Magistratura democratica

Il no alla separazione delle carriere con parole semplici: un tentativo

di Stefano Musolino

La foglia di fico della separazione delle carriere, perseguita per via costituzionale, cela l’autentico obiettivo della riforma: l’indebolimento dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici nel loro ruolo di interpreti della legge, in termini conformi a Costituzione e trattati internazionali. Tuttavia, un’analisi delle ragioni a favore della separazione delle carriere ne svela incongruenze e ipocrisie e, persino, un certo anacronismo argomentativo, alla luce delle progressive riforme che hanno cambiato il volto e il ruolo delle indagini preliminari. Mentre l’analisi prospettica dei pericoli sottesi alla separazione delle carriere dovrebbe mettere sull’allerta i cultori del diritto penale liberale, molti dei quali appaiono accecati dall’ideologia separatista e sordi ai rumori del tempo presente, che impongono di inquadrare anche questa riforma nel contesto più generale della progressiva verticalizzazione dei rapporti tra istituzioni democratiche, insofferente ai bilanciamenti dei poteri che fondano la Carta costituzionale.  

1. Il contesto politico-umorale in cui si innesta la riforma / 2. Una precisazione e qualche premessa oggettiva / 3. Il rito accusatorio e il pubblico ministero nel processo italiano / 4. Pericolose metafore allucinogene / 5. La trasformazione del pubblico ministero in avvocato della polizia giudiziaria / 6. La chimera del super-pm autonomo e indipendente

 

1. Il contesto politico-umorale in cui si innesta la riforma

In tempi in cui il futuro appare incerto e la complessità dei temi soverchiante, al punto da inibire una prospettiva autenticamente capace di porvi rimedio, la semplificazione, che propone soluzioni apparenti, costituisce una tentazione tanto pericolosa quanto appagante in termini di raccolta del consenso. Non è un caso che, ad esempio, sul tema della gestione degli epocali flussi migratori che caratterizzano questi tempi, le soluzioni proposte non abbiano alcuna autentica prospettiva risolutoria di medio-lungo periodo, ma si accontentino di ammansire le paure pubbliche generate dal fenomeno con interventi contingenti e di corto respiro, che danno risposte emozionali – piuttosto che razionali – al problema. E ugualmente potrebbe dirsi per la vistosa retromarcia dei Paesi europei in materia di politiche volte a fronteggiare il cambiamento climatico. Per ciò, la leva comunicativa emozionale – nella confusione crescente, alimentata con sapienza da gestori di potenti motori di comunicazione social che anestetizzano la razionalità per indurre paure e pulsioni impulsive – induce nell’opinione pubblica la tentazione di accettare la verticalizzazione dei poteri costituzionali quale soluzione apparente alla complessità (irrisolvibile?) dei temi che affannano la nostra attualità politica[1].

Se questo è il registro comunicativo dominante, ben si comprende la difficoltà di spiegare – in termini diffusamente comprensibili – le pericolose conseguenze derivanti da un’operazione presentata e percepita come una fisiologica conseguenza del necessario rapporto di terzietà del giudice rispetto alle parti del processo: la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti. L’imminente prospettiva referendaria ci imporrà necessariamente una semplificazione della comunicazione, ancora più schietta e diretta, al fine di rendere comprensibile la nostra posizione a un diffuso pubblico, ma questo non ci impedisce – né ci impedirà – di porre a base di quella consapevole e programmata semplificazione un ostinato confronto con la complessità dei problemi che stanno a fondamento della questione. E, tuttavia, “dire” la complessità con parole semplici non è solo una sfida, ma anche una verifica delle qualità del ragionamento, giacché esprimerlo con semplicità, senza tradirne la complessità, è una messa alla prova della qualità degli argomenti. D’altronde, questa è una necessità costituiva di Magistratura democratica, che ha nei suoi geni la prospettiva di aiutare la magistratura a percepirsi e praticare una giustizia più prossima al cittadino, meno chiusa in oscuri riti sacerdotali comprensibili solo a un ceto ristretto, aperta al confronto e al giudizio della società. Con questo spirito, dunque, il presente articolo è un primo tentativo di esprimere, in modo semplice, i temi complessi che fondano la contrarietà della magistratura alla separazione delle carriere. Il lettore dirà se sia riuscito o meno.

 

2. Una precisazione e qualche premessa oggettiva

Prima di sviluppare qualcuno degli argomenti contrari alla riforma, è necessario farli anticipare da una precisazione e da una premessa oggettiva. La prima: era possibile raggiungere l’obiettivo della separazione delle carriere senza intervenire sul testo costituzionale[2]. Aver scelto questa più impervia via con l’aggiunta – non necessaria allo scopo della separazione delle carriere – di svilire l’autorevolezza del Csm e di intervenire sul sistema disciplinare tradisce l’obiettivo vero della riforma: incidere sull’interpretazione autonoma e indipendente della legge (conforme a Costituzione e al diritto internazionale pattizio, in particolare a quello europeo) da parte dei magistrati, ridotti a una corporazione di funzionari, asservita e – di fatto – strumentale al raggiungimento degli obiettivi politici della maggioranza parlamentare contingente[3]

La premessa fondata su dati oggettivi è quella che vuole l’obiettivo della separazione tra magistrati requirenti e giudicanti già raggiunta dalla legislazione vigente, atteso come la percentuale di passaggi da una funzione a quell’altra riguarda meno dell’1% dei magistrati; un dato numerico disarmante nella sua eloquenza. Mentre se si accetta di superare i pregiudizi e la macchiettistica da bar e ci si acconcia a verificare oggettivamente se e quanto l’attuale comune carriera impatti sul risultato giurisdizionale, in termini di proclività del giudice ad assecondare le richieste del pubblico ministero, si scoprirà che la giurisdizione penale nazionale registra un tasso di assoluzioni che si aggira tra il 40% e il 50%. Anche in questo caso, dunque, i numeri smentiscono l’assunto che vuole le scelte dei giudici piegate a quelle del pubblico ministero, a cagione della comune carriera. 

Pur in assenza di dati statistici ufficiali, i sostenitori della riforma ritengono che, invece, le percentuali di accoglimento delle richieste cautelari del pubblico ministero siano superiori a quelle di condanna nella fase di merito. Il dato ha una spiegazione del tutto estranea a una proclività accondiscendente dei giudici, a causa della carriera condivisa con i pubblici ministeri, dipendendo piuttosto dalla natura della decisione che, prima della recente riforma, era assunta in assenza di contraddittorio. E infatti, le statistiche dei provvedimenti cautelari si riallineano a quelle dei provvedimenti di merito, in esito alla verifica del tribunale del riesame, innanzi al quale si recupera in pienezza il contraddittorio. Come accennato, proprio per venire incontro a tali esigenze, lo stesso legislatore della riforma, con la legge n. 114 del 9 agosto 2024, ha novellato l’art. 291 cpp, introducendo la regola dell’interrogatorio preventivo all’emissione di una misura cautelare personale, quale presidio del diritto al contraddittorio anche in questa delicata fase del procedimento penale. È, quindi, stato sufficiente ricorrere a un’ordinaria riforma processuale per risolvere uno dei presunti problemi che stavano a fondamento degli argomenti addotti dai sostenitori della separazione delle carriere.

L’ostinata intelligenza dei numeri, insomma, si oppone a qualificare la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti come un problema reale e di tale portata da giustificare una riforma costituzionale. E infatti – lo si ribadisce ancora – questa non si limita affatto a separare le carriere, ma attinge anche al ruolo del Csm e al sistema disciplinare, sminuendo così le tutela dell’autonomia e indipendenza di tutti i magistrati, inclusi quelli giudicanti[4]. È agevole, dunque, svelare come dietro il mantra ideologico e semplificatorio della separazione delle carriere si celi il vero obiettivo della riforma: un attacco all’interpretazione della legge in termini conformi alla Costituzione, nonché ai trattati unionali. Ci si muove, insomma, in un apparente paradosso dei fini: una riforma presentata (ingenuamente o callidamente?) anche dall’Unione delle Camere penali, come necessaria a tutelare e (asseritamente) amplificare l’autonomia e indipendenza del giudice finisce, di fatto, per svilire questi requisiti qualitativi della giurisdizione per trasformarla in strumento servente delle politiche della maggioranza parlamentare contingente, attraverso l’avvilimento del ruolo del Csm e l’intervento sulla giurisdizione disciplinare. Le più recenti vicende, infatti, hanno dimostrato come gli attacchi mediatici a singoli magistrati (ma anche alle sezioni unite della Cassazione) per decisioni sgradite, insieme alla leva del disciplinare o del trasferimento d’ufficio, evocati a danno di magistrati anch’essi sgraditi, siano stati contenuti solo grazie a un Csm autorevole e rappresentativo del sentire comune di tutta la magistratura[5]

 

3. Il rito accusatorio e il pubblico ministero nel processo italiano

Il principale degli argomenti favorevoli alla separazione delle carriere è quello che la giustifica quale conseguenza fisiologica della natura accusatoria del processo penale. A sostegno della tesi si invoca anche una prospettiva comparativa, evidenziando come non vi sia, in nessun Paese, un sistema accusatorio in cui giudice e pubblico ministero non siano separati. L’argomento ha una sua immediata efficacia persuasiva, ma poco si confronta con la realtà del nostro sistema processuale che, aldilà delle etichette e delle generiche intenzioni del legislatore, ha progressivamente perso la sua natura accusatoria, per trasformarsi in un sistema ibrido. Non si è trattato, si badi, di un percorso imposto dalla magistratura, ma piuttosto di uno sviluppo legislativo – sostenuto con vigore dall’avvocatura e dalle forze politiche più garantiste e liberali – che ha trasformato radicalmente la fase delle indagini preliminari. Per ben intenderlo, è utile prendere le mosse dalle parole di un attento studioso che, analizzando storicamente tale sviluppo dalla sua genesi, ha osservato come, «se si volesse sintetizzare, con uno slogan, il passaggio dal codice inquisitorio “misto” del 1930 al codice accusatorio altrettanto “misto” del 1988 (sono troppe, infatti, le differenze che lo caratterizzano rispetto ai modelli accusatori “puri” di common law), si potrebbe forse affermare che, dalla istruttoria che prepara il processo siamo passati alla indagine che prepara l’azione»[6]. In questo schema, la natura accusatoria (seppure impura) del nostro sistema processuale era esaltata dall’espunzione dalla fase delle indagini di qualsiasi consolidamento probatorio, che restava riservato al solo dibattimento. Le indagini preliminari, perciò, erano la sede di raccolta fluida e snella del materiale conoscitivo dei fatti, volta a orientare la scelta del pubblico ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale che il giudice sottoponeva a verifica nel corso dell’udienza preliminare, inibendola solo nel caso in cui vi era l’evidenza della sua non necessità. Senonché, un profluvio di riforme legislative (culminate da ultimo nella cd. riforma Cartabia) ha completamente alterato quell’assetto, attraverso: la previsione di plurime “finestre di giurisdizione”, volte a fissare elementi probatori da trasferire al dibattimento; l’introduzione di rigorosi termini di svolgimento delle indagini e l’individuazione della prognosi di condanna, quale criterio in base al quale il pubblico ministero dovrà orientare la sua scelta in ordine all’esercizio dell’azione penale che, secondo medesimo criterio, sarà verificata dal giudice delle indagini preliminari[7]

Orbene, il pubblico ministero chiamato a dirigere e coordinare le attività investigative che si sviluppano dentro lo schema delle “nuove” indagini preliminari è un soggetto molto distante dal semplice raccoglitore di materiale conoscitivo fluido e multiforme, per come è tipico del processo accusatorio. Piuttosto, il suo ruolo è stato trasformato in quello di dirigente e coordinatore di un’indagine che ha sempre più caratteristiche istruttorie, perché destinate a condizionare l’acquisizione probatoria dibattimentale, ma anche di un’indagine caratterizzata da una pregnante qualità dimostrativa, idonea a formulare una prognosi di condanna dell’imputato[8].

Insomma, lo sviluppo legislativo in tema di indagini preliminari ha forgiato un pubblico ministero del tutto sganciato dai metodi e dai criteri che ispirano il sistema accusatorio per imporgli un approccio valutativo molto più prossimo, invece, a quello proprio del giudice istruttore. Non solo, quindi, il sistema accusatorio italiano è misto, ma la ipervalutazione del ruolo delle indagini preliminari esalta il ruolo di parte imparziale del pubblico ministero, iconicamente fissato dall’onere di svolgere le indagini anche a favore dell’indagato dall’art. 358 cpp. Non può, dunque, essere il sistema processuale vigente la ragione che giustifica la separazione delle carriere. Ed anzi, l’accentuazione della rilevanza delle indagini preliminari nell’intero sistema processuale pretende un pubblico ministero molto più prossimo alla prospettiva e all’approccio metodologico del giudice, dal quale – del tutto irrazionalmente – lo si vorrebbe separare.

 

4. Pericolose metafore allucinogene

La necessaria terzietà del giudice è un altro degli argomenti spesi per giustificare la separazione delle carriere. Per semplificare le loro argomentazioni, gli epigoni della riforma hanno elaborato molteplici metafore al fine di offrire una rappresentazione dei rapporti correnti tra i protagonisti del processo penale. Si va dalla geometria del triangolo isoscele che vede il giudice collocato al vertice alto con il pubblico ministero e il difensore ai vertici bassi, a quella del giudice nelle vesti di arbitro della partita giocata da pubblico ministero e difensori. Questa e le altre analoghe metafore, in verità, offrono una rappresentazione falsa dei rapporti processuali.

Il pubblico ministero, infatti, non è una parte agonista del processo, perché non ha un interesse predeterminato alla sua definizione; nonostante abbia esercitato l’azione penale, l’unico suo interesse è quello volto all’accertamento della verità, mettendo in verifica la sua ipotesi accusatoria, secondo le regole processuali vigenti. Metafora, per metafora: il pubblico ministero potrebbe decidere deliberatamente di fare autogol, chiedendo l’assoluzione se si persuadesse che il processo non abbia accertato la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio; oppure potrebbe scegliere di non contrastare, in una determinata zona del campo processuale, le iniziative del difensore, consapevole che quest’ultimo detiene (di fatto o in potenza) la capacità dimostrativa di fatti, utili all’accertamento della verità, che è bene entrino nella conoscenza del giudizio sotto la vigilanza del contraddittorio. Insomma, il pubblico ministero non vince o perde il processo, come si usa dire, dei e tra i difensori, perché è portatore nel processo di un interesse pubblico funzionale all’accertamento della verità processuale, piuttosto che all’apodittica affermazione della tesi accusatoria. Per questo il suo onere probatorio è molto più gravoso di quello del difensore, dovendo egli dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità dell’imputato, mentre il difensore potrà limitarsi a insinuare nel giudice il ragionevole dubbio per raggiungere il suo obiettivo assolutorio. Insomma, pubblico ministero e difensore non giocano la stessa partita, non hanno i medesimi obiettivi, non hanno i medesimi oneri e non hanno la medesima funzione. Qualunque metafora che li ponga su un piano di parità funzionale è falsa!

Piuttosto, è evidente come giudice e pubblico ministero perseguano il medesimo fine: l’accertamento della verità. Questo obiettivo è tendenzialmente estraneo al difensore, il cui compito strutturale è contrastare la tesi accusatoria anche quando egli sa bene che questa sia fondata. E sono sempre giudice e pubblico ministero i soggetti processuali chiamati a organizzare e gestire i propri compiti al fine di garantire – nonostante le inefficienze e deficienze di mezzi e strutture che il Ministero della giustizia dovrebbe garantire allo scopo – la ragionevole durata del processo, impedendo il decorrere del termine di prescrizione o quello di improcedibilità dell’azione penale per decorso del tempo fissato dalla legge. È noto, invece, che il difensore possa perseguire del tutto legittimamente l’obiettivo di rallentare lo svolgimento delle attività processuale allo scopo di conseguire un fine (l’estinzione del reato o l’improcedibilità processuale) favorevole al suo assistito.

Insomma, la complessità processuale è allergica a metafore semplificatorie; sicché, quelle proposte dai sostenitori della riforma sono utili non già ad agevolare la comprensione delle questioni, ma piuttosto a offrire una rappresentazione mistificante della reale dinamica di rapporti e funzioni processuali.

Se, dunque, giudice e pubblico ministero – al contrario del difensore – sono animati dallo stesso obiettivo (l’accertamento della verità processuale in tempi ragionevoli), ben si comprende perché: condividono una comune cultura della giurisdizione; sono selezionati con un concorso unico; svolgono una formazione comune; sono sottoposti a verifiche di professionalità in cui la valutazione è svolta reciprocamente; sono sottoposti a un regime identico in ordine alle incompatibilità (interne ed esterne alla corporazione); sono sottoposti a un regime omologo (ma più rigoroso per il giudice) in ordine ai doveri di astensione quale riflesso dell’imparzialità necessaria anche a una parte processuale pubblica, quale è il pubblico ministero. Le regole descritte, quindi, sono l’espressione della comune appartenenza di giudici e pubblici ministeri alla giurisdizione, che è la più impegnativa prestazione resa dal servizio giustizia, inteso quale bene pubblico comune, a cui contribuiscono anche gli avvocati, ma quali portatori di specifici interessi individuali. Ecco perché quelle stesse norme regolano lo scambio simbiotico tra pubblici ministeri e giudici, nel rispetto del ruolo processuale di ciascuno. Quello scambio, infatti, è necessario a migliorare la qualità complessiva del servizio giustizia che giudici e pubblici ministeri, quali soggetti pubblici a ciò dedicati, hanno il compito di garantire, nonostante la carenza di mezzi, strumenti e risorse che il Ministero della giustizia mette loro a disposizione a questo scopo.

Se si prendono sul serio le parole di un illustre e valoroso avvocato come il Prof. Coppi, quando evidenzia di non aver mai assistito a un processo deciso in ragione dei rapporti esistenti tra giudice e pubblico ministero, e ci si avvede come quelle parole trovino riscontro nelle statistiche delle assoluzioni, ben si comprende – ancora una volta – che le ragioni della riforma riposano su esigenze e scopi diversi da quello di garantire la terzietà e imparzialità del giudice, giacché queste sussistono già oggi, mentre rompere il flusso di conoscenze ed esperienze che sta a fondamento dell’unità delle carriere significa impoverire la comune cultura della giurisdizione e abbassare la qualità del prodotto giurisdizionale finale. In altre parole, una più ridotta capacità del giudiziario di bilanciare efficacemente i diritti e gli interessi in conflitto nel processo penale. Un danno per cittadini e per l’intero sistema giustizia.

 

5. La trasformazione del pubblico ministero in avvocato della polizia giudiziaria

Un legislatore ingenuo trascura gli effetti conformativi sulla produzione giurisdizionale delle riforme che attingono lo statuto del magistrato. Un legislatore callido, invece, persegue questi obiettivi con lucida consapevolezza. Quale che sia la qualità attitudinale che muove le intenzioni dell’odierno legislatore, è bene sottoporre a verifica quella conclusione per accertare che non sia il frutto di un pregiudizio valoriale iuttosto che un dato empirico, come tale verificabile. 

A questo scopo, vengono incontro due recenti riforme dello statuto del magistrato: la riforma dell’ordinamento giudiziario, attuata con il d.lgs n. 106/2006, che ha introdotto la cd. gerarchia all’interno della procura della Repubblica, e la novella del medesimo ordinamento giudiziario, attuata con d.lgs n. 44/2024, in tema di valutazioni di professionalità[9]

Gli effetti conformativi, generanti l’introduzione di una gerarchia accentuata e travalicante il dato normativo introdotto dalla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2016, nei rapporti tra sostituto e procuratore della Repubblica, sono stati sapientemente svelati da Piero Gaeta, che ha osservato come «il modello normativo di gerarchizzazione, pur se manipolato nella sua attuazione dalle circolari del Consiglio, sembra essersi diffuso ed affermato soprattutto “culturalmente”, specie presso le più giovani generazioni, sopravvenute alla riforma del 2006, della magistratura inquirente. Con il doppio effetto paradosso per cui quest’ultima non “rivendica” più un modello alternativo di “potere diffuso” e non crea, generalmente, condizioni di conflitto interne agli uffici per affermare/rivendicare interamente la propria indipendenza interna: si ferma cioè prima del contrasto con il vertice dell’ufficio»[10]. Insomma, una riforma generata dalla necessità di garantire l’uniforme esercizio dell’azione penale e cautelare, espressioni concrete del principio di parità dei cittadini davanti alla legge (di cui l’obbligatorietà dell’azione penale è riflesso), si è trasformata in una sorta di accasermamento degli Uffici di procura, nonostante i progressivi interventi del Csm volti a ribadire il ruolo di primus inter pares del procuratore della Repubblica. Ne è, così, derivata una minore circolazione interna di saperi ed esperienze, una riduzione del dibattito e confronto interno, una progressiva de-responsabilizzazione del sostituto. Insomma, tante piccole, grandi slavine nell’autonomia e indipendenza del singolo sostituto, che hanno introdotto prassi difensive e prudenti, con un pericoloso accentramento di poteri in capo al procuratore della Repubblica. Non già, quindi, un dialogo interno volto alla ricerca del punto di equilibrio tra l’effervescenza innovativa del potere diffuso in capo a ciascun sostituto e la necessità di uniformare l’esercizio dell’azione penale e cautelare; piuttosto, una tranquillizzante sottomissione dei sostituti al vertice dell’Ufficio che altera non solo i rapporti tra magistrati, sacralizzati dall’art. 107, comma 3 della Costituzione, ma soprattutto impoverisce la qualità dell’azione della procura della Repubblica a discapito dei diritti e della sicurezza dei cittadini. 

Gli effetti conformativi sulla giurisdizione dell’inserimento del tasso di conferma delle decisioni nei gradi successivi, introdotto nella valutazione di professionalità dei magistrati dal d.lgs n. 44/2024, si possono misurare con un esempio concreto: la prassi intrapresa, dopo la riforma, da molti giudici del tribunale del riesame. Costoro, infatti, annotano in fogli Excel l’esito dei loro provvedimenti al fine di svolgere verifiche periodiche dei tassi di conferma delle decisioni presso la Corte di cassazione. A questo scopo, ciascun giudice fissa una percentuale negativa all’approssimarsi o al superare della quale, nel suo foro interiore, la migliore decisione non sarà più solo quella assunta in scienza e coscienza, ma anche quella che avrà meno possibilità di impattare negativamente sulle statistiche di conferma dei provvedimenti. La riforma, dunque, ha generato un ospite indesiderato nel foro interiore del giudice che ne inquina autonomia e indipendenza, peggiorando lo specifico risultato giurisdizionale finale e impoverendo il dialogo tra giudici dei vari gradi di giudizio, non più orientati al comune affinamento delle rispettive comprensioni, in vista della migliore soluzione giuridica, ma piuttosto prudenti osservanti del precedente. Ancora una volta, un pregiudizio alla migliore tutela dei diritti dei cittadini coinvolti nel processo.

Gli esempi illustrati evidenziano quanto siano concreti i rischi che la separazione delle carriere impatti in termini deteriori sulla percezione di sé del pubblico ministero. Il rischio è quello di rendere accettabili comportamenti e stili fortemente caratterizzati da una reclamata parzialità del pubblico ministero, proteso a percepirsi quale interprete delle esigenze securitarie tipiche della polizia giudiziaria, piuttosto che tutore del giusto equilibrio con i diritti individuali che quelle esigenze impattano.

In questo senso, l’eccessivo protagonismo mediatico da parte di alcuni autorevoli interpreti del ruolo, l’enfasi posta sui criteri di priorità, le accentuate forme di gerarchizzazione interna, giustificate dalla responsabilità “politica” del dirigente per l’efficientismo securitario dell’ufficio, l’espandersi di una logica agonistica del ruolo che individua nell’indagato-imputato (e nella sua difesa tecnica) il “nemico” contro cui si vince o si perde nell’agone processuale, possono costituire alcuni dei fronti di significativa mutazione dello statuto concreto del pubblico ministero. È, infatti, la percezione di sé e del proprio ruolo il primo argine di difesa contro il pericolo di degradazione del pubblico ministero a parte processuale, impegnata nella difesa dell’operato della polizia giudiziaria e, di conseguenza, co-protagonista, ma anche co-responsabile delle politiche perseguite dal governo di turno in materia di sicurezza pubblica. Il futuro, dunque, potrebbe consegnare un pubblico ministero definitivamente separato dal giudice perché culturalmente asimmetrico a lui e, quindi, trasformato in una parte faziosa del procedimento, orientata al perseguimento di obiettivi e risultati (che potranno costituire anche il parametro del giudizio di professionalità) rispetto ai quali la tutela dei diritti coinvolti e il contributo alla ricerca della verità processuale potrebbero diventare accessori secondari, se non proprio scomodi orpelli.

Se ne è consapevoli? È un rischio che vale la pena di correre e, in caso di risposta positiva, contro-bilanciato da quali benefici, accertato come nello statuto attuale dei rapporti non vi sono evidenze che depongano verso un’alterazione dei risultati giudiziari determinata dall’unicità della carriera?

A queste domande, gli epigoni della riforma rispondono facendo spallucce e, anzi, affermando che la degradazione del ruolo del pubblico ministero da parte processuale imparziale a parte processuale faziosa, è un problema interno a quella corporazione. Si tratta di una prospettiva miope, distorta dal dogma ideologico della separazione delle carriere, intesa non già quale strumento di miglioramento del risultato giurisdizionale (che è l’unica bussola di chi ha a cuore la qualità del servizio giustizia), quanto piuttosto quale strumento di riavvicinamento del difensore al pubblico ministero, ottenuto attraverso un abbassamento della professionalità e del ruolo funzionale di quest’ultimo. Il tutto a discapito della qualità della prestazione del pubblico ministero e, con questa, dell’efficienza del sistema della giustizia penale, giacché – separati o meno che siano – saranno sempre i pubblici ministeri a governare le indagini preliminari e, quindi, a determinare la qualità della sentenza che le mette in verifica. 

È, insomma, un’idea balzana quella di disinteressarsi degli effetti culturali della riforma sul pubblico ministero, trascurando che questi è portatore di interessi pubblici e tutore di diritti fondamentali, sicché prendersi cura di come egli si percepisce ed esercita le sue funzioni significa avere cura della qualità ed efficienza della giustizia penale.

 

6. La chimera del super-pm autonomo e indipendente

Si è visto come, nel sistema vigente, l’inserimento del pubblico ministero all’interno della carriera unica dei magistrati costituisca un formidabile formante culturale non solo sotto il profilo schiettamente professionale, ma anche sotto quello ordinamentale. L’essere sottoposto a valutazione di professionalità anche dai giudici acuisce l’attenzione del pubblico ministero verso il risultato giudiziario piuttosto che verso quello mediatico, mentre la formazione comune lo forgia alla complessità della giurisdizione, aiutandolo a coltivare l’allergia per soluzioni semplici, funzionali a dare rassicurazioni securitarie piuttosto che risposte di giustizia. Inoltre, l’unica carriera garantisce a giudici e pubblici ministeri quella comune autonomia e indipendenza che non sono un privilegio corporativo, ma servono piuttosto a garantire un’interpretazione della norma e una tutela dei diritti fondamentali coinvolti nel processo, in termini conformi alla Costituzione e alle norme internazionali pattizie. 

Non va dimenticato, infatti, che nella sua attività il pubblico ministero esercita una discrezionalità tecnica incomprimibile. Ad esempio, scegliere se e quando disporre una perquisizione o un’ispezione oppure se riunire o meno due procedimenti che presentano collegamenti investigativi, oppure se assumere o meno informazioni da una persona prossima all’indagato, costituiscono alcune tra le moltissime scelte che il pubblico ministero esercita secondo criteri discrezionali (dei quali egli deve poter render conto, ove richiesto). L’elefantiasi della produzione penale, poi, ha generato la necessità di introdurre criteri di priorità nella gestione dei fascicoli che si associa alla ordinaria diversa attenzione e cura che ciascun pubblico ministero dedica al singolo fascicolo in ragione della complessità e della rilevanza delle vicende che lo caratterizzano. 

Sciogliere l’unicità della carriera, perciò, significa impedire al pubblico ministero di esercitare questi poteri e facoltà nel confronto continuo con la magistratura giudicante, isolando quella requirente in un’autoreferenzialità pericolosa. Non è un caso che non esistono Paesi nei quali il pubblico ministero, sganciato dalla magistratura giudicante, sia autonomo e indipendente. Invero, non lo è neppure il Portogallo che, pure, ha una struttura apparentemente così orientata. E infatti, quel sistema conosce una rigida gerarchizzazione che fa capo a un vertice nominato dal Ministro della giustizia[11]. La concentrazione di poteri diffusi in capo ai pubblici ministeri italiani, in esito alla separazione delle carriere, invece, non avrebbe alcun contrappeso, ed è agevole intendere come ben presto si porrebbe il problema di come contenere questa autonomia e indipendenza, prive di controlli e bilanciamenti. Tuttavia, non è solo attraverso la sottoposizione diretta del pubblico ministero all’esecutivo che questi scopi potrebbero essere raggiunti. Invero, obiettivi non dissimili si possono ottenere anche manipolando le norme processuali. Ad esempio, se si intervenisse sull’art. 347 cpp, amputandolo delle previsioni relative alla celere comunicazione delle notizie di reato al pubblico ministero da parte della polizia giudiziaria, quest’ultima potrebbe gestire autonomamente le indagini, portando al pubblico ministero solo il prodotto già definito. In questo modo, il pubblico ministero diventerebbe, di fatto, l’avvocato della polizia giudiziaria, mentre quest’ultima risponderebbe delle modalità di ricerca e formazione della prova solo al vertice ministeriale di riferimento. L’esito sarebbe un pubblico ministero dimidiato, a favore dell’esaltazione del ruolo della polizia giudiziaria e, quindi, del potere esecutivo da cui questa dipende. 

Ben si intende, allora, come la rottura dell’unicità della carriera nella magistratura può essere l’anticamera per sperimentazioni volte a limitare i bilanciamenti e contrappesi previsti dalla Costituzione, verticalizzando a favore dell’esecutivo le relazioni istituzionali, con minori garanzie di tutela per i diritti dei cittadini. 

 

 

*  Pubblicato su Questione giustizia online il 30 giugno 2025 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-no-alla-separazione-delle-carriere-con-parole-semplici-un-tentativo).

1. Sul tema, con consueto acume previgente, N. Rossi, Il premier “pigliatutto” e lo squilibrio tra poteri, in Questione giustizia online, 21 maggio 2024 (www.questionegiustizia.it/articolo/premier-pigliatutto).

2. Sul tema, Corte cost., sent. n. 37/2000.

3. Sul punto, R. Sanlorenzo, L’Alta Corte disciplinare secondo il progetto di riforma costituzionale, in Questione giustizia online, 12 giugno 2025 (www.questionegiustizia.it/articolo/l-alta-corte-disciplinare-secondo-il-progetto-di-riforma-costituzionale), ora in questo fascicolo.

4. Sul tema, N. Rossi, Csm separati e formati per sorteggio. Una riforma per scompaginare il governo autonomo, in Questione giustizia online, 10 giugno 2025 (www.questionegiustizia.it/articolo/csm-sorteggio), ora in questo fascicolo.

5. Il tema è affrontato da R. Romboli, Magistratura e politica dalla finestra del Csm. I progetti di revisione costituzionale e la pratica di delegittimazione della magistratura, in Questione giustizia online, 11 giugno 2025 (www.questionegiustizia.it/articolo/magistratura-politica-finestra-csm), ora in questo fascicolo.

6. L’affermazione è di  A. Macchia, Le “nuove” indagini preliminari: aggiustamenti o metamorfosi?, in Sistema penale,  27 gennaio 2025 (www.sistemapenale.it/it/articolo/macchia-le-nuove-indagini-preliminari-aggiustamenti-o-metamorfosi).

7. Per un’analisi anticipatrice degli effetti della riforma Cartabia, vds. G. Ruta, Verso una nuova istruzione formale? Il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, pp. 115-126 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/992/4-2021_qg_ruta.pdf); per un’approfondita analisi delle “nuove” indagini preliminari scaturite dalla riforma Cartabia, vds. Invece A. Giovene, in M. Cervadoro (a cura di), Processo e riforma del sistema penale, Key, Milano, 2014, pp. 31 ss.

8. Per intendere quanto pregnante debba essere questa valutazione, si rinvia agli insegnamenti ben espressi nella sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 2024.

9. In particolare, il riferimento è alla formazione del fascicolo personale del magistrato (art. 10-bis); ai criteri per la valutazione di professionalità (art. 11); al procedimento di valutazione (art. 11-bis).

10. P. Gaeta, L’organizzazione degli uffici di procura, in Questione giustizia online, 18 dicembre 2019 (www.questionegiustizia.it/articolo/l-organizzazione-degli-uffici-di-procura_18-12-2019.php).

11. M. Guglielmi, I giudici nella crisi delle democrazie europee: antefatti e rischi del “nuovo fronte” italiano, in questo fascicolo (anticipato su Questione giustizia online il 4 luglio 2025 – www.questionegiustizia.it/articolo/i-giudici-nella-crisi-delle-democrazie-europee-antefatti-e-rischi-del-nuovo-fronte-italiano).