Magistratura e politica dalla finestra del Csm. I progetti di revisione costituzionale e la pratica di delegittimazione della magistratura
1. Magistratura e politica dalla finestra del Csm / 1.1. Premessa. Dallo Stato legale allo Stato di diritto: la soggezione del giudice solo alla legge e il diritto giurisprudenziale / 1.2. Le critiche ai “giudici politicizzati” e la delegittimazione in corso della magistratura: i casi Apostolico, Gattuso, Toti e il risarcimento dei danni a favore dei migranti nel caso Diciotti / 1.3. Csm e politica: l’utilizzo (strumentale o supposto tale) di alcuni istituti, quali le pratiche a tutela, il trasferimento per incompatibilità ambientale e i pareri al Ministro della giustizia / 1.4. Il Governo e il Csm: in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati; la (s)leale collaborazione / 2. I progetti di riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario / 2.1. Le disposizioni dei precedenti progetti non più presenti nel progetto di riforma costituzionale Meloni-Nordio e il divieto di iscrizione negli albi professionali da parte dei consiglieri eletti al Csm / 2.2. La riforma costituzionale contenuta nel ddl costituzionale Meloni-Nordio, n. 1917/2024: la separazione delle carriere come foglia di fico / 2.3. La “vera riforma” ossia la trasformazione del Consiglio superiore della magistratura: una premessa sulla natura costituzionale o amministrativa e sul ruolo rappresentativo e di garanzia del Consiglio / 2.4. [Segue] La sostituzione del metodo elettorale con quello del sorteggio, puro o temperato. Il sorteggiato come estraneo al valore della democrazia e al principio di rappresentanza / 2.5. [Segue] La creazione di due distinti Consigli superiori, per la magistratura giudicante e per quella requirente. Aspetti pratici di funzionalità e di natura sistemica / 2.6. [Segue] La previsione di un’Alta Corte di disciplina esterna al Csm. Le superabili ragioni a fondamento dell’istituzione e i punti critici / 2.7. Alcune valutazioni conclusive sulla riforma costituzionale: una scatola per molti, importanti aspetti ancora da riempire e comunque una medicina che potrebbe vincere la malattia (degenerazione correntizia), ma col sicuro effetto di uccidere il malato (Csm)
1. Magistratura e politica dalla finestra del Csm
1.1. Premessa. Dallo Stato legale allo Stato di diritto: la soggezione del giudice solo alla legge e il diritto giurisprudenziale
Con questo scritto intendo svolgere alcune riflessioni tratte anche dall’esperienza ancora in corso quale consigliere laico del Consiglio superiore della magistratura. Interessante per me la possibilità di porre a confronto un sistema costituzionale studiato a livello accademico con il reale funzionamento degli istituti: alcune conferme accanto a elementi di maggiore o minore dissonanza.
Il lavoro si articolerà essenzialmente su due aspetti: sul rapporto, assai particolare in questi ultimi mesi, tra magistratura e politica, visto appunto dalla finestra della mia esperienza al Csm, nonché un esame dei progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario e specificamente sul disegno di legge costituzionale in discussione alle camere (cd. “progetto Nordio”), nel quale sono confluite una parte delle norme contenute nei progetti precedentemente presentati, a partire dal progetto di iniziativa popolare avanzato nel 2017 su iniziativa delle Camere penali. Iniziando quindi dal primo, non è ovviamente mia intenzione affrontare, neppure in pillole, un tema tanto ampio e complesso quale quello dei rapporti tra politica e magistratura. Vorrei infatti limitarmi a ricordare sul punto il fenomeno dei cd. giudici politicizzati, indicati con una frequenza impressionante come soggetti che vorrebbero sostituirsi alla politica, in violazione del principio della separazione dei poteri, secondo cui le leggi (e le scelte che la loro approvazione comporta) le fa il Parlamento, mentre i giudici hanno il compito di applicarle. Ciò in quanto solo il primo viene eletto ed è quindi politicamente responsabile davanti al corpo elettorale, al contrario dei secondi, i quali, qualora intendano fare politica, dovrebbero lasciare la magistratura e presentarsi alle elezioni con un proprio programma e una propria lista.
Vale la pena di ricordare al proposito come, almeno finora, un dato assolutamente pacifico sia quello dell’esistenza accanto a un diritto politico (espresso attraverso leggi, decreti, regolamenti, etc.) anche di un diritto giurisprudenziale, derivante dai provvedimenti del giudiziario. Anche il giudice infatti “crea diritto” e ciò avviene non certo nel senso “forte”, di creare qualcosa che non c’è, ma in un senso “debole” – secondo la definizione di Luigi Ferrajoli –, in considerazione degli spazi notevoli che la creazione dello Stato costituzionale ha determinato a favore delle soluzioni interpretative che il giudice è chiamato a verificare.
Nello Stato liberale le fonti del diritto si riducevano solo alla legge statale, mentre con lo Stato costituzionale il sistema delle fonti si è fatto più complesso a seguito della presenza di una fonte nuova, e assai particolare, quale è la Costituzione e il livello delle fonti primarie si è arricchito, tra l’altro, delle leggi regionali e di specifici poteri normativi del Governo. La realizzazione dell’ordinamento comunitario (ora dell’Unione europea) ha ulteriormente integrato il sistema, attraverso i Trattati istitutivi, di livello costituzionale, e i regolamenti, cui le leggi nazionali sono, entro i limiti di competenza della Ue, subordinate, nel senso che sussiste l’obbligo dei nostri giudici di disapplicare le seconde se in contrasto con la normativa europea.
Tra le Carte dei diritti è poi da considerare l’importanza sempre maggiore che è venuta ad assumere la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) nell’ambito dei Paesi del Consiglio d’Europa e, successivamente, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Cdfue) e la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Di conseguenza, il principio fondamentale, contenuto anche nella nostra Costituzione, secondo cui “il giudice è soggetto soltanto alla legge”, deve essere inteso più propriamente, secondo l’insegnamento di Alessandro Pizzorusso, come soggezione del giudice soltanto “al diritto”, e deve essere integrato nel senso che la soggezione solo alla legge vale a condizione che la stessa sia conforme alla Costituzione, da un lato, e al diritto dell’Unione, dall’altro. Un aspetto che non sempre pare essere chiaro a quanti criticano certi provvedimenti di cui parlerò tra un momento.
Il legislatore, dicevamo, ha il compito di fare le leggi, mentre ai giudici spetta quello di applicarle. Vale la pena di ricordare che, tra la prima e la seconda attività, si inserisce inevitabilmente quella di interpretazione delle disposizioni da applicare. Da qui, la nota distinzione tra disposizione e norma.
La particolarità della “nuova” fonte, rappresentata dalla Costituzione repubblicana, consiste nel fatto che si tratta di una fonte superiore alla legge (ciò che segna il passaggio dallo Stato legale allo Stato costituzionale), la quale si esprime più per principi che non per regole.
Questa caratteristica ha fatto sì che il potere interpretativo del giudice si sia venuto decisamente ad ampliare, in ragione della complessità del sistema delle fonti e della necessità per il giudice di interpretare la legge alla luce della Costituzione (cd. interpretazione costituzionalmente conforme) e delle surricordate Carte sovranazionali.
Da tempo è una realtà da tutti conosciuta e accettata – per la cui esistenza è sufficiente scorrere un qualsiasi repertorio di giurisprudenza – quella per la quale è possibile che due giudici, applicando la stessa legge allo stesso caso, giungano, a seguito del concreto esercizio del loro potere interpretativo e della specificità dei fatti da giudicare, a soluzioni differenti, senza che l’una o l’altra possa essere ritenuta sbagliata.
La esistenza di un diritto giurisprudenziale è, del resto, confermata dalla normativa sopranazionale, per larga parte frutto dell’elaborazione delle Corti sovranazionali, in stretto raccordo con i giudici nazionali.
1.2. Le critiche ai “giudici politicizzati” e la delegittimazione in corso della magistratura: i casi Apostolico, Gattuso, Toti e il risarcimento dei danni a favore dei migranti nel caso Diciotti
Con riguardo più specificamente ai giudici “politicizzati”, accusati, anche da parte di soggetti che ricoprono importanti cariche istituzionali, di volersi sostituire al legislatore, vorrei ricordare in estrema sintesi i casi della giudice Apostolico, del giudice Gattuso e dei magistrati che hanno giudicato il caso Toti a Genova.
Il caso Apostolico, assai pubblicizzato, ha avuto ad oggetto un provvedimento pronunciato da un magistrato di Catania con cui non veniva convalidato – in quanto la norma sulla quale esso si fondava era stata giudicata in contrasto con il diritto dell’Unione europea e con la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo (puntualmente citata) – il provvedimento che disponeva il trattenimento di quattro migranti, emesso dal questore di Ragusa.
Senza alcun cenno al contenuto della decisione e alla sua motivazione, la pronuncia è stata definita «incredibile» (in quanto disapplica una legge dello Stato, sic!) dalla Presidente del Consiglio dei ministri in carica, e la magistrata qualificata come “scafista in toga”, “nemica della sicurezza sociale” o, con un epiteto più classico, “toga rossa”.
Tutto ciò quale conseguenza di un video, risalente a cinque anni prima, che ritraeva la partecipazione della magistrata a una pacifica manifestazione nella quale si chiedeva al Governo di far approdare una nave e permettere ai passeggeri, tra i quali minori e donne, di scendere a terra ed essere soccorsi, in quanto alcuni versavano in condizioni di salute precaria.
Il Ministro Nordio ha sostenuto che «la magistrata poteva andare alla manifestazione, ma non doveva» (comportamento quindi legittimo, ma inopportuno), mentre il Ministro Salvini ha scritto che la vicenda avrebbe mostrato chiaramente la necessità ed urgenza di una riforma della giustizia e di una separazione delle carriere (sic!).
Sempre a proposito della vicenda dei migranti e della nozione di «Paese sicuro», i critici dei provvedimenti giurisdizionali – colpevoli di disapplicare leggi nazionali ritenute contrastanti con il diritto dell’Unione europea e con l’interpretazione data allo stesso dalla Corte di Lussemburgo – avevano in più occasioni sollecitato i giudici a sospendere il loro giudizio e a chiedere l’intervento chiarificatore della suddetta Corte, azionando il rinvio pregiudiziale.
Proprio questo è ciò che ha fatto il giudice Gattuso, del Tribunale di Bologna, attraverso un’ampia e motivata ordinanza con cui ha richiamato la normativa nazionale, quella eurounitaria e la giurisprudenza della Corte di giustizia, chiedendo alla stessa di chiarire se la normativa nazionale si ponesse o meno in contrasto con quella europea.
Anche questa decisione, pur se invocata, è stata ugualmente criticata soprattutto perché sarebbe stata pronunciata con l’intento di intralciare la linea politica perseguita dal Governo. Della pronuncia, espressa in venticinque pagine a spaziatura uno, sono state riportate in particolare le quattro righe con le quali il giudice citava, “per paradosso”, l’esempio della Germania nazista come Paese sicuro, tacendo su tutto il resto dell’articolata motivazione
Pure il caso del “governatore” della Liguria, Giovanni Toti, è stato oggetto di attenzione da parte degli organi di informazione e i giudici competenti a giudicare sono stati pubblicamente segnalati per violazione della condizione richiesta “alla moglie di Cesare” (la cd. apparenza di imparzialità). Quello che aveva firmato gli arresti e respinto la domanda di revoca, in quanto figlio di un ex consigliere comunale della Margherita e poi del Pd, nonché quello facente parte del collegio giudicante (composto da tre magistrati, ritenuti dal giornalista «al di sopra di ogni sospetto e professionalmente solidi»), in quanto fratello di un già onorevole del M5S, poi uscito e fondatore di un nuovo partito (NOI) (cfr. P. Senaldi su Libero, 6 agosto 2024).
Le decisioni dei giudici sono, come noto, pronunciate in nome del popolo italiano e sono pubbliche. Esse possono essere impugnate nei gradi successivi del giudizio e possono certamente anche essere oggetto di valutazioni critiche da parte di tutti i destinatari, politici compresi.
Proprio per rendere ciò possibile, la nostra Costituzione fissa all’art. 111, 6° comma, il principio secondo cui «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati».
Un principio inutile per molti dei giudizi critici sopra riportati, i quali mostrano chiaramente di provenire da persone che non hanno letto la motivazione, sia in ragione del contenuto delle critiche avanzate, sia perché espressi addirittura prima del deposito del provvedimento. Il giudizio negativo viene fondato esclusivamente sul dispositivo, per il solo fatto di porsi in contrasto con la linea politica del Governo.
Le surricordate critiche rivolte ai provvedimenti giudiziari sono spesso tali da determinare un effetto delegittimante verso la magistratura e da incidere sulla fiducia che necessariamente i consociati debbono avere nei confronti di coloro che li giudicano.
Tutti ricordano la campagna di delegittimazione della magistratura attuata durante i Governi Berlusconi, il quale era solito definire la stessa come “un cancro da estirpare” e tutti i giudici come “comunisti” o “mentalmente disturbati”.
L’azione delegittimante attualmente in corso è svolta in maniera più selettiva, non “si spara più nel mucchio” (tutti comunisti o tutti matti), ma si vanno a colpire singole persone e singoli provvedimenti, sostenendo che i “giudici politici” sono una assoluta minoranza rispetto alla generalità dei magistrati, bravi, attenti, laboriosi e rispettosi delle scelte del legislatore e della maggioranza di governo.
Un simile comportamento, come detto, esercita un effetto assai pericoloso sulla legittimazione dell’attività giurisdizionale, la quale si fonda sulla fiducia dei consociati nelle decisioni dei giudici, le quali vengono rispettate, anche quando non sono condivise, solo a condizione che si abbia la fiducia che esse provengono da un soggetto indipendente, imparziale e professionalmente preparato. Minare questa fiducia significa incidere sulla legittimazione della magistratura.
Con riferimento alla decisione delle sezioni unite civili della Cassazione, che ha accolto la richiesta di condanna del Governo, con riguardo al caso Diciotti, al risarcimento per i danni non patrimoniali subiti dai migranti a causa della privazione della libertà, la Presidente del Consiglio dei ministri ha giudicato «assai opinabile» il principio posto a base della decisione e ha sostenuto che, «in sostanza, per effetto di questa decisione, il governo dovrà risarcire – con i soldi dei cittadini italiani onesti che pagano le tasse – persone che hanno tentato di entrare in Italia illegalmente, ovvero violando la legge dello Stato italiano. Non credo siano queste le decisioni che avvicinano i cittadini alle istituzioni e confesso che dover spendere soldi per questo, quando non abbiamo abbastanza risorse per fare tutto quello che sarebbe giusto fare, è molto frustante».
A queste dichiarazioni ha risposto la prima presidente della Corte di cassazione (Margherita Cassano) con un secco comunicato stampa del 7 marzo 2025: «Le decisioni della Corte di cassazione, al pari di quelle degli altri giudici, possono essere oggetto di critica. Sono, invece, inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto».
1.3. Csm e politica: l’utilizzo (strumentale o supposto tale) di alcuni istituti, quali le pratiche a tutela, il trasferimento per incompatibilità ambientale e i pareri al Ministro della giustizia
Tra le competenze attribuite o comunque esercitate dal Csm, alcune, recentemente, sono state in qualche misura avvicinate alle relazioni tra magistratura e potere politico, così l’istituto delle pratiche a tutela e l’approvazione di pareri al Ministro della giustizia.
Sempre con riguardo alla mia esperienza consiliare, per i primi ricordo come si è finalmente avuta una discussione in plenum (20 novembre 2024) in ordine a una pratica a tutela sollecitata da alcuni consiglieri in merito alle forti critiche, anche addirittura a carattere personale, nei confronti del giudice Gattuso del Tribunale di Bologna per la vicenda giudiziaria di cui ho già parlato.
Si tratta di una funzione non ricompresa fra quelle riconosciute al Consiglio dagli artt. 105 Cost. e 10 l. 24 marzo 1958, n. 195, anche se pare facilmente inseribile tra le competenze “implicite” in ragione della sua stretta connessione con la finalità per la quale il Csm è stato previsto dalla Costituzione: garantire l’indipendenza esterna del giudice, particolarmente da possibili influenze o ingerenze degli organi politici e di governo.
Attualmente essa è disciplinata dal regolamento interno del Consiglio, che all’art. 36 prevede una procedura per gli interventi a tutela dell’indipendenza e del prestigio dei magistrati e della funzione giudiziaria. È stabilito che «gli interventi del Consiglio a tutela di singoli magistrati o dell’ordine giudiziario nel suo complesso, hanno quale presupposto l’esistenza di comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria».
Le richieste sono vagliate dalla prima commissione, la quale, in assenza dei presupposti, può proporne l’archiviazione oppure chiedere l’apertura di una pratica che può condurre alla discussione in plenum, con l’assunzione di una delibera con cui il Consiglio prende posizione sulla vicenda.
Da segnalare con favore l’avvenuta discussione, in quanto l’importante istituto della pratica a tutela, sorto per garantire i magistrati o la magistratura dagli attacchi della politica, negli ultimi anni assai raramente è giunto a una discussione da parte del plenum, rischiando di trasformarsi in uno strumento che esaurisce il suo scopo con la pubblicazione della notizia sui mezzi di informazione, snaturando così, almeno in parte, l’istituto.
Si pensi, al proposito, che la pratica è stata chiesta a tutela dell’ordine giudiziario nei confronti di affermazioni fatte da un magistrato sulla Presidente del Consiglio dei ministri (!)[1].
Sempre con riguardo al possibile snaturamento di istituti previsti ad altro scopo, mi pare opportuno segnalare l’improprio utilizzo della richiesta, avanzata due volte negli ultimi mesi, di trasferimento per incompatibilità ambientale in funzione paradisciplinare, per situazioni per le quali mancavano all’evidenza i presupposti previsti dalla legge.
L’art. 2 d.lgs 31 maggio 1946, n. 511 prevede, quale eccezione al principio costituzionale di inamovibilità, la possibilità per i magistrati di essere trasferiti, anche senza il loro consenso, ad altra sede o destinati ad altre funzioni, previo parere del Consiglio superiore della magistratura, «quando (…) per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità».
Proprio ad evitare un uso dell’istituto in chiave paradisciplinare – che priverebbe il magistrato delle garanzie proprie del processo disciplinare a natura giurisdizionale –, il legislatore è intervenuto eliminando il termine «anche» dalla espressione «anche indipendente da loro colpa», facendo sì che il trasferimento di cui all’art. 2 possa essere effettuato solo se il caso risulti «indipendente da loro colpa», dovendosi altrimenti attivare il giudizio disciplinare.
I due casi recenti mostrano all’evidenza l’uso strumentale dell’istituto.
Per il primo (seduta del plenum del 2 aprile 2025), la pratica di trasferimento ai sensi del suddetto art. 2 aveva ad oggetto le dichiarazioni di Stefano Musolino, il quale, intervenendo a un evento organizzato dal movimento “No Ponte” aveva affermato: «siamo molto preoccupati; esiste un problema di gestione del dissenso che non può essere affrontato attraverso strumenti penali; stiamo vivendo un momento in cui si presentano davanti a noi scelte molto importanti. I conflitti possono essere deleteri se non si basano sul rispetto reciproco delle posizioni e possono invece essere molto fruttuosi se vengono gestiti e governati. Ma per farlo non si può ricorrere allo strumento penale. Non si possono inventare nuove norme per radicalizzare il dissenso e, addirittura, criminalizzarlo».
Dette affermazioni avrebbero rappresentato, per le consigliere proponenti, una violazione dei principi costituzionali di imparzialità e indipendenza.
Per il secondo (seduta del plenum del 16 aprile 2025), la pratica aveva ad oggetto un messaggio, affidato a una chat “chiusa”, ma pubblicato sul quotidiano Il Tempo in data 20 ottobre 2024, del magistrato Marco Patarnello sulla Presidente del Consiglio in carica[2].
In entrambi i casi risulta palese l’assenza sia dell’elemento soggettivo (causa indipendente da colpa), sia di quello oggettivo (impossibilità di svolgere le proprie funzioni, nella sede occupata, con piena indipendenza e imparzialità), così come richiesti dalla consolidata giurisprudenza amministrativa perché possa farsi luogo a un trasferimento per incompatibilità ambientale.
Una funzione invece espressamente prevista dalla l. n. 195/1958 (art. 10) è quella, per il Consiglio, di dare «pareri al ministro sui disegni di legge concernenti l’ordinamento giudiziario, l’amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie».
Molto si è discusso in dottrina in ordine alla necessità o meno di una espressa richiesta del Ministro o dell’efficacia del parere stesso.
Senza poter ripercorrere le tesi espresse in dottrina, credo di poter dire che, per dare effettività alla previsione normativa, deve ritenersi corretta la lettura che esclude l’obbligo di una richiesta.
Al proposito, faccio solo un riferimento recente: il Ministro non ha ritenuto di chiedere un parere al Consiglio in ordine al progetto di revisione costituzionale di una parte importante del titolo IV della parte seconda della Costituzione, che giungerebbe, come dirò, a mutare profondamente l’attuale disciplina e ruolo costituzionale del Csm. Seguendo la suddetta lettura, il Consiglio ha proceduto ad approvare un parere sulla riforma[3].
Frequenti sono state le critiche, anche da parte di alcuni consiglieri, di voler utilizzare lo strumento del parere per fare politica da parte del Consiglio superiore, avanzando valutazioni e giudizi che esulano dai limiti ad esso fissati dalla legge.
Nessun dubbio ovviamente circa la natura non vincolante del parere e che il Consiglio superiore debba esercitare questa attribuzione in spirito di leale collaborazione e in osservanza dei limiti ad esso imposti dalla legge e dal principio di separazione dei poteri. La natura non vincolante del parere e il principio di leale collaborazione dovrebbero, in ogni caso, portare a leggere questi limiti in maniera non rigida o letterale.
1.4. Il governo e il Csm: in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati; la (s)leale collaborazione
Qualche osservazione, adesso, in ordine a recenti comportamenti del Governo in materia disciplinare e all’applicazione del principio di leale collaborazione con il Consiglio superiore.
Abbiamo già parlato dei giudizi assai severi espressi dal Ministro della giustizia nei riguardi di provvedimenti giurisdizionali, in alcuni casi espressamente definiti «abnormi».
Merita una segnalazione la dichiarazione del Ministro Nordio, il quale, riferendosi all’attività delle procure, ha definito i pubblici ministeri come superpoliziotti dotati di un potere smisurato, che godono delle garanzie dei giudici, e ha parlato di «clonazione» di fascicoli, di indagini «occulte ed eterne», di «disastri finanziari», come prassi diffuse e condivise dalle procure della Repubblica (Il Dubbio, 24 gennaio 2025) e, rispondendo a un question time al Senato (10 aprile 2025), sul tema del sovraffollamento delle carceri e dei molti suicidi, ha sostenuto: «se aumenta il numero dei carcerati non è colpa del Governo, è colpa di chi commette dei reati e della magistratura che li mette in prigione» (sic!).
Suscita perplessità non solo il giudizio del Ministro sulla singola sentenza, per le ragioni di delegittimazione prima ricordate, quanto sul fatto che il Ministro è, come noto, titolare, insieme al procuratore generale presso la Corte di cassazione, dell’esercizio dell’azione disciplinare. Essa può essere proposta, tra le altre cause, per «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», da «travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile» o per «adozione di provvedimenti adottati nei casi non consentiti dalla legge, per negligenza grave e inescusabile, che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali» (d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, lett. g, h, m). Non risulta che, nei casi sopra ricordati, il Ministro abbia esercitato l’azione disciplinare.
Il secondo rilievo riguarda, invece, un emendamento proposto in questi giorni dal Governo all’art. 2, lett. c, d.lgs n. 109/2006, il quale prevede l’illecito disciplinare in caso di «consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge». Attraverso l’emendamento a un decreto legge si aggiunge, per il suddetto obbligo, l’ulteriore ipotesi di «quando sussistono gravi ragioni di convenienza».
La reale volontà è chiaramente quella di avvertire i magistrati che esprimono, con comportamenti (vds. la giudice Apostolico) o parole (vds. il giudice Musolino, a proposito del ponte sullo Stretto), una loro opinione circa una possibile responsabilità disciplinare, azionabile, come dicevamo, dal Ministro della giustizia.
La modifica appare sotto alcuni aspetti discutibile e, sotto altri, del tutto inutile.
Con riguardo ai magistrati giudicanti, infatti, l’art. 36 cpp prevede già l’obbligo di astensione «se esistono gravi ragioni di convenienza» e l’art. 51 cpc prevede pure che nel caso ricorrano gravi ragioni di convenienza, vi sia non l’obbligo di astenersi, ma quello di richiedere al capo dell’ufficio l’autorizzazione a farlo.
Per i magistrati del pubblico ministero, l’art. 52 cpp prevede invece solo la facoltà di astensione in caso di «gravi ragioni di convenienza».
Le perplessità nascono sia con riguardo alla possibile violazione della tassatività degli illeciti disciplinari, stante la genericità della nuova ipotesi che verrebbe introdotta, sia soprattutto per il fatto che la nuova disposizione viene a richiedere, perché sussista una responsabilità disciplinare, che il magistrato abbia «la consapevolezza» dell’esistenza di «gravi ragioni di convenienza». Pare difficile provare, nel giudizio disciplinare, la sussistenza della consapevolezza, dal momento che trattasi di un requisito a carattere soggettivo e non oggettivabile.
Nei rapporti tra il Consiglio superiore e il Ministro della giustizia, da tutti condiviso è il richiamo al principio di leale collaborazione, anche se questo, nei fatti, non sempre pare aver ispirato il comportamento del Governo. Mi limito, nell’ambito della mia esperienza, a due esempi che possono risultare significativi.
Il primo riguarda l’accesso alla magistratura e la previsione, assai dibattuta, di un test psicoattitudinale cui debbono essere sottoposti i candidati che hanno superato positivamente le prove scritte.
Con riguardo alle nuove norme sull’accesso, in attuazione dei principi contenuti nella legge delega (cd. “legge Cartabia”, del 2022), il Ministro aveva inviato al Consiglio una bozza di decreto legislativo sul quale chiedeva di esprimere un parere, ai sensi dell’art. 10 l. n. 195/1958.
Secondo prassi, l’Ufficio studi e documentazione del Csm ha elaborato un approfondito dossier elencando tutta una serie di elementi critici; la sesta commissione, a sua volta, ha ampiamente discusso e quindi predisposto una articolata proposta. Questa è stata sottoposta al plenum, il quale, dopo ampia discussione, l’ha approvata e inviata al Ministro della giustizia.
Una particolarità non di scarso rilievo: quello schema di decreto legislativo non conteneva la previsione del test psicoattitudinale, nonostante che – come si è reso evidente dalle valutazioni che ne sono seguite – non si trattasse certo di elemento secondario e di cui si era parlato già all’epoca dei Governi Berlusconi.
Il Governo ha infatti inserito quella previsione dopo il ricevimento del nostro parere e il Consiglio non è stato posto in condizione di esprimere sul punto le proprie valutazioni, pur avendo nell’immediatezza ricevuto una lettera firmata da oltre quattrocento magistrati, che chiedevano al Consiglio di esprimere un parere negativo.
Un altro caso, più recente, riguarda invece la fissazione della data delle votazioni per il rinnovo dei consigli giudiziari.
I consigli giudiziari, come noto, durano in carica quattro anni e la legge prevede che le votazioni per il loro rinnovo si tengano nella prima domenica di aprile e il lunedì successivo (d.lgs n. 35/2008, art. 1). Nell’anno 2020, in ragione della pandemia da Covid, la data venne spostata da aprile ad ottobre dello stesso anno (dl n. 18/2020, convertito con l. n. 27/2020), ponendo così il problema della nuova data di scadenza.
In astratto, erano possibili tre soluzioni: a) ottobre 2024 (consentendo così al consiglio giudiziario di rimanere in carica esattamente quattro anni); b) aprile 2024 (tornando alla data “normale”, ma restringendo la durata in carica a tre anni e mezzo); c) aprile 2025 (con una prorogatio di sei mesi dei consigli in carica).
Anche in questo caso, il Csm espresse il proprio parere e chiese comunque al Ministro di indicare il prima possibile le sue scelte, in modo che potessero essere adeguatamente seguiti gli adempimenti richiesti dalla legge.
Il Governo, almeno in un primo momento, non ha accolto alcuna delle tre ipotesi, ma ha provveduto a spostare le votazioni a dicembre 2024 (1° e 2).
Nei mesi successivi, aveva preso a circolare la voce di un possibile ulteriore spostamento delle elezioni al mese di aprile 2025. Per questo, il Consiglio aveva ricevuto richieste dai presidenti di corte d’appello di avere notizie più precise, dovendo procedere a raccogliere il deposito delle liste, istituire i seggi elettorali, preparare le schede per la votazione e quanto altro. Nonostante le richieste, in via formale e informale, il Consiglio non ha ricevuto alcuna risposta dal Ministero.
Quando le liste erano già state presentate e le schede predisposte, venerdì 29 novembre scorso è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto che ha spostato le elezioni al mese di aprile 2025.
Nessuna preventiva informazione è stata comunicata al Consiglio superiore dal Ministro, il quale ha affermato che di ciò aveva informato l’Associazione nazionale magistrati, che ha smentito la cosa e che comunque, a livello istituzionale, non può certamente essere considerata un valido sostituto del Consiglio.
2. I progetti di riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario
2.1. Le disposizioni dei precedenti progetti non più presenti nel progetto di riforma costituzionale Meloni-Nordio e il divieto di iscrizione negli albi professionali da parte dei consiglieri eletti al Csm
Venendo ai progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario che vanno a incidere sul ruolo che si intende attribuire alla magistratura nel nostro sistema costituzionale, una particolarità che merita di essere sottolineata è che il recente disegno di legge costituzionale (presentato dal Governo il 29 maggio scorso) ha un contenuto assai più ridotto rispetto ai precedenti progetti, pur presentati con motivazioni assai simili e apparentemente incentrati sulla finalità di procedere alla separazione delle carriere giudicanti e requirenti.
Vediamo, in estrema sintesi, gli aspetti che sono stati fatti cadere, per poi passare a esaminare i contenuti del ddl costituzionale Nordio.
Per i primi, non viene più soppresso il termine «altro» nel primo comma dell’art. 104: «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», forse nella giusta considerazione che una simile operazione avrebbe al massimo avuto un valore simbolico, ma non avrebbe prodotto alcun effetto pratico.
Tutti i progetti pendenti prevedevano una parificazione del numero dei membri laici e di quelli togati all’interno del Csm, eliminando un aspetto essenziale del modello voluto dal Costituente, con la dichiarata finalità di limitare la politicità (!) del Consiglio. Nel ddl Nordio la proporzione resta di due terzi e un terzo.
Altro elemento comune alle precedenti proposte era la modifica dell’art. 112 Cost., aggiungendo al principio di obbligatorietà dell’azione penale «nei casi e nei modi previsti dalle legge». La modifica non è stata ripetuta, forse anche perché un risultato del tutto analogo è stato raggiunto attraverso una legge ordinaria (l. Cartabia, art. 13 e d.lgs n. 44/2024).
Un intervento che aveva suscitato forti perplessità era stata la abrogazione pura e semplice dell’art. 107, 3° comma, Cost. («i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni»), sul quale viene comunemente fondato il principio di indipendenza interna del magistrato. Anche questa operazione non è presente nel disegno di legge costituzionale.
Non sono state ripetute le modifiche al testo costituzionale relative alle competenze del Csm che avrebbero dovuto essere intese come tassative, salvo espressa previsione con legge costituzionale, alla eliminazione della prorogatio per i membri del Csm, nonché alla nomina di avvocati e professori universitari «a tutti i livelli della magistratura giudicante».
Quanto appena detto pare dimostrare la fondatezza della tesi di coloro, compreso lo scrivente[4], che avevano sostenuto che quello della separazione delle carriere era, in fondo, solo un pretesto per intervenire assai più profondamente sul modello costituzionale di ordinamento giudiziario, dal momento che molte delle modifiche del testo costituzionale contenute nei progetti non avevano assolutamente niente a che vedere con il tema della separazione delle carriere.
Il progetto Nordio procede a una totale sostituzione e, quindi, riscrittura dell’art. 104 Cost., lasciando immutato l’ultimo comma, secondo cui «non possono [i consiglieri del Csm], finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del parlamento o di un consiglio regionale».
Nella relazione illustrativa si legge: «l’ultimo comma [del nuovo art. 104 Cost.] (…) senza innovare il testo vigente, vieta ai componenti in carica l’iscrizione agli albi professionali» (c.vi aggiunti).
Questo mi consente di richiamare una recente delibera del Csm (10 aprile 2024) a proposito dell’obbligo per gli avvocati, membri laici del Consiglio, di cancellarsi per i quattro anni della consiliatura, dall’Albo degli avvocati (diversa la questione della iscrizione alla Cassa di previdenza forense).
Durante la consiliatura in corso, i consiglieri-avvocati hanno richiesto l’apertura di una pratica allo scopo di far approvare dal Consiglio una interpretazione dell’art. 33 l. n. 195/1958, nel senso di ritenere possibile la mera sospensione dall’Albo.
Quasi procedendo a una trascrizione del dettato costituzionale, quest’ultima disposizione stabilisce che «i componenti eletti dal parlamento, finché sono in carica, non possono essere iscritti negli albi professionali». Sembrerebbe dunque che, non potendo essere iscritti, chi lo è debba procedere alla cancellazione.
E, in effetti, questa è stata la costante interpretazione seguita dal Consiglio superiore fino alla delibera citata.
La richiesta di una diversa interpretazione faceva riferimento alla sopravvenuta legge n. 247/2012, il cui art. 20 prevede che «sono sospesi dall’esercizio professionale durante il periodo della carica: (…) l’avvocato eletto membro del Csm (…)».
A parte l’ovvia considerazione secondo cui è la legge a doversi interpretare alla luce della Costituzione e non viceversa, si tratta comunque di una legge ordinamentale della professione di avvocato verso una legge specifica sullo status del consigliere del Csm.
A prescindere da ogni altro rilievo che potrebbe farsi in proposito e che mi riservo di fare in altra sede, uno degli argomenti portati a supporto della nuova interpretazione è stato individuato nella sopravvenuta legge del 2012, che avrebbe creato il nuovo istituto della sospensione, non conosciuto (?) al momento in cui i Costituenti hanno scritto il testo della Costituzione, per cui l’obbligo di cancellazione sarebbe da intendere come obbligo di sospensione. Tutto ciò pur essendo pacifico che trattasi di due istituti diversi e con differenti conseguenze (ad esempio, per la responsabilità disciplinare degli iscritti all’Ordine).
La richiesta è stata approvata dal plenum a larga maggioranza (25 voti a favore, 3 astensioni e 1 voto contrario, il mio) e con la partecipazione al voto dei consiglieri-avvocati proponenti.
La totale riscrittura dell’art. 104 Cost., con il mantenimento della inequivoca formulazione originaria e la chiara spiegazione contenuta nella relazione illustrativa, parrebbe dimostrare la ininfluenza dell’istituto della sospensione di cui alla legge del 2012 sull’obbligo, costituzionalmente previsto e ribadito, di cancellazione dall’Albo da parte dei consiglieri-avvocati.
2.2. La riforma costituzionale contenuta nel ddl costituzionale Meloni-Nordio, n. 1917/2024: la separazione delle carriere come foglia di fico
Passando invece al contenuto del disegno di legge costituzionale, l’aspetto “di facciata” è certamente rappresentato dalla separazione delle carriere giudicanti e requirenti, anche se, al contrario, il “cuore” della riforma e ciò che veramente andrebbe a determinare un mutamento significativo del nostro modello di ordinamento giudiziario è, senza alcun dubbio, la riforma del Consiglio superiore della magistratura, che perderebbe la natura di organo a garanzia dell’autonomia della magistratura e di rappresentanza del pluralismo culturale che la caratterizza.
Allo scopo di perseguire questo risultato, la riforma opera su diversi piani: a) l’eliminazione del sistema elettorale, sostituendolo con quello del sorteggio; b) la duplicazione dei Consigli; c) la sottrazione al Consiglio della funzione disciplinare con l’istituzione di una Alta Corte di disciplina.
Quello della separazione delle carriere è da tempo presentato come il problema cruciale dell’amministrazione della giustizia in Italia e la panacea di tutti i guasti, anche se nella presentazione e nella campagna a favore, spesso, si continua a mostrare di non avere affatto chiara la distinzione – invero assai importante – tra separazione delle funzioni (che oggi possiamo ritenere sostanzialmente già operante) e separazione delle carriere.
La giustificazione della separazione delle carriere viene fondata principalmente sulla necessità di garantire l’imparzialità e terzietà del giudice e il principio di parità delle armi, entrambi fondati anche sul “nuovo” art. 111 della Costituzione.
Da un lato, potremmo ingenuamente chiederci se fino al 1999, anno in cui è stata approvata la revisione costituzionale dell’art. 111, la Costituzione non richiedesse al giudice di essere terzo e imparziale, e se solo a partire da quella data debba ritenersi costituzionalmente valido e vincolante il principio secondo cui un giudice non imparziale non è un giudice, essendo l’imparzialità strettamente connaturata alla figura stessa del giudicante (tesi in realtà sostenuta da Sergio Bartole nel suo conosciuto volume su autonomia e indipendenza della magistratura[5]).
Altrettanto ingenuamente potremmo chiederci se attualmente, e fintanto che la separazione delle carriere non sarà realizzata, i giudici possano essere ritenuti privi del carattere di terzietà, con possibilità, ad esempio, di denunciare una simile violazione davanti alla Corte di Strasburgo (art. 6 Cedu).
In ogni caso, la parità di cui si discute è comunque una parità funzionale e non ordinamentale, dal momento che è cosa a tutti evidente che il pubblico ministero, in quanto soggetto pubblico, è una parte diversa da quella privata. In base a tale motivazione, la Corte costituzionale ha sempre giustificato la legittimazione a costituirsi nel processo costituzionale attivato in via incidentale della parte privata, ma non del pubblico ministero, anche quando sia stato proprio quest’ultimo a chiedere al giudice di sollevare la questione di costituzionalità.
In proposito, ha sostenuto Gaetano Silvestri: «sembra chiaro che la creazione di un corpo di accusatori professionali, lontani dalla cultura della giurisdizione ed autoreferenziali, porrebbe il problema della loro responsabilità, che finirebbe per cadere sotto l’ombrello della politica (…) [U]na delle cose che non ho ben capito negli ultimi decenni è il perché gli avvocati ci tengano tanto a questa separazione. Il biasimato “appiattimento” dei giudicanti sui pubblici ministeri, oltre a non essere generalizzato come spesso si afferma, è dovuto all’esistenza di giudici fannulloni, che preferiscono sottoscrivere le richieste delle procure anziché impegnarsi in uno studio analitico e profondo degli atti processuali. Tali giudici poco propensi a lavorare vi sarebbero pure in regime di separazione, anche la più radicale»[6].
In un recente volume, scritto da un magistrato favorevole alla separazione delle carriere, si legge: «avvocato e pm indossano entrambi la toga ed hanno l’onere di convincere il giudice della bontà della loro tesi. Toga uguale ma che non pesa allo stesso modo: da un lato il pm rappresenta ed ha dietro l’apparato statale, l’avvocato ha dietro solo il suo cliente»[7].
Senza voler apparire provocatorio (anche se certamente démodé), potrebbe essere rilanciata a mio avviso la proposta, opposta a quella della separazione, sostenuta dal mio illustre Maestro (Alessandro Pizzorusso) di rendere non facoltativo, ma al contrario obbligatorio un periodo di permanenza del magistrato in entrambe le funzioni, al fine di acquisire quella che viene comunemente indicata, anche se con terminologia imprecisa, come la cultura della giurisdizione.
Appare infatti in sé contraddittorio sostenere, da un lato, la separazione delle carriere e giudicare, dall’altro, positivamente, ai fini ad esempio della valutazione di professionalità e dell’attribuzione di incarichi direttivi o semidirettivi, l’aver maturato esperienze diverse, in particolare sia nella funzione requirente che in quella giudicante.
2.3. La “vera riforma” ossia la trasformazione del Consiglio superiore della magistratura: una premessa sulla natura costituzionale o amministrativa e sul ruolo rappresentativo e di garanzia del Consiglio
L’effetto costituzionalmente più rilevante della riforma non sarebbe, come detto, quello della separazione delle carriere, quanto invece la configurazione di un nuovo Consiglio superiore, assai diverso da quello previsto dalla Costituzione e, in particolare, da quello che si è venuto a realizzare nella realtà istituzionale del nostro Paese dal 1958 ad oggi, attraverso le leggi attuative, la normativa secondaria dello stesso Consiglio, le molte decisioni della Corte costituzionale, nonché della Corte di cassazione e dei giudici amministrativi.
In proposito, può essere utile una premessa a carattere definitorio circa la natura del Csm, aspetto assai discusso in dottrina e che viene a risultare decisivo per il tema di cui stiamo parlando. Mi riferisco alla questione circa il carattere amministrativo (alto o basso che sia) o costituzionale dell’organo, nonché alla relazione tra la natura garantista e quella rappresentativa dello stesso.
Riguardo alla prima, potremmo ritenere che il passaggio delle stesse competenze da un soggetto (Ministro) a un altro (Csm) non possa aver cambiato la natura delle stesse: politiche erano e politiche restano, nel senso che non si tratta di esercitare una funzione amministrativa (seppure “alta”), ma di fare scelte che attengono all’amministrazione della giurisdizione, riconosciuta di competenza del Consiglio. Il Csm, come rilevato da Silvestri, non può pretendere di esprimere un indirizzo politico fuori dal campo proprio della amministrazione della giustizia; esso, però, può e deve esprimere un proprio indirizzo in materia giudiziaria, nel rispetto della legge e della Costituzione[8].
In caso contrario, sarebbe davvero difficile giustificare perché, al fine di svolgere un’attività amministrativa, un terzo dei componenti venga eletto dal Parlamento in seduta comune tra esperti della materia e perché l’organo sia addirittura presieduto dal Capo dello Stato.
Per quanto concerne la seconda, alcuni hanno visto una non conciliabilità tra le due funzioni (garanzia e rappresentanza), rilevando come il Csm sia organo di garanzia, che come tale sfugge alla logica dell’organo rappresentativo, e che le elezioni non hanno alcuna funzione rappresentativa, la cui logica sarebbe contraria a quella di un soggetto di garanzia, ma solo quella di consentire l’apporto dell’esperienza professionale dei magistrati nell’esercizio delle funzioni del Consiglio.
Come in altra sede ho già avuto modo di sostenere, credo invece, al contrario, che le due qualificazioni siano entrambe corrette e che si integrino perfettamente per il perseguimento del risultato di tutelare la indipendenza esterna e interna della magistratura[9].
Certamente il carattere rappresentativo deve intendersi in maniera differente rispetto alla rappresentanza degli organi di formazione politica, anche qualora facessimo riferimento ai soli membri eletti dai magistrati, per cui il termine “rappresentanza” non può intendersi nel senso di rappresentanza politica, né di rappresentanza sindacale e neppure di rappresentanza in senso privatistico.
Stante il tipo di funzioni che il Csm è chiamato a esercitare, indubbio è il rilievo che vengono ad assumere le qualità personali del candidato, quali la professionalità, l’idoneità e le capacità specifiche richieste, l’indipendenza e l’autorevolezza.
Una volta, però, constatato che l’attività del consigliere consiste anche nel concorrere a determinare un indirizzo “politico” in tema di amministrazione della giurisdizione, e una volta riconosciuta l’esistenza di un pluralismo culturale nella magistratura, i suddetti requisiti personali, pur necessari, non appaiono sufficienti a rappresentare il pluralismo di cui sopra, richiedendosi altresì che il candidato possa essere eletto anche allo scopo di esprimere la differente realtà sociale del corpo elettorale.
La rappresentanza del pluralismo culturale costituisce un elemento che contribuisce, in maniera decisiva, a far sì che il Csm possa svolgere, nella maniera più efficace e con più ampia legittimazione, le proprie funzioni di garanzia dell’indipendenza della magistratura. In questo senso, pertanto, la funzione di garanzia e quella di rappresentanza sono niente affatto in contrasto, bensì suscettibili di una piena e utile integrazione.
Del resto, una realtà sociale non può essere cancellata attraverso una legge elettorale e non è neppure opportuno che ciò avvenga, essendo illusoria la possibilità di cancellare per via normativa una realtà che, per vari aspetti, ha rappresentato e continua a rappresentare un vero e proprio snodo per l’evoluzione del modo di essere della magistratura nel nostro Paese.
2.4. [Segue] La sostituzione del metodo elettorale con quello del sorteggio, puro o temperato. Il sorteggiato come estraneo al valore della democrazia e al principio di rappresentanza
La natura costituzionale (o di rilievo costituzionale), la natura rappresentativa e quella di garanzia del Csm sono strettamente – e, direi, in maniera indissolubile – legate al criterio “elettivo” indicato dalla Costituzione, per cui la sostituzione ad esso del sistema del sorteggio conduce inevitabilmente a una profonda modifica della natura e, quindi, del ruolo assegnato all’organo nell’ordinamento costituzionale e nella nostra forma di governo[10].
Come noto, quella dell’individuazione della legge elettorale per i togati maggiormente idonea a realizzare la figura di Csm voluta dal Costituente è stata una vicenda assai travagliata, che ha visto il succedersi di differenti soluzioni, perlopiù allo scopo, mai raggiunto, di limitare l’influenza delle associazioni dei magistrati (cd. correnti). Tutto ciò sempre nel rispetto della lettera della Costituzione e quindi nell’ambito dei sistemi elettorali, mentre il passaggio al criterio del sorteggio segna, per le ragioni di cui sopra, una decisa rottura rispetto al modello costituzionale.
Il disegno di legge prevede, infatti, che i togati siano estratti a sorte tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti, rinviando a una legge ordinaria l’indicazione del numero e delle procedure di sorteggio. Per i laici è invece previsto un sorteggio di secondo livello, ossia pure questi sarebbero sorteggiati, ma all’interno di un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio, compilato dal Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, mediante elezione.
A quest’ultimo proposito, può essere utile ricordare quanto avvenuto per l’individuazione dei sedici giudici aggregati alla Corte costituzionale, allorché questa opera come giudice penale. L’art. 135 Cost., nella sua prima versione, stabiliva che questi venissero sorteggiati da un elenco di quarantacinque, compilato dal Parlamento «all’inizio di ogni legislatura». La revisione costituzionale, avvenuta nel 1967, ha modificato l’art. 135 – il quale adesso prevede che l’elenco sia compilato «ogni nove anni» – con la dichiarata volontà di separare l’operazione dalla maggioranza politica del momento.
Anche nel nostro caso ritengo che, al contrario di quanto previsto nella proposta Nordio, sarebbe preferibile stabilire un termine diverso dalla legislatura per la compilazione dell’elenco dei sorteggiabili.
Si aggiunga che, per i membri togati, il progetto – a differenza dei laici e dei componenti dell’Alta Corte di disciplina – non prevede alcun requisito minimo, rinviando alla legge di attuazione solo per «numero e procedure».
Applicare al Csm il sistema del sorteggio – utilizzato per collegi con funzioni consultive o di carattere tecnico – significherebbe spezzare il nesso tra l’ordinamento costituzionale e il linguaggio della democrazia. Il sorteggiato, infatti, sarebbe estraneo al valore della democrazia e al principio di rappresentanza.
Il Viceministro Sisto, nel presentare un emendamento, poi ritirato, a nome di Forza Italia che eliminava il sorteggio per la componente laica, ha definito la previsione di un sorteggio temperato per i laici «un principio che, per la democrazia rappresentativa, può significare un punto di non ritorno».
L’ipotesi di un sorteggio era sembrata, in un primo momento, quasi uno scherzo o una provocazione.
Sul punto le commissioni ministeriali Vietti e Scotti si erano espresse chiaramente in senso contrario, rilevando in maniera del tutto convincente come la pari dignità di ogni magistrato non equivale certo a significare che tutti sono ugualmente idonei al ruolo di consigliere del Csm e come la Costituzione richieda un metodo fiduciario che si pone in contrasto con il consigliere “per caso”. Il Costituente, si legge nella relazione della commissione Scotti, fissando l’elettività, ha inteso richiamare il concetto di base fiduciaria e un voto che riconosca idoneità, capacità, valenza istituzionale dell’eligendo. Il Csm non è un consiglio di amministrazione, ma un organo di garanzia, rappresentativo di idee, prospettive, orientamenti su come si effettua il governo della magistratura e su come si organizza il servizio giustizia.
L’allora Ministro Bonafede, nel corso del Congresso nazionale dell’Anm che si tenne a Genova nel 2019, dichiarò la necessità di ripensare il sistema del sorteggio, che fu poi in effetti cancellato.
Né è corretto sostenere, come fatto da alcuni, che il sistema contenuto nel progetto di revisione costituzionale sia già stato anticipato dalla legge Cartabia del 2022. In quel caso, infatti, il sorteggio è previsto per una situazione assolutamente eccezionale (mancanza del numero minimo dei candidati o della rappresentanza di genere), e comunque riguarda non il componente del Consiglio, ma il candidato che sarà poi sottoposto a votazione. Un consigliere, quindi, eletto e non sorteggiato, come accaduto per la consiliatura in corso per Andrea Mirenda.
I giudizi della dottrina specialistica sono stati in larga misura negativi e, solo per citarne alcuni, si è parlato di «elemento solipsistico»[11], di «soluzione bizzarra» (N. Zanon), di «esito affidato del tutto alla casualità» (M. Volpi), o che «ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere»[12].
Lo stesso Pizzorusso, pur senza ovviamente riferirsi alla proposta in esame, pare esprimere un giudizio certamente negativo allorché ritiene «imprescindibile che l’associazionismo giudiziario abbia ad esercitare un ruolo determinante in sede di elezione della componente togata; diversamente avremmo un’assemblea di notabili responsabili solo verso se stessi, quanto di meno utile si possa immaginare per gli obiettivi cui tende l’istituzione del Consiglio superiore della magistratura»[13].
Non sembrano convincenti le recenti osservazioni di Sabino Cassese – il quale ritiene il fatto che quasi tutti i magistrati siano iscritti all’Anm «una circostanza veramente strana e inspiegabile» – circa l’uso del sorteggio nell’ambito del diritto pubblico per rompere maggioranze precostituite, allorché sostiene che «il sorteggio conferisce a qualunque magistrato eguali chances di fare parte del Csm. In questo modo l’organo diventa di nuovo un organo di ponderazione, esame e valutazione della carriera dei magistrati»[14].
Lo stesso dicasi per le giustificazioni del Ministro Nordio, secondo cui «il sorteggio non è fatto tra persone che passano per strada, ma nell’ambito di magistrati che abbiano almeno 15 o 20 anni di esperienza» ed è «l’unico modo per dare alla magistratura indipendenza ed autonomia». Il Ministro, per dimostrare che il sorteggio «non è poi la bestemmia che sembra», cita il caso dei giudici popolari della corte d’assise[15] e quello del Tribunale dei ministri – ai quali potremmo aggiungere quello della Corte costituzionale integrata.
Pare evidente come, nei casi citati, si tratta sempre di soggetti chiamati a svolgere una funzione giurisdizionale (ai quali potrebbe al più ritenersi omogenea la partecipazione a commissioni di concorso), del tutto differente da quella del consigliere del Csm, nella ricostruzione dello stesso come organo costituzionale o di rilievo costituzionale.
Con il sistema previsto dal progetto di revisione costituzionale avremmo, quindi, un Consiglio (rectius: due Consigli) composto solo da membri di diritto e membri sorteggiati; l’unica elezione resterebbe quella di secondo grado del vicepresidente da parte del plenum.
Difficile condividere le ripetute affermazioni dei presentatori della riforma nel senso che la stessa si muoverebbe nel solco dei principi costituzionali e per dare attuazione ai medesimi.
A parte l’ovvia considerazione, nota a qualsiasi studente di giurisprudenza, nel senso che lo strumento per l’attuazione della Costituzione è rappresentato dalla legge ordinaria, mentre la revisione costituzionale può essere utilizzata, nei limiti fissati dall’art. 138 Cost., per portare una modifica della stessa, appare innegabile che il Consiglio superiore della magistratura risulterebbe, per quanto detto, un organo del tutto diverso da quello voluto dal Costituente e attorno al quale si è venuto a realizzare quello che è stato definito il modello italiano di ordinamento giudiziario. Questo pur conservando esso lo stesso nome, le stesse competenze, la stessa presidenza, lo stesso rapporto tra laici e togati, ma non la stessa natura.
2.5. [Segue] La creazione di due distinti Consigli superiori, per la magistratura giudicante e per quella requirente. Aspetti pratici di funzionalità e di natura sistemica
Una delle conseguenze che si fa discendere dalla separazione delle carriere è quella della creazione di due distinti Consigli, uno per la magistratura giudicante e l’altro per quella requirente.
Che dalla separazione delle carriere debba necessariamente discendere la creazione di due distinti Consigli superiori viene posto in discussione anche da alcuni sostenitori della riforma, secondo i quali la separazione non escluderebbe il mantenimento di un unico Consiglio, semmai articolato in due distinte sezioni[16].
Il progetto di revisione Nordio stabilisce che i due Consigli siano entrambi presieduti dal Capo dello Stato e che siano, rispettivamente, membri di diritto il primo presidente della cassazione e il procuratore generale presso la stessa. La composizione resta per due terzi di togati e un terzo di laici, scelti, come già abbiamo visto, con il sistema del sorteggio.
Le funzioni rimangono sostanzialmente le stesse (la dizione «promozioni» viene sostituita con «valutazioni di professionalità e conferimento di funzioni»), tranne per quella disciplinare, che viene trasferita a una «Alta Corte disciplinare», come vedremo, esterna al Csm.
Al proposito, Zanon ha avvertito sul rischio, con due Consigli, di dar vita a una sorta di “Prokuratura” della funzione d’accusa, organo destinato a scaricare nell’ordinamento la forza sostanziale e inquietante della funzione d’accusa, forza accresciuta da essere protetta, garantita e rappresentata da un organismo esponenziale separato e del tutto autonomo e non responsabile.
Un forum organizzato dalla Rivista del “Gruppo di Pisa” e pubblicato proprio in questi giorni, poneva tra le domande quella di esprimere un giudizio circa la creazione di due Csm (Rivista GdP, n. 1/2024).
Le risposte sono state quasi tutte negative: Renato Balduzzi ha scritto che «l’esistenza di un Csm unitario rappresenta il più esplicito indicatore e, al contempo, il primo vincolo costituzionale nel senso della unitarietà dell’ordine della magistratura titolare del potere di esercitare la giurisdizione. La creazione di due organi separati altera quel modello perché punta alla formazione di due magistrature non solo funzionalmente, ma pure istituzionalmente e culturalmente distinte» (ivi, pp. 352 ss.); Silvestri ha rilevato come «lo sdoppiamento degli organi di garanzia della magistratura (…) mi sembra destinato a creare complicazioni e contraddizioni per la prevedibile formazione di orientamenti diversi, specie sui criteri di valutazione dei magistrati e altri importanti materie concernenti l’amministrazione della giurisdizione» (ivi, pp. 364 ss.).
Superato l’aspetto strettamente formale di costituzionalità – attraverso la nuova formulazione degli artt. 104 e 105 della Costituzione –, restano molti gli aspetti critici circa la concreta realizzazione dei due Csm e il loro concreto funzionamento.
La relazione illustrativa parla di «due consigli esattamente sovrapponibili tra loro», per cui è prevedibile che ogni Csm abbia le proprie commissioni e quindi i propri magistrati-funzionari. L’Ufficio studi e documentazione – per il quale la legge Cartabia ha previsto un organico di dodici componenti, aprendo, oltre ai magistrati, anche a docenti universitari e avvocati – dovrebbe essere presumibilmente sostituito da due distinti Uffici studi, ognuno con un proprio organico.
Quanto alla funzione di fornire pareri sulle iniziative normative attinenti all’ordinamento giudiziario e di approvare la relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, è dubbio se dovrebbe essere esercitata da entrambi i Csm con il metodo della navette parlamentare oppure se ogni Consiglio dovrà elaborare il proprio parere o la propria relazione. Ugualmente può dirsi per l’attività cd. paranormativa (circolari, etc.).
Resta pure da vedere se saranno previsti due distinti concorsi di ammissione, con differenti prove di esame. La legge Cartabia, come noto, ha attribuito alla Scuola superiore della magistratura il compito di organizzare, anche a livello decentrato, corsi di preparazione al concorso in magistratura.
Dubbio, quindi, se dovranno essere organizzati due corsi diversificati (per l’accesso alla carriera giudicante e a quella requirente) o più ancora, per l’attività di aggiornamento dei magistrati e per tutte le competenze attribuite alla Ssm, se dovranno, al pari dei due Csm, essere create due differenti Scuole superiori con due diversi consigli direttivi.
Al di là di questi evidenti problemi pratici per lo svolgimento delle loro funzioni creati dalla esistenza di due consigli, le conseguenze maggiori sono quelle di natura sistemica che andrebbero a incidere sulla posizione costituzionale del Consiglio attraverso la creazione di due sottosistemi.
Non pare un caso che la Corte costituzionale, in occasione del giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo tendente appunto a realizzare la separazione delle carriere, abbia tenuto a sottolineare come tale risultato sia perseguibile attraverso la modifica della legge ordinaria, a Costituzione invariata, «pur considerando la magistratura come un unico “ordine”, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore (art. 104)» (Corte cost., nn. 37/2000 e 58/2022 – c.vi aggiunti).
2.6. [Segue] La previsione di un’Alta Corte di disciplina esterna al Csm. Le superabili ragioni a fondamento dell’istituzione e i punti critici
L’altra importante modifica della disciplina costituzionale del Csm consiste nella sottrazione allo stesso della competenza attribuitagli dall’art. 105 Cost. in materia disciplinare a favore di un organo esterno (Alta Corte di disciplina), composto secondo criteri che richiamano quelli previsti per la Corte costituzionale.
Quello della responsabilità disciplinare, come ho avuto occasione di sostenere in altra sede[17], è problema non tanto e non solo di ordinamento giudiziario, quanto più propriamente di diritto costituzionale, in ragione dei suoi evidenti riflessi in ordine alla garanzia di indipendenza del giudice e di legittimazione dell’attività giurisdizionale. Non pare un caso che di tale forma di responsabilità (e solo di essa) si parli nel testo della Costituzione.
Se infatti appare indubbia la necessaria sottoposizione dei magistrati, al pari degli altri dipendenti pubblici, a una forma di responsabilità disciplinare, non può essere sottovalutato il rischio che, attraverso la minaccia di una sanzione disciplinare, si cerchi di influenzare la decisione. È, in fondo, per questo che la Costituzione ha voluto riconoscere al Consiglio superiore la competenza in materia disciplinare. Una materia, quindi, assai delicata nella quale vengono non a caso coinvolti il potere legislativo, quello esecutivo e l’organo di governo autonomo della magistratura. Il primo con il compito di configurare le fattispecie di illecito (fondamentale il passaggio alla tipizzazione), il secondo con la facoltà di esercitare l’azione disciplinare e il terzo cui è attribuita la decisione sui casi concreti.
La funzione disciplinare, come noto, è attualmente esercitata da una commissione, chiamata “sezione” disciplinare, composta al pari di tutte le altre commissioni da sei consiglieri, ma che opera come un giudice e le cui decisioni sono ricorribili alle sezioni unite civili della Cassazione.
Evidente è l’importanza della funzione disciplinare per suggerire all’intero ordine il tipo di “buon magistrato”, con la finalità non certo di spingere i magistrati al conformismo e neppure di tutelare, come era un tempo, l’onore e il prestigio dell’ordine, quanto principalmente di alimentare la fiducia dei consociati verso l’amministrazione della giustizia.
Il progetto di revisione costituzionale prevede che a giudicare sugli illeciti disciplinari dei magistrati (giudicanti e requirenti) sia un’Alta Corte disciplinare, esterna al Csm, composta da quindici giudici: tre di nomina del Presidente della Repubblica e tre estratti a sorte da un elenco compilato dal Parlamento in seduta comune «entro sei mesi dall’insediamento» (sul punto valgono i rilievi svolti a proposito dell’approvazione dell’elenco per i membri laici del Csm) fra professori universitari ordinari di materie giuridiche e avvocati con almeno vent’anni di servizio; sei magistrati giudicanti e tre requirenti estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie, con almeno vent’anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità).
Le sentenze dell’Alta Corte sono impugnabili, anche per motivi di merito, solamente dinanzi alla stessa Corte.
Il nuovo art. 105 non dice espressamente (come invece, a mio avviso, avrebbe dovuto) che l’Alta Corte decide attraverso collegi, né tantomeno quanti sono e di quanti membri gli stessi sono composti. Ciò lo si ricava solo indirettamente allorché la nuova formulazione dell’art. 105 Cost. si esprime nel senso che, in caso di impugnazione, l’Alta Corte decide «senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata» e viene riservata alla legge la determinazione degli illeciti disciplinari e le relative sanzioni, nonché la «composizione dei collegi».
L’Alta Corte sarebbe qualificabile come un giudice speciale e verrebbe a costituire una deroga esplicita al divieto di istituire giudici speciali di cui all’art. 102 Cost., come pure è stato sostenuto con riguardo alla sezione disciplinare, sul presupposto dell’attribuzione al Csm della competenza a pronunciare «provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati» (art. 105 Cost.).
La tesi non è stata mai avallata esplicitamente dalla Corte costituzionale, che si è limitata a riconoscere alla sezione disciplinare la qualifica di “giudice” ai limitati fini della legittimazione a proporre questioni di costituzionalità, senza prendere posizione circa la sua natura, amministrativa o giurisdizionale.
Le ragioni avanzate per la riforma della materia e la creazione di un’Alta Corte sono state essenzialmente due: a) la denuncia di una giustizia troppo domestica e corporativa, con rare ipotesi di condanna; b) una pericolosa confusione tra funzioni di amministrazione della giurisdizione (specie trasferimenti per incompatibilità ambientale, valutazioni di professionalità e incarichi direttivi) e funzioni giurisdizionali del giudizio disciplinare.
Ad attenuare gli inconvenienti derivanti dalle seconde (sub b), in via di legislazione ordinaria, è stata modificata la disciplina relativa alla composizione della sezione disciplinare, stabilendo ad esempio l’incompatibilità dei consiglieri membri della disciplinare con l’essere componenti delle commissioni I (incompatibilità), IV (professionalità) e V (direttivi e semidirettivi).
Sub a), è stato ampiamente dimostrato come l’affermazione risulti smentita dalla giurisprudenza della sezione disciplinare e dal confronto con la “giustizia disciplinare” nei riguardi di coloro che esercitano, ad esempio, le professioni di avvocato o medico o docente universitario, senza considerare, circa il carattere domestico della giurisdizione, che pure l’Alta Corte di disciplina è composta in maggioranza da magistrati.
In ogni caso, molti sono i punti critici della riforma relativamente all’Alta Corte di giustizia, che mi limito a indicare in maniera sommaria.
Innanzi tutto la previsione di un’Alta Corte disciplinare, esterna al Csm, avrebbe dovuto essere l’occasione per una giustizia disciplinare unica sia per i giudici ordinari sia per quelli speciali (giudici amministrativi, contabili, tributari).
Discutibile la previsione per cui i componenti togati debbono essere solamente giudici di legittimità o che hanno esercitato funzioni di legittimità, con esclusione di quelli di merito, dando l’impressione di voler creare una Corte a carattere verticistico.
Pure criticabile la possibilità di appellare solamente alla stessa Alta Corte, con implicita deroga al principio dell’art. 111 Cost., che prevede che per le sentenze sia sempre ammesso il ricorso per cassazione.
Pare comunque indubbio, per le ragioni dette, che la sottrazione di tale funzione al Csm significa amputare una funzione essenziale e depotenziare il peso costituzionale dell’organo.
2.7. Alcune valutazioni conclusive sulla riforma costituzionale: una scatola per molti, importanti aspetti ancora da riempire e comunque una medicina che potrebbe vincere la malattia (degenerazione correntizia), ma col sicuro effetto di uccidere il malato (Csm)
Volendo esprimere un giudizio finale sulla riforma, credo si possa affermare, senza timore di smentita, che resteranno comunque delusi tutti coloro che hanno creduto alla campagna mediatica che accompagna la stessa, presentata come la soluzione dei problemi della giustizia.
Questi, purtroppo, ci sono e sono molto gravi, ma nessuno sarà risolto da questa riforma per la ragione che essa non se ne occupa: mi riferisco ai problemi della lunghezza dei processi, della mancanza di risorse per il personale, specie amministrativo, della situazione drammatica delle carceri, a causa del sovraffollamento e del numero sempre crescente di suicidi.
Il giudizio, inoltre, dovrebbe in ogni caso restare sospeso in attesa delle necessarie leggi di attuazione per l’approvazione delle quali occorreranno molti mesi (molti di più dell’anno previsto dalle disposizioni transitorie del progetto di riforma), dal momento che dovrà essere riscritta gran parte della normativa sull’ordinamento giudiziario.
In ragione di ciò, la riforma appare come una scatola vuota che potrebbe riempirsi di contenuti diversi a seconda di quali saranno le future scelte del legislatore.
Così, solo per fare alcuni esempi:
a) a seguito della separazione delle carriere, per l’accesso in magistratura non è ancora chiaro se saranno previsti due distinti concorsi, con due distinte prove di accesso;
b) non è previsto quale sarà il numero dei componenti dei due Consigli superiori; è da presumere infatti che quello dei giudicanti sarà composto da un numero più alto rispetto a quello dei requirenti, in considerazione del differente numero di magistrati giudicanti rispetto a quelli del pubblico ministero e più basso di quello attuale;
c) non è chiaro se per la componente togata saranno previsti requisiti specifici o se qualsiasi magistrato potrà essere sorteggiato e divenire, quindi, componente del rispettivo Consiglio; la legge di riforma non prevede alcun requisito e rinvia alla legge solo per numero e procedure, quindi – parrebbe – non per indicare i requisiti;
d) per la componente laica non è definito quale sarà il numero dei componenti la lista dalla quale sorteggiare i futuri membri dei Consigli; di tutta evidenza l’influenza del numero sul rapporto di rappresentatività degli eletti dal Parlamento in seduta comune; diverso se l’elenco sarà, ad esempio, pari a due volte i sorteggiabili oppure pari a venti volte;
e) non definiti i criteri di composizione e di funzionamento dei collegi dell’Alta Corte di giustizia;
f) dovrà essere scritta di nuovo la disciplina dei criteri per la nomina a giudice della Cassazione per meriti insigni, ai sensi dell’art. 106, comma 3, Cost., a seguito della possibilità di parteciparvi, oltre ad avvocati e professori universitari, anche di magistrati del pm, stante la chiara inapplicabilità della normativa attuale (l. 5 agosto 1998, n. 303).
Comunque, anche a prescindere da tutto ciò, il giudizio sulla riforma, sulla base di quanto detto, non può che essere del tutto negativo. Si tratta, infatti, di una pessima riforma.
Torna attuale la previsione che qualche anno fa faceva il mio Maestro, il quale, a proposito del futuro assetto del Csm, osservava come «oscure nuvole si addensano sul suo orizzonte e forti brontolii premonitori di tempesta già da tempo si sono fatti sentire (…) giorni bui si annunciano dunque per il modello italiano di ordinamento giudiziario, quale era venuto costruendosi intorno al Csm; ed in effetti è probabilmente nel vero chi pensa che il Csm rappresenta un’anomalia che il sistema politico italiano ha sopportato ormai troppo a lungo e che quindi è tempo di rimuovere»[18].
Tutto ciò certamente non intende significare che, in tema di organizzazione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, tutto vada per il meglio e non vi siano aspetti da correggere o da migliorare, a partire dal noto problema del correntismo e della sua incidenza in primis sulle nomine di direttivi e semidirettivi, per non parlare dell’intreccio tra politica e magistratura emerso a seguito del caso Palamara, per l’assegnazione di incarichi e lo scambio di favori nelle nomine.
C’è sicuramente del vero in quanto di recente affermato da Zanon (Libero, 2 febbraio 2025), nel senso che i magistrati debbono rendersi conto di aver perso negli anni consenso e popolarità, e di come l’essere arrivati alla previsione del sorteggio possa essere anche una loro responsabilità.
Il giudizio negativo sulla riforma si fonda, però, sul fatto che essa non risolve gli aspetti critici e che soprattutto opera in maniera radicale, trasformando la natura di un organo quale il Csm e ponendosi in contrasto con tutta l’elaborazione seguita nei sessantasette anni dalla sua attuazione.
In alcuni progetti, ripresi e giudicati favorevolmente anche da una parte della dottrina, il superamento del correntismo e della cd. degenerazione correntizia viene individuato nella presenza dei membri laici; da qui la proposta di aumentarne il numero, parificandolo a quello dei membri togati.
L’esperienza dell’attuale consiliatura pare mostrare l’inutilità e l’inefficacia allo scopo di una simile soluzione, a prescindere dalla frustrazione della finalità connessa alla presenza nel Csm di una chiara maggioranza di magistrati eletti dai magistrati.
Come è noto, dei dieci componenti laici eletti dal Parlamento in seduta comune, sette sono stati indicati dalle forze politiche di maggioranza e tre da quelle di opposizione. Uno dei sette è stato poi eletto dal Consiglio alla carica di vicepresidente, mentre gli altri sei (ridotti a cinque a seguito della sospensione di una consigliera, ai sensi dell’art. 37, l. n. 195/1958) hanno finora funzionato e hanno agito esattamente come una “nuova” corrente, più compatta e granitica di qualsiasi corrente dei togati.
La riforma – sempre con riferimento all’elemento più dirompente del sorteggio – è stata accostata, quanto ad efficacia, dal Viceministro Sisto all’utilizzo del cortisone[19]. A mio avviso, si tratta invece di un farmaco che potrebbe anche vincere la malattia (degenerazione correntizia), ma con il sicuro effetto di uccidere il malato (Consiglio superiore della magistratura).
* Il presente contributo è destinato agli Scritti in onore di Giovanni Serges.
1. La pratica a tutela nei confronti della giudice Apostolico, per i fatti già ricordati, non è mai giunta alla discussione del plenum e, quindi, mai vi è stata occasione di confronto tra i consiglieri. Nonostante ciò, i quotidiani hanno riportato la notizia secondo la quale “il Csm si spacca sul caso Apostolico” (!).
2. Vale la pena di riportare integralmente il messaggio in questione:
«Indubbiamente l’attacco alla giurisdizione non è mai stato così forte, forse neppure ai tempi di Berlusconi. In ogni caso oggi è un attacco molto più pericoloso e insidioso per molte ragioni.
Innanzitutto perché Meloni non ha inchieste giudiziarie a suo carico e quindi non si muove per interessi personali ma per visioni politiche e questo la rende molto più forte. E rende anche molto più pericolosa la sua azione, avendo come obiettivo la riscrittura dell’intera giurisdizione e non semplicemente un salvacondotto.
In secondo luogo perché la magistratura è molto più divisa e debole rispetto ad allora. E isolata nella società. A questo dobbiamo assolutamente porre rimedio. Possiamo e dobbiamo farlo. Quanto meno dobbiamo provarci. Sull’isolamento sociale non abbiamo il controllo ma sul tema della compattezza interna possiamo averlo. Non è accettabile chinare le spalle ora o che qualcuno si ritagli uno spazio politico ai danni dell’intera magistratura.
In terzo luogo la compattezza e omogeneità di questa maggioranza è molto maggiore che nel passato e la forza politica che può esprimere è enorme e può davvero mettere in discussione un assetto costituzionale ribaltando principi cardine che consideravamo intangibili. Come corollario di questa condizione politica, anche l’accesso ad un’informazione decente è ancora più difficile dell’era di Berlusconi.
Quindi il pericolo per una magistratura ed una giurisdizione davvero indipendente è altissimo. Dobbiamo essere uniti e parlare con chiarezza. Non dobbiamo fare opposizione politica ma dobbiamo difendere la giurisdizione e il diritto dei cittadini ad un giudice indipendente. Senza timidezze».
3. Il parere è stato approvato nella seduta di plenum dell’8 gennaio 2025.
Da sottolineare come, contrariamente a quanto scritto anche da attenta dottrina, non siano stati affatto approvati due pareri (uno di maggioranza e uno di minoranza).
La sesta commissione, infatti, ha ampiamente discusso la proposta da presentare al plenum, la quale è stata approvata da cinque dei sei componenti (proposta A), mentre il sesto ha elaborato una propria autonoma proposta (proposta B).
Le due proposte sono state quindi presentate e sottoposte alla votazione del Consiglio, la quale ha dato il seguente risultato: su ventinove votanti, la proposta A ha avuto ventiquattro voti, la proposta B è stata votata da quattro consiglieri (tra cui ovviamente il proponente), mentre uno si è astenuto.
Le proposte quindi sono state due (come spesso accade), ma il parere approvato è stato solo uno (cfr. sez. «Allegati», in questo fascicolo)..
4. La separazione dei poteri e l’ordinamento giudiziario, La Magistratura, n. 1/2020, pp. 172 ss.
5. Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, CEDAM, Padova, 1964.
6. Id., Indipendenza dei giudici e riforma del Csm, in Federalismi, 1° giugno 2022.
7. G. Bono, Meglio separate. Un’inedita prospettiva sulla separazione delle carriere in magistratura, Le Lettere, Firenze, 2023.
8. Id., Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia trimestrale, n. 4/2017, p. 23 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/pdf/22/qg_2017-4.pdf).
9. Quale legge elettorale per quale Csm: i principi costituzionali, la loro attuazione e le proposte di riforma, in Questione giustizia online, 25 maggio 2020 (www.questionegiustizia.it/articolo/quale-legge-elettorale-per-quale-csm_25-05-2020.php).
10. Vds. A. Pizzorusso, Il Consiglio superiore della magistratura nella forma di governo vigente in Italia [1984], ora in Aa.Vv., L’ordinamento giudiziario. Costituzionalisti del XX secolo, vol. II, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, pp. 519 ss.
11. S. Bartole, L’assetto degli organi di amministrazione e giustizia disciplinare nel dis. di legge costituzionale n. 1917 sulla separazione delle carriere, in Rivista AIC, Lettera n. 10/2024.
12. G. Silvestri, Indipendenza dei giudici e riforma del Csm, in Federalismi, 1° giugno 2022.
13. Problemi definitori e prospettive di riforma del Csm [1989], ora in L’ordinamento giudiziario (vol. II), op. cit., pp. 1089-1090.
14. Il Dubbio, 10 giugno 2024, intervistato da G.M. Jacobazzi (www.ildubbio.news/interviste/intervista-a-cassese-il-sorteggio-al-csm-e-la-soluzione-giusta-xf0ey6p1).
15. Già ricordato, agli stessi fini, da S. Mazzamuto, Per una riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della Magistratura e della Sezione disciplinare, in Giustizia insieme, n. 1-2/2011, pp. 107 ss.
16. N. Zanon, Perché non è bene avere un altro Csm, in Rivista AIC, Lettera n. 10/2024.
17. La giustizia disciplinare nel sistema costituzionale, in F. Gigliotti (a cura di), Codice disciplinare dei magistrati, Giuffrè, Milano, 2024, pp. 15 ss.
18. A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del Csm, in Quaderni costituzionali, 1989, p. 1082. L’attualità di questi rilievi è dimostrata dalle affermazioni assai ricorrenti secondo cui il Csm intenderebbe porsi quale terza camera, che fa una politica di opposizione al Governo, e dalla proposta avanzata da Enrico Costa di una commissione d’inchiesta monocamerale, che dovrebbe controllare l’assegnazione degli incarichi, le valutazioni di professionalità, il fuori ruolo, l’attività extragiudiziaria e le responsabilità disciplinari. Una sorta di commissariamento del Csm (La Stampa, 4 febbraio 2025). Così pure dalle parole di politici come Maurizio Gasparri, secondo cui: «il Csm è sempre stato un tallone di Achille della democrazia» (Libero, 24 gennaio 2025) o di illustri giuristi come Sabino Cassese (Il Quotidiano, 8 febbraio 2025), il quale ha definito il Csm come il «capo del personale» e il «vertice malato» di un «corpo sano» (l’ordine giudiziario).
19. «Il sorteggio non è certamente uno strumento gradevole, ma è il cortisone indispensabile come salva vita e, anche se ci sarà qualche effetto collaterale, questo ci consentirà comunque di salvare quello che c’è da sistemare, in un organismo di rilevanza costituzionale» – conferenza stampa organizzata dal partito Forza Italia (Ansa, Roma, 20 marzo 2025).