I giudici nella crisi delle democrazie europee: antefatti e rischi del “nuovo fronte” italiano
1. La regressione dello Stato di diritto: un fenomeno globale / 2. I giudici “nemici del popolo” / 3. Le strategie di attacco all’indipendenza dei sistemi giudiziari: i “laboratori” polacco e ungherese nel più ampio contesto di crisi europea / 4. La vera posta in gioco / 5. L’Italia: un nuovo fronte aperto per lo Stato di diritto / 6. «Questi giudici devono andarsene»
1. La regressione dello Stato di diritto: un fenomeno globale
1.1. La crisi sistemica dello Stato di diritto, che è in atto da più di un decennio in Europa e che, nei Paesi membri dell’Unione europea, ha determinato rotture clamorose con il suo quadro di valori fondanti, è parte del processo sempre più diffuso e contagioso di regressione democratica.
L’ultimo Democracy Report del V-DEM (Varieties of Democracy) Institute, pubblicato nel marzo 2025 (e riferito all’anno 2024), conferma che è in corso «un’ondata di autocratizzazione davvero globale»: nell’Europa orientale e nell’Asia meridionale e centrale in particolare si assiste a un declino della democrazia particolarmente marcato; il processo di autocratizzazione – sottolinea il rapporto – è evidente anche all’interno dell’Unione europea e interessa Grecia, Ungheria, Romania, mentre segnali di tendenze preoccupanti emergono in Cipro, Italia, Paesi Bassi e Portogallo; per la prima volta da oltre vent’anni, nel mondo si contano meno democrazie (88) che autocrazie (91), le democrazie liberali sono diventate il tipo di regime meno diffuso al mondo e quasi tre persone su quattro (il 72%) vivono oggi in autocrazie (il dato più alto dal 1978)[1]; il numero di “autocrazie chiuse”[2] è in aumento dal 2019 (da 22 a 35 attualmente) e, chiarisce il rapporto, il fatto che il numero di “autocrazie elettorali”[3] sia diminuito da 64 nel 2019 a 56 nel 2024, non deve quindi essere interpretato erroneamente come una buona notizia.
Uno scenario, questo, che possiamo considerare già superato alla luce dei cambiamenti radicali arrivati dopo le elezioni americane dello scorso novembre, che hanno portato ulteriore slancio e impresso un’accelerazione al processo di crisi globale della democrazia[4]. Come è stato da più parti osservato, si va verso un nuovo ordine mondiale, incompatibile con la nostra idea di Europa e con le conquiste che hanno dato concretezza al progetto di comunità europea basata sul primato dei diritti e dello Stato di diritto: l’unica regola che governa il nuovo ordine – la volontà di imporre la legge del più forte – confligge con il patto da cui questa comunità è nata e con l’accettazione da parte degli Stati dei limiti posti dal diritto e dalle sue regole, dalle nostre carte fondamentali e dalle istituzioni sovranazionali che devono garantirne il rispetto.
La scelta di chi governa in questo ordine di esibire il volto più feroce delle nuove “politiche migratorie” con la “caccia” agli immigrati e le immagini di uomini deportati in catene risponde alla necessità di dimostrare per le vie di fatto che i diritti fondamentali delle persone non sono più un limite all’arbitrio del potere: la violazione massiccia di tali diritti può essere ostentata e rivendicata dinanzi al mondo intero, e non sono certo le decisioni delle corti a poter ostacolare l’esercizio dei pieni poteri conferiti dal “popolo”.
E le notizie che arrivano da oltreoceano sulle minacce ai giudici e alle loro famiglie, e le immagini di “operazioni spettacolari” come l’arresto di Hannah Dugan ci dicono anche che siamo ben oltre l’attacco all’indipendenza dei sistemi giudiziari: i giudici sono i “nemici” del popolo e con i nemici si va alla resa dei conti.
1.2. L’esperienza di MEDEL (Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés) nella lunga stagione che stiamo vivendo di regressione democratica ci ha offerto una capacità di lettura degli sviluppi nei singoli Stati membri attraverso la lente più ampia del contesto europeo e internazionale. È stato così possibile individuare i tratti di una linea di tendenza comune, che spiegano perché le sfide attuali per lo Stato di diritto sono diventate estremamente complesse e perché molto alta è oggi la posta in gioco: l’attacco all’indipendenza dei sistemi giudiziari è una componente strutturale, si può dire ineliminabile, dei processi di autocratizzazione[5]; le riforme che – con soluzioni variabili, ma tutte ormai ampiamente sperimentate – mirano a smantellare le garanzie istituzionali e ordinamentali di indipendenza della magistratura, a “catturare” i tribunali e a manipolare dall’interno le istituzioni chiave del sistema giudiziario (come i Consigli di giustizia) sono dovunque sostenute da aggressive campagne mediatiche contro le decisioni giudiziarie, i singoli magistrati e le loro associazioni; il punto di approdo di questo processo che coinvolge in prima battuta i sistemi giudiziari nazionali è l’intera architettura giudiziaria sovranazionale, a cominciare da quella europea, basata sul ruolo delle Corti europee e dei giudici nazionali, in quanto giudici del diritto dell’Unione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
E, se guardiamo al contesto globale come si va ridisegnando, con gli attacchi diretti e indiretti portati alle Corte penale internazionale e alla Corte internazionale di giustizia, è evidente che l’obiettivo perseguito è spazzare via l’idea stessa di Giustizia “universale” e distruggere tutto ciò che la comunità internazionale ha costruito negli anni per garantire la massima protezione della persona, dei diritti e delle libertà fondamentali.
2. I giudici “nemici del popolo”
La retorica e le dinamiche del populismo contemporaneo, che ha messo radici nella maggior parte dei Paesi europei, hanno moltiplicato e aggravato le dinamiche di tensione e di insofferenza verso i sistemi giudiziari (in quanto indipendenti) e la funzione stessa della giurisdizione (in quanto garanzia imparziale dei diritti e delle libertà).
Nel suo saggio “Enemies of the People”[6], Jan-Werner Müller sottolinea il legame strutturale fra populismo e il cd. “anti-juridicalism”: «gli attacchi all’indipendenza della magistratura fanno parte della logica stessa del populismo: i populisti sostengono che solo loro rappresentano il popolo, con la conseguenza che qualsiasi critica (o qualunque cosa possa essere interpretata come critica) da parte di istituzioni non elette e indipendenti viene liquidata come non legittima (e questo vale tanto per i media liberi quanto per la magistratura)»[7]. Non è dunque un caso che in epoca di “populismo al governo” si attacchi la magistratura e si rimetta in discussione il suo assetto di ordine indipendente: i giudici “non sono eletti”, decidono e devono decidere rimanendo al di fuori del circuito di legittimazione legato al consenso e alla volontà popolare e non hanno quindi – nella retorica populista – “vera legittimazione democratica”; le loro decisioni danno rappresentanza e tutela alle diversità della società e ai diritti di tutti gli individui, e confliggono dunque con l’antipluralismo, altra componente essenziale delle dinamiche populiste, che escludono gli altri, non solo quelli che esprimono posizioni diverse a livello politico, ma tutti coloro che non condividono o non danno rappresentazione alla costruzione simbolica del popolo “puro”[8].
Il filo conduttore che lega, a tutte le latitudini, le strategie di attacco all’indipendenza della magistratura “nemica del popolo e della democrazia” è dunque l’intolleranza istituzionale verso il suo ruolo di garanzia imparziale ed effettiva dei diritti, delle libertà e della legalità. La stessa intolleranza che si esprime verso la stampa libera, gli oppositori politici e l’idea stessa che società civile sia pluralismo, diversità, spazio aperto e libero di critica e di partecipazione: come ci ricorda il Report V-DEM, la censura dei media è la cosa più diffusa tra i governi in corso di trasformazione verso l’autocrazia, seguita da una riduzione della libertà e trasparenza delle elezioni e dalla repressione della società civile.
3. Le strategie di attacco all’indipendenza dei sistemi giudiziari: i “laboratori” polacco e ungherese nel più ampio contesto di crisi europea
Ungheria e Polonia rappresentano i due casi più citati e noti di regressione democratica in Europa. Nello loro specificità, questi due Paesi offrono in effetti molti motivi di riflessione sui rischi esistenziali che corre oggi lo Stato di diritto, anche nell’Unione europea, e sull’efficacia dei meccanismi di risposta messi in atto dalla Commissione europea, a partire dal 2014, con il nuovo quadro di tutela dello Stato di diritto[9]. Strumenti che, anche quando, come nel caso della Polonia, sono stati utilizzati in maniera più tempestiva e assertiva, non hanno di fatto impedito ulteriori evoluzioni del processo di regressione.
Le vicende di Ungheria e Polonia offrono anche l’esempio di come, nella strategia della governance populista, rientrino “soluzioni” volte a mantenere una parvenza di rispetto dei limiti costituzionali attraverso ciò che Müller definisce faking constitutionalism: conservare la facciata delle istituzioni giudiziarie che possano coesistere con i governi populisti e consentire a questi di «massimizzare le opportunità di esercitare il potere arbitrario in nome di un popolo omogeneo e virtuoso»[10].
Attraverso le testimonianze delle sue associazioni di giudici e pubblici ministeri, MEDEL ha vissuto sin dal principio l’avvio della stagione delle riforme dirompenti adottate dal Governo polacco a partire dal 2015, sull’onda del consenso raccolto nelle urne e della maggioranza assoluta ottenuta dal PiS in Parlamento.
Il primo passo è stato realizzato con l’intervento finalizzato ad acquisire il controllo politico sulla Corte costituzionale attraverso le nomine dei suoi nuovi componenti e la non pubblicazione delle sue stesse decisioni che si opponevano a questo processo di manomissione. Un’operazione che ha raggiunto l’obiettivo del Governo di trasformare la Corte da garante dei presidi costituzionali della democrazia in un’alleata fedele dell’esecutivo nell’attuazione del piano finalizzato a scardinarli. E la Corte costituzionale polacca è stata, in effetti, protagonista di una delle mosse più dirompenti rispetto all’ordine legale europeo, con le decisioni che, “in risposta” alle violazioni riscontrate rispetto alla sua stessa composizione dalla Corte di Strasburgo, hanno sfidato il sistema della Convenzione dichiarando non vincolante e «incostituzionale» l’art. 6 sul giudice naturale precostituito per legge[11].
Come sottolineato nel Rapporto pubblicato l’8 novembre 2022 dal Segretario generale del Consiglio d’Europa sulle conseguenze di questa decisione, la Polonia si sottraeva così all’obbligo di garantire, nel suo ordinamento, il godimento del diritto a un processo equo da parte di un tribunale indipendente e imparziale istituito dalla legge[12].
Principio compromesso in radice, come ripetutamente sottolineato dalle Corti europee, dall’istituzione di tribunali e giudici solo apparentemente stabiliti dalla legge: tribunali di facciata – masquerading Tribunals o new star chambers, secondo la definizione di Laurent Pech[13] – come le nuove sezione della Corte suprema (la Camera disciplinare e la Camera di revisione straordinaria e affari pubblici) e quelli risultati dall’innesto nelle corti ordinarie di “neogiudici”, nominati dal Consiglio superiore (KRS), a sua volta divenuto longa manus del Governo. Con il passaggio del potere di eleggere i 15 componenti togati del Consiglio dalle rispettive assemblee dei giudici al Sejm, il KRS cessava infatti di essere organo di tutela della magistratura (e veniva per questo sospeso e, poi, espulso dalla Rete europea dei Consigli di giustizia di cui era membro fondatore[14]) e si trasformava in uno dei più attivi fautori della distruzione – dall’interno – della sua indipendenza.
Nel quadro di una ridefinizione degli equilibri a favore dell’esecutivo, non poteva mancare l’intervento sulla Procura: il PiS al governo sanciva la fine del processo di democratizzazione della Procura iniziato nel 2009 e, in violazione del principio stesso della separazione dei poteri, imponeva la riunificazione nella stessa persona delle funzioni di Ministro della giustizia e di Procuratore generale; con l’aumento dei suoi poteri in relazione all’organizzazione interna dei tribunali, alla nomina e revoca di presidenti e vicepresidenti, e alla responsabilità disciplinare dei giudici – a sua volta riformata per consentire che il contenuto delle decisioni giudiziarie potesse essere qualificato come illecito disciplinare per i giudici delle corti inferiori –, il Ministro/Procuratore generale si trasformava nell’utile e potente strumento per garantire la presa dell’esecutivo sulle corti ed esercitare una pressione straordinaria sui singoli giudici.
Se la Polonia oggi è alla prese con una difficile opera di ricostruzione dello Stato di diritto, ulteriormente complicata dalla situazione politica di assoluta incertezza legata all’esito delle elezioni presidenziali, l’Ungheria di Orbán continua sulla sua strada di sfida aperta e dichiarata all’Unione e al suo sistema di valori.
Anche in questo caso, il processo di erosione democratica ha preso avvio nel 2011 con un’intensa attività riformatrice dell’intero assetto costituzionale, favorita dalla forza acquista in Parlamento con le elezioni generali dell’anno prima dalla maggioranza di governo. Quello che è stato definito il “costituzionalismo abusivo” di Orbán andava a colpire anzitutto competenze e composizione della Corte costituzionale, in modo da ricondurla al controllo della sfera politica, e del Consiglio nazionale della magistratura (CNM): nel caso del Consiglio ungherese, la strategia non era quella della manipolazione dall’interno con il cambiamento dei suoi componenti, ma del suo “svuotamento”, attraverso il trasferimento dei poteri a un nuovo Ufficio giudiziario nazionale (UGN) presieduto da un magistrato eletto dal Parlamento per nove anni.
Il declino dell’indipendenza del sistema giudiziario in Ungheria è stato uno dei motivi per cui il Paese è stato dichiarato «non più una democrazia pienamente funzionante» dai membri del Parlamento europeo nel 2022. Una rapida disamina dei documenti europei – richiamati dalla risoluzione – sugli effetti delle riforme adottate nel tempo danno conto dei molteplici fronti di attacco all’indipendenza delle corti aperti anche dall’interno del sistema. Basti menzionare il parere della Commissione di Venezia, del 16 ottobre 2021, sulle modifiche alla legge sull’organizzazione e l’amministrazione dei tribunali e alla legge sullo status giuridico e la retribuzione dei giudici, adottate dal Parlamento ungherese nel dicembre 2020: oltre che intervenire nuovamente sul ruolo del presidente dell’UGN, la Commissione formulava diverse raccomandazioni relative all’assegnazione delle cause, al potere del presidente della Kúria (Corte Suprema) di aumentare il numero dei membri dei collegi giudicanti, alle decisioni di uniformità e alla composizione delle sezioni nella procedura di reclamo in materia di uniformità e osservava che il sistema di nomina del presidente della Kúria, introdotto con le modifiche del 2019, poteva comportare gravi rischi di politicizzazione e importanti conseguenze per l’indipendenza della magistratura o la relativa percezione da parte del pubblico; stesse preoccupazioni esprimeva, nella sua comunicazione al Governo ungherese del 15 aprile 2021, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sull’indipendenza dei giudici e degli avvocati, affermando che la nomina del presidente della Kúria poteva essere considerata un attacco all’indipendenza della magistratura e un tentativo di sottoporre il potere giudiziario alla volontà del ramo legislativo, in violazione del principio della separazione dei poteri; il Relatore sottolineava altresì, come fatto particolarmente preoccupante, che il presidente della Kúria era stato eletto nonostante la manifesta obiezione del CNM e che la decisione di ignorare il parere negativo espresso dal CNM poteva essere interpretata come una dichiarazione politica della maggioranza al governo: l’effetto principale, se non l’obiettivo primario, delle riforme del sistema giudiziario, concludeva il Relatore, era stato quello di pregiudicare il principio dell’indipendenza della magistratura, e di consentire ai rami legislativo ed esecutivo di interferire nell’amministrazione della giustizia[15].
Il processo di regressione dello Stato di diritto in Ungheria non si è, di fatto, arrestato né è regredito a fronte degli interventi della Commissione europea. Nella sua Relazione annuale sullo Stato di diritto del 2024, con riferimento all’indipendenza del sistema giudiziario, la Commissione ha rilevato, fra l’altro, l’assenza di progressi rispetto alla non trasparente assegnazione dei casi nei tribunali di grado inferiore; alla limitazione alla libertà di espressione dei giudici; alla struttura dell’ufficio di Procura rimasta invariata, con un’architettura strettamente gerarchica e la mancanza di controlli ed equilibri interni, che aumentano il rischio persistente che i procuratori di alto livello influenzino il lavoro dei procuratori subordinati, anche rispetto alla trattazione di singoli casi; al sistema e livello di retribuzione dei giudici e del personale giudiziario, ulteriormente peggiorato, e che da ultimo è stato oggetto di un accordo del Consiglio con il Governo contestato dalle associazioni giudiziarie per le ricadute sullo status dei giudici e sulla loro indipendenza[16].
Ungheria e Polonia restano gli esempi delle più dirompenti strategie di demolizione dell’indipendenza dei sistemi giudiziari che abbiamo conosciuto in questi anni, anche per la morsa che l’esecutivo ha imposto (o tentato di imporre) in vario modo alle libertà di associazione e di parola dei magistrati: aggressive campagne mediatiche orchestrate contro singoli giudici, finalizzate a consolidare nella percezione esterna un’immagine distorta di una magistratura che agisce per finalità abusive, in violazione dei suoi doveri di imparzialità; ritorsioni con procedimenti disciplinari e sospensioni dalle funzioni e riforme per limitare con legge la libertà di espressione dei giudici, come nel caso della cd. muzzle law polacca[17].
Basta guardare agli sviluppi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla violazione dell’art. 10 della Convenzione in relazione alla libertà di parola dei magistrati per avere la conferma di quanto sia stato sistematico l’attacco che questo diritto ha subito negli anni e nei contesti di regressione democratica come quello polacco e ungherese.
Ma il quadro delle attuali criticità per lo Stato di diritto e i sistemi giudiziari in Europa è molto più articolato, come confermano le vicende di Bulgaria e Romania. Significativo, in tal senso, è stato il percorso della riforma della giustizia rumena adottato nel 2017-2019: una riforma poi in parte rivista, ma che ha seguito il “metodo” polacco e ungherese con interventi normativi rapidi ed estesi, volti a minare l’indipendenza giudiziaria prevedendo, fra l’altro, l’istituzione di una sezione speciale della Procura con competenza esclusiva per i reati commessi da giudici e pubblici ministeri e a una nuova disciplina della responsabilità personale dei magistrati per gli errori giudiziari. In Bulgaria, come la Romania non più soggetta dal settembre 2023 al Meccanismo di Cooperazione e Verifica istituito dall’Ue allo scopo di continuare a monitorare, dopo l’adesione, le questioni relative all’indipendenza della magistratura e alla corruzione, continuiamo a osservare un contesto molto allarmante per il livello di attacchi e di minacce indirizzati ai giudici in relazione all’esercizio delle loro funzioni e alle loro decisioni, per i tentativi delle organizzazioni criminali di esercitare pressioni, e per le risalenti problematiche legate all’assetto della Procura generale, al suo eccessivo coinvolgimento nella governance dei giudici e all’assenza di meccanismi di responsabilità in relazione all’esercizio dei suoi poteri. E, anche in questi contesti, l’intolleranza istituzionale verso la magistratura prende corpo nelle campagne mediatiche di delegittimazione dei singoli giudici e delle loro decisioni.
4. La vera posta in gioco
Come ha scritto Laurent Pech[18], dopo oltre un decennio di arretramento democratico stiamo assistendo a prove sempre più evidenti di attuazione di un progetto più ampio: la lenta disintegrazione dell’ordine giuridico dell’Unione europea come sistema basato sullo Stato di diritto, legata alle crescenti e sistematiche violazioni delle sentenze della Corti europee, deliberatamente organizzate dalle autorità nazionali, e in alcuni contesti realizzate anche attraverso corti e giudici non più indipendenti.
Guardando all’Europa, per la sua gravità, merita una menzione a parte la sistematica inottemperanza da parte della Turchia alle sentenze della Corte di Strasburgo: sentenze che hanno riscontrato in noti casi di oppositori politici un uso dei processi e della detenzione strumentale ad indurli al silenzio; sentenze che hanno ravvisato violazioni del principio “nullum crimen sine lege” e rivelato violazioni sistemiche della Convenzione; sentenze che riguardano migliaia di altre persone detenute e casi legati alle accuse di terrorismo, pendenti davanti ai tribunali turchi, e disvelano un abuso della giustizia penale del quale è parte integrante un sistema giudiziario non più indipendente. Come sottolineato dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, il continuo e persistente rifiuto, da parte delle autorità turche, di attuare le sentenze della Corte di Strasburgo pone a rischio significativo la credibilità e la missione stessa del Consiglio d’Europa nel suo complesso[19].
La più ampia e preoccupante tendenza degli Stati membri a ignorare apertamente il diritto dell’Ue e la Convenzione, e a non intervenire per affrontare le violazioni accertate dalla Corte di Strasburgo e attuare gli obblighi che derivano dall’appartenenza a un sistema di tutela sovranazionale dei diritti, è particolarmente evidente in settori quali la tutela dei migranti e le politiche migratorie. Lo abbiamo sperimentato di recente in Belgio come nel Regno Unito e – rispetto ai migranti e agli obblighi legati alla tutela dei loro diritti fondamentali – si è aperta la nuova stagione di gravi attacchi alla magistratura nel nostro Paese. Il modello emergente di declino degli ordinamenti costituzionali consolidati nel loro impegno verso i diritti umani si sta affermando attraverso il disprezzo per lo Stato di diritto da parte degli Stati membri dell’Ue e il fenomeno al suo interno descritto come «EU Lawlessness Law»[20]: un «diritto dell’illegalità» fondato sull’idea che il ruolo del diritto nel regolare e porre limiti sia un ostacolo al buon governo, anziché un elemento necessario e indispensabile dello stesso. Una tendenza evidente nelle politiche fondate sulla cd. esternalizzazione della gestione dei flussi migratori e sui «Memorandum d’intesa» che, senza nessuna base giuridica, riguardano e “premiano” Paesi terzi che agiscono in palese violazione dei diritti umani (come la Tunisia), o sulle “finzioni giuridiche” per rendere “sicuri” Paesi terzi[21].
L’altra faccia di questo fenomeno è l’attacco agli snodi e agli attori fondamentali del nostro sistema di tutela giurisdizionale sovranazionale. Non è un caso che in Ungheria prima e in Polonia dopo siano state attuate riforme non solo per demolire strutturalmente le basi dell’indipendenza della magistratura, ma anche per impedire ai giudici – sotto la pressione di sanzioni disciplinari – di affermare il primato del diritto europeo e di avvalersi degli strumenti, come il rinvio pregiudiziale, funzionali a garantire tale primato e la sua uniforme ed effettiva applicazione.
Come è stato osservato, molte delle ragioni dell’irritazione populista nei confronti dei tribunali nazionali sono rilevanti anche per le Corti internazionali, soprattutto per la Corte di Strasburgo: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha elevato gli standard dei diritti umani in Europa; la sua giurisprudenza è costruita su valori che sono in contrasto con il progetto populista poiché incentrata sui diritti individuali, sul pluralismo nelle società democratiche e sulla tutela delle minoranze. Tutte caratteristiche che pongono la sua autorità in contrasto con l’ideologia e il progetto populista[22].
Ciò che si delinea è, dunque, un attacco sistemico alle caratteristiche chiave dell’architettura sovranazionale che dovrebbe fungere da garanzia del più alto livello di protezione dei diritti fondamentali, basata sulle Corti europee e su quelle nazionali, e sul ruolo che i giudici nazionali, in qualità di giudici europei e di giudici della Convenzione europea dei diritti umani, svolgono nell’applicazione delle fonti sovranazionali.
In questo contesto dobbiamo evidentemente leggere la lettera congiunta pubblicata il 22 maggio 2025 su iniziativa di Danimarca e Italia, e firmata anche da altri nove Stati membri del Consiglio d’Europa (Austria, Belgio, Cechia, Estonia, Lettonia, Lituana, e Polonia).
Una lettera che chiede di avviare un «nuovo dialogo aperto» sul modo in cui la Corte Edu interpreta la Convenzione europea dei diritti dell’uomo “ a favore” degli immigrati irregolari (“wrong people”, si legge nella lettera). Al di là dei toni pacati e della ribadita «ferma convinzione» dei firmatari «nei nostri valori europei, nello Stato di diritto e nei diritti umani», un’iniziativa dal chiaro e dirompente valore politico e simbolico[23].
5. L’Italia: un nuovo fronte aperto per lo Stato di diritto
Il nostro Paese è entrato a pieno titolo a far parte dello scenario europeo e globale di crisi dello Stato di diritto e di attacco all’indipendenza della magistratura.
Partiamo dalle riforme che – “in nome” della cd. separazione delle carriere – cambiano radicalmente anche il ruolo e l’identità del Consiglio superiore e interi settori cruciali per la tenuta dell’indipendenza giudiziaria, come quello disciplinare: riforme dirompenti, che vanno di fatto a scardinare l’intero assetto costituzionale posto a presidio di una giurisdizione indipendente.
Sono noti i termini del dibattito politico e pubblico in corso nel nostro Paese: un dibattito che sorprendentemente procede senza alcuna attenzione alle recenti ed attuali esperienze di regressione democratica, a livello europeo e globale, che altrove hanno suggerito, anche a governi di orientamento conservatore, di rafforzare i presidi costituzionali[24].
Di queste esperienze europee, che poco o nulla interessano ai fautori delle riforme di casa nostra, fa parte il “destino” del pubblico ministero: la regressione democratica di cui siamo stati testimoni in questi anni, anche nei confini dell’Unione, ci ha dimostrato che l’assetto statutario dell’ufficio di procura rappresenta un punto di attacco strategico per chi voglia modificare gli equilibri istituzionali a vantaggio del potere esecutivo e per chi voglia assicurarsi una presa salda sui sistemi giudiziari nel loro complesso e, in definitiva, sulla giurisdizione.
L’unica finestra che, nel nostro dibattito sulle riforme, si è aperta sull’Europa riguarda, invece, il richiamo a quel che accade in Portogallo e al modello portoghese di pubblico ministero: lo scopo di questo sguardo “comparativo” è proporre un argomento a favore della riforma del modello italiano, non già dimostrando gli eventuali vantaggi di quel sistema rispetto al nostro in relazione al corretto funzionamento della giustizia e alle garanzie del giusto processo, ma assumendo tale modello come prova dell’infondatezza degli argomenti portati (soprattutto dalla magistratura associata) contro la riforma. Il principale di questi argomenti è che un pubblico ministero “separato”, una volta uscito dalla sfera della giurisdizione, voltato l’angolo della riforma costituzionale, entrerà inevitabilmente nell’area di controllo della politica. Un argomento finalmente “supportato” anche dalle dichiarazioni esplicite dei politici che hanno prospettato l’ineludibilità – dopo la riforma – di un ulteriore passo per l’introduzione di un controllo dall’esterno di questo nuovo esercito di «duemila samurai senza padrone»[25].
E invece è proprio il modello dell’ufficio portoghese di pubblico ministero che, in qualche modo, conferma questa prospettiva. Quel modello, strutturato secondo un principio di gerarchia interna e di dipendenza dal Procuratore generale[26], che presiede anche il Consiglio dei procuratori, ha infatti nella sua conformazione un momento di raccordo con la sfera politica: la nomina del Procuratore generale, che potrebbe essere un non magistrato, è un atto politico, poiché fatta dal Presidente della Repubblica su proposta del Governo; in assenza di garanzie costituzionali, la possibilità di designazione di un “esterno” è stata sempre controbilanciata unicamente dalla tradizione politica di quel Paese e della sua solida democrazia, che hanno garantito sino ad ora la nomina alla funzione di Procuratore generale di un magistrato e il rispetto della indipendenza della Procura[27]. Ma le tradizioni e i contesti, come noto, possono cambiare. E le più recenti cronache dal Portogallo ci dicono che anche in quel Paese il tema del “cambiamento” sulla nomina del Procuratore è entrato nell’agenda del dibattito politico e mediatico.
Ma la vera posta in gioco della nostra riforma è il Consiglio superiore: rompendo il principio dell’unico ordine giudiziario, la riforma non solo lo divide in due organi separati (uno per i giudici e l’altro per i pubblici ministeri), ma lo priva di una competenza centrale nelle funzioni di autogoverno per la garanzia di indipendenza dei magistrati, rappresentata dalle decisioni in materia disciplinare.
Un cambiamento radicale, che annullerà tutte le potenzialità democratiche di questa istituzione, legate alla sua collocazione, composizione e rappresentatività.
Nel Consiglio riformato, diviso e rimpicciolito, risultato del “tiro a sorte”, non resterà nulla dei tratti voluti dai Costituenti per farne un punto di incrocio istituzionale, dotato di poteri che lo rendono partecipe del dibattito democratico e istituzionale (come il potere consultivo) e di rappresentatività rispetto alla magistratura, chiamata ad eleggere la maggioranza dei suoi componenti.
La scelta dirompente di introdurre il sorteggio, temperato peraltro dalla preselezione dei sorteggiabili per i soli membri laici indicati dal Parlamento, va in rotta di collisione con consolidati standard europei che richiedono che non meno della metà dei membri dei Consigli di giustizia siano magistrati “eletti” dai loro pari, e che sia così garantita la più ampia rappresentatività dell’organo rispetto alle funzioni e alla composizione della magistratura: rappresentatività e forte legittimazione, interna ed esterna, sono requisiti necessari non solo per mettere l’organo di autogoverno al riparo da interferenze esterne, ma perché possa effettivamente agire da garante dell’indipendenza del sistema giudiziario e farsi carico dei complessi compiti relativi all’amministrazione della giurisdizione. Mentre i documenti europei, partendo da questo assunto e dall’esperienza di questi anni di grave regressione democratica, sottolineano non da ora il «ruolo guida» dei Consigli di giustizia nella tutela dell’indipendenza dei sistemi giudiziari, nel promuovere un migliore equilibrio fra i poteri, nell’esprimere e far comprendere l’essenziale funzione di una magistratura indipendente e responsabile all’interno di uno Stato di diritto [28] e, con affermazioni sempre più nette, si appellano alla capacità di leadership e al «coraggio» di tali istituzioni perché supportino attivamente e con i vari mezzi a disposizione la resilienza della giustizia indipendente[29], il nostro legislatore mette mano alla riforma dell’ istituzione cardine del nostro sistema di autogoverno per sostituirla con un suo simulacro, che dell’attuale Consiglio conserverà (in parte) solo il nome.
Viviamo tempi di crisi della democrazia. Dovremmo essere tutti preoccupati, da cittadini prima che da giuristi, dell’inaugurazione di strani esperimenti su istituzioni democratiche e rappresentative che eliminano il momento e il valore della scelta, risultato di un confronto collettivo tra idee e visioni diverse, e ci espropriano del diritto ad esprimere la “rappresentanza”.
Ma la cd. separazione delle carriere e la riforma del Consiglio sono in realtà la punta emergente di una riforma che mira più “al profondo”: a un cambiamento “culturale” della magistratura in direzione di un ritorno strutturale alla gerarchia e al conformismo. Non è un caso che, sia pure in modo “subdolo”, la riforma spazzi via anche il principio dell’eguaglianza e di pari dignità delle funzioni sancito dall’art. 107 della Costituzione. Con la scelta di destinare alla componente togata della nuova Alta Corte disciplinare magistrati (sempre individuati con sorteggio puro) che abbiano almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano, o abbiano svolto, funzioni di legittimità si torna infatti all’assetto verticale della magistratura: un salto indietro rispetto alla scelta della Costituzione per una magistratura di “uguali”, affrancata da dinamiche interne di carriera e gerarchia, fattori lesivi dell’indipendenza interna.
Un ritorno dunque alla corporazione e all’ordine gerarchico, diviso e distinto al suo interno fra ranghi alti e ranghi bassi.
6. «Questi giudici devono andarsene»
Così ha “twittato” Elon Musk quando, lo scorso novembre, i giudici del Tribunale di Roma, richiamando la natura vincolante dei principi stabiliti nella giurisprudenza della Corte di giustizia e nella legislazione dell’Unione, non hanno convalidato la detenzione dei migranti trasferiti sulla base del cd. “Protocollo Italia-Albania”.
I giudici che oggi devono andarsene sono quelli che, agendo nei rispettivi sistemi nazionali, agiscono come parte del nostro sistema multilivello di protezione dei diritti fondamentali: sono i giudici europei.
Insieme al cantiere delle riforme della giustizia si è aperta, nel nostro Paese, una nuova stagione di attacchi alla giurisdizione che ha cambiato radicalmente il linguaggio e le forme del dibattito istituzionale, politico e mediatico.
Un dibattito di non più celata intolleranza verso la magistratura, che prende la parola per ricordare la necessità di rispettare il ruolo della giurisdizione. E dopo le accuse di interferenza all’Associazione nazionale magistrati, che sin dall’inizio del dibattito ha osato lanciare l’allarme sui rischi delle riforme costituzionali e gli attacchi alla libertà di parola e di associazione dei magistrati, è apparso evidente che il fronte di attacco si va sempre più pericolosamente spostando in direzione della giurisdizione e delle decisioni giudiziarie: e non si tratta della legittima, per quanto aspra, critica al contenuto di tali provvedimenti, alla interpretazione e applicazione delle norme, ma dell’accusa ai giudici di ostacolare con le loro decisioni le scelte di governo del Paese e nell’interesse del Paese, fatte da chi ha l’unica legittimazione democratica a farsi interprete della volontà che si è espressa nelle urne.
Secondo dinamiche che riproducono pienamente le logiche e la retorica dell’imperante populismo che abbiamo sopra descritto, i giudici nemici del popolo, in quanto non eletti, non hanno legittimità a sindacare e disattendere le scelte fatte “nell’interesse del popolo”.
Dinamiche che certo fanno parte della nostra storia e che, anche qualche anno fa, hanno ispirato la campagna del Ministro dell’interno, e l ‘annuncio delle “liste nere” per i giudici della protezione internazionale.
Tuttavia, anche nel nostro Paese si coglie chiaramente un cambio di paradigma per l’intensità e il livello degli attacchi che colpiscono le decisioni giudiziarie e chi le adotta, e per gli effetti di grave delegittimazione prodotti da accuse pubbliche di uso strumentale delle funzioni giurisdizionali, provenienti da chi ricopre incarichi di governo e istituzionali.
L’intolleranza verso il ruolo della giurisdizione si esprime oggi nell’accusa esplicita ai giudici e ai pubblici ministeri, senza più mediazioni di toni e linguaggio, di svolgere un ruolo di opposizione politica: è un’accusa che colpisce al cuore l’essenza di “imparzialità” della giurisdizione per inoculare in chi entra in un’aula di giustizia la convinzione di avere davanti a sé un giudice che non ascolterà, non cercherà la risposta alla sua domanda di giustizia interpretando le norme e i principi, ma che avrà già scritto il suo verdetto. Un verdetto che sarà la rivincita dei suoi pregiudizi ideologici e politici.
La posta in gioco è, dunque, la fiducia dei cittadini nella giustizia e nella stessa ragion d’essere della funzione giudiziaria in quanto garanzia imparziale dei diritti fondamentali delle persone e dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge.
È una direzione molto pericolosa quella che si intraprende quando si fa terra bruciata intorno a un’istituzione della democrazia accusandola di agire contro la democrazia, e quando si arriva a delegittimare la funzione stessa assegnata alla magistratura in ogni Stato di diritto.
È una via senza ritorno quella che si rischia di imboccare quando lo stigma della parzialità riguarda ogni giudice e pubblico ministero per le decisioni che il popolo “non approva”.
E quando a finire sotto accusa sono i giudici e le corti che svolgono il ruolo di garanzia riaffermando il primato del diritto dell’Unione e delle fonti sovranazionali, la posta in gioco diventa l’intero sistema di tutela che abbiamo costruito con le nostre Carte per mettere i diritti e le libertà fondamentali al riparo dalle involuzioni e dalle regressioni nei contesti nazionali. Conquiste che tutti dovremmo difendere perché, in questa Europa di nuovo battuta dai venti distruttivi dei nazionalismi e della guerra, il rischio che siano spazzate via non ci è mai apparso così concreto.
1. Democracy Report 2025. 25 Years of Autocratization – Democracy Trumped?, marzo 2025 (www.v-dem.net/documents/61/v-dem-dr__2025_lowres_v2.pdf).
Gli Stati Uniti – precisa il Report – meritano una nota speciale poiché le elezioni si sono tenute il 4 novembre 2024, il Presidente Trump non è entrato in carica fino al 20 gennaio 2025 e, anche se alcuni aspetti della democrazia negli USA hanno già subito un duro colpo nel corso del 2024, i dati V-DEM non riflettono ancora gli sviluppi recenti ed «estremamente preoccupanti».
2. Sono tali, secondo il Report, i regimi autocratici che non prevedono elezioni multipartitiche per l’esecutivo e dove mancano elementi democratici fondamentali come la libertà di espressione, la libertà di associazione ed elezioni libere.
3. Le autocrazie, in questo caso, prevedono elezioni multipartitiche per scegliere chi governa, ma non sono garantiti processi elettorali del tutto liberi e trasparenti e piena libertà di parola e di associazione.
4. Il Report dedica, in realtà, un capitolo al crollo della democrazia degli Stati Uniti (BOX 9, pp. 46 ss.: USA – A Democratic Breakdown in the Making?) sottolineando che quello che sta succedendo negli USA «è senza precedenti» e sembra essere il periodo di autocratizzazione più veloce che quel Paese abbia mai vissuto nella storia moderna: mentre, negli ultimi 25 anni, i processi di autocratizzazione si sono di solito evoluti gradualmente, con leader democraticamente eletti che hanno, passo dopo passo, smantellato i limiti al potere esecutivo, il Presidente Trump agisce apertamente e rapidamente.
5. Nell’analisi degli attacchi allo Stato di diritto, il Report V-DEM sottolinea che il sistema giudiziario è una delle istituzioni più importanti che gli autocrati prendono di mira durante la loro ascesa al potere, soprattutto all’inizio: «per cambiare il sistema, è necessario che lo Stato di diritto sia a favore degli aspiranti autocrati». La scelta di Trump di graziare 1500 criminali condannati per l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio il primo giorno di inizio del mandato è stato uno dei primi passi per minare la legittimità dei tribunali e dello Stato di diritto; il rifiuto di seguire le decisioni delle corti è stata accompagnata dall’affermazione che «chi salva il proprio Paese non viola alcuna legge», dichiarazione che «sembra riflettersi nelle azioni dell’amministrazione» come dimostrato dal numero delle cause già state intentate (oltre 70) contro il Presidente Trump e la sua amministrazione per aver violato la legge e la Costituzione.
6. “Enemies of the People”: Populism’s Threat to Independent Judiciaries, in D. Giannoulopoulos e Y. McDermott (a cura di), Judicial Independence Under Threat, Oxford University Press/British Academy, Oxford/Londra, 2022, parte I, cap. 1.
7. Nella retorica populista troviamo conferma, osserva Müller, di questo “sentimento”: Janos Lazar, braccio destro del premier Orbán, ha parlato di una «democrazia maggioritaria» in cui non c’è bisogno di limiti e di contrappesi; il Ministro della giustizia polacco, Zbigniew Ziobro, ha giustificato l’opera di demolizione del sistema giudiziario affermando che la Polonia era una democrazia, non una «corte-crazia»; Herbert Kickl (da Ministro degli interni austriaco) ha affermato che «la legge deve seguire la politica». Nello stesso volume (Judicial Independence, op. ult. cit.), Julian Petley (“Enemies of the People”: article 50, the press and anti-juridicalism, parte I, cap. 5) sottolinea che il «sentimento» dell’anti-juridicalism è un aspetto chiave del fenomeno del populismo e che è singolare che non abbia ricevuto l’attenzione dovuta, considerato che riguarda un aspetto di così particolare rilevanza come è la «delegittimazione dello Stato di diritto».
8. Per citare sempre Müller, «il populismo sfocia inevitabilmente in quella che si potrebbe definire una forma di politica identitaria escludente».
9. https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:caa88841-aa1e-11e3-86f9-01aa75ed71a1.0006.01/DOC_1&format=PDF.
Sugli strumenti di tutela dello Stato di diritto, cfr. G. Michelini, Crisi della democrazia costituzionale e dello Stato di diritto in Europa: uno sguardo cronologico e uno sguardo sincronico, in Questione giustizia, Speciale Democrazia e rule of law in Europa. Criticità e sfide aperte alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo, maggio 2024, pp. 30-42 (www.questionegiustizia.it/data/speciale/articoli/1188/speciale_maggio2024_michelini.pdf), e M. Coli, Stato di diritto e condizionalità finanziaria: un binomio ormai inscindibile per la tutela dei valori dell’Unione europea?, ivi, pp. 43-60 (www.questionegiustizia.it/data/speciale/articoli/1189/speciale_maggio2024_coli.pdf).
10. In D. Giannoulopoulos e Y. McDermott (a cura di), Judicial Independence, op. cit.
11. Nella sua sentenza del 24 novembre 2021, nella causa K 6/21, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’art. 6, par. 1 della Convenzione fosse in contrasto con la Costituzione nella misura in cui il termine «tribunale» utilizzato in tale disposizione comprendeva la Corte costituzionale e nella misura in cui attribuiva alla Corte europea dei diritti dell’uomo la competenza a controllare la legittimità del processo di elezione dei giudici della Corte costituzionale. La sentenza è stata emessa su richiesta del Procuratore generale alla Corte costituzionale di verificare la costituzionalità dei criteri derivati dalla Corte europea in applicazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione nella causa Xero Flor w Polsce sp. z o.o. c. Polonia; il 10 marzo 2022, la Corte costituzionale ha emesso la sentenza nella causa K 7/21 concludendo che l’art. 6, par. 1 della Convenzione, come interpretato dalla Corte europea, era incompatibile con la Costituzione nella misura in cui: estendeva il termine «diritti e doveri civili» al diritto individuale di un giudice di ricoprire una funzione amministrativa nell’ambito della struttura della magistratura ordinaria nell’ordinamento giuridico interno; nel determinare se un «tribunale» sia «istituito dalla legge», consentiva alla Corte europea di ignorare le disposizioni della Costituzione, delle leggi e delle sentenze della Corte costituzionale; di creare norme indipendenti relative alla procedura di nomina dei giudici nazionali; di riesaminare le leggi relative al sistema giudiziario e alla competenza dei tribunali, nonché la legge che disciplina il Consiglio nazionale della magistratura, dal punto di vista della loro compatibilità con la Costituzione e la Convenzione. Anche questa sentenza è stata emessa su richiesta del Procuratore generale alla Corte costituzionale di esaminare la costituzionalità delle norme derivanti dalla Corte europea in applicazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione nei casi Broda e Bojara e Reczkowicz.
12. Report by the Secretary General under Article 52 of the European Convention on Human Rights on the consequences of decisions K 6/21 and K 7/21 of the Constitutional Court of the Republic of Poland (https://rm.coe.int/report-by-the-secretary-general-under-article-52-of-the-european-convention/1680a8eb59).
13. L. Pech, Protecting Polish Judges from the Ruling Party’s “Star Chamber”. The Court of Justice’s interim relief order in Commission v Poland (Case C-791/19 R), in Verfassungsblog, 9 aprile 2020 (https://verfassungsblog.de/protecting-polish-judges-from-the-ruling-partys-star-chamber/).
14. La decisione veniva adottata dall’Assemblea generale dell’ENCJ di Vilnius il 28 ottobre 2021, su proposta dell’executive board (https://pgwrk-websitemedia.s3.eu-west-1.amazonaws.com/production/pwk-web-encj2017-p/EGA%20Vilnius%202021/ENCJ%20EB%20propsal%20to%20expel%20KRS%20.pdf; www.encj.eu/node/605).
16. Per i più recenti interventi di MEDEL, vds. https://medelnet.eu/medel-statement-on-judicial-independence-and-financial-security/; https://medelnet.eu/solidarity-with-hungarian-judges/ e la dichiarazione dell’ENCJ del 1° febbraio 2025 (https://pgwrk-websitemedia.s3.eu-west-1.amazonaws.com/production/pwk-web-encj2017-p/Final%20statement%20Hungary%2021%2002%202025.pdf).
17. La legge vietava esplicitamente ai giudici di «mettere in discussione la legittimazione dei tribunali e delle corti o degli organi di controllo o di tutela del diritto», come pure di accertare o valutare la legittimità della nomina di un giudice; obbligava inoltre i giudici a fornire informazioni relative alla sua appartenenza a organismi o associazioni professionali.
18. Violating the Rule of Law in the Name of the People. Poland as Exhibit A in the European Union, in A. Duffy-Meunier e N. Perlo (a cura di), L’influence du populisme sur les changements constitutionnels, DICE Éditions, Aix-en-Provence, 2024.
19. https://pace.coe.int/en/files/33148/html.
20. D. Kochenov e S. Ganty, EU Lawlessness Law: Europe’s Passport Apartheid From Indifference To Torture and Killing, in J. Monnet working paper (NYU Law School), n. 2/2022 (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=4316584).
21. Sul caso del Rwanda e dell’Asylum Immigration Bill inglese, cfr. A. Donald e J. Grogan, Legislating fiction. MPs set to debate the Rwanda Bill, in Verfassungsblog, 15 gennaio 2024 (https://verfassungsblog.de/legislating-fiction/).
22. J. Petrov, The populist challenge to the European Court of Human Rights, in International Journal of Constitutional Law, vol. 18, n. 2/2020, pp. 476-508 (https://doi.org/10.1093/icon/moaa027).
23. Di una «svolta preoccupante» ha parlato il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa nella sua dichiarazione del 16 giugno 2025: «Attacks on the Human Rights of migrants put all our rights at risk». Sebbene formulata con cautela, osserva il Commissario, questa dichiarazione tesse una narrazione di perdita di controllo delle nostre frontiere, mette in luce la criminalità di alcuni migranti e prescrive le misure necessarie, tra cui «una revisione» di come la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sviluppato la sua interpretazione della Cedu:
«C’è molto da respingere e contestare nella dichiarazione dei nove Paesi. Esagera enormemente l’incidenza della criminalità all’interno delle comunità di migranti e fa un solo riferimento ai rifugiati in fuga dalle persecuzioni. Presenta affermazioni infondate, come quella secondo cui la Corte europea dei diritti dell’uomo rende più difficile proteggere le nostre società. Ignora come gli Stati possano perseguire obiettivi legittimi, come la sicurezza dei nostri confini, senza sacrificare il rispetto dei diritti umani. Inoltre, propone l’istituzione di una sorta di gerarchia di titolari di diritti, con i cittadini rispettosi della legge in una posizione superiore rispetto alle “persone cattive”.Tutto questo viene presentato in un discorso che suggerisce che questa dichiarazione trae la sua autorità dalla volontà del popolo» (traduzione nostra) – www.coe.int/en/web/commissioner/-/attacks-on-the-hr-of-migrants-put-all-our-rights-at-risk.
24. L’esempio più rilevante in questo senso è la recentissima proposta di riforma costituzionale presentata in Svezia dall’esecutivo in carica a guida moderata: «Regeringens proposition 2024/25:165 Stärkt skydd för demokratin och domstolarnas oberoende» («Tutela rafforzata per la democrazia e per l’indipendenza delle corti»). Oltre a introdurre maggioranze particolarmente qualificate e particolari garanzie procedurali per l’approvazione parlamentare di modifiche a norme di rango costituzionale, la proposta rafforza l’autogoverno dell’organizzazione giudiziaria, rimuove alcuni preesistenti strumenti di controllo sui giudici in capo a istituzioni subordinate al potere esecutivo, e introduce una riserva di legge costituzionale in tema di numero dei componenti delle giurisdizioni di vertice e una riserva di legge ordinaria in materia di età per il collocamento a riposo dei giudici.
25. Così N. Rossi, Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri o riscrivere i rapporti tra poteri?, in Sistema penale, 16 novembre 2023 (www.sistemapenale.it/it/opinioni/rossi-separare-le-carriere-di-giudici-e-pubblici-ministeri-o-riscrivere-i-rapporti-tra-poteri), ora anche in questo fascicolo: «È realistico prevedere che alle prime difficoltà, ai primi attriti, al primo casus belli (e il giudiziario conosce inevitabilmente tali momenti) i duemila “samurai senza padrone” che comporrebbero il corpo separato dei pubblici ministeri potrebbero essere presentati come una entità da ricondurre sotto la responsabilità del potere politico al pari di quanto avviene negli Stati nei quali le carriere sono distinte».
26. Sui riflessi negativi di questo assetto interno, cfr. E.M. Costa, Un’esperienza di separazione delle carriere: l’ordinamento portoghese, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2018 (Ob. 1 – «Il pubblico ministero nella giurisdizione»), pp. 76-78 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/489/qg_2018-1_11.pdf).
27. J.P. Ribeiro De Albuquerque, Il pubblico ministero portoghese: architettura istituzionale, principi, garanzie, sfide, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, pp. 117-138 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/946/2-2021_qg_albuquerque.pdf).
28. Dichiarazione di Lisbona, Assemblea generale della Rete europea dei Consigli di giustizia, 30 maggio-1° giugno 2018 (https://pgwrk-websitemedia.s3.eu-west-1.amazonaws.com/production/pwk-web-encj2017-p/ENCJ%20Lisbon%20Declaration%20final%201%20June%20-%20adopted%20GA.pdf).
29. Dichiarazione di Riga (Confronting Threats to the Rule of Law), Assemblea generale della Rete europea dei Consigli di giustizia, 4-6 giugno 2025 (https://pgwrk-websitemedia.s3.eu-west-1.amazonaws.com/production/pwk-web-encj2017-p/Declaration%20of%20Riga%20_final.pdf).