra accusa e difesa. Proprio in una prospettiva garantista, i Costituenti avevano escluso l’adozione di un sistema accusatorio puro, affidando al pm anche una funzione di garanzia dei diritti dell’indagato e l’obbligo di ricercare prove a suo favore.

L’A. sottolinea, inoltre, come la separazione delle funzioni sia già prevista nell’ordinamento, rendendo quindi superfluo ogni ulteriore intervento. La riforma incide essenzialmente sul piano ordinamentale e la conseguente riscrittura dell’ordinamento giudiziario potrebbe trasformare in modo significativo l’intero sistema. Affidare tale revisione a una cultura politica di impronta autoritaria rappresenta, a suo avviso, un rischio concreto.

Attualmente, le funzioni del pm vengono esercitate de facto “a vita”, una condizione che ha generato diverse disfunzioni, tra cui la creazione di pm superpoliziotti, i quali non sempre garantiscono l’equilibrio tra le parti nel processo. Tuttavia, l’A. evidenzia che tali problematiche non incidono sulla terzietà del giudice, come dimostrato dai dati illustrati dai Relatori precedenti.

Ad avviso dell’A., il fine ultimo della riforma emerge chiaramente dall’iter parlamentare seguito: alla Camera, infatti, è stato respinto l’ordine del giorno che impegnava la maggioranza a non sottoporre mai il pubblico ministero al potere politico e a non modificare l’art. 109 Cost.

In tal modo, la magistratura requirente rischierebbe di diventare, nelle parole di Giovanna De Minico, «un gigante» o, come affermato da Dario Scaletta, «un altro potere dello Stato», destinato prima o poi a essere sottoposto ad un inevitabile e, secondo l’A., quasi necessario controllo per la tutela dei diritti di libertà dei cittadini.

L’analisi di diritto comparato conferma tale scenario: in tutti gli ordinamenti che prevedono la separazione delle carriere all’interno dell’ordine giudiziario, il pubblico ministero è, direttamente o indirettamente, sottoposto al potere politico. In Portogallo, ad esempio, il Procuratore generale – che può essere anche un laico – è nominato dal potere politico e il suo ufficio è organizzato secondo una rigida struttura gerarchica. Tuttavia, in quel contesto, l’istituto ha operato con un significativo self-restraint all’interno di una democrazia compiuta. L’A. si interroga, dunque, se lo stesso equilibrio possa essere garantito anche nel nostro Paese.

Un ulteriore elemento di criticità è rappresentato dall’assenza, nel ddl costituzionale sulla giustizia, di una maggioranza qualificata dei 2/3 per la predisposizione dell’elenco dei consiglieri laici da sorteggiare. Ciò consentirebbe, riscrivendo l’ordinamento giudiziario, di prevedere una maggioranza semplice per la nomina dei membri laici, con il rischio che questi appartengano esclusivamente alla maggioranza governativa.

L’A. si sofferma, infine, sull’Alta Corte disciplinare, evidenziando come l’azione disciplinare rappresenti una funzione cruciale per l’indipendenza della magistratura. Se da un lato il Ministro della giustizia ha esercitato raramente tale prerogativa, dall’altro, nelle poche occasioni in cui lo ha fatto, è intervenuto in relazione a provvedimenti sgraditi, con il chiaro intento di mettere in discussione l’indipendenza della magistratura.

In conclusione, esternalizzare l’azione disciplinare sottraendola al Csm – che costituisce l’organo di garanzia dell’indipendenza della magistratura – non solo rappresenterebbe un errore, ma avrebbe anche un valore simbolico altamente preoccupante.

 

10. Maria Agostina Cabiddu

Che il ddl costituzionale n. 1353, recante «Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare», sia per diversi aspetti criticabile e pericoloso è già emerso chiaramente dai diversi interventi che mi hanno preceduto. 

Provo a riassumere allora, brevemente, quelle che a me sembrano le principali criticità di questo ennesimo tentativo di revisione costituzionale, rispondente più a ragioni politico-ideologiche che a reali esigenze di sistema.

Scopo della cd. “riforma della giustizia” sarebbe quello di far uscire il pm dalla giurisdizione per collocarlo in posizione di parità con la difesa davanti al giudice (si badi, un recente emendamento al ddl 1621, cd. “Foti”, recante «Modifiche alla legge 14 gennaio 1994, n. 20, al codice della giustizia contabile, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, e altre disposizioni in materia di funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e di responsabilità per danno erariale», su cui molto ci sarebbe da dire, prevede la separazione fra procure e giudici anche per la giustizia contabile). 

Non credo che quello della “separazione” sia il problema che affligge la nostra giustizia, materia sulla quale, peraltro, questo Governo non si è risparmiato, tanto che non passa giorno in cui non si abbia notizia di una nuova proposta presentata, discussa, approvata, in un rincorrersi e affastellarsi di provvedimenti che incidono sul diritto penale sostanziale (per abrogare o limitare i reati dei colletti bianchi o per introdurre nuove figure di reato, talora del tutto improbabili, per lo più miranti a reprimere il dissenso o la piccola criminalità), su quello processuale (vds. il regime delle intercettazioni), nonché su quello ordinamentale, intervenendo come vorrebbe fare il ddl oggetto del nostro Seminario sul corpo vivo della Costituzione o corrodendone la sostanza con leggi ordinarie. Sarebbe opportuno riflettere, per esempio, sulla conformità a Costituzione della legge 9 dicembre 2024, n. 187 (di conversione dei ddl nn. 145 e 158 del 2024), che ha modificato la competenza in materia di immigrazione con passaggio dal tribunale alla corte di appello delle decisioni sui provvedimenti di convalida dei trattenimenti dei richiedenti asilo, sotto il profilo della disparità di trattamento tra le persone trattenute in attesa di un riscontro alla domanda di asilo e quelle ristrette in carcere (aspetto su cui si è pronunciata, per rigettare la questione, la Corte di cassazione con sent. n. 2697/2025), del diritto alla difesa e, più in generale, del rispetto del principio del “giudice naturale precostituito”. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, mi sembra il caso di soffermarsi più di quanto non si sia fatto finora, posto che la formula costituzionale non è un’endiadi. L’aggettivo e il participio passato, infatti, qualificano il giudice operando due distinte selezioni, sicché a considerare l’aggettivo “naturale” un equivalente di precostituito si taglia in due il contenuto della formula buttandone via metà. «Il giudice precostituito non è naturale quando la legge che lo investe fa eccezione alla regola in singole materie (…) definiamolo così il rapporto fra i due concetti: il primo implica il secondo, il secondo non implica il primo (e dunque non sono equivalenti); ogni giudice naturale è anche precostituito dalla legge ma l’essere precostituito non significa che sia naturale» (F. Cordero)… Insomma, se è vero che il diavolo si nasconde nei dettagli, occorre guardare anche agli interventi a Costituzione invariata e, per quanto ci riguarda, non solo alle questioni che hanno immediatamente a che fare con la giurisdizione, ma anche agli interventi manipolativi della competenza, strumento che si presta a un lavoro obliquo secondo un calcolo politico.

Quanto al ddl di revisione costituzionale, premesso che si tratta, in larga misura, di un intervento bandiera (il passaggio dall’una all’altra carriera è già, normativamente e fattualmente, molto limitato e, quanto al secondo corno della riforma, tutti sanno che l’attività della sezione disciplinare del Csm - per quantità di procedimenti e di sanzioni - non ha uguali in nessun settore della p.a., tanto meno negli analoghi organi parlamentari) non pochi sono tuttavia i rischi (concreti, dato lo sfondo ideologico ben illustrato nei precedenti interventi) che questa riforma porta con sé: separare il pm dalla (cultura della) giurisdizione finisce per farne uno “Javert” autoreferenziale, un superpoliziotto la cui indipendenza potrebbe tuttavia essere facilmente negata per assoggettarlo al controllo dell’esecutivo, come accade – d’altra parte – in tutti gli ordinamenti in cui giudice e procuratore hanno carriere separate… E come sembra volere l’attuale maggioranza che, non per nulla, si tiene le mani libere rifiutandosi, come ricordava la Presidente Albano, financo di votare l’odg (lo scarso valore, sotto il profilo politico e giuridico di un odg è a tutti noto, ma il rifiuto di votarlo ha un valore simbolico elevato, svelando le reali intenzioni che si celano dietro le dichiarazioni di principio) volto a impegnare pro futuro la maggioranza a non modificare l’art. 109 e a non sottoporre il pm al controllo politico, intervenendo sulle «garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario». 

La presunta contiguità tra pm e giudici è d’altra parte un argomento che pecca per eccesso e per difetto: per eccesso perché, oltre a essere smentita dai fatti (nel 48% dei giudizi penali di primo grado l’esito è di assoluzione, nel 45% di condanna, il resto ha esito misto), enfatizza le patologie, finendo per buttare insieme all’acqua sporca le garanzie che l’ordinamento oggi offre; per difetto perché, su quell’indimostrato presupposto, bisognerebbe allora separare anche i giudici di primo grado da quelli di appello ed entrambi da quelli della Cassazione. 

Quanto al sorteggio, come tutti sanno, in voga nell’Atene delle origini e anche nella Repubblica di Venezia, non vi sarebbero – in via di principio – molte obiezioni: è un metodo di scelta, precisamente quello del giudice Bridoye che decideva le sue cause gettando i dadi: niente a che vedere con la fatica e la responsabilità del decidere… oltre al fatto che, esteso anche ai membri cd. “laici”, esso rappresenta un’ulteriore compressione delle prerogative parlamentari.

A chi giova tutto questo? Non certo al cittadino e al sistema giustizia, che avrebbero invece bisogno di riforme che incidano sui tempi del processo, sulla qualità della giustizia, sulla legittimazione professionale dei magistrati. I cittadini, soprattutto quelli che non possono permettersi collegi di avvocati né, tantomeno, autonome indagini difensive, vogliono un pm rappresentante dello Stato che sia imparziale nella ricerca delle prove e non sia, quindi, animato da fini diversi dalla ricerca della verità. Come ha osservato un noto ex-magistrato, se il difensore dell’imputato, colto da una crisi di coscienza, si alza e denuncia il suo cliente di cui conosce la colpevolezza, commette il delitto di infedele patrocinio e di rivelazione di segreto professionale, ovvero commette delitti ed è punito anche se dice la verità; se il pubblico ministero va in udienza sapendo che l’imputato è innocente e ne chiede la condanna commette il delitto di calunnia; se sostiene questa sua richiesta con atti falsi, redatti da lui o da altri, commette il delitto di falso ideologico materiale in atto pubblico e di uso di atti falsi, cioè commette delitti ed è punito se mente.

Il punto è che le parti nel processo non sono uguali et pour cause: non solo, infatti, il pm dispone della polizia giudiziaria, ma è anche tenuto a raccogliere prove a difesa dell’indagato: siamo sicuri che sia un bene, per il cittadino comune, abbandonare questo sistema per passare a un modello accusatorio puro? Insomma, il nostro pm è, per ricorrere al noto ossimoro, parte imparziale e la sua funzione (e il suo interesse), come diceva un grande giurista della mia terra, «non ha corrispondenza che nella funzione (e nell’interesse) del giudice, il quale anch’egli vigila sull’osservanza della legge, e continuamente l’attua nell’esercizio della giurisdizione: onde la conclusione che se ne deve trarre è che il pubblico ministero è, come il giudice, un organo schiettamente giurisdizionale… In realtà nulla impedisce di ritenere che, come lo Stato ha istituito i giudici per realizzare la volontà della legge, così abbia istituito degli organi per stimolare la realizzazione di tale volontà e che quindi possa configurarsi una giurisdizione che si esercita per via d’azione». 

Ecco dunque: chi vuole la riduzione del pm ad avvocato dell’accusa non lavora per un processo più giusto, ma per un processo più controllabile, il tutto con «un’enorme spendita di quattrini e di mezzi», come ha osservato Franco Coppi. 

Qualcuno sospetta che lo scopo della riforma sia semplicemente punitivo: un redde rationem rispetto agli “attacchi” della magistratura nei confronti della politica ma, se così fosse, vale la pena richiamare l’insegnamento di Lord Bingham (Master of the Rolls, Lord Chief Justice e Senior Law Lord): «Alcuni rappresentanti della stampa, dotati del dono della sobrietà, hanno parlato di guerra aperta tra governo e potere giudiziario. Questa, secondo me, non è un’analisi precisa. Ma è vero che esiste un’inevitabile e, a mio parere, assolutamente giusta tensione tra i due. Esistono al mondo Paesi in cui tutte le decisioni dei tribunali incontrano il favore del governo, ma non sono posti dove si desidererebbe vivere».

 

11. Domenico Gallo

L’Autore apre il proprio intervento evidenziando come il Titolo IV della Costituzione italiana configuri un sistema perfetto di indipendenza della magistratura, assicurando l’esistenza di uno zoccolo di pluralismo istituzionale che, a Costituzione vigente, risulta insuperabile.

Se, da un lato, la necessità di garantire l’indipendenza dell’ordine giudiziario era emersa sin dai lavori dell’Assemblea costituente, dall’altro è stato necessario un lungo percorso storico per realizzarla concretamente. L’A. sottolinea come siano stati necessari circa vent’anni per giungere a un effettivo riconoscimento dell’indipendenza della magistratura.

Un momento cruciale in questo processo è rappresentato dal Congresso dell’Associazione nazionale magistrati tenutosi a Gardone nel 1965, in cui i magistrati, riuniti grazie all’azione delle associazioni, presero piena coscienza del proprio ruolo. Fu in quella sede che maturò la consapevolezza dell’esistenza di una gerarchia delle fonti e della possibilità di applicare direttamente la Costituzione, un’idea che, fino ad allora, era stata considerata una vera e propria eresia.

Si è trattato, dunque, di un lungo cammino che ha portato alla progressiva affermazione dell’indipendenza reale dell’ordine giudiziario. Tuttavia, l’A. osserva come questa crescente indipendenza abbia inevitabilmente accentuato il livello di conflitto con i poteri politici, pubblici e privati, un fenomeno che, in uno Stato di diritto, può ritenersi fisiologico. In Italia, però, tale conflitto ha assunto caratteri patologici, specialmente in relazione alle violazioni dei diritti, poiché l’esercizio indipendente del potere giudiziario, in questi casi, si traduce in un’azione contro-maggioritaria.

L’A. rileva, infine, come solo una magistratura indipendente possa tutelare le minoranze e difendere i diritti fondamentali ogniqualvolta essi vengano messi in discussione e come, per svolgere questa funzione, essa debba necessariamente assumere una posizione contro-maggioritaria.

Ad avviso dell’A., dunque, quando il Governo denuncia l’esistenza di “giudici politicizzati” e critica la funzione contro-maggioritaria della magistratura, ignora che proprio questa caratteristica è il fondamento stesso della sua indipendenza.

Diviene, pertanto, essenziale superare l’attuale muro comunicativo che conduce alla delegittimazione della magistratura. L’A. sottolinea l’importanza di far comprendere alla società civile, in un contesto di crescente preoccupazione ed incertezza, che ridurre l’indipendenza della magistratura costituirebbe un grave danno non solo perché garantirebbe al potere l’impunità, ma soprattutto perché lo metterebbe nelle condizioni di utilizzare la magistratura in chiave fortemente repressiva, in linea con l’attuale orientamento legislativo.

Di conseguenza, sarebbero a rischio i diritti di libertà di tutti, inclusi quelli dei singoli cittadini e delle organizzazioni sindacali e associative, i quali devono poter esprimere liberamente il proprio pensiero e manifestare il proprio dissenso rispetto alle politiche governative.

 

12. Roberto Romboli (considerazioni conclusive)

L’Autore osserva come, data la delicatezza e l’estrema attualità del tema trattato, le considerazioni finali che verranno presentate non devono essere considerate conclusioni definitive.

In primo luogo, egli prende in esame il collegamento tra la riforma della giustizia e la competenza giudiziaria in materia di immigrazione, come delineato da Cabiddu nel proprio intervento. Il tema dei migranti è stato spesso associato in chiave critica al ruolo della magistratura, ma si è trattato di una coincidenza. Più in generale, l’attuale maggioranza sembra non gradire la presenza di soggetti che contrastino i provvedimenti e la linea politica del Governo, come già sostenuto da Gallo.

Per l’A., quindi, il vero problema risiede nella crescente insofferenza della maggioranza verso gli organi di garanzia e, in particolare, verso la magistratura.

L’A. richiama il principio del giudice naturale precostituito per legge, che assume rilievo in materia di immigrazione: in realtà, non si tratterebbe di un problema di giurisdizione, ma di competenza, in quanto la competenza viene trasferita da un giudice all’altro. Per la Costituzione, questo spostamento dovrebbe avvenire tramite legge, ma non basta, poiché la legge deve intervenire prima che il fatto da giudicare si verifichi.

Per quanto riguarda l’incontro programmato tra il Neopresidente dell’Anm e il Presidente del Consiglio, l’A. ritiene che sia possibile raggiungere un accordo sulle leggi di attuazione, ma non sul testo del progetto di revisione costituzionale. Molto dipenderà dalle leggi di attuazione, e quindi in quel frangente ci potrà essere uno spazio di dialogo.

Per replicare a quanto recentemente affermato da Nicolò Zanon («I magistrati non si rendono conto di aver perso negli anni consenso e popolarità. Se si è arrivati al sorteggio, la responsabilità è loro»), si potrebbe dire che questa posizione è in parte condivisibile: una parte di responsabilità può essere attribuita alla magistratura, come dimostrato dal caso Palamara. Tuttavia, l’A. ritiene errata la soluzione presentata dal Governo per affrontare tali criticità, poiché «per eliminare la malattia si uccide direttamente il malato»: per combattere la degenerazione correntizia si è deciso di eliminare il Csm.

In conclusione, l’A. riprende le parole di Alessandro Pizzorusso, il quale sosteneva (non senza ironia) che «è probabilmente nel vero chi pensa che esso [il Csm] rappresenta un’anomalia che il sistema politico italiano ha sopportato ormai troppo a lungo e che è quindi tempo di rimuovere». 

La validità di tale posizione è dimostrata dall’affermazione, assai ricorrente in questi giorni, secondo cui il Csm sarebbe una sorta di “terza camera” che fa una politica di opposizione al Governo; affermazione cui fa seguito, ad esempio, la recente proposta dell’On. Enrico Costa di istituire una Commissione di inchiesta monocamerale con il compito di controllare l’assegnazione degli incarichi, la valutazione delle professionalità, il fuori ruolo, l’attività extragiudiziaria e la responsabilità disciplinare, con l’obiettivo, in sostanza, di commissariare il Csm.

In tal senso, anche le dichiarazioni del Sen. Maurizio Gasparri («Il Csm è sempre stato un tallone di Achille della democrazia») e le posizioni di alcuni giuristi, come Sabino Cassese, che ha definito il Csm «il capo del personale» o «il vertice malato di un corpo sano». 

Tali prese di posizione appaiono coerenti con le finalità della riforma, che per l’A. ha come obiettivo finale quello di delegittimare la magistratura e, in particolare, di ridimensionare il ruolo del Csm.

 

 

*  Con l’eccezione dei seguenti Autori: E. Bruti Liberati, M.A. Cabiddu, M. Volpi e R. Zaccaria (dei quali si riportano le autotrascrizioni dei rispettivi interventi), il presente contributo – pubblicato su Questione giustizia online l’11 marzo 2025 (www.questionegiustizia.it/articolo/sintesi-interv-appello-segre) – costituisce una sintesi degli interventi svolti al Seminario online promosso dal gruppo “Appello Segre” il 10 febbraio 2025.

1. E. Bruti Liberati, Riforme, l’impegno comune contro ogni deriva securitaria, Il Dubbio, 30 dicembre 2024 (www.ildubbio.news/commenti/riforme-limpegno-comune-contro-ogni-deriva-securitaria-q8qmeoic).