Magistratura democratica

Il giudice nel procedimento di rettificazione del sesso: una funzione ormai superata o ancora attuale?

di Luigi Ferraro

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 221/2015, non ritenendo più indispensabile l’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica del sesso, ha affidato al magistrato la valutazione finale sulla sua effettiva necessità.

Il contributo, pertanto, intende riflettere sulla funzione dell’Autorità giudiziaria nel procedimento di rettificazione sessuale, come prevista dalla legge n. 164/1982 e oggi ancora di più implementata dalla decisione della Consulta.

Tale riflessione viene proposta anche nella prospettiva comparata, tenendo conto di un ordinamento, come quello spagnolo, che invece nella Ley n. 3/2007 ha inteso seguire il procedimento amministrativo ai fini del cambiamento del sesso.

1. Il ruolo del giudice nel procedimento di rettificazione del sesso

Il procedimento di rettificazione del sesso è disciplinato in Italia dalla legge n. 164, del 14 aprile 1982, che rappresenta uno dei primi tentativi in Europa di regolamentare un fenomeno complesso come quello del transessualismo[1]. Di recente, con il d.lgs n. 150, del 1 settembre 2011, questa disciplina ha subìto talune modifiche che non ne ha modificato l’impostazione di base. Ciò è vero soprattutto per la scelta del nostro legislatore di affidare all’Autorità giudiziaria il controllo della rettificazione anagrafica del sesso, quando, al contrario, taluni ordinamenti comparati – si pensi a quello spagnolo, come si vedrà più avanti – hanno assegnato all’Autorità amministrativa il governo di tale procedimento. Queste nuove soluzioni normative a livello europeo inducono perciò a riflettere sulla scelta del nostro Paese, per verificarne problematicamente la sua attualità nella prospettiva del diritto costituzionale.

Lo stesso d.lgs 150/2011, del resto, a distanza di quasi trent’anni, ha confermato l’opzione del legislatore del 1982 a favore della soluzione giudiziaria. Tant’è vero che ai sensi dell’art. 31, 1° comma, il decreto delegato recita: «le controversie aventi ad oggetto la rettificazione di attribuzione di sesso […] sono regolate dal rito ordinario di cognizione»; la competenza in materia è affidata al Tribunale in composizione collegiale (2° comma) e il procedimento deve essere introdotto dall’interessato con atto di citazione da notificare al coniuge e ai propri figli (3° comma)[2].

Sicuramente, uno dei passaggi più delicati nel procedimento di rettificazione anagrafica del sesso è rappresentato dalla sentenza con cui il Tribunale autorizza la persona transessuale all’intervento chirurgico (4° comma). Anche in questo caso, come appare evidente, il giudice svolge un ruolo decisivo, peraltro, ulteriormente rafforzato dalla recente pronuncia n. 221/2015 della Corte costituzionale che – non riconoscendo il trattamento medico-chirurgico quale presupposto indispensabile per il mutamento del sesso – ha affidato sempre all’Autorità giudiziaria l’apprezzamento finale sull’effettiva necessità dell’intervento operatorio da parte dell’interessato[3].

Al fine di una valutazione complessiva sulla funzione giurisdizionale nel procedimento de quo, quest’ultima decisione del giudice delle leggi merita allora di essere approfondita nelle sue inevitabili conseguenze sulla citata sentenza di autorizzazione del Tribunale, già oggetto per il passato di attenzione dottrinale e giurisprudenziale.

2. La sentenza di autorizzazione all’intervento chirurgico

È opportuno innanzitutto citare testualmente il richiamato 4° comma, art. 31, d.lgs 150/2011, per il quale: «Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è regolato dai commi 1, 2 e 3», cioè secondo il rito ordinario di cognizione.

Prima della decisione n. 221/2015 della Corte costituzionale si è molto discusso in termini problematici sulla necessità della sentenza di autorizzazione all’intervento, con contrapposti indirizzi dottrinali e giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento, poiché la decisione sul trattamento medico-chirurgico attiene alla sfera di autodeterminazione dell’interessato in forza degli atti di disposizione che devono essere compiuti sul proprio Corpo, il magistrato allora nella sentenza di autorizzazione deve limitarsi ad «accertare l’esistenza della volontà del soggetto, attraverso una indagine assistita dalla scienza, sui fattori psicologici» del transessuale[4]. Naturalmente, partendo da un’interpretazione dell’art. 5 cod. civ. “ispirata ai valori personalistici” della Costituzione[5], tale indirizzo presuppone che in questi casi gli atti di disposizione del proprio Corpo non devono considerarsi illeciti in base alla loro natura terapeutica, ex art. 32 Cost. (Corte cost., sent. n. 161/1985), per cui l’intervento chirurgico rientrerebbe nell’autonomia di decisione della persona comportando, di conseguenza,anche la non indispensabilità della relativa sentenza di autorizzazione[6].

Paradigmatico, sul punto, è il caso portato all’attenzione della Corte di appello di Genova, dal momento che l’interessatosi era sottoposto all’intervento chirurgico senza aver richiesto l’autorizzazione al Tribunale. Il giudice dell’appello – riformando la sentenza di primo grado –ha avuto modo di sostenere che «l’adeguamento dei caratteri esterni d’ordine sessuale, della persona, mediante trattamento chirurgico effettuato senza la preventiva autorizzazione(corsivo nostro) non può precludere il riconoscimento del diritto alla propria identità sessuale, e pertanto va dichiarata l’ammissibilità della domanda di rettificazione del nome e dell’attribuzione del sesso»[7]. Tale decisione è stata motivata dalla Corte genovese, oltre che con la natura terapeutica del trattamento medico-chirurgico, anche con la peculiarità della fattispecie, in quanto nel caso de quo si trattava di un intervento operatorio già effettuato. Pertanto, piuttosto che richiamarsi all’art. 3, legge 164/1982 (ora art. 31, 4° comma, d.lgs 150/2011), secondo cui l’autorizzazione deve essere prestata in funzione di un trattamento medico ancora da effettuare, la Corte d’Appello ha ritenuto invece applicabile l’art. 1, della stessa legge, a mente del quale il giudice può adottare una sentenza per la rettificazione del sesso «a seguito di intervenute modificazioni(corsivo nostro) dei suoi caratteri sessuali». In breve, il trattamento chirurgico già eseguito, seppure in modo non autorizzato, aveva prodotto quelle modificazioni dei caratteri sessuali richieste dall’art. 1, legge 164/1982, tali da consentire il riconoscimento da parte del magistrato della rettificazione anagrafica[8].

Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale parte della dottrina ha sostenuto che, «sebbene la procedura ordinaria preveda l’autorizzazione preventiva al trattamento medico-chirurgico, non è detto che sempre e comunque si debba seguire questo tracciato»[9];dunque, almeno nelle ipotesi in cui la persona abbia già eseguito l’intervento operatorio, non risulta indispensabile il sindacato giurisdizionale in funzione autorizzatoria. In ogni caso l’autorità giudiziaria dovrà comunque verificare gli esiti del trattamento per accertare le intervenute modificazioni dei caratteri sessuali.

Accanto a tale indirizzo, tuttavia, se ne registra un altro esattamente opposto, anche se minoritario, secondo cui il giudice deve valutare – attraverso l’autorizzazione – «l’effettiva sussistenza dello scopo terapeutico dell’intervento» operatorio; «infatti potrebbe pur sempre emergere che la conversione chirurgica del sesso» non garantisca un «effettivo stato di benessere psico-fisico» capace di giustificare il trattamento medico. Se a ciò si aggiunge che in situazioni di questo tipo “verrebbe in gioco, prima ancora del fine terapeutico, la necessaria osservanza dei limiti imposti dal rispetto della persona umana (art. 32.2 Cost.)” ne consegue – in base a quest’indirizzo e in una situazione esattamente identica a quella precedente, cioè di intervento operatorio già effettuato pur senza autorizzazione – che la domanda di rettificazione anagrafica deve essere «respinta, perché nel nostro ordinamento quando l’adeguamento dei caratteri sessuali richiede il trattamento medico-chirurgico, è inderogabilmente necessaria l’autorizzazione giudiziale preventiva»[10].

In entrambi gli orientamenti appare evidente il ruolo del magistrato. Nel primo caso è compito dell’autorità giudiziaria verificare, a seguito dell’intervento operatorio già effettuato, seppure senza autorizzazione, che siano intervenute le modificazioni dei caratteri sessuali, ai sensi dell’art. 1, l. 164/1982; nel secondo caso la valutazione del magistrato deve essere prognostica, nel senso che in sede di autorizzazione – e perciò in via preventiva –si dovranno accertare i presupposti legislativi che consentono di procedere alla terapia chirurgica, innanzitutto in relazione al profilo psicologico dell’interessato.

3. La sent. n. 221/2015 della Corte costituzionale e i suoi effetti sulla decisione di autorizzazione

Come si è già anticipato, riguardo l’iter di rettificazione del sesso è intervenuta di recente la Corte costituzionale, con la pronuncia n. 221/2015, che ha ribadito il ruolo del giudice in quel procedimento. La Consulta è stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale del suddetto art. 1, l. 164/1982, in tema di indispensabilità del trattamento medico-chirurgico ai fini delle modificazioni dei caratteri sessuali. Partendo da un «concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato» non più comprensivo soltanto degli organi genitali esterni, ma anche degli «elementi di carattere psicologico e sociale» (Corte cost., sent. n. 161/1985, punto 4 del Considerato in diritto), il giudice delle leggi è arrivato ora a sostenere con la decisione del 2015 che l’intervento chirurgico non deve considerarsi inderogabile per la rettificazione anagrafica, nonostante una prevalente giurisprudenza di merito di indirizzo opposto[11].La Consulta è addivenuta a tale conclusione seguendo il canone della interpretazione conforme a Costituzione; in particolare, si è richiamata ai diritti della persona, cioè alla sfera di autodeterminazione del singolo, al suo diritto alla salute e all’identità di genere, che per l’appunto inducono a ritenere non necessario l’intervento operatorio in ragione dell’assenza nel testo di legge di ogni riferimento alle modalità (chirurgiche o ormonali) necessarie per la modifica dei caratteri sessuali (Corte cost., sent. n. 221/2015, punto 4.1 del Considerato in diritto)[12]. La non indispensabilità è ancora più vera in relazione ad un trattamento chirurgico particolarmente invasivo, oltre che potenzialmente incompatibile con talune situazioni soggettive quali l’età, le patologie pregresse, ecc.

L’unico caso in cui tale trattamento può considerarsi irrinunciabile è quello della «divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità […] tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della […] morfologia anatomica» da parte dell’interessato (sent. n. 221/2015, punto 4.1 del Considerato in diritto). Nel contesto prospettato dalla Corte costituzionale, per cui l’intervento chirurgico «costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali”, emerge allora che deve essere affidato “all’apprezzamento del giudice (corsivo nostro) […] l’effettiva necessità dello stesso[cioè dell’intervento chirurgico], in relazione alla specificità del caso concreto» (punto 4.1 del Considerato in diritto).

È palese come quest’ultima decisione del giudice delle leggi abbia attribuito all’autorità giudiziaria un ruolo particolarmente delicato, dal momento che dovrà valutare la necessità della terapia medico-chirurgica nel procedimento di mutamento del sesso. La possibilità che tale tipo di intervento non debba più considerarsi indispensabile ha dunque interrotto il nesso funzionale tra quest’ultimo e la rettificazione anagrafica, andando ad incidere così su tutto il dibattito di cui prima si è dato conto circa l’obbligatorietà dell’autorizzazione giudiziale preventiva.

Difatti, se si considera colui che avanza la richiesta di cambiamento del sesso senza voler subire la terapia chirurgica per ragioni di età o di patologie personali, questi sarà nelle condizioni previste dalla Consulta e, quindi, potrà evitare il trattamento medico e ottenere subito la rettificazione anagrafica. In questo caso, pertanto, non si porrà alcun problema di richiesta della sentenza di autorizzazione[13].

Allo stesso modo, nell’ipotesi di una persona transessuale che chiede la rettificazione priva di intervento operatorio,pur non versando questa volta in condizioni fisiche ostative al trattamento,il giudice ne dovrà verosimilmente accogliere l’istanza senza la sentenza di autorizzazione. La Corte costituzionale, infatti,con la sua ultima decisione ha implementato il profilo psicologico quale fattore costitutivo del sesso, tanto da valutare la disposizione impugnata come «l’approdo di un’evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale», che è poi uno dei principali presupposti argomentativi della pronuncia della Consulta (sent. n. 221/2015, punto 4.1 del Considerato in diritto)[14]. Se a tale tipo di valutazione si aggiunge che il giudice delle leggi ha ritenuto effettivamente necessaria la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali in particolare nell’ipotesi di dissociazione conflittuale tra sesso anatomico e psico-sessualità, ne dovrebbe conseguire allora che dinanzi ad una dissociazione non conflittuale l’interessato non avrebbe alcun obbligo di intraprendere la terapia chirurgica, vedendosi tuttavia egualmente riconosciuto il diritto di modificare la propria anagrafe. In questo caso, invero, l’assenza di conflittualità nei riguardi dei caratteri anatomici servirebbe solo ad escludere l’intervento chirurgico e la relativa autorizzazione per il transessuale, ma non la rettificazione anagrafica finale, poiché rimarrebbe comunque fermo il profilo della sofferenza psicologica (pur non conflittuale) verso il proprio sesso.

Vi è, infine, l’ipotesi inversa a quella da ultimo analizzata, cioè – come accennato – di colui che chiede l’intervento chirurgico in forza di un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della sua morfologia anatomica. Questo caso è risolto direttamente, sotto il profilo dell’autorizzazione, dalla Corte costituzionale quando afferma che «il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta […] autorizzabile (corsivo nostro) in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico», intaccato invece dalla situazione conflittuale (punto 4.1 del Considerato in diritto). Dinanzi a tale chiaro indirizzo della Consulta dovrebbe svanire ogni timore da parte degli interessati di non ottenere la sentenza di autorizzazione, timore che sollecitava molti ad andare all’estero per l’intervento chirurgico, così da presentarsi poi al cospetto del magistrato e chiedere – a trattamento operatorio effettuato – direttamente la rettificazione del sesso, secondo la giurisprudenza di merito prima illustrata.

Sarà dunque nella sentenza di autorizzazione che il magistrato effettuerà la valutazione sulla necessità del trattamento chirurgico: se il giudice lo valuterà indispensabile, procederà senza indugio alla sua autorizzazione; se, invece, l’apprezzamento sull’intervento medico fosse di segno contrario, non di meno – ed è questa la novità – il Tribunale dovrebbe concedere comunque la rettificazione anagrafica del sesso in ragionedella dissociazione psicologica, seppure non conflittuale, che rappresenta il presupposto di base dell’intero procedimento[15].

4. L’autorità giudiziaria a presidio dei principi costituzionali

Alla luce di quanto sinora illustrato sembra già evidente il ruolo fondamentale del giudice nel procedimento di cui alla legge 164/1982. Deve aggiungersi, ovviamente, per una valutazione complessiva, anche la sentenza che chiude l’iter di rettificazione del sesso, con cui il magistrato ordina all’ufficiale di stato civile del comune di effettuare la rettificazione all’anagrafe,determinando, laddove contratto, «lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso» (art. 31, 5° e 6° comma, d.lgs 150/2011)[16].

Dunque, in ragione di questi ampi poteri previsti a favore dell’autorità giudiziaria, può essere utile indagarne i profili assiologici di riferimento. Innanzitutto, merita di essere evidenziato il ruolo che al Tribunale è stato assegnato dalla sent. n. 221/2015, cioè, come si è visto, di decisore ultimo sulla indispensabilità dell’intervento chirurgico. Ciò, naturalmente, consentirà all’autorità giudiziaria di apprezzare la natura terapeutica del trattamento sanitario e il suo rispetto dei valori della persona umana secondo l’art. 32 Cost. Nell’ambito di questa valutazione il giudice dovrà verificare innanzitutto se sia stato soddisfatto il diritto della persona al preventivo consenso informato (artt. 2, 13 e 32 Cost.), che – come declinato dalla giurisprudenza costituzionale – tende a coniugare il diritto alla salute e quello all’autodeterminazione, il primo come diritto alle cure necessarie, il secondo come diritto di ogni individuo «di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché le eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione» (Corte cost., sent. n. 438/2008, punto 4 del Considerato in diritto)[17]. Solo a fronte di questa verifica il giudice potrà constatare, anche con l’ausilio dei consulenti, la convinzione dell’interessato a procedere all’intervento chirurgico, quale fattore – ormai unico dopo la pronuncia della Corte – che può far emergere quel carattere di conflittualità nella dissociazione psicologica evidenziato sempre dalla Consulta come indispensabile ai fini del trattamento operatorio.

Al magistrato, ancora, nell’ambito dell’intero procedimento, spetta un ulteriore compito, cioè quello a tutela del principio della certezza del diritto[18].Pur nel rilievo che assumono nell’intera fattispecie il diritto alla salute e la capacità di autodeterminazione, non di meno anche la certezza del diritto ha il suo valore in relazione ad una questione sullo status dell’interessato. È proprio la legge 164/1982 – e il successivo d.lgs 150/2011 – che certificano tale valore allorquando si stabilisce che l’atto di citazione deve essere notificato al coniuge e ai figli, con la partecipazione al giudizio anche del pubblico ministero (art. 31, 3° comma, d.lgs 150/2011)[19],a dimostrazione che la determinazione sessuale di una persona non è indifferente per il nostro ordinamento. La notifica al coniuge e ai figli si giustifica in relazione agli effetti che il cambiamento del sesso produce sul matrimonio, dal momento che il rapporto non sarebbe più di tipo eterosessuale, bensì same-sex, con la sua conseguente incompatibilità con l’istituto del coniugio in forza di quanto sostenuto dalla recente giurisprudenza costituzionale (sentt. n. 138/2010 e n. 170/2014).

Lo stesso giudice delle leggi, invero, è attento sul tema delle garanzie a favore dei terzi tanto da qualificare «la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto», ricomprendendolo all’interno dei «fondamentali valori di civiltà giuridica»; allo stesso modo la certezza del diritto è definita ancora dalla Consulta quale «principio di preminente interesse costituzionale», a conferma del suo rilievo nell’ambito del nostro ordinamento (Corte cost., sent. n. 103/2013, punto 4 del Considerato in diritto)[20]. Sembra opportuno, pertanto, ricorrere al noto criterio di proporzionalità, nel senso che i limiti o la compressione di un diritto o di un principio costituzionale – in questo caso l’affidamento dei terzi e la certezza del diritto – «devono essere non eccessivi in relazione alla misura del sacrificio costituzionalmente ammissibile»[21]. A tale criterio si richiama anche la Corte di cass. che – proprio in riferimento all’intervento chirurgico in tema di transessualismo circa il contrasto tra autodeterminazione e «certezza delle relazioni giuridiche» – ha avuto modo di sostenere (sent. n. 15138/15): «l’individuazione del corretto punto di equilibrio […] oltre che su un criterio di preminenza e di sovraordinazione, può essere ancorata al principio di proporzionalità […] [che] si fonda sulla comparazione tra il complesso dei diritti della persona e l’interesse pubblico da preservare».Continua ancora la Cassazione: «il canone della proporzionalità può, di conseguenza, costituire un utile indicatore ermeneutico nella scelta dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata degli artt. 1 e 3 della l. n. 164/1982».

Il ruolo del magistrato, dunque, per le ragioni espresse rappresenta un momento di garanzia per una serie di diritti e principi di rango costituzionale, che si incrociano e talvolta si contrappongono nell’iter di rettificazione sessuale. Piuttosto, il giudice non può essere lasciato solo in questo procedimento! Come è stato efficacemente sottolineato in dottrina, dovrebbe «meglio valorizzarsi […] il supporto scientifico degli operatori medici o psicologici coinvolti nel caso»; purtroppo, la legge 164/1982 «non si preoccupa affatto del percorso di accompagnamento che dovrebbe condurre il transessuale all’adozione di una scelta davvero libera e consapevole»[22]. Ad oggi, ad esempio, come si dirà pure più avanti, il legislatore non prevede la consulenza tecnica d’ufficio (CTU), dopo l’abrogazione dell’art. 2, della legge 164, che la contemplava almeno in via facoltativa:tutto è affidato alla sensibilità dei magistrati, che però nella maggior parte dei casi vi ricorrono così da supportare le perizie di parte in termini di maggiore tutela, vista la delicatezza del tema[23].

In ogni caso il vuoto normativo circa il supporto di carattere psicologico che deve sostenere la persona in un percorso di transizione così difficile non può essere sottovalutato,a fortiori, dopo che la Corte costituzionale – sin dalla sent. n. 161/1985 – ha correttamente individuato nell’aspetto psicologico il cardine della questione. Il giudice e l’operatore sanitario dovrebbero collaborare nel procedimento, affinché in ogni decisione sia estraneo il profilo sanzionatorio e venga percepita dall’interessato, al contrario, la tensione verso il suo benessere, anche in quei casi in cui vi siano interessi contrapposti che pure devono essere presi in considerazione nella prospettiva di un corretto bilanciamento, la cui misura non può che essere affidata al giudice in relazione alla fattispecie concreta[24].

5. La diversa opzione dell’ordinamento spagnolo: la Ley 3/2007

Una diversa soluzione rispetto a quella dell’autorità giudiziaria è stata prospettata in Spagna con la disciplina della Ley 3/2007 (rubricata «rectificaciónregistral de la mención relativa al sexo de laspersonas»). La rettificazione anagrafica del sesso nell’ordinamento di quel Paese, infatti, si realizza attraverso un procedimento amministrativo affidato all’Encargado del Registro Civil (artt. 2.1 e 3, Ley 3/2007)[25]; questa opzione normativa è ancora più importante ai fini della presente riflessione poiché deroga espressamente ad un principio generale per cui le iscrizioni nel Registro Civile si possono modificare solo in seguito a decisione del giudice (artt. 90 e 91 Ley 20/2011 del Registro Civil, che ha modificato la precedente Ley 8 giugno 1957)[26]. La rettificazione avrà un effetto costitutivo per l’esercizio dei diritti collegati alla nuova condizione (art. 5, Ley 3/2007) e comporterà pure il cambiamento del nome della persona interessata (art. 1.2).

I requisiti richiesti per la modifica sessuale riguardano innanzitutto la diagnosi di una disforia di genere a carico dell’istante, che si può ottenere attraverso il parere di un medico o psicologo clinico, il quale dovrà attestare «l’esistenza di una dissociazione tra il sesso morfologico […] inizialmente trascritto e l’identità di genere percepita dal richiedente o sesso psicosociale», oltre che «la stabilità e la persistenza di questa dissociazione» (art. 4.1.1); il sanitario dovrà verificare altresì l’assenza di disturbi della personalità che possono influire in modo significativo sulla disforia di genere (art. 4.1.2). È necessario che quest’ultima sia “tratada médicamente” per un periodo di almeno due anni al fine di avvicinare l’interessato ai caratteri fisici corrispondenti al sesso percepito (art. 4.1,lett. b). Va però precisato che in Spagna il trattamento medico non deve necessariamente consistere nell’intervento chirurgico e lo si potrà anche evitare quando vi siano ragioni di età e di salute che lo giustifichino (art. 4.2).

Il citato art. 4 della Ley 3/2007 – insieme all’art. 2 sul procedimento – rappresenta la disposizione centrale dell’intera disciplina spagnola in tema di transessualismo[27]. Sembra chiaro innanzitutto come la legge affronti l’argomento nella prospettiva patologica, tanto da richiedere la diagnosi di disforia di genere che deve provenire da un medico o psicologo clinico[28]. È sicuramente decisivo il profilo psicologico, non a caso il sesso percepito viene qualificato come “sexopsicosocial” per cui deve esistere una dissociazione tra quest’ultimo e il sesso morfologico, che è poi quella stessa dissociazione cui si richiama nella sua giurisprudenza la nostra Corte costituzionale.

A differenza della disciplina legislativa italiana, viene individuato un termine di almeno due anni entro cui può essere effettuato il trattamento medico, così da rappresentare anche un termine congruo per verificare l’attendibilità della richiesta. L’intervento sanitario deve quantomeno avvicinare i caratteri fisici dell’interessato a quelli corrispondenti al sesso percepito, data l’impossibilità, naturalmente, di una loro piena assimilazione. Tuttavia, la legislazione spagnola introduce un elemento di forte novità nel momento in cui non ritiene indispensabile l’intervento chirurgico, pervenendo ancora alle medesime conclusioni del nostro giudice delle leggi.

Indubbiamente, l’ordinamento spagnolo beneficia di una legislazione più recente di quella italiana, capace perciò di accogliere tutte le evoluzioni scientifiche che si sono sviluppate sul tema, tant’è vero che – come si è visto – è stata prevista anche la possibilità per l’interessato in base a ragioni di età o di salute di ottenere la rettificazione anagrafica pur senza alcun trattamento medico. Tale evoluzione è più evidente se si considera che ancora nel 2002 l’indirizzo giurisprudenziale del Tribunal Supremo individuava tre diversi momenti per poter procedere alla modifica anagrafica: il trattamento ormonale, quello chirurgico per la soppressione dei caratteri sessuali primari e secondari, la riproduzione (artificiale) di organi sessuali che fossero simili, per quanto possibile, a quelli propri del sesso psicologicamente percepito[29].

6. Qualche breve riflessione conclusiva anche nella prospettiva comparata

Venendo ora – e in termini conclusivi – al profilo che più interessa in questa sede, va sottolineato come la soluzione adottata dal legislatore spagnolo di affidare l’intero procedimento di rettificazione del sesso all’autorità amministrativa, piuttosto che a quella giudiziaria, nasca anche in funzione di un ordinamento che ha scelto, con la Ley 13/2005, di legittimare i matrimoni omosessuali, sicché su questo versante può essere indifferente l’individuazione sessuale di una persona. Tuttavia, la soluzione a favore del procedimento amministrativo desta comunque qualche perplessità, poiché la determinazione dei requisiti necessari alla rettificazione – seppure sia di natura prevalentemente medica, ex art. 4 Ley 3/2007– coinvolge in ogni caso i diritti fondamentali della persona (salute, identità di genere e autodeterminazione). Si condivide quanto sostenuto in via di principio da una parte della dottrina, secondo cui deve «rimarcarsi […] la centralità della funzione giurisdizionale nelle questioni che attengono ai diritti personalissimi»; difatti, «la irreversibilità delle decisioni e la necessità assoluta che a tale giudizio [cioè a quello di rettificazione sessuale] debba darsi una struttura di assoluto rigore [sono] tutti elementi che impongono di guardare con estrema diffidenza alle soluzioni legislative che, in materia di procedimenti sullo stato delle persone, formulino proposte e soluzioni tendenti alla loro degiurisdizionalizzazione»[30].

Se a ciò si aggiunge quanto l’ordinamento spagnolo direttamente sancisce nella sua Carta fondamentale, all’art. 9, a mente del quale «la Costituzione garantisce […] la certezza del diritto», ne deriva che pure in quel Paese il legittimo affidamento dei terzi deve essere comunque tenuto in conto – anche in riferimento al procedimento de quo – evidentemente in un rapporto di proporzionalità con i diritti fondamentali della persona interessata, della cui competenza dovrebbe essere investita l’autorità giudiziaria in termini di garanzia erga omnes[31].

In Italia, oltre alla situazione soggettiva del transessuale, devono essere presi in considerazione anche i rapporti matrimoniali – di cui la Corte costituzionale ha ribadito la natura eterosessuale – e quelli di filiazione che li possono riguardare, per cui ai fini del nostro ordinamento, a differenza di quello spagnolo,è rilevante la specificazione sessuale di una persona(ad es., lo potrebbe essere anche per la legislazione elettorale)[32]. La sfera di autodeterminazione, che pure è decisiva all’interno di questo procedimento, non può allora considerarsi assorbente rispetto ad ogni altro profilo: «l’autodeterminazione soggettiva è solo una faccia della libertà dell’individuo, la quale, come ogni libertà, deve trovare fondamento, concretizzazione ed effettività nell’ambito di una comunità politica organizzata». Non si condivide «una concezione delle libertà meramente individualistica, egoistica, sradicata da relazioni intersoggettive, lontana dall’idea repubblicana della ”libertà sociale”»[33] e dalle “formazioni sociali”,ex art. 2 Cost., entro cui si realizza la personalità di ogni individuo. Deve essere dunque il magistrato a fissare, in relazione al caso concreto, il corretto e proporzionato bilanciamento di eventuali interessi contrapposti, nel senso che la primazia dei diritti dell’interessato non dovrebbe comportare una totale compressione a danno di quelli divergenti[34].

Piuttosto, si ribadisce, il magistrato non può essere lasciato solo in questa sua delicata funzione, come invece sembra fare la nostra l. 164/1982 che nulla prevede in tema di accompagnamento medico, nemmeno con riferimento alla CTU Si ritiene, perciò, condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario che comunque ricorre alla consulenza tecnica per la funzione di ausilio che essa svolge nei confronti del Tribunale, soprattutto al fine di «una corretta ricostruzione delle diverse posizioni esistenti nella comunità scientifica». La “neutralità processuale” del consulente d’ufficio si traduce nella “sua neutralità scientifica”[35], i cui risultati sulla fattispecie concreta si incrociano con le perizie di parte, così da offrire al magistrato gli elementi necessari per giudicare nell’interesse di tutti, in primis del ricorrente. Ciò naturalmente è ancora più vero oggi, dopo che la sent. n. 221/2015 della nostra Corte costituzionale ha affidato all’autorità giudiziaria un compito ulteriormente gravoso e delicato come quello di stabilire l’indispensabilità del trattamento chirurgico.

Un percorso medico di accompagnamento a favore dell’interessato è invece esplicitato nella legge spagnola, seppure non in modo funzionale all’intervento della magistratura che rimane estranea al procedimento. È significativo, ad esempio, il termine di due anni che l’art. 4.1., lett. b), Ley 3/2007, individua per il trattamento medico, quando al contrario la legge italiana 164/1982 nulla prevede sul punto, nemmeno al fine di individuare un termine adeguato a valutare l’attendibilità della richiesta di rettificazione sessuale. Tale termine– che naturalmente il legislatore dovrebbe fissare de iure condendo sulla base di un supporto scientifico – sarebbe utile per il ricorrente sia nel caso in cui chieda l’intervento chirurgico, sempre al fine di valutarne la necessità in un arco temporale congruo, sia nel caso in cui non ne avverta l’indispensabilità, in modo che si possa verificare la fondatezza della sua richiesta ed evitare così, nell’ipotesi di un ripensamento, un percorso a ritroso nella transizione che non sarebbe verosimilmente meno doloroso.

Pertanto, sembra palesarsi come necessaria una modifica della legge 164/1982, oltre che sulla base delle nuove conoscenze scientifiche, anche in forza delle riflessioni dottrinali e giurisprudenziali di cui si è provato a dare conto. Tale auspicabile aggiornamento legislativo non dovrebbe comunque tradire l’impostazione di fondo della legge, che affida l’intero procedimento di rettificazione del sesso al magistrato, presidio dei diritti e dei principi costituzionali ad esso sottesi.

[1] Ancor prima della legge italiana si rammentano, per la loro importanza, la disciplina tedesca del Transsexuellengesetz, cioè la «Legge sul cambiamento dei prenomi e sulla determinazione dell’appartenenza sessuale in casi particolari», del 10 settembre 1980, e la legge svedese, del 21 aprile 1972, sulla determinazione del sesso in casi stabiliti. Per entrambe le leggi v. P. Stanzione, in Rassegna di diritto civile, 1980, pp. 1226 ss.

[2] Per l’originario procedimento di cui all’art. 2, della legge 164/1982, ora abrogato dal suddetto decreto legislativo, cfr. S. Patti, M.R. Will, Mutamento di sesso e tutela della persona, Padova, 1986, pp. 24 ss.

[3] Corte costituzionale, sent. n. 221/2015, punto 4.1 del Considerato in diritto.

[4] In questo senso cfr. R. Ciliberti, La rettificazione di attribuzione di sesso: aspetti giuridici, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2001, 354 s., che richiama Trib. Sanremo 07.10.1991, in Il diritto di famiglia e delle persone, 1992, p. 242.

[5] In tal senso cfr. L. Chieffi, Libertà di cura e divieto di accanimento terapeutico, in L. Chieffi, A. Postigliola (a cura di), Bioetica e cura, Milano-Udine, 2014, 190, il quale precisa come le disposizioni codicistiche siano state «immesse nel nostro ordinamento giuridico in presenza di un diverso orientamento politico e culturale, precedente alla nascita dello Stato repubblicano, in cui risultava invece prevalente un’impostazione informata alla doverosità di mantenersi in buona salute».

[6] Sull’autorizzazione giudiziale quale presupposto non indispensabile per la rettificazione anagrafica v. A. Lorenzetti, Diritti in transito, Milano, 2013, 57; egualmente S. Patti, Transessualismo (voce), in Digesto delle Discipline Privatistiche, sez. civile, Torino, 1999, p. 425, evidenzia come l’autorizzazione del Tribunale abbia «acquistato nella prassi carattere facoltativo». In riferimento al divieto per gli atti di disposizione del proprio Corpo ex art. 5 cod. civ., G. Palmeri, M.C. Venuti, Il transessualismo tra autonomia privata e indisponibilità del corpo, in Il diritto di famiglia e delle persone, n. 4, 1999, p. 1350, sostengono che «la libera esplicazione della persona non può soffrire un limite generale qual è quello dell’indisponibilità del corpo e dei diritti della personalità, che si riflette sulla possibilità stessa di decidere come orientare le proprie scelte in conformità al proprio vissuto e al proprio modo di essere».

[7] Corte App. Genova 23.04.1990, in Il diritto di famiglia e delle persone, n. 3, 1991, pp. 554 ss., con commento di S. Boccaccio, Mutamento di sesso ed autorizzazione preventiva. In senso conforme a questa decisione v. Trib. Milano 05.10.2000,Trib. Vicenza 02.08.2000, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2001, rispettivamente pp. 1497 ss. e pp. 220 ss., e Trib. Salerno 05.03.1998, in Il diritto di famiglia e delle persone, 1998, pp. 1057 ss.

[8] Secondo A. Venturelli, Volontarietà e terapeuticità nel mutamento dell’identità sessuale, in Rassegna di diritto civile, n. 3, 2008, pp. 772 ss., nel caso ora descritto non si può negare la rettificazione del sesso anche in ragione dell’art. 6, l. 164/1982, che «permette di ottenere la rettificazione a coloro che, prima dell’entrata in vigore della legge, si siano sottoposti all’intervento medico-chirurgico».

[9] Così P. Veronesi, Il corpo e la Costituzione, Milano, 2007, pp. 75 s. L’A. ritiene che nell’ipotesi all’esame della Corte d’Appello di Genova si sia formato “un «diritto vivente» sostanzialmente univoco e non audace: la prevalente giurisprudenza ritiene insomma che […] non si possa comunque negare all’interessato la rettifica dell’attribuzione di sesso nei registri dello stato civile”, individuandone lo stesso A. anche le ragioni (p. 65 s.). Sempre per un’illustrazione dei motivi relativi alla non indispensabilità dell’autorizzazione giudiziale v. Trib. Pistoia 24.05.1996, in Foro Italiano, n. 5, 1997, pp. 1646 ss., con nota di C. Arcangeli, In tema di procedimento di rettificazione di sesso.

[10] Indirizzo del Trib. Brescia, 15.10.2004, in Famiglia e diritto, n. 5, 2005, 527 ss., con commento critico di P. Veronesi, Cambiamento di sesso tra (previa) autorizzazione e giudizio di rettifica. In modo conforme alla sentenza del Trib. Brescia, seppure con qualche riserva,v. M. Dogliotti, Transessualismo(profili giuridici), in Novissimo Digesto italiano, Appendice, Torino, 1987, vol. VII, p. 791. È significativo quanto sostenuto anche dalTrib. La Spezia 25.07.1987,secondo cui «il giudice è investito del completo esame del merito della autorizzazione richiesta […]. Altrimenti […] l’autorizzazione da richiedersi e da deliberarsi si tradurrebbe in un mero formale accertamento di transessualismo», in R. Ciliberti, La rettificazione di attribuzione di sesso: aspetti giuridici, cit., p. 355.

[11] Per la giurisprudenza di merito maggioritaria, ad es.: Trib. Potenza 20.02.2015; Trib. Vercelli 27.11.2014; Trib. Catanzaro 30.04.2014; Corte App. Bologna 22.02.2013; circa l’indirizzo giurisprudenziale minoritario, cioè favorevole a considerare l’intervento medico-chirurgico come non necessario, ad es.: Trib. Roma 07.11.2014; Trib. Messina 04.11.2014; Trib. Siena 12.06.2013; Trib. Rovereto 03.05.2013. Per un elenco delle diverse pronunce cfr. A. Nocco, Rettificazione di attribuzione di sesso solo previo intervento chirurgico? La parola alla Consulta, in questa Rivista, 4 marzo 2015, pp. 2 s.; per la ricerca giurisprudenziale, v. altresì il sito www.articolo29.it.

[12] Secondo B. Pezzini, Transessualismo, salute e identità sessuale, in Rassegna di diritto civile, 1984, pp. 470 ss., il diritto da considerarsi prevalente in questa fattispecie è quello alla salute, così che l’autorizzazione del Tribunale porta a configurare «il diritto di autogestione della propria salute […] come un “diritto limitato” il cui esercizio è condizionato alla preventiva rimozione del limite ad opera dell’autorizzazione dell’a.g.». Tuttavia, continua l’A.: se il trattamento sanitario de quo si fonda sul diritto alla salute e sulla «disponibilità di esso da parte del suo titolare quando incida nella sfera esclusivamente soggettiva, la prospettiva legislativa appare inaccettabile, perché prevede un’autorizzazione per l’esercizio di un diritto che è invece nella piena disponibilità del soggetto».

[13] Per il dibattito dottrinario precedente alla sent. n. 221/2015 cfr. M. Botton, Sesso, identità e nome nel mondo transessuale, in Famiglia e diritto, n. 2, 2007, 118 s., secondo cui «l’autorizzazione al trattamento costituisce un diritto» che si fonda sull’identità personale, ex art. 2 Cost., e sul diritto alla salute, ex art. 32 Cost.

[14] Relativamente al tema dell’identità di genere v. F. Bilotta, Transessualismo (voce), in Digesto delle Discipline Privatistiche (Aggiornamento), Torino, 2013, 737 s., e P. Stanzione, Transessualità (voce), in Enciclopedia del Diritto, XLIV, Milano, 1992, 875. Sul sesso «come elemento complesso della personalità» v. B. Pezzini, Transessualismo, salute e identità sessuale, cit., pp. 465 s.; difatti, per l’A. il sesso è «determinato da una serie di fattori: patrimonio cromosomico, caratteri sessuali primari e secondari, orientamento psicologico, orientamento e comportamento sociale». A giudizio di G. Palmeri, Il corpo tra libertà di autodeterminazione e principio di (in)disponibilità, in S. Rodotà, P. Zatti (dir.), Trattato di biodiritto, Tomo I - Il governo del corpo, Milano, 2011, p. 739, «l’inquadramento dell’identità sessuale nell’ambito dei diritti fondamentali ha poi portato a una rilettura dell’art. 5 c.c., norma tradizionalmente ritenuta espressiva di un principio di tendenziale indisponibilità del corpo rispetto ad atti idonei a cagionare una diminuzione permanente dell’integrità fisica, in vista della ridefinizione del suo ambito di operatività e della sua valenza sistemica».

[15]Prima della sent. n. 221/2015, M.C. La Barbera, Transessualismo e mancata volontaria, seppur giustificata, attuazione dell’intervento medico-chirurgico, a commento di Trib. Roma 18.10.1997, in Il diritto di famiglia e delle persone, n. 3, 1998, 1040 s., ha sostenuto la tesi della non indispensabilità del mutamento chirurgico dei caratteri sessuali in ragione della possibilità o impossibilità dello stesso, in quanto, ad esempio, «nell’ipotesi di transessualismo femminile-maschile […] non è facile ottenere un adattamento (pur sempre chirurgico) alla psico-identità di tipo maschile, stante la maggiore difficoltà incontrata dalla chirurgia plastica».

[16] Sull’ipotesi dello scioglimento del matrimonio sia consentito rinviare a L. Ferraro, Corte costituzionale, Bundesverfassungsgericht e Corte Edu tra identità sessuale e orientamento sessuale, in Rivista AIC, n. 3, 2015.

[17] Al riguardo cfr. L. Chieffi, Libertà di cura e divieto di accanimento terapeutico, cit., 187 ss., il quale, dopo aver analizzato la giurisprudenza costituzionale sul consenso informato, sostiene che «in presenza di una esaustiva informazione assicurata dal medico curante sulle opportunità terapeutiche, rientrerà nei diritti del paziente […] di decidere in piena autonomia di sottoporsi ai trattamenti». È importante richiamare anche la Corte di cass., sent. del 25 novembre 1994, n. 10014, in cui si precisa che, nell’ipotesi di intervento, il chirurgo ha il dovere di informare compiutamente il paziente sulla natura e sui risultati possibili dell’operazione, sul punto v. G. Campanelli, Linee giurisprudenziali della Corte costituzionale e della Corte di cassazione in tema di atti di disposizione del corpo, in A. D’Aloia (a cura di), Bio-tecnologie e valori costituzionali, Torino, 2005, pp. 217 s. Sul tema del consenso informato deve essere ricordata altresì la Convenzione di Oviedo del 1997 (artt. 5-10), ove, ad esempio, l’art. 5, 2° co., recita che l’interessato deve ricevere «una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi»; cfr. C. Casonato, Introduzione al biodiritto, Torino, 2009, pp. 151 ss.; A. Simoncini, E. Longo, Art. 32 Cost., in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, Torino, 2006, pp. 665 s.

[18] Per una riflessione sulla certezza del diritto cfr. S. Bertea, Certezza del diritto e ragionevolezza della decisione nella teoria dell’argomentazione giuridica contemporanea, in M. La Torre, A. Spadaro (a cura di), La ragionevolezza nel diritto, Torino, 2002, pp. 161 ss.

[19] Per C. Asprella, Art. 31, d.lgs 150/2011, in Aa.Vv. (a cura di), Commentario alle riforme del processo civile, Torino, 2013, p. 407, «l’insorgenza di conflitti con le altre parti del procedimento è […] collegata soprattutto alle conseguenze che la sentenza può avere in relazione allo scioglimento del vincolo matrimoniale a causa della evidente natura pubblicistica del procedimento, diretto a tutelare sì gli interessi del coniuge e della prole ma anche lo status dell’attore». Parte autorevole della dottrina non ha mancato di sottolineare, evidenziandone le ragioni, che alla «modificazione sessuale del soggetto […] l’ordinamento giuridico non è dunque insensibile», cfr. P. Perlingieri, Note introduttive ai problemi giuridici del mutamento di sesso, in Diritto e giurisprudenza, vol. XXVI, 1970, pp. 835 ss.

[20] Cfr. A. Morrone, Il bilanciamento nello stato costituzionale, Torino, 2014, pp. 95 ss. (nota 65).

[21] Ancora A. Morrone, ult. op. cit., pp. 106 ss., con il richiamo alla relativa giurisprudenza costituzionale. Secondo G. Pino, Diritti e interpretazione, Bologna, 2010, p. 204, in base al «test di proporzionalità» «un “buon” bilanciamento […] non determina un sacrificio sproporzionato ad uno dei due diritti o principi in conflitto». Per la contrapposizione tra diritti fondamentali e principi di rango costituzionale nel fenomeno del transessualismo v. R. Romboli, La «relatività» dei valori costituzionali per gli atti di disposizione del proprio corpo, in Politica del diritto, n. 4, 1991, p. 576, il quale evidenzia «da un lato, il principio costituzionale che tutela la salute fisica e/o psichica dell’individuo, il diritto, ritenuto fondamentale e inviolabile, alla identità sessuale, la libertà di autodeterminazione per atti che coinvolgono il proprio Corpo, dall’altro invece […] [il] valore costituzionale del matrimonio, nonché della certezza del diritto, […] [il] buon costume e [la] tutela dell’integrità fisica». Per una diversa posizione in dottrina rispetto a quanto sostenuto nel testo, cfr. B. Pezzini, Transessualismo, salute e identità sessuale, cit., 470, secondo cui «nella considerazione complessiva degli interessi rilevanti riguardo al transessualismo – esigenza di certezza giuridica e stabilità in ordine alla identificazione del sesso delle persone, diritto all’identità sessuale e diritto alla salute del singolo – è il “diritto alla salute” che si pone come interesse preminente, come profilo assorbente e comprensivo degli altri».

[22] Cfr. P. Veronesi, Il corpo e la Costituzione, cit., pp. 63 s.; ancor prima, sempre Id., Cambiamento di sesso tra (previa) autorizzazione e giudizio di rettifica, cit., p. 531.

[23] Non mancano, tuttavia, decisioni basate sulla sola documentazione di parte: Trib. Milano 03.12.1992; Trib. Milano 13.05.1992; Trib. Perugia 31.03.1989; Trib. Cagliari 25.10.1982. Per questa giurisprudenza e il valore della CTU cfr. R. Ciliberti, La rettificazione di attribuzione di sesso: aspetti giuridici, cit., p. 350.

[24] R. Vitelli, P. Fazzari, P. Valerio, Le varianti di genere e la loro iscrizione nell’orizzonte del sapere scientifico: la varianza di genere è un disturbo mentale? Ma cos’è, poi, un disturbo mentale?, in F. Corbisiero (a cura di), Comunità omosessuali - Le scienze sociali sulla popolazione LGBT, Milano, 2013, pp. 232 s., sottolineano la necessità di rafforzare il ruolo dello psicologo clinico nel percorso di accompagnamento alla transizione per le persone transessuali. Il pericolo che il procedimento di rettificazione anagrafica possa assumere un carattere sanzionatorio è evidenziato da P. Veronesi, Il corpo e la Costituzione, cit., 63. Sul percorso clinico seguito dagli interessati cfr. A. Lorenzetti, Diritti in transito, cit., 52 ss. Infine, il valore del colloquio tra il giudicante e il ricorrente, ai fini dell’accoglimento dell’istanza, è sottolineato da S. Celentano, La Legge n. 164/1982. La rettificazione di attribuzione di sesso, paper, relazione presentata al Convegno di Studi Pluralità identitarie tra bioetica e biodiritto, Napoli, 28-29 novembre 2014, organizzato dal Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica (CIRB).

[25] Sulla giurisprudenza spagnola precedente alla Ley 3/2007, soprattutto quella del Tribunal Supremo, sia permesso rinviare a L. Ferraro, Transessualismo e Costituzione: i diritti fondamentali in una lettura comparata, in federalismi.it, n. 21, 2013, pp. 29 ss. La novità introdotta dalla legge circa la natura amministrativa del procedimento è sottolineata da C. Rodríguez Yagüe, Orientaciónsexual e identidad de género: el proceso de consagración de derechos del colectivo LGBT, in Revista General de Derecho Constitucional, n. 15, 2012, pp. 14 s.; per un’illustrazione delle basi costituzionali su cui si fonda nell’esperienza spagnola il fenomeno del transessualismo cfr. A. Elvira, Transexualidad y derechos, in Revista General de Derecho Constitucional, n. 17, 2013, pp. 7 ss.

[26] La stessa Ley 3/2007, nella Disposición final segunda, 4° comma, modificava l’art. 93.2 della precedente Ley 8 giugno 1957 del Registro Civil, stabilendo per l’appunto che la rettificazione anagrafica del sesso sarebbe avvenuta seguendo un procedimento amministrativo, piuttosto che la via giudiziaria. Tutto ciò è bene evidenziato da P. Benavente Moreda, Orientación sexual e identidad de género y relaciones jurídico privadas, in Revista General de Derecho Constitucional, n. 17, 2013, p. 35, secondo cui la legge 3/2007 dà vita ad una rettificazione anagrafica che «se producirá por vía de espediente gubernativo, conforme al artículo 93.2 LRC DE 1957, modificado conforme a la D. Final 2ªcuatro de la Ley 3/2007 citada».

[27] In questo senso cfr. M. R. Lloveras Ferrer, Una ley civil para la transexualidad, in In Dret, n. 1, 2008, pp. 8 ss., per il quale «elcontenido central de la ley es la regulación de los requisitos que se debenacreditar ante el Registro Civil para acordar la rectificación de la inscripción relativa al sexo de la persona».

[28] Tuttavia, K. Belsué Guillorme, Sexo, género y transexualidad: de los desafíosteóricos a lasdebilidades de la legislación española, in Acciones e Investigaciones Sociales, 2011, p. 25, contesta la prospettiva patologica del fenomeno.

[29] Sentenza del Tribunal Supremo n. 5786/2002 (Fundamentos de derecho, 4 e 7); sul punto e sulla mutata, nonché più recente, giurisprudenza di quest’ultimo Tribunale cfr. ancora, se si vuole, L. Ferraro, Transessualismo e Costituzione: i diritti fondamentali in una lettura comparata, cit., pp. 31 s.

[30] Cfr. S. Celentano, La Legge n. 164/1982. La rettificazione di attribuzione di sesso, cit.

[31] È emblematico quanto sostiene A. Elvira, Transexualidad y derechos, cit., 3, laddove afferma: «el problema radica en establecer una pautasque permitan compatibilizaresos derechos con el minimo riesgo para la seguridad jurídica y, en su caso, para la protección de terceros”.

[32] È il caso della legge elettorale della Regione Campania, n. 4/2009, che all’art. 4, 3° comma, dispone: «L’elettore può esprimere, nelle apposite righe della scheda, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome ed il cognome dei due candidati compresi nella lista stessa. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza». Si ricorda come tale disposizione abbia superato il vaglio di costituzionalità della Consulta (sent. n. 4/2010).

[33] Così A. Morrone, Ubi scientia ibi iura. A prima lettura sull’eterologa, in www.forumcostituzionale.it, 11 giugno 2014, p. 7.

[34] A giudizio di G. Berti, Manuale di interpretazione costituzionale, Padova, 1994, p. 637, «un ordinamento basato sulla espansione della persona e sul riconoscimento dei suoi diritti fondamentali di libertà non può essere interpretato altro che nel senso di porsi come ordinatore di tali diritti nella loro coesistenza (corsivo nostro), e di raggiungere l’obiettività solo per questa ragione essenziale». Circa il compito del magistrato di stabilire il tipo di bilanciamento in relazione al caso concreto è significativo quanto sostenuto da F. Viola, G. Zaccaria, Diritto e interpretazione, Roma-Bari, 2002, 164, secondo cui il giudice “decide” l’interpretazione, mentre il giurista la “propone”.

[35] Cfr. D. Servetti, Il giudice peritus peritorum tra valutazione e validazione del sapere scientifico. Appunti per una ricerca, di prossima pubblicazione in Atti del Convegno “La Medicina nei Tribunali”, organizzato a Napoli il 6 febbraio 2015.