Magistratura democratica

Vizi privati, pubbliche virtù.
Note sulla tutela penale del pudore nell’Italia dell’Ottocento.

di Francesco Serpico

Il presente contributo si propone di tracciare un breve percorso relativo alla tutela penale del pudore nell’Italia dell’Ottocento.

A partire dalla nascita della famiglia borghese, fino alla stagione delle nuove correnti positivistiche impegnate a definire un nuovo statuto della penalità, le problematiche relative al controllo dei corpi e della morale sessuale rappresentarono uno dei referenti fondamentali per la costruzione del soggetto nell’ordine giuridico liberale.

La labile frontiera del pudore si avviò a segnare un confine fluido tra moralità e immoralità, lecito e illecito, «normalità» e devianza, un campo di tensione destinato a segnare la mentalità collettiva ben oltre il tornante del nuovo secolo.

1.«Se nei secoli abbiamo ritenuto di dover nascondere le cose di sesso perché vergognose sappiamo adesso che è il sesso a celare le parti più segrete dell’individuo: la struttura dei suoi fantasmi, le radici del suo io, le forme del suo rapporto con il reale»[1]. Le parole di Michael Foucault hanno il pregio di proiettare l’oggetto del discorso in medias res perché evidenziano meglio di altre il rapporto assai articolato che il sentimento del pudore intrattiene con il tempo presente, la sua capacità di occupare un territorio di confine sospeso tra identità individuale e narrazione collettiva, esperienza personale ed esperienza giuridica[2]. Ma al di là di tale considerazione, la lezione foucoltiana fornisce una essenziale indicazione di metodo per comprendere come nella modernità giuridica la storia del controllo della sessualità ed in particolare della criminalizzazione delle condotte lesive del sentimento del pudore si sia intrecciata fino quasi a sovrapporsi con quella delle tecnologie disciplinari sul corpo, intese – per usare ancora le parole del grande intellettuale francese – come l’espressione più concreta di un potere «che si organizza intorno alla gestione della vita piuttosto che alla minaccia della morte»[3].

2.Non rappresenta certamente un caso che la stessa nozione di «pudore» compaia all’interno dell’orizzonte normativo all’indomani degli eventi rivoluzionari e della codificazione napoleonica. Il “nuovo” soggetto di diritto nato sulle ceneri della società cetuale doveva rappresentare un individuo capace di autodeterminarsi non solo sul piano politico ed economico, ma anche su quello affettivo, relazionale, sessuale. A questo soggetto spettavano le libertà e le sanzioni disposte da un diritto penale finalmente laicizzato, ispirato a criteri di proporzionalità e, soprattutto, votato a finalità di utilità sociale, unico criterio della giustizia. All’interno di queste coordinate giuridiche, abbandonato il secolare referente del vizio e del peccato e la infinita serie di divieti che connotavano la vita intima dell’Antico regime, l’articolo 330 del codice penale francese del 1810 puniva con la pena della detenzione da tre mesi ad un anno la condotta chi avesse commesso un outrage public à la pudeur. Non si trattava di un precetto che brillava per tecnica redazionale dal momento che la definizione della condotta punita era data dalla sua denominazione giuridica, certo è che i comportamenti chiamati ad integrare la fattispecie prevista dal legislatore non si prestavano ad una descrizione ed elencazione specifica poiché – come aveva cura di precisare il relatore Monteseignat in sede di presentazione del progetto del code – era del tutto «superfluo» descrivere queste condotte nel dettaglio perché era piuttosto facile distinguere «le abitudini sociali che la civiltà perdona, i discorsi che la galanteria tollera, le libertà che la moda autorizza» dalle «espressioni volgari, le attitudini spudorate, la manifestazione della corruzione, la licenza dei vestiti» che rappresentavano «l’oblio e la fine dei principî della natura»[4].

Tuttavia l’importanza di questa disposizione all’interno dell’ordinamento penale non risiedeva nella sua modalità di redazione e nemmeno nell’estrema genericità dei comportamenti incriminati quanto nell’uso dell’aggettivo “pubblico” per connotare l’atto di esibizione sessuale e designare i caratteri del pudore tutelato. A ben vedere, il legislatore con un semplice tratto di penna aveva performativamente istituito una relazione strettissima tra lo spazio e la sessualità, una relazione destinata a connotare nel profondo l’immaginario sociale dell’Ottocento. Come è stato efficacemente posto in risalto, il necessario carattere pubblico dell’azione oltraggiosa al sentimento del pudore confinava così «i corpi nudi e l’attività sessuale in una sfera privata attraverso un “muro” normativo e psichico a cui era affidato il compito di evitare che la vita sociale assumesse un carattere troppo marcatamente sessuale e di difendere il corpo sociale contro le minacce corruttrici della dissolutezza e del libertinaggio»[5], ma, allo stesso tempo permetteva una libera espressione della sessualità all’interno delle mura private considerate come un perimetro sottratto al controllo dei pubblici poteri. In questo senso «la libertà sessuale era quella cosa preziosa di cui si poteva godere soltanto lontano dallo sguardo pubblico, nella penombra che lo Stato aveva organizzato a vantaggio dei cittadini in quella zona privata che aveva sovranamente deciso di ignorare»[6].

Questa spazializzazione della sessualità all’interno del code si presentava assai coerente con le scelte che la legislazione napoleonica aveva compiuto in tema di matrimonio concepito come il centro pubblico della vita privata nonché la sede naturale per assicurare contemporaneamente «il governo delle pulsioni sessuali, la distribuzione dei ruoli di genere e la riproduzione dei cittadini»[7]. Tuttavia, questo modello matrimoniale doveva fare i conti con le profonde trasformazioni che in tutta Europa stavano ridisegnando le relazioni familiari. Gli storici della famiglia sono generalmente concordi nell’affermare che sullo scorcio del XIX̊ secolo il tradizionale modello autoritario stava lentamente cedendo il passo ad una forma di relazioni basata sull’individualizzazione dei rapporti e sul potenziamento dell’affettività coniugale[8], un modello di relazioni maggiormente simmetriche tra i componenti della famiglia per il quale la storiografia anglosassone ha coniato il termine domesticity: l’intimità domestica della famiglia borghese.

Si tratta, come già detto, di una storia già raccontata nel panorama storiografico, ciò che in questa sede occorre sottolineare è il significativo rapporto tra il pudore e il nuovo modello di relazioni familiari basato sull’individualismo affettivo e sui sentimenti. La promessa del code di garantire una libertà sessuale all’interno delle mura domestiche non soltanto accentuò la frattura tra la sfera pubblica e la sfera privata, ma quello che più conta, finì per legare questa distinzione a ben precisi ruoli di genere riservando al maschile la dimensione della vita pubblica e della cittadinanza, lasciando al femminile la sfera della domesticità e del privato. Il mutamento fu tangibile e duraturo, specie se rapportato alla precedente stagione dei Lumi dove – almeno per le classi colte – l’ideale femminile di un libertinismo ludico ma allo stesso tempo consapevole spingeva la donna a proiettare all’esterno il suo fascino e a liberarsi di un ruolo sessuale stereotipato. Rispetto a questa prospettiva, il nuovo modello di relazioni familiari basato sulla domesticity rappresentò una decisa inversione di tendenza: dedita alla cura della casa e dei figli, la moglie nel matrimonio borghese era racchiusa in uno spazio privato, del tutto di distinto da quello pubblico occupato dal marito.

La frontiera del pudore acquistò così un significato connesso inscindibilmente ai valori della famiglia, marcando una spinta pressante al conformismo sessuale, e d’altro canto, contribuì in modo determinante ad orientare nuove forme di esclusione fondate sullo studio clinico delle passioni, basti citare a tal proposito l’opera di Jean-Étienne Dominique Esquirol – il fondatore della moderna clinica psichiatrica- il quale paventava una completa identificazione tra l’unione coniugale e la normalità sessuale, identificando il matrimonio come terapia più idonea per la cura dell’ “erotomania” affezione che – è opportuno lasciare la parola all’Esquirol – conduceva all’«alterazione della sensibilità e della facoltà pensante»[9].

3.Questo complesso gioco di integrazioni ed esclusioni che faceva del pudore uno strumento disciplinare centrale per la costruzione del soggetto della società liberale era destinato a presentarsi anche in Italia dove il tema del controllo della morale sessuale s’intrecciava ai problemi relativi all’edificazione del nuovo Stato nazionale. Il progetto dell’unificazione legislativa da realizzare dopo l’orizzonte delle piccole patrie regionali e locali portava con sé il problema della armonizzazione delle mentalità, delle abitudini, delle regole di condotta. Se il giovane Stato unitario voleva assumere il controllo della sessualità e della riproduzione doveva «sottrarre alla Chiesa i corpi e le anime degli italiani, doveva, cioè, secolarizzare la visione e la gestione delle relazioni sessuali»[10]. Ciò avrebbe comportato l’abbandono di prassi consolidate, abitudini sedimentate che si esprimevano anche nell’uso di un vocabolario saldamente impiantato nella memoria collettiva.

Emblematica in questo senso era la vicenda del codice penale sardo-piemontese del ’59 esteso al territorio italiano dopo l’unificazione (con le rilevante eccezione, tra l’altro, della Toscana) che puniva la commissione di atti contrari al pudore e al buon costume tali da eccitare il «pubblico scandalo». L’evidente derivazione teologica del concetto di «pubblico scandalo» che sostituiva il requisito della pubblicità presente nel codice francese mostrava in maniera palese come il referente religioso non fosse affatto scomparso dall’ideario del legislatore. Come è stato sottolineato in ambito storiografico «il nodo irrisolto era quello della “peccatizzazione” del diritto penale. Assai risalente e solidamente radicata nelle mentalità e nelle pratiche l’equazione tra peccato e crimine entrava per forza di cose in conflitto con i nuovi principî e produceva discussioni, ipotesi di riforma spinte e resistenze»[11]. Fra le voci chiamate ad esprimersi in subiecta materia spiccava per autorevolezza quella di Francesco Carrara. Il punto di riferimento di un’intera generazione di penalisti dell’Italia liberale, che per la verità non era mai stato tenero con il codice penale per il Regno d’Italia («coglionerie sardo-gotiche»[12] era stato il tagliente commento del Maestro), stigmatizzava con ironia tutta toscana la scelta del legislatore: «meraviglioso è che il codice sardo dopo aver copiato il francese fino alla nausea in molte sue pessime disposizioni se ne sia allontanato qui dove la legge di Francia era ottima»[13].

Cionondimeno l’esigenza di sanzionare le condotte contrarie al pubblico pudore rappresentava sempre una esigenza profondamente sentita dalla cultura giuridica liberale. A ben vedere, se era vero che il valore della completa separazione tra diritto e morale costituiva una meta a cui un ordinamento genuinamente liberale non poteva in nessun caso rinunciare, era vero altresì che il rigido conformismo borghese e l’esigenza di salvaguardare la società dal vizio e dall’impudicizia spingevano concordemente a garantire attraverso la criminalizzazione dei comportamenti contrari al buon costume e il rispetto della pubblica moralità[14]. Ancora una volta, era chiarissimo il pensiero di Francesco Carrara. Questi metteva in risalto «la sottilissima linea» che stava alla base della incriminazione delle condotte lesive del pubblico pudore dal momento che il legislatore si trasformerebbe in tiranno laddove confondesse «l’ufficio del moralista con quello del nomoteta». Ma, in ogni caso «dovendosi presumersi l’aborrimento del vizio nel cuore dei più, ne deriva che questo sentimento si venga ad offendere in tutti i buoni allo spettacolo di un vizio che si mostri con sfrontata pubblicità». «Oltre a ciò», proseguiva Carrara, «la consociazione che ha interesse a mantenere e promuovere la rettitudine dei cittadini perché le sole virtù di queste possono rendere grande una nazione, ha diritto d’impedire gli atti di malo esempio nei quali certe male abitudini si vengano generalizzando e si minori lo affetto e la reverenza per le opposte virtù». Insomma, concludeva il giurista lucchese, «è giusta la pretesa di un Governo […] il quale dica ai sudditi siate viziosi a posta vostra, tanto peggio per voi; io non ho diritto d’infliggervi pene per ciò: ma siatelo per voi stessi e privatamente; io intendo che tali vizi da voi non si esercitino per guisa di trasfondere la consuetudine in altri»[15].

In questo senso, la scelta compiuta con l’articolo 338 del codice Zanardelli rappresentò un compromesso che si espresse nell’eliminazione dal contenuto della disposizione del requisito del «pubblico scandalo» e nella criminalizzazione dei soli atti di esibizione sessuale compiuti in luogo pubblico o esposto al pubblico. Si trattava, è appena il caso di aggiungere, di uno sforzo teso ad ancorare ad un pur labile profilo di tassatività e determinatezza una fattispecie oltremodo problematica, ma sotto questo profilo i tentativi compiuti dal legislatore liberale rischiavano di essere frustrati da una magistratura assai zelante quando la posta in gioco era rappresentata dalla pubblica moralità.

In effetti, uno sguardo anche rapsodico e cursorio ai repertori stesi negli ultimi anni del secolo XIX mostra chiaramente come il concetto della pubblicità dell’atto di esibizione sessuale fosse ben lontano dall’essere condiviso pacificamente dalla giurisprudenza. In particolare, la stessa nozione di luogo esposto al pubblico finì per ricomprendere all’interno della sua portata precettiva luoghi assai differenti come un’aia[16], un bosco[17], vie private esposte alla semplice vista del pubblico[18], nonché – ed era il caso più frequente – anche le private abitazioni, beninteso, allorquando si trovassero «in tali condizioni da lasciar scorgere a chiunque [….] quanto vi si compia internamente»[19].

4.Ma questa giurisprudenza voyeuristica che costringeva gli amanti a controlli serrati e scrupolosi per evitare di rendere pubblico uno “spettacolo” destinato a rimanere necessariamente privato, rappresentava solo un tassello del più ampio mosaico di problematiche relative al controllo della morale sessuale nell’Italia liberale. Sottotraccia il tema del pudore misurava in maniera tangibile la crescita d’influenza e di prestigio che in quegli stessi anni stavano acquisendo le nuove correnti positiviste impegnate a ridefinire lo statuto della penalità in nome dello studio scientifico del fenomeno criminale.

Era proprio a questa tematica che numerosi medici, antropologi e alienisti dedicavano alcune pagine più significative della loro produzione nella convinzione di segnare una precisa relazione tra il pudore e la “normalità” psico-fisica, una relazione che faceva del corpo il punto di riferimento essenziale per la costruzione di una retorica che incanalava nelle categorie della devianza i soggetti non conformi ad un preciso standard sessuale.

Vale la pena lasciare la parola ai protagonisti di questa stagione come Paolo Mantegazza. Antropologo, igienista, viaggiatore e divulgatore instancabile, egli affrontava il sentimento del pudore in una delle sue opere di maggior fortuna editoriale la Fisiologia dell’amore. Dopo aver sottolineato che il pudore rappresentava una delle forme più elette della seduzione e delle reticenze d’amore, egli chiariva che il senso del pudore compariva assai prima nelle donne alle quali «l’anatomia degli organi e la missione difensiva nelle battaglie d’amore rendono più spontanei gli atti della pudicizia»[20]. Allo stesso tempo Mantegazza sembrava istituire una stretto rapporto tra pudore e civilizzazione per cui mano a mano che «dalle razze basse si ascende alle più alte» il pudore «cresce e si affina in forma più delicate»[21].

A ben vedere quest’ultima notazione non rappresentava affatto una novità nel dibattito positivistico. Già Cersare Lombroso in una sua lettura tenuta presso l’ateneo pavese e pubblicata nel 1871 stabiliva un legame tra pudore e civilizzazione sociale concludendo che questo sentimento non potesse appartenere ai nostri primi progenitori o ai selvaggi[22]. Ciò che invece sembrava dettare un profondo mutamento d’indirizzo in ordine al tema del pudore era la stretta relazione che la letteratura positivistica stabiliva tra questo sentimento ed il carattere sessuale. Secoli di selezione naturale avevano stabilito una distinzione di ruoli funzionale alla conservazione delle specie. Tale distinzione prendeva forma nei caratteri psico-fisici dell’uomo – forte e sessualmente attivo – e della donna – debole, materna e pudica –[23]. Sviluppando questo assunto in senso rigidamente deterministico, Lombroso traeva come necessaria conseguenza che un soggetto che non rispettasse in qualche misura la linea di demarcazione che l’evoluzione biologica aveva stabilito rappresentava nulla di più che un deviante affetto da una forma di atavismo o regressione[24].

Era indubbio che un simile discorso comportasse conseguenze assai importanti per il giudizio sull’omosessualità, soprattutto sulla questione relativa all’introduzione in Italia – sull’esempio inglese e tedesco – di specifiche sanzioni penali per le pratiche omosessuali. Il codice Zanardelli aveva rinunciato a punire le condotte omosessuali evitando di distinguere lo stupro «naturale» da quello «contro natura» anche perché – come fu evidenziato in sede di dibattito parlamentare – non occorreva in questa materia «entrare nei dettagli e nelle suddistinzioni» posto che la legge deve essere sempre pudica anche nel linguaggio[25], tuttavia non occorre spendere molte parole per evidenziare che – indipendentemente dalla criminalizzazione – il discorso positivista introduceva per omosessuali e transessuali nuove e più incisive forme di stigmatizzazione[26] considerandoli come forme deviate dell’evoluzione biologica.

Così, mentre Lombroso promuoveva la traduzione in lingua italiana della celebre Psicopatologia sexualis di Richard Kraft-Ebing, ed igienisti ed antropologi dedicavano ai temi della sessualità periodici specializzati – come l’Archivio delle psicopatologie sessuali ad opera del medico avellinese Pasquale Penta – anche in Italia arrivò l’eco delle battaglie combattute in Germania ed in Austria contro la criminalizzazione dell’omosessualità da parte del giudice Karl Heinrich Ulrichs e del medico Magnus Hirshfeld. Tra i numerosi case-studies presenti nella letteratura scientifica, appare assai significativo quello trattato da Angelo Zuccarelli – medico molisano e direttore della clinica di Igiene alla Regia Università di Napoli – che, sulle colonne del periodico da lui fondato L’anomalo[27], esaminava l’episodio che aveva coinvolto A. M.. Questi, esposto nella ruota dell’Ospedale dell’Annunziata di Napoli, dopo un breve soggiorno in America era tornato nella città partenopea dove incappò in una retata di polizia disposta per arginare il fenomeno della prostituzione. Dopo una approfondita visita, Zuccarelli descriveva analiticamente le caratteristiche psico–somatiche di A.M.: «Egli è maschile sì per le caratteristiche genitali, ma psichicamente è una femmina in tutto e per tutto. […] Ha incesso, movenze, delle moine e delle ritrosie come di pudore dei sorrisi furbetti e occhiggiamenti delle arrendevolezze e svenevolezze ed altro simile propri di femmina. Nel mio difficoltoso esame parecchio dovetti ottenere a via di confetti e carezze (alle quali pur con intima ripugnanza mi piegai per l’interesse scientifico) …»[28].

5.Al di là della ritrosia, la reazione stizzita che traspare nella relazione del medico molisano rivelava come dietro lo sforzo di incasellare i corpi in precisi caratteri sessuali vi fosse qualcosa di più che una semplice tassonomia. I casi di omosessualità, transessualismo ed ermafroditismo mettevano in crisi uno dei capisaldi dell’identità sessuale ottocentesca, quello secondo cui alle diversità anatomiche fra uomo e donna corrispondevano per forza di cose ruoli distinti nella società che si traducevano in una diversa capacità sul piano giuridico e politico[29]. Basta leggere le pagine dedicate alla natura femminile da autori come Lombroso, Ferraro,[30] Moebius[31] o Sergi[32] per comprendere come apparentemente nascosta dietro la legittimazione del linguaggio medico i temi del Corpo e della sessualità finivano per celare tutta la preoccupazione dell’estabilishment verso i nuovi percorsi di autonomia e di realizzazione prodotti da una sempre maggiore presenza femminile nella società e nel lavoro.

Si trattava – vale la pena di notarlo – di una questione tutt’altro che anodina sul piano giuridico. Assunto l’uomo come modello di soggettività all’interno dell’ordinamento, tutto ciò che non corrispondeva al preciso standard maschile e, dunque, in primo luogo le caratteristiche femminili, potevano giustificare attraverso l’argomento della diversità biologica un distinto trattamento sul piano dei diritti e dei doveri.

A giocare un ruolo determinante in questa partita era proprio il pudore e la naturale vocazione femminile per la famiglia che sembravano chiudere la porta ad ogni possibile equiparazione dei generi in ordine alla dimensione politica della cittadinanza[33]. La lunga lotta per l’emancipazione femminile sarebbe partita proprio da questo punto per affermare nuovi percorsi d’inclusione. «Mai come in questo caso» – ha notato Pietro Costa – la lotta per i diritti assunse la fisionomia di una battaglia diretta a «disegnare di nuovo i profili dell’identità individuale e attraverso di essa il gioco delle relazioni intersoggettive con la comunità politica»[34]; occorreva affrontare il «nodo della famiglia come reti di poteri e di differenze», rimodulare «i ruoli sociali e le competenze, tracciare una diversa linea divisoria tra pubblico e privato» spezzare «l’infrangibile separatezza della proper sphere femminile istaurando un rapporto diretto e personale tra la donna e la civitas»[35].

6. Il caso trattato da Angelo Zuccarelli risale al 1917; una data simbolica che ben si presta a fissare un termine ad quem dell’indagine proposta in questo contributo. Sui campi di battaglia del primo conflitto mondiale calava definitivamente il sipario sul «lungo Ottocento». Il discorso giuridico del pudore ne aveva accompagnato le scansioni a partire dalla nascita della famiglia borghese fino alla stagione della “medicalizzazione” della penalità, lasciando in eredità al secolo successivo un insieme di tensioni irrisolte, in primo luogo quella di una «questione femminile» che appariva oramai ineludibile.

A fronte delle tumultuose trasformazioni sociali imposte dalla guerra, il fascismo si sarebbe fatto carico di intercettare il senso di frustrazione e disorientamento di una fetta consistente della borghesia italiana edificando sul doppio ruolo di moglie e madre una rappresentazione della figura femminile funzionale al proprio progetto di “moralizzazione” della società italiana. Non solo, attraverso la disciplina del Corpo e della sessualità il regime avrebbe promosso una integrazione sempre più pervasiva tra la morale pubblica e quella privata.

Agli albori dell’esperienza fascista, Alfredo Rocco aveva annunciato questo intento in uno dei suoi discorsi più celebri; un discorso che, riletto a distanza, sembra assumere i tratti di una vera e propria dichiarazione programmatica: «lo Stato non è solamente un organismo giuridico è e deve essere un organismo etico. Lo Stato deve farsi tutore della morale pubblica e rivendicare questa morale; deve curare anche l’animo oltre che il Corpo dei cittadini. È in nome di questo altissimo dovere che lo Stato deve intervenire per reprimere la menzogna, la corruzione e tutte le forme di deviazione della morale pubblica e privata»[36].

[1] M. Foucault, Il vero sesso, in S. Vaccaro, M. Coglitore (a cura di), Michel Foucault e il divenire donna, Milano, Mimesis, 1997, p. 179.

[2] Sul tema del pudore, ci si limita a segnalare: N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1982; J. C. Bologne, Histoire de la pudeur, Paris, Hachette, 1986; M. Seltz, Il pudore. Un luogo di libertà, Torino, Einaudi, 2005; J. Morel Cinq-Mars voce Pudeur in M. Marzano (dir.) Dictionnaire du corps, Paris, Puf, pp. 790-793.

[3] M. Foucault, La volontà di sapere, in Id. Antologia a cura di V. Sorrentino, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 105.

[4] Rapport au corps législatif, 17.02.1810, cit. in M. Iacub, Dal buco della serratura. Una storia del pudore pubblico dal XIX al XXI secolo, Bari, Dedalo, 2010, pp.69-70.

[5] G. Durante, L’artificio incarnato della vita giuridica, saggio introduttivo a M. Iacub, Dal buco della serratura, cit., p. 25.

[6] M. Iacub, Dal buco della serratura, cit., p. 45.

[7] Ivi, p. 64.

[8] Tra i numerosi autori che si sono occupati di questo fondamentale tornante della storia sociale: G Fraisse, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne. L’Ottocento, Roma-Bari- Laterza, 1991; M. Barabagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia del XV al XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1996; R. Bizzocchi, In famiglia. Storie di interessi e affetti nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2001; M. Barbagli, D.I. Kerzer (a cura di), Storia della famiglia in Europa. II, Il lungo Ottocento, Roma- Bari, Laterza, 2003. Nel panorama della storiografia giuridica italiana il tema è approfondito da G. Alessi, Il soggetto e l’ordine. Percorsi dell’individualismo nell’Europa moderna, Torino, Giappichelli, 2006.

[9] J.E.D. Esquirol, Des maladies mentales, II, Paris, Baillièrs, 1838, p. 32. Sugli studi di Esquirol: M. Galzigna, Lo psichiatra e il libertino in S. Vegetti Finzi (a cura di), Storia delle passioni, Roma-Baria, Laterza, 1997, pp. 213-242.

[10] S. Stewart-Steinberg, L’effetto Pinocchio. Italia 1861-1922. La costruzione di una complessa modernità, Roma, Elliot, p. 246.

[11] M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in A. Schiavone (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma- Bari, Laterza, 2001, p. 154.

[12] Cit. da A. Mazzacane, voce Carrara, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XX, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1977, p. 665.

[13] F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale […] Parte speciale, vol. IV, Lucca, Tip. Giusti, 1870, p. 64.

[14] Sul tema: A. Cernigliaro, Sviluppi semantici del concetto di ordine pubblico nell’Ottocento italiano, in L. Lacchè, C. Latini. P. Marchetti, M. Meccarelli (a cura di), Penale, giustizia, potere. Metodi, Ricerche, Storiografie, Macerata, EUM, 2007, pp. 309-327.

[15] Ivi, pp. 18-19.

[16] Cass. 29.02.1892, in La Corte Suprema di Roma. Raccolta periodica delle sentenze della Corte di cassazione di Roma, XVII (1892), p. 62.

[17] Cass. 6.02.1892, in Foro penale. Rivista critica di diritto e giurisprudenza penale e discipline carcerarie, II (1892), p. 58.

[18] Cass. 12.11.1891 in La Corte Suprema di Roma. Raccolta periodica delle sentenze della Corte di cassazione di Roma, XVI (1891), p. 904.

[19] Cass. 11.03.1898 in La Cassazione unica. Periodico giuridico di Roma, IX (1898), p. 903.

[20] P. Mantegazza, Fisiologia dell’amore, Milano, Bernardoni, 1873, p. 94.

[21] Ivi, p. 97.

[22] C. Lombroso, L’uomo bianco e l’uomo di colore. Letture sull’origine e sulla varietà delle razze umane, a cura di L. Rodler, Bologna, Archetipolibri, 2012, p. 93.

[23] L. Rodler, L’impudicizia della scienza tra Mantegazza e Lombroso,in Griseldaonline-Portale di letteratura, www.griseldaonline.it/temi/pudore/impudicizia-scienza-mantegazza-lombroso-html, consultato il 4.4.2016.

[24] C. Lombroso, L’amore nei pazzi in «Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale», II (1881), pp. 1-32. Id., Du parallélisme entre l’homo sexualité et la criminalité inée, in Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale, XXVII (1906), pp. 378-381. Sui caratteri dell’omosessualità come degenerazione psico-fisica nel pensiero ottocentesco: A. Corbin, Les rencontre des corps, in A. Corbin, J.J. Courtine, G. Vigarello (dir.), Histoire du corps, Paris, Seuil, 2005, pp. 149-214.

[25] Cit. in «Rivista penale», II (1875), p. 528-529. Sul punto, cfr. anche B.P.F. Wanrooij, Storia del pudore. La questione sessuale in Italia 1860-1922, Venezia, Marsilio, 1990, p. 194.

[26] Il riferimento è al fondamentale strumentario teorico coniato dall’opera di Erwing Goffman; per un’analisi storico-giuridica ispirata al paradigma del celebre sociologo canadese cfr. A Cernigliaro, L’”altro” come specchio, il “diverso” come minaccia, in A.A. Cassi (a cura di), Ai margini della civitas: figure giuridiche dell’altro tra Medioevo e futuro, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013, pp. 13-44.

[27] Sulla tormentata figura di Angelo Zuccarelli e della sua avventura editoriale: F. Rotondo, Angelo Zuccarelli e la rivista «L’Anomalo». Una riflessione sull’antropologia criminale di fine Ottocento a Napoli, in L. Lacchè, M. Stronati, Una tribuna per le scienze criminali. La ‘cultura’ delle riviste nel dibattito penalistico tra Otto e Novecento, Macerata, Eum, pp. 191-218.

[28] A. Zuccarelli, La misteriosa «donna barbuta» arrestata dalla questura di Napoli. Un altro caso d’inversione dell’istinto sessuale in «L’anomalo», XIV (1917), p. 125. Cfr sul punto, ancora, B.P.F. Wanrooij, Storia del pudore, cit., pp. 192-193.

[29] B.P.F. Wanrooij, Storia del pudore, cit., p. 193.

[30] C. Lombroso, G. Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Torino-Milano, Bocca, 1893.

[31] P.J. Moebius, L’inferiorità mentale della donna, Torino, Bocca, 1904.

[32] G. Sergi, Per l’educazione del carattere, Milano, Dumolard, 1893.

[33] Sul tema, le pagine di G. Cazzetta, Codice civile e identità giuridica nazionale. Percorsi e appunti per una storia delle codificazioni moderne, Torino, Giappichelli, 2011, pp. 76-83.

[34] P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 3. La civiltà liberale, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 366.

[35] Ivi, p. 399.

[36] A. Rocco, Discorso alla Camera dei deputati, 16. 05.1925, in Id., La trasformazione dello Stato, Roma. Edizioni della Voce, 1927, p. 45.