Italicum e “Riforma” costituzionale:
costruzione mediatica e realtà
Lungi dall’essere un’operazione manutentiva di ingegneria istituzionale, la “riforma” della Costituzione e l’Italicum realizzano un frattura profonda rispetto al sistema disegnato dalla Carta del ‘48.
Non all’insegna del nuovo ma di una piena continuità con il disegno centralizzatore e antidemocratico che ha segnato gli ultimi decenni della vita del Paese portando alla definizione, di fatto, di una diversa costituzione materiale.
Ne costituiscono univoca manifestazione la concentrazione del potere politico nelle mani del partito più votato (anche se, potenzialmente, minoritario), la riduzione del Parlamento a organo prevalentemente di nominati e a sede di ratifica delle decisioni del Governo, il depotenziamento delle autonomie locali e degli organi di controllo e l’indebolimento degli istituti di democrazia diretta.
Gli slogan nuovisti e i luoghi comuni sulla necessità di un non meglio precisato cambiamento non bastano a mascherare il senso dell’operazione, che è quello di sostituire la democrazia rappresentativa e partecipativa prevista dalla Carta del 1948 con una democrazia di investitura nella quale chi vince prende tutto e i cittadini sono ridotti a uno status prossimo a quello di sudditi, sempre più atomizzati, isolati l’uno dall’altro, dediti essenzialmente alla ricerca del proprio utile.
1. Premessa
Tra il maggio 2015 e l’aprile 2016 la maggioranza parlamentare ha varato un nuovo sistema elettorale per la Camera dei deputati (legge 6 maggio 2015 n. 52, nota nel linguaggio giornalistico come Italicum) e la modifica di 47 articoli della Costituzione (legge costituzionale pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 15 aprile 2016[1]). Si tratta di interventi normativi strettamente connessi[2], tanto imponenti sotto il profilo quantitativo quanto approssimativi sul piano tecnico ed eversivi su quello politico.
La legge elettorale, approvata facendo ricorso a inedite forzature regolamentari[3], affianca alla disinvolta previsione di istituti di importazione rivisitati al peggio (come il ballottaggio tra partiti e senza soglie di accesso e un premio di maggioranza a dir poco abnorme), imprecisioni tecniche clamorose e foriere di gravi incertezze interpretative e di vere e proprie impossibilità applicative. Basti ricordarne l’articolo 1 che, nel regolamentare il premio di maggioranza, dispone che «sono attribuiti comunque 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi», senza prendere in considerazione l’ipotesi che tale soglia sia superata da due partiti[4] ... Né è da meno la “riforma” costituzionale, consistente in un mix di approssimazioni e oscurità concettuali, assai più simile a una (brutta) finanziaria o a un decreto mille proroghe che alla legge fondamentale della Repubblica. Basti ricordarne l’articolo 57, in tema di composizione e sistema elettorale del Senato (la cui imprecisione e insufficienza è ammessa persino dagli estensori che rinviano, con irresponsabile candore, alla interpretazione che ne darà la legge di attuazione), o l’articolo 70, sulla funzione legislativa (che sostituisce l’originario chiarissimo testo, lungo appena un rigo, con sei commi, il primo dei quali di ben 195 parole, densi di rinvii e di costruzioni sintattiche a dir poco ardite).
Agevole, dunque, una critica sul piano tecnico giuridico o linguistico e impietoso il confronto con la Carta del 1948 (scritta in modo comprensibile a tutti e oggetto di valutazioni unanimemente lusinghiere, anche senza indulgere alla retorica della «Costituzione più bella del mondo»). Ma c’è chi, pur non contestando l’impresentabilità del testo, fa sfoggio di realismo e riporta l’approssimazione della prosa e della tecnica legislativa utilizzate ai tempi bui e complessi in cui viviamo, aggiungendo che tale situazione impone di smettere di rimpiangere una Costituzione che, nei fatti, non c’è più e di misurarsi piuttosto con il nuovo che incombe e con le sfide che ne derivano. È questo il terreno più delicato di confronto. E occorre accettarlo misurandosi con quanto è accaduto nel Paese negli ultimi decenni, con le trasformazioni intervenute nella nostra costituzione materiale, con il futuro che si prospetta.
2. Crisi politico-istituzionale e costituzione materiale
Conviene partire dai fatti.
Ci sono, nell’architettura della Carta del ‘48, due concetti/obiettivi fondamentali: l’eguaglianza e la partecipazione, chiave di volta di quell’art. 3, secondo comma, che attribuisce alla Repubblica il «compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». E c’è un assetto istituzionale coerente con tali obiettivi: molteplicità degli istituti di democrazia rappresentativa e finanche diretta, centralità del Parlamento (collocato in posizione di supremazia rispetto al Governo), ruolo di garanzia del presidente della Repubblica (estraneo al circuito dell’indirizzo politico e delle connesse decisioni), bilanciamento dei poteri e previsione di maggioranze qualificate per la nomina degli organi di garanzia, attribuzione di ampie competenze alle autonomie locali, espresso richiamo ai partiti politici e alle organizzazioni intermedie e via elencando.
È vero: ciò è oggi, nei fatti, un lontano ricordo. L’impoverimento diffuso, la crescita delle differenze economiche, il tramonto dell’idea stessa di piena occupazione, l’abbattimento del welfare, la sostituzione dello Stato sociale con lo Stato penale, la subordinazione della politica all’economia e ai poteri forti interni e internazionali, in una parola le trasformazioni socioeconomiche degli ultimi decenni[5] hanno, infatti, prodotto delle prassi politiche, una regolazione dei rapporti sociali e un assetto normativo sempre più lontani dal progetto egualitario ed emancipatorio scritto nella prima parte della Costituzione. Anche sul versante delle istituzioni e della rappresentanza il cambiamento è stato radicale: si è ribaltato il rapporto tra Parlamento e Governo, con assunzione, da parte di quest’ultimo di un ruolo di inedita supremazia e sua trasformazione di fatto in gabinetto del premier (con una curvatura personalistica culminata nella indicazione del leader sulle schede elettorali)[6]; l’adozione di leggi elettorali di crescente impostazione maggioritaria e la sottrazione ai cittadini della scelta dei rappresentanti (demandata alle burocrazie dei partiti attraverso la designazione dei capilista e il voto bloccato) hanno intaccato la funzione rappresentativa del Parlamento; la decretazione d’urgenza del Governo, prevista come eccezione, è diventata regola con l’avallo del capo dello Stato e un’assai timida resistenza della Corte costituzionale; il presidente della Repubblica è prepotentemente entrato, durante la lunga presidenza di Giorgio Napolitano, nel circuito di governo con ripetuti e abnormi interventi sull’indirizzo politico e sulla composizione e durata dei governi; gli organi di garanzia, a cominciare dalla Corte costituzionale e dal Consiglio superiore della magistratura, sono stati gravemente feriti da mancate o ritardate nomine di spettanza parlamentare e da designazioni dettate da esclusivi calcoli politici, a prescindere dai richiesti requisiti di autorevolezza e competenza. Si potrebbe continuare, ma tanto basta a dimostrare l’entità delle trasformazioni intervenute negli ultimi decenni.
Superfluo dire che tutto ciò ha inciso anche sulla cultura politica e sui comportamenti individuali e collettivi determinando un’ulteriore involuzione del sistema: la corruzione segna oggi più che mai tutti i gangli della vita pubblica[7] sino a diventarne una componente strutturale (vanificando, oltre a elementari princìpi etici e giuridici, la prospettiva, evocata nell’articolo 54, secondo comma, della Carta, di una Repubblica nella quale «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore»); i partiti si sono trasformati in semplici comitati elettorali, diretti, per lo più, da veri e propri “capi” e privi di regole e di dialettica interna (anche qui in difformità dal modello costituzionale secondo cui, come recita l’articolo 49, «tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»); la partecipazione alla cosa pubblica (enunciata come fondamento della Repubblica nell’articolo 1, secondo comma, della Carta, in forza del quale «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione») è diventata un optional, disincentivato da norme e prassi che hanno, alla fine, prodotto disaffezione e fuga dal voto, nella indifferenza (o finanche nell’ostentato sollievo[8]) della politica.
All’esito di questo percorso, dunque, la Costituzione del 1948 è scritta solo sulla carta mentre altra, diversa e talora antitetica, è la costituzione materiale con cui si misurano quotidianamente i cittadini.
3. Quando il metodo è sostanza
Sarebbe, peraltro, improprio trarre da ciò la giustificazione (o addirittura ritenere l’ineluttabilità) degli interventi legislativi in esame. A fronte dell’aggravarsi della crisi economica, sociale e istituzionale del Paese, infatti, la politica aveva ed ha davanti a sé una pluralità di opzioni. Due, in particolare: avviare interventi di manutenzione della Carta capaci di ripristinarne/rilanciarne il carattere partecipativo e inclusivo (senza inutili amarcord, ma con un realismo attento ai valori e agli obiettivi) o dare copertura costituzionale ex post ai cambiamenti intervenuti nella prassi e incentivarli ulteriormente.
Ebbene, la scelta sottostante alle attuali “riforme” è, in maniera univoca, quest’ultima. Lo dimostrano i tratti fondamentali del progetto ad esse sotteso e, prima ancora, il percorso politico e le modalità con cui la Carta fondamentale è stata modificata: iniziativa del Governo[9], approvazione da parte di un Parlamento privo di legittimazione[10], spaccatura verticale delle Camere (e del Paese) nel dibattito e nel voto[11], iter parlamentare caratterizzato da artifici e colpi di mano[12].
Ciò, lungi dall’essere una semplice questione di metodo, incide profondamente sul senso della Costituzione, sul suo rapporto con la società, sulla concezione stessa della democrazia. Le costituzioni contemporanee (non a caso definite “rigide”, cioè modificabili solo con maggioranze qualificate e procedure rafforzate), tracciano, infatti, il quadro delle regole condivise all’interno del quale si svolgono il confronto e, occorrendo, lo scontro politico. Così è stato per la nostra Carta del ‘48, che ha trasformato un Paese diviso e lacerato (dal ventennio fascista, dalla guerra e dallo stesso referendum istituzionale) in una casa comune, riconosciuta come propria ‒ pur nelle profonde differenze ideali, politiche, economiche e sociali ‒ dalla generalità dei cittadini[13]. Questa impostazione, poi, ha condizionato tutti i processi parlamentari tesi al cambiamento della Carta, fino alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita con legge 24 gennaio 1997 e presieduta dall’onorevole D’Alema, i cui lavori si conclusero senza alcun intervento modificativo (pur in presenza di un progetto di riforma ampiamente discusso) perché, come ebbe ad annunciare il presidente della Camera nella seduta del 9 giugno 1998, l’ufficio di presidenza della Commissione «ha preso atto del venire meno delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione»[14].
Questa concezione ha cominciato a scricchiolare con l’avvento della cosiddetta seconda Repubblica sotto i colpi di forze politiche estranee al progetto costituzionale del 1948. Si deve, infatti, al costituzionalista di riferimento della Lega, Gianfranco Miglio, la teorizzazione, risalente al 1994, secondo cui «è sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze»[15]. L’affermazione, pur percepita in allora come eversiva, non ha tardato a trovare applicazione, in modo bipartisan con le modifiche della Costituzione approvate nel 2001 (relative al titolo V)[16] e nel 2006 (relative alla stessa forma del Governo e dello Stato)[17]. La strada verso una Costituzione di parte era ormai spianata[18], anche se rimase, in allora, incompiuta per il carattere limitato della prima riforma e per la bocciatura referendaria della seconda. Oggi, ove non prevalessero i No al referendum, il percorso sarebbe concluso con trasformazione della Costituzione, da casa comune, a “bottino di guerra” dei vincitori[19].
4. Una novità vecchia di trent’anni
Non c’è, peraltro, solo il metodo. La continuità delle modifiche odierne con la deriva maggioritaria e autoritaria degli ultimi decenni (che ha avuto in controtendenza solo la modifica, intervenuta nel 2001, del titolo V della Costituzione, oggi significativamente ribaltato) sta anche, e soprattutto, nel merito. Bastino alcuni cenni sui profili più rilevanti.
Primo.Il sistema elettorale dettato per la Camera dei deputati prevede una curvatura maggioritaria assolutamente abnorme[20], del tutto simile a quella prevista dalla legge Calderoli del 2005 (che ne costituisce l’unico precedente nel nostre Paese)[21] e priva di uguali nel diritto comparato (che pure prevede molti sistemi maggioritari)[22]. In sintesi: si vota in 100 collegi plurinominali e, su 630 deputati, 340, pari al 54 per cento del totale, vanno alla lista che ottiene il maggior numero di voti con due possibilità: a) al primo turno se un lista ottiene il 40 più uno per cento dei voti espressi; b) all’esito del ballottaggio tra le due liste che hanno ottenuto più voti, indipendentemente dalla percentuale raggiunta, se nessuna lista ha ottenuto il 40 per cento dei voti. In questo modo, con un gigantesco gioco di prestigio, si trasforma la minoranza più consistente del Paese in maggioranza assoluta del Parlamento[23] e si converte la democrazia da «governo dei più» in «governo dei meno»[24]. In concreto, infatti, diventa possibile (e anzi probabile) il controllo indisturbato della Camera da parte di una forza politica dotata di un consenso assai ridotto, che può corrispondere, in una situazione politica frammentata e con un gran numero di liste, a percentuali del 15 o del 20 per cento dei votanti (i quali, a loro volta, sono ormai, dopo l’avvento del sistema maggioritario, stabilmente attestati nel nostro Paese in poco più della metà degli aventi diritto)[25]. Evidenti le conseguenze pratiche di tale sistema e difficile non riandare alle ragioni di incostituzionalità esposte dalla Consulta nella sentenza n. 1/2014, con riferimento alla legge Calderoli[26].
Secondo. Alla trasformazione artificiosa di una minoranza del Paese in maggioranza della Camera si accompagna, nella “riforma” costituzionale, una ristrutturazione del sistema parlamentare «incoerente e sbagliata»[27]. Il dichiarato intento di superare il «bicameralismo paritario», pur in astratto non censurabile o addirittura condivisibile[28], ha, infatti, prodotto un assetto istituzionale sbilanciato, carente sul piano della rappresentanza e inadeguato su quello della funzionalità. In particolare nel nuovo sistema: a) il circuito della fiducia all’esecutivo, dell’indirizzo politico e del controllo sull’attività del Governo viene riservato alla sola Camera, senza che sia per essa previsto alcun vincolo di rappresentatività del corpo elettorale (che ben avrebbe potuto essere inserito in un testo estremamente analitico come quello della nuova Costituzione)[29] e, al contrario, in presenza di una legge elettorale che tale rappresentatività esclude; b) il Governo viene investito di ampi poteri in punto organizzazione dei lavori parlamentari[30] e di una marcata possibilità di controllo sulla maggioranza (soprattutto in presenza di un sistema elettorale a forte effetto maggioritario) con l’inevitabile conseguenza della sua supremazia sulla Camera o, comunque, dell’abbattimento della dialettica tra esecutivo e Parlamento; c) il Senato viene privato di molte delle sue attuali competenze più significative (l’indirizzo politico, la fiducia e il controllo sull’operato del Governo, una parte consistente della funzione legislativa, la partecipazione al voto per la dichiarazione dello stato di guerra) senza contemporaneamente assumere il ruolo ‒ pur evocato dal nuovo articolo 55, comma 3 ‒ di effettiva e coerente «rappresentanza delle istituzioni territoriali». Da un lato, infatti, esso è strutturato come un inutile «dopolavoro», composto da senatori a tempo parziale[31] (temporaneamente sottratti alle loro attribuzioni principali di consiglieri regionali o di sindaci e designati sulla base di appartenenze politico-partitiche[32] senza alcuna rappresentanza delle regioni di provenienza) e squilibrato dal punto di vista numerico rispetto alla Camera (con conseguente sostanziale irrilevanza nelle decisioni in seduta comune come la elezione del Presidente della Repubblica[33] e la designazione della componente laica del Consiglio superiore della magistratura). Dall’altro le sue funzioni sono ridotte e disomogenee e non prevedono né poteri reali con riferimento a molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionale né la effettiva possibilità di realizzare una concertazione o un collegamento stabile tra Stato e Regioni[34].
Terzo L’assetto regionale conosce, nella riforma, una totale inversione di marcia rispetto alla legge costituzionale del 2001 modificativa del titolo V. Le Regioni vengono, infatti, sostanzialmente private di ogni spazio reale di competenza legislativa e ridotte a organismi privi di autonomia e di assai dubbia utilità. Ciò si realizza attraverso l’espansione dello spazio del legislatore nazionale: è eliminata la competenza regionale concorrente; sono ricondotte alla competenza esclusiva dello Stato alcune materie (come trasporto e navigazione, comunicazione, energia, promozione della concorrenza, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, tutela e sicurezza del lavoro, politiche sociali, istruzione e formazione professionale); è introdotta la cosiddetta clausola di supremazia statale in forza della quale, su proposta del Governo, la legge statale può intervenire, ai fini della tutela dell’unità giuridica ed economica o dell’interesse nazionale, in materia di competenza esclusiva delle Regioni. L’effetto è un’abnorme centralizzazione del potere (speculare all’infatuazione federalista di quindici anni fa) che avrà il doppio effetto negativo di acuire la frattura tra apparato burocratico e cittadini e di moltiplicare il contenzioso tra Stato e Regioni di fronte alla Corte costituzionale (sempre più sottratta al suo ruolo naturale di garante dei diritti e delle libertà dei cittadini).
Quarto. Il nuovo sistema istituzionale affievolisce, infine, ulteriormente le forme di partecipazione diretta dei cittadini alla vita pubblica. Ciò avviene anzitutto nella legge elettorale, con il mantenimento di un’ampia indicazione dall’alto (e cioè dalle segreterie dei partiti) dei futuri parlamentari, così sottratti alla scelta dei cittadini[35]. Ma il disegno si completa con la “riforma” costituzionale che prevede: a) l’innalzamento da 50.000 a 150.000 del numero delle firme necessarie per la presentazione di proposte di legge di iniziativa popolare[36]; b) un quorum per la validità dei referendum abrogativi variabile in relazione al numero di firme raccolte: la maggioranza degli aventi diritto al voto in caso di raccolta di 500.000 firme; la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera ove le firme raccolte abbiano raggiunto o superato in numero di 800.000. In questo modo si tracciano, di fatto, due diverse vie, una facile e una difficile, a seconda che il referendum sia promosso dal basso ovvero da grandi organizzazioni (le sole in grado di raggiungere un numero di firme elevato).
In sintesi, non ci sono nella riforma – fatta eccezione per il nuovo assetto delle competenze regionali – elementi di discontinuità rispetto alla deriva centralizzatrice e autoritaria degli ultimi anni, che viene, al contrario, confermata e rafforzata attraverso la concentrazione del potere politico nelle mani del partito più votato (anche se, potenzialmente, minoritario nel Paese), la riduzione del Parlamento a organo prevalentemente di nominati e a sede di ratifica delle decisioni del Governo, il depotenziamento delle autonomie locali e degli organi di controllo e l’indebolimento degli istituti di democrazia diretta.
Il disegno non è nuovo nella storia nazionale. Anche senza risalire ai progetti di Randolfo Pacciardi o di Licio Gelli (il cui richiamo, pur pertinente, dice poco a chi si è affacciato alla politica negli ultimi, cruciali, decenni), c’è un riferimento obbligato. Quello a Bettino Craxi, il primo degli «innovatori di ventura» che, alla fine degli anni Ottanta, aprì una stagione segnata dall’emergere di lobbies trasversali e di gruppi affaristici accampati sul confine tra società, politica e Stato[37] da garantire con un rafforzamento dei poteri del Governo e un indebolimento degli organi di controllo. A quel disegno si accodò il presidente della Repubblica Francesco Cossiga che, nel messaggio alle Camere del 26 giugno 1991 (non controfirmato dal presidente del Consiglio per le sue evidenti connotazioni eversive), dopo una rituale celebrazione della Costituzione del ‘48 e dei suoi meriti storici, ne invocò il superamento in chiave presidenzialista per «rispondere a una richiesta civile, morale e sociale di governo, di libertà, di ordine e di progresso». Nello stesso orizzonte si collocano, seppur con significative varianti, i ripetuti progetti elaborati negli anni Novanta da Silvio Berlusconi e dai suoi alleati, sfociati, infine, nella legge di revisione costituzionale approvata il 16 novembre 2005, poi bocciata – come si è detto – dal referendum del 25-26 giugno 2006. In quella legge, tra l’altro, il Senato, denominato «federale» veniva fortemente ridimensionato e escluso dal circuito della fiducia, il numero dei parlamentari veniva complessivamente ridotto di poco meno di 200 unità, il presidente del Consiglio, che assumeva il nome di primo ministro, diventava il vero dominus della scena politica e dell’azione legislativa. In precedenza, la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da Massimo D’Alema ‒ istituita nel 1997 e chiusa nel giugno dell’anno successivo ‒ aveva anch’essa elaborato un testo in cui si prevedeva una sorta di semipresidenzialismo accompagnato dal ridimensionamento del Senato (dotato di competenza solo in materia di autonomie ed escluso dal circuito della fiducia al Governo) e da una legge elettorale a doppio turno di coalizione.
5. L’ingannevole retorica del nuovo
Nulla di nuovo, dunque. Al contrario, una sorta di accanimento terapeutico a sostegno di una impostazione che ha prodotto, negli anni, una caduta verticale di credibilità del sistema politico e delle istituzioni. Facile prevedere che, se fosse presentato nei suoi termini reali, quel progetto sarebbe respinto, come nel referendum del 2006, dalla grande maggioranza dei cittadini. Per evitare tale esito è stata, allora, messa in campo un’operazione di marketing senza precedenti per entità e spregiudicatezza.
Un primo passaggio di questa offensiva fa leva sul nuovo e si nutre di parole d’ordine, tweet, sms, slogan ripetuti in modo ossessivo e affidati alla bella presenza, alla giovane età e alla disciplina di un ceto politico emergente tanto attento alla comunicazione quanto corrivo sui contenuti. È un’operazione costruita a tavolino e veicolata da vere e proprie formule magiche come «sconfiggere i gufi», «modernizzare l’Italia», «far prevalere il nuovo sul vecchio», «sostituire il fare ai mugugni» e via seguitando[38]. Un metodo efficace nella società della comunicazione e dell’immagine ma non per questo capace di cambiare la realtà.
Una seconda componente di questa semplificazione/falsificazione mediatica è l’ammiccamento all’incultura. Le invettive del presidente del Consiglio contro «i professoroni e i professionisti degli appelli» che ostacolano le riforme per ottusità e conservatorismo sono ormai un classico. Il quadro di riferimento è risalente e lo si ritrova, a livello internazionale, nel linguaggio di imbarazzanti leader populisti. Ma è presente anche nella nostra storia nazionale con una molteplicità di manifestazioni ben note: dal disprezzo verso il «culturame» esibito nel dopoguerra da Mario Scelba all’epiteto «intellettuali dei miei stivali» rivolto a Norberto Bobbio e ad altri suoi critici da Bettino Craxi negli anni Ottanta[39] fino al più recente ostentato e arrogante disinteresse della Lega e del cavaliere di Arcore (per lo più accompagnato da una reale e non simulata ignoranza). Superfluo aggiungere che le scelte comunicative (e le loro assonanze storiche) tradiscono una sostanza a dir poco inquietante.
C’è poi, come terzo passaggio, il tentativo di delegittimare e ridicolizzare gli avversari. Così gli oppositori dell’Italicum e delle modifiche costituzionali vengono definiti un’«accozzaglia di opposti» e si grida al miracolo che ha aggregato, nel segno del No alla “riforma”, uno schieramento innaturale comprendente Berlusconi e Magistratura democratica, la Lega e Rifondazione comunista. L’argomento è tanto suggestivo quanto pretestuoso: l’eterogeneità è, infatti, coessenziale all’opposizione (ché un’azione di governo o una scelta legislativa può all’evidenza essere contrastata per motivi diversi ed eterogenei) mentre l’anomalia sta piuttosto nell’approvazione di un testo legislativo da parte di forze politicamente contrapposte (come è accaduto nell’iter delle “riforme” di cui si tratta). Ancora una volta l’obiettivo non è il ragionamento ma la suggestione.
L’infondatezza degli slogan non ne mina l’efficacia e, dunque, la pericolosità. Ma non per questo essi diventano argomenti. Ed è bene inserire questa consapevolezza nella cassetta degli attrezzi di un confronto politico all’altezza dei problemi.
6. Luoghi comuni
A fianco degli slogan nuovisti non possono mancare i luoghi comuni.
Si dice anzitutto, per intercettare la delusione e la rabbia sempre più diffuse nel Paese, che «bisogna cambiare» perché la situazione è insostenibile e richiede governi forti in grado di voltare pagina rispetto a una lunga stagione di inconcludenza. Ora, la necessità di un profondo cambiamento per uscire da uno stato di crisi economica strutturale e priva di sbocchi, di disoccupazione senza pari in Europa, di povertà e disuguaglianza crescenti, di cessione quotidiana di pezzi di sovranità ai grandi poteri sovranazionali economici e finanziari[40] è, a dir poco, incontestabile. Ma con le “riforme” in esame l’esigenza di cambiamento viene dirottata – capolavoro di illusionismo – sulle regole costituzionali[41] ed elettorali anziché sulle prassi politiche, sulla cultura di governo, sulle politiche economiche, sul riconoscimento dei diritti sociali fondamentali di tutti e via elencando. Il gioco di prestigio (più propriamente, il raggiro) sta nel dare per scontato che una diversa politica economica, sociale e finanche estera abbia come precondizione la riscrittura del quadro costituzionale e del sistema di governo. È vero, a ben guardare, il contrario: basti ricordare che la ripresa e la modernizzazione del Paese nel dopoguerra sono avvenuti nel vigore della Carta del ‘48 e di un sistema politico rappresentativo mentre l’aumento a dismisura del debito pubblico, l’impoverimento generalizzato e l’esplosione delle disuguaglianze sociali iniziano negli anni Novanta, contemporaneamente all’affermarsi di una diversa costituzione materiale e del verbo della governabilità e del maggioritario.
Si aggiunge – e lo si ripete come un mantra – che, per uscire dalla situazione di instabilità in cui versa il Paese, è necessario «sapere la sera del voto chi ha vinto e ha i numeri per governare». E si cita, a conferma, la grave crisi politica di Paesi con sistemi elettorali più o meno proporzionali – come la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda – in cui è estremamente difficile formare governi stabili, al riparo dalle incertezze e dai veti interni alle coalizioni. L’argomento è solo all’apparenza consistente. È, infatti, lapalissiano che una maggioranza parlamentare corrispondente a una maggioranza politica reale favorisce la formazione di governi stabili (qualunque sia il sistema elettorale utilizzato), ma non è sempre vero che un effetto analogo sia raggiungibile con operazioni di ingegneria elettorale quando quella maggioranza politica non esiste (salvo, ovviamente, la non auspicabile ipotesi che il surplus di poteri attribuiti alla “minoranza vincente” non preluda a un’ulteriore curvatura autoritaria in chiave personalistica). Là dove non c’è una solida base di consenso, infatti, le forze politiche, per presentarsi alle elezioni con chances di successo, saranno costrette ad accordi preventivi o addirittura alla creazione di partiti contenitore solo terminologicamente diversi dalle attuali coalizioni, portatori di un’elevata conflittualità interna e destinati a produrre instabilità (se non a frantumarsi) dopo il voto, analogamente a quanto accaduto negli ultimi decenni all’interno delle coalizioni. La non esorcizzabile realtà è, infatti, che la crisi di rappresentanza e di governabilità, tanto più se profonda e risalente, non si risolve – salvo forzature autoritarie – con finzioni ed escamotages ma solo con una diversa (e buona) politica[42], capace, nei momenti di difficoltà più acuta, di compromessi alti, pubblici e trasparenti (come accade oggi in Germania[43] e come è accaduto in passato nella stessa Italia).
Si dice poi che il sistema previsto dalla Costituzione del 1948, appesantito dal bicameralismo perfetto e dall’ampia possibilità di ostruzionismo delle opposizioni, paralizza il Parlamento e osta a un’attività legislativa all’altezza dei bisogni di una società complessa. Anche questo rilievo, pur all’apparenza suffragato da alcuni esempi recenti, è in realtà infondato, quantomeno nella sua radicalità[44]. Basta guardare alla nostra storia nazionale di decenni passati. Nel 1970 ad esempio, vigente un sistema elettorale proporzionale puro, Camera e Senato approvarono, nell’arco di soli sette mesi, un complesso di leggi che cambiarono letteralmente il volto del Paese: l’attuazione dell’ordinamento regionale ordinario, lo Statuto dei lavoratori, la legge regolatrice del referendum abrogativo, la previsione di termini massimi di carcerazione preventiva, il divorzio. E ciò avvenne – merita ricordarlo – non in presenza di un diffuso comune sentire ma all’indomani dei sommovimenti del Sessantotto e dell’autunno caldo e nel permanere di una situazione di elevata conflittualità politico-sociale. A dimostrazione, ancora una volta, che i principali ostacoli e difficoltà nel funzionamento parlamentare e nella produzione legislativa sono di natura politica e non tecnica, senza con ciò negare – ed anzi sostenendo – la necessità di una tempestiva e razionale revisione dei regolamenti parlamentari (facilmente realizzabile con legge ordinaria) per limitare le possibilità di ostruzionismo e prevedere in casi predeterminati – come già detto – corsie privilegiate per particolari argomenti o disegni di legge del Governo.
Un altro leitmotiv della propaganda a sostegno della “riforma” costituzionale è l’asserita infondatezza e strumentalità della tesi secondo cui l’accentramento del potere politico nelle mani del Governo e del suo capo intacca la democraticità del sistema (tesi smentita – si dice – dall’assetto istituzionale di una culla della democrazia liberale come gli Stati Uniti d’America, il cui presidente ha poteri amplissimi non solo di carattere esecutivo ma anche nella nomina di organi di garanzia e, in qualche misura, nella sfera legislativa). Vero il rilievo comparatistico, è, per contro, infondato il giudizio che se ne trae sull’attualità italiana. Anche a prescindere dall’improprietà di riferimenti comparati disancorati dalla cultura che li anima, è, infatti, agevole osservare che l’assetto istituzionale degli Stati Unti prevede un bilanciamento dei poteri particolarmente accentuato e un forte ruolo del Congresso e della Corte suprema (considerati veri e propri contropoteri a tutela degli orientamenti del corpo elettorale e a garanzia delle minoranze)[45]. E ciò mentre il sistema disegnato dall’Italicum attacca in radice il pluralismo della rappresentanza e consegna tutto il potere a un unico partito e al suo capo e la “riforma” costituzionale vanifica la possibilità di dialettica tra Governo e Parlamento e indebolisce di fatto gli organi di controllo.
Si dice, ancora, che i sistemi elettorali susseguitisi nel nostro Paese hanno prodotto una frantumazione patologica della rappresentanza con conseguente ingovernabilità[46] e incancrenirsi del clientelismo e della corruzione, diventati un male endemico e soppiantabili solo con un sistema drasticamente maggioritario. La tesi è, a dir poco, paradossale ché il Parlamento eletto con la legge Calderoli (anticipazione, in larga misura, dell’Italicum) ha conosciuto – e conosce – manifestazioni di trasformismo senza precedenti nella storia nazionale[47] e la caduta verticale del costume amministrativo intervenuta nelle Regioni e nei Comuni ha fatto seguito alle riforme elettorali in senso maggioritario introdotte per tali enti nel 1995 e nel 2000 (che ne appaiono evidente concausa, se non altro per la riduzione del controllo politico che hanno prodotto)[48].
Né maggior consistenza ha l’affermazione che con l’abolizione del Senato si realizza un notevole risparmio per le disastrate finanze dello Stato. Essa è, a ben guardare, infondata e demagogica: il risparmio conseguente alla trasformazione del Senato realizzata con la “riforma” costituzionale è pari a una quota infinitesimale del Pil[49], mentre ben più proficua per le casse dello Stato sarebbe un’equilibrata riduzione dei compensi per tutte le cariche pubbliche elettive (realizzabile, anche in questo caso, con una semplice legge ordinaria)[50].
6. Aspiranti stregoni
Sgombrato il campo da slogan e luoghi comuni, il disegno sotteso all’Italicum e alle modifiche costituzionali diventa ancor più chiaro.
C’è in esso, come si è detto, il tentativo di rafforzare e legittimare gli strappi effettuati in questi decenni di deregolazione estesa a tutti i settori della vita sociale, politica e istituzionale. Ma c’è di più. Quel che si delinea è, infatti, un ulteriore salto di qualità nella direzione di una democrazia di investitura sostitutiva della democrazia rappresentativa e partecipativa prevista dalla Carta del 1948. Il discrimine tra i due sistemi è netto. Nella democrazia rappresentativa (più o meno integrata da istituti di democrazia diretta) «la sovranità popolare si esercita attraverso l’elezione di organismi rappresentativi, ma anche attraverso la partecipazione a partiti, movimenti, associazioni, che rimangono strumenti indispensabili per dar forma e voce alle istanze avanzate dalla società». Nel modello di democrazia immediata o di investitura, invece, «il potere dei cittadini si esprime e si esaurisce nella scelta di capi di governo, che si relazionano direttamente con masse di individui atomizzati, senza l’intralcio di partiti e altri soggetti collettivi»[51]. In questa sorta di «democrazia del tinello», preconizzata anni fa da S. Rodotà[52], i cittadini cessano di essere protagonisti per diventare spettatori e limitarsi, come in un gioco televisivo, a esprimere periodicamente un voto di gradimento per gli aspiranti leader, fondato non sull’analisi di programmi articolati ma su emozioni indotte da tecniche di pubblicità commerciale. Con il corollario che «chi vince prende tutto» e che il «grande manovratore» così selezionato non deve, poi, essere disturbato, durante il mandato, né da partiti o movimenti né, tantomeno, dagli elettori che lo hanno scelto. L’importante, in tale schema, non è l’entità del consenso ma la vittoria e la conseguente investitura, anche in assenza di maggioranza nel voto.
Questo salto completa la demolizione dei corpi intermedi (a cominciare dai partiti e dai sindacati) condotta negli ultimi anni e vi aggiunge – confermando l’impostazione della legge elettorale Calderoli – una semplificazione elettorale tesa a sganciare la rappresentanza parlamentare dal consenso. C’è un fil rouge tra l’intervenuta riorganizzazione del mondo del lavoro secondo il modello Marchionne (più volte esaltato dal presidente del Consiglio) e il disinteresse – o addirittura il compiacimento – espresso dai più autorevoli dirigenti della maggioranza politica per il calo dei votanti nelle ultime competizioni elettorali. Nelle elezioni regionali del 31 maggio 2015 la partecipazione al voto si è attestata su percentuali di poco superiori al 50 per cento (57,15 in Veneto; 50,68 in Liguria; 55,42 in Umbria; 51,93 in Campania), seguendo un trend iniziato con le consultazioni dell’anno precedente in Calabria e in Emilia Romagna. In quest’ultima regione, storicamente caratterizzata da percentuali di votanti superiori alla media nazionale, ha votato nel 2014 (anno primo dell’era Renzi) il 37 per cento degli aventi diritto e il presidente è stato eletto con il 49 per cento dei votanti (e dunque il 18 per cento del corpo elettorale). Ebbene il commento del presidente del Consiglio Renzi e dei suoi più stretti collaboratori è stato fulminante: l’entità dell’astensione «è un fatto secondario»; l’importante è che «abbiamo vinto»!
L’inedita combinazione tra rafforzamento della maggioranza (rectius, della “minoranza vincente”) e del Governo e riduzione dell’area dei votanti che si delinea nel sistema porta con sé alcune conseguenze: la delegittimazione della rappresentanza, l’esclusione in radice della mediazione e del confronto come regola della democrazia, una dimensione personalistica del potere, un modello di società divisa e disuguale in cui non c’è posto per gli sconfitti. Ciò avrà, all’evidenza, ricadute decisive sulla prima parte della Costituzione, solo apparentemente non toccata dalla “riforma”. Come si può, infatti, seriamente pensare all’inveramento del programma di eguaglianza ed emancipazione delle fasce più deboli scritto nei primi articoli della Carta (e, in particolare, nell’articolo 3) se alle stesse, tradizionalmente minoritarie, viene negata una rappresentanza adeguata?
7. Verso una società disgregata
Questo crescente deficit di partecipazione democratica non è colmato dall’introduzione delle primarie, entrate nella nostra prassi politica da un decennio per surrogare l’avvenuto abbandono del sistema proporzionale[53] e, nel tempo, degenerate in varianti tragicomiche (ultime le “gazebarie” a voto bloccato per il Comune di Roma, il cui solo effetto è stato un surplus di devastazione della già sofferente lingua italiana). La pratica delle primarie nel nostro Paese, priva di regole predeterminate e del tutto facoltativa[54], rappresenta una delle pagine meno edificanti della storia nazionale, con una caduta verticale del numero dei votanti (soprattutto per le consultazioni locali[55]), episodi di malcostume sempre più diffusi[56], polemiche, lacerazioni e spaccature diventate regola (dalla Liguria a Napoli). Ma non si tratta solo di questo. Le primarie infatti, in tutte le loro declinazioni (più o meno aperte oltre i confini delle forze politiche che le promuovono), sono in radice inidonee a promuovere una partecipazione continuativa: al contrario esse incentivano la concezione della politica come delega periodica, seguita dal disinteresse e dalla passività degli elettori fino alla consultazione successiva.
La conclusione è obbligata. Nel sistema che si delinea con la “riforma” costituzionale e l’Italicum si accentua, per i cittadini, la regressione a uno status prossimo a quello di sudditi, sempre più «atomizzati, isolati l’uno dall’altro, dediti essenzialmente alla ricerca del proprio utile»[57]. Con ricadute assai gravi sull’assetto sociale e sulle concrete condizioni di vita delle persone. Si rompe la coesione sociale (soprattutto in contesti di crisi economica) con crescita dei fenomeni di isolamento, insicurezza, conflittualità (privata di canali di composizione e destinata, conseguentemente, a provocare ulteriori strette autoritarie e un connesso inasprimento repressivo[58]). L’esatto contrario del percorso verso una società inclusiva e solidale.
[1] Tale legge, approvata dal Senato in seconda lettura con una maggioranza inferiore ai due terzi dei componenti, è, mentre scrivo, in attesa del referendum confermativo/oppositivo richiesto da un quinto dei componenti la Camera dei deputati ai sensi dell’articolo 138 Costituzione.
[2] Il carattere di progetto politico unitario dei due testi è espressamente rivendicato dai loro artefici e, del resto, il continuum tra sistema costituzionale e legge elettorale è una costante nella nostra vicenda istituzionale a cominciare dalla Costituzione del ’48, nel licenziare la quale l’Assemblea approvò un ordine del giorno in favore del sistema elettorale proporzionale (così evidenziando, pur senza costituzionalizzare alcun sistema, la connessione qui segnalata). Merita sottolineare anche che la stessa contestualità ha caratterizzato, da ultimo, la riforma costituzionale approvata il 16 novembre 2005 (poi non entrata in vigore perché respinta dal referendum del 25-26 giugno 2006) e la legge elettorale 21 dicembre 2005 n. 270, rimasta in vigore, dopo l’esito referendario, fino alla dichiarazione di incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 13 gennaio 2014.
[3] Tale è, per esempio, il ricorso al cosiddetto emendamento “canguro” proposto dal senatore Esposito, sconosciuto nella nostra storia parlamentare e di dubbia legittimità (pur se ammesso dalla presidenza del Senato in un contesto di pesantissima pressione del Governo e della maggioranza parlamentare). L’emendamento, riproducendo l’intera legge ed essendo votato per primo, ha comportato la decadenza di tutti gli altri in quanto relativi a un testo formalmente superato (seppur riprodotto tale e quale).
[4] L’ipotesi può oggi apparire scolastica per il carattere tripolare (o multipolare) che ha assunto il nostro sistema ma in prospettiva non lo è affatto ché, per esempio, nelle elezioni politiche del 2006 l’Unione di Prodi ottenne il 49,72 per cento dei voti e la Casa delle libertà il 49,20 per cento. Superfluo dire che in una materia delicata come quella elettorale sarebbe arduo e fonte di tensioni gravissime sostenere che il legislatore voleva dire (come pure è probabile) una cosa diversa da quella che ha scritto, e cioè che il premio di maggioranza compete solo a uno dei due partiti che «hanno ottenuto almeno il 40 per cento dei voti validi».
[5] Tappe e modalità di questa trasformazione sono state descritte, con significativa (seppur tardiva) autocritica, finanche da uno dei suoi protagonisti: «[Negli anni di governo dell’Ulivo, ndr] il cambiamento della società è continuato secondo le linee precedenti: una crescente disparità nelle distribuzione dei redditi, un dominio assoluto e incontrastato del mercato, un diffuso disprezzo del ruolo dello Stato e dell'uso delle politiche fiscali, una presenza sempre più limitata degli interventi pubblici di carattere sociale […]. Vent’anni fa una mia semplice osservazione che la differenza di remunerazione da uno a quaranta tra il direttore e gli operai di una stessa azienda era eccessiva, aveva causato scandali e discussioni a non finire. Oggi nessuno si stupisce del fatto che questa differenza sia in molti casi da uno a quattrocento» (così R. Prodi, Riformisti, il coraggio di parlare controcorrente, Il Messaggero, 15 agosto 2009).
[6] Di tale curvatura personalistica è espressione anche il cumulo, ormai consolidato, delle funzioni di presidente del Consiglio e di leader del partito di maggioranza (“capo” in senso tecnico nel caso di Berlusconi, segretario politico nel caso di Renzi): fatto pressoché inedito nella nostra vicenda istituzionale fino agli anni Novanta, salvo i casi, discussi e limitati nel tempo, di Amintore Fanfani (che ricoprì contemporaneamente i due incarichi per un periodo di poco più di sette mesi, dal 1 luglio 1958 al 15 febbraio 1959) e di Ciriaco De Mita (che fu insieme segretario della Democrazia cristiana e presidente del Consiglio per circa dieci mesi, dal 13 aprile 1988 al 22 febbraio 1989), mentre Aldo Moro lasciò la segreteria del partito, nel gennaio 1964 subito dopo avere assunto (il 4 dicembre precedente) l’incarico di presidente del Consiglio.
[7] Significativo il giudizio di uno dei pubblici ministeri che condussero negli anni Novanta le indagini di Tangentopoli (considerate, allora, come una fonte di rigenerazione del sistema): «Mani pulite è stata inutile, ma anche controproducente. Inutile perché non mi pare che abbia causato un contenimento della corruzione. Controproducente perché ha confermato il senso di impunità che già prima accompagnava questo tipo di reati» (Gh. Colombo, in G. Barbacetto - P. Gomez - M. Travaglio, Mani pulite. La vera storia, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 678-79).
[8] Sbalorditivo, per esempio, è stato il commento di Matteo Orfini sull’esito delle primarie per il candidato sindaco del Partito democratico a Roma del 6 marzo 2016 (la Repubblica, 7 marzo 2016). A fronte del crollo dei votanti rispetto alle primarie del 2013 (da oltre 100.000 a circa 43.000) il presidente del Pd ha, infatti, dichiarato: «A Roma nel 2013 era andata più gente ai gazebo, ma erano i 100mila delle truppe cammellate dei capibastone poi arrestati, del pantano che portò a Mafia Capitale, delle file di rom», con un giudizio assai poco lusinghiero sulla connotazione etica e sociale della metà degli aderenti o dei simpatizzanti del suo partito, almeno fino a ieri e nella città di Roma…
[9] L’iniziativa del Governo è la prima anomalia della “riforma”, ché la Costituzione, definendo il quadro dei diritti di tutti e le regole delle dialettica politica, è estranea, per definizione, alle attribuzioni e all’iniziativa dell’Esecutivo. A questo principio si attenne rigorosamente, per esempio, in sede di assemblea costituente, l’allora presidente del Consiglio De Gasperi, intervenuto una sola volta nel corso dei lavori (con riferimento al futuro articolo 7 della Carta) e, ostentatamente, dal suo seggio di deputato e non nel ruolo di capo del Governo.
[10] L’attuale Parlamento è stato, infatti, eletto con il sistema previsto dalla legge n. 270 del 2005 (nota come “legge Calderoli”) dichiarata incostituzionale dalla Consulta con la sentenza n. 1 del 2014 per l’«alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica» da esso prodotta, con conseguente violazione del principio della sovranità popolare. È ben vero che, in tale sentenza, la Corte ha precisato – come ovvio, in base ai princìpi generali – che la declaratoria di incostituzionalità non si estende «agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali», dato che esse «sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare», ma ciò nulla toglie alla carenza di legittimazione politica (tanto più ai fini di una modifica della Costituzione) di un Parlamento eletto con un sistema che «altera la rappresentanza democratica». Ciò è confermato, oltre che dai princìpi generali (che attribuiscono agli organi in prorogatio per ragioni di continuità istituzionale la sola ordinaria amministrazione), dalla stessa esemplificazione della Corte circa gli atti (limitati e tassativi) rientranti nelle attribuzioni delle Camere decadute: «la prorogatio dei poteri finché non siano riunite le nuove Camere» (articolo 61 Costituzione) e la convocazione e la riunione delle Camere anche se sciolte per la conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo (articolo 77, secondo comma, Costituzione)».
[11] Nelle due letture del Senato, il 13 ottobre 2015 e il 20 gennaio 2016, il disegno di legge ha avuto, rispettivamente, 178 e 180 voti favorevoli a fronte della maggioranza minima richiesta di 158. Nella votazione finale alla Camera del 12 aprile 2016, poi, i voti favorevoli sono stati 361 a fronte di una maggioranza minima richiesta di 316 (dovendosi, peraltro, tener conto che la coalizione di maggioranza relativa ha ottenuto, nelle elezioni del 24-25 febbraio 2013, ben 340 seggi a fronte di una percentuale di consensi del 29,55 per cento).
[12] Non diversamente sono qualificabili le pressioni sui senatori dissenzienti (e la sostituzione autoritativa, nella Commissione riforme costituzionali del Senato, dei refrattari alla disciplina imposta), il ripetuto ricorso al voto di fiducia su punti fondamentali del disegno di legge (del tutto improprio in materia costituzionale) e gli escamotages (a cominciare dall’“emendamento canguro” proposto dal senatore Cociancich) che hanno determinato la caducazione di migliaia di emendamenti, precludendone la discussione e il voto.
[13] Merita ricordare che la Costituzione del ’48 venne predisposta da un’apposita Assemblea costituente eletta con un sistema rigorosamente proporzionale che tenne i suoi lavori dal giugno 1946 alla fine dell’anno successivo e approvò il testo finale, il 22 dicembre 1947, con 453 voti favorevoli su 515. Il dibattito in sede di Assemblea fu a volte aspro e vide l’emergere di posizioni assai divaricate ma si pervenne, all’esito dei lavori, a una sintesi ampiamente condivisa, attestata, appunto dal voto. Particolarmente significativo è il fatto che anche la rottura dell’unità antifascista e l’estromissione delle sinistre dal Governo, intervenute nel maggio del 1947, non ebbero ricadute sul “patto” costituzionale, come ebbe a dire, nella dichiarazione di voto finale per conto del Partito comunista, l’onorevole Togliatti che usò parole di profondo significato istituzionale: «Noi siamo fuori del Governo ma dentro la Costituzione».
[14] Tale stringato comunicato enuncia con chiarezza il principio che la mancanza di un livello significativo di convergenza delle forze politiche osta, in considerazione del carattere delle regole costituzionali, alla loro riscrittura. Il principio è stato letteralmente capovolto nella attuale vicenda, nella quale alcuni dei nuovi padri costituenti hanno leggiadramente affermato, quasi fosse una motivazione convincente sul piano giuridico e politico, che sarebbe stato meglio giungere a una soluzione condivisa ma che ciò non è stato possibile per la rottura, da parte dell’on. Berlusconi, del cosiddetto «patto del Nazzareno» che stava alla base del progetto di cambiamento.
[15] Intervista a L’indipendente, 25 marzo 1994.
[16] La legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 venne approvata in seconda lettura dalla Camera il 28 febbraio 2001 con 316 voti favorevoli e dal Senato l’8 marzo 2001 con 171 voti favorevoli. In entrambi i casi la richiesta maggioranza assoluta dei componenti le Camere venne superata di poche unità (appena 4 nel voto della Camera bassa). La legge venne poi sottoposta, il 7 ottobre 2001 a referendum confermativo. In esso votò il 34,4 per cento degli aventi diritto e i Si prevalsero con il 64,2 per cento dei voti espressi (contro il 35,8 per cento di No).
[17] Tale legge costituzionale venne approvata dal Senato in seconda lettura il 16 novembre 2005 con appena 12 voti in più della maggioranza assoluta richiesta. Anch’essa venne sottoposta a referendum confermativo il 25-26 giugno 2006. In tale occasione votò il 52,5 per cento degli aventi diritto e la legge di revisione costituzionale venne respinta con il 61,3 per cento di voti contrari e il 38,7 per cento di favorevoli.
[18] A denunciarlo fu in allora, nella seduta del Senato di martedì 15 novembre 2005, un eminente senatore che, nel deplorare la circostanza che la riforma costituzionale fosse stata approvata dalla sola maggioranza, affermò: «il contrasto che ha preso corpo in Parlamento da due anni a questa parte […] non è tra passato e futuro, tra conservazione e innovazione, come si vorrebbe far credere, ma tra due antitetiche visioni della riforma dell’ordinamento della Repubblica: la prima, dominata da una logica di estrema personalizzazione della politica e del potere e da un deteriore compromesso tra calcoli di parte, a prezzo di una disarticolazione del tessuto istituzionale; la seconda, rispondente a un’idea di coerente ed efficace riassetto dei poteri e degli equilibri istituzionali nel rispetto di fondamentali principi e valori democratici». Quel senatore era – ironia della sorte dato il suo ruolo di padre nobile della odierna riforma ‒ Giorgio Napolitano.
[19] Lo confermano i comportamenti e le dichiarazioni degli artefici della riforma. Esemplari in tal senso sono le parole della ministra delle riforme istituzionali sui «veri e finti partigiani» e sull’assimilazione degli oppositori della riforma ai fascisti di Casa Pound, espressione di una cultura della divisione e dell’intolleranza ben più che incidente di percorso dovuto a una (pur evidente) inesperienza e incultura politica.
[20] È questa abnormità il tratto peculiare del sistema previsto dall’Italicum, per nulla necessitato dall’indicazione in senso maggioritario emersa dal referendum del 18 aprile 1993 (posto che i sistemi maggioritari sono numerosi e, per lo più, dotati di elementi di riequilibrio, ad essi interni o esterni, tali da consentire una significativa rappresentatività degli organi con essi eletti).
[21] Della legge Calderoli (elegantemente definita dal suo stesso artefice «una porcata» e universalmente criticata, prima ancora di essere dichiarata incostituzionale) l’Italicum costituisce copia conforme, salvo alcuni dettagli concernenti l’introduzione, al fine della attribuzione del premio di maggioranza, del ballottaggio tra le liste più votate, nel caso in cui nessuna abbia raggiunto il 40 per cento dei consensi, e la riduzione (in verità assai limitata) della predeterminazione degli eletti all’interno di ciascuna lista. Quanto ai precedenti remoti, i fautori del nuovo sistema mal tollerano i riferimenti alle precedenti leggi maggioritarie introdotte nel nostro sistema ma, a costo di urtare la loro suscettibilità, non si può omettere il richiamo alla legge Acerbo del 1923 e alla cosiddetta “legge truffa” del 1953, vivacemente criticate dalle sinistre (e non da esse soltanto) e tuttavia meno eversive dell’Italicum perché, almeno, subordinavano il pur improprio premio di maggioranza a quorum prestabiliti (rispettivamente del 25 e del 50 per cento dei voti espressi).
[22] Sul piano del diritto comparato i soli sistemi assimilabili all’Italicum sono, a detta degli stessi sostenitori della riforma, quelli di San Marino e dell’Armenia (all’evidenza incomparabili – per dimensione, storia e caratteri geopolitici dei relativi Stati – con il sistema italiano). Per il resto ci sono innegabilmente casi (seppur limitati) di attribuzione al partito più votato di un premio, ma mai tali da attribuire automaticamente la maggioranza dei seggi a una lista rimasta al di sotto del 50 per cento dei voti (magari di molti punti). Tra gli esempi più noti e a noi vicini c’è quello della Grecia, dove il partito più votato riceve un premio di 50 parlamentari (assai significativo ma non tale da attribuirgli in modo automatico la maggioranza assoluta dei seggi, come hanno dimostrato, per esempio, le ultime elezioni politiche).
[23] Basti considerare che – come si è già accennato – nelle elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013, svoltesi con il sistema previsto dalla legge Calderoli (antesignana dell’Italicum), la coalizione di centro sinistra ottenne la maggioranza assoluta dei seggi (340, appunto) a fronte di un consenso del 29,55 per cento dei votanti (mentre la coalizione di centro destra ebbe il 29,18 per cento dei voti e appena 124 seggi).
[24] L’espropriazione degli elettori del diritto ad essere fedelmente rappresentati si completa, nell’Italicum, con la previsione dell’elezione automatica dei capilista dei partiti che ottengono uno o più seggi e della possibilità di candidature plurime come capilista (con conseguente “pilotaggio” dei subentri grazie al meccanismo della scelta del collegio di elezione).
[25] Tale stortura non è in alcun modo corretta dal ballottaggio previsto nella nuova legge elettorale. Il ballottaggio, infatti, è un istituto storicamente utilizzato per la scelta dei singoli parlamentari (per lo più in collegi uninominali) o di cariche istituzionali disgiunte dall’elezione degli organi di rappresentanza (come accade, per esempio, per il presidente della Repubblica in Francia e in Austria). Merita segnalare, al riguardo, che il ballottaggio (così come l’elezione in unico turno di chi ha ottenuto più voti) in collegi plurinominali, ancorché espressione classica dei sistemi maggioritari, realizza per lo più un grado significativo di rappresentatività in considerazione della non omogeneità politica dei territori (che può portare all’elezione anche di esponenti di partiti molto deboli sul piano nazionale ma forti localmente).
[26] Chiarissime le parole della Corte, che conviene riportare testualmente: «Le disposizioni in esame non impongono il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti; e ad essa assegnano automaticamente un numero anche molto elevato di seggi, tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Risulta, pertanto, palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di «una caratterizzazione tipica ed infungibile» (sentenza n. 106 del 2002), fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del Governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.): ciò che peraltro distingue il Parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali. Il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza prefigurato dalle norme censurate, inserite nel sistema proporzionale introdotto con la legge n. 270 del 2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è pertanto tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.). Esso, infatti, pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sentenza n. 43 del 1961)».
[27] L’aggettivazione è tratta dal documento critico nei confronti della riforma costituzionale diffuso il 22 aprile 2016 da 56 costituzionalisti (primo firmatario Francesco Amirante).
[28] Il bicameralismo, in particolare nella forma cosiddetta “perfetta” (che prevede una identità di funzioni delle due Camere), non è affatto coessenziale ai sistemi democratici, molti dei quali si fondano sul monocameralismo o su un bicameralismo asimmetrico (nel quale le due Camere hanno sistemi di elezione e competenze diversificate). Il problema rilevante in chiave democratica non è, peraltro, la forma organizzativa prescelta ma il livello di effettiva rappresentatività che essa presenta.
[29] È questo, all’evidenza, il dato centrale della riforma costituzionale sul punto ché l’attribuzione del ruolo politico prevalente (se non esclusivo) a una sola Camera impone l’accrescimento (e non la contrazione) della sua rappresentatività.
[30] Il nucleo forte di questi poteri è il meccanismo del voto a data fissa sui disegni di legge d’iniziativa governativa. Il Governo infatti ‒ fatta eccezione per le leggi bicamerali e per quelle in materia elettorale, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, di concessione di amnistia e di indulto, di attuazione dell’equilibrio di bilancio e in tema di contenuto delle legge di bilancio ‒ «può chiedere alla Camera di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di 70 giorni dalla deliberazione» (articolo 72, comma 4). Si istituisce così una sorta di corsia preferenziale che, di fatto, sposta la regia dell’attività legislativo in capo al Governo, rendendolo padrone dei lavori parlamentari. Superfluo dire che l’attribuzione di una considerazione particolare ai disegni di legge di origine governativa (agevolmente realizzabile con un’appropriata modifica dei regolamenti parlamentari) è opportuna e condivisibile. Ma essa è cosa ben diversa da una costituzionalizzazione rigida e predeterminata, tale da strozzare, potenzialmente, ogni serio dibattito su riforme complesse e articolate, insuscettibili di un esame adeguato nel breve termine di 70 giorni. Né vale a compensare la corsia preferenziale costituzionalmente attribuita al Governo la riduzione – prevista nel nuovo testo costituzionale – dell’area della decretazione di urgenza di cui, nella situazione modificata, non ci sarà più bisogno….
[31] Il numero dei senatori è ridotto dagli attuali 315 a 100. Di essi 74 sono consiglieri regionali, 21 sindaci eletti dai consigli regionali (uno per ciascun consiglio fra tutti i sindaci dei Comuni della Regione) e 5 nominati dal Presidente della Repubblica tra i cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico.
[32] I senatori, eccettuati quelli di nomina presidenziale, sono eletti dai Consigli regionali «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi», come disposto dall’articolo 57, comma 5, con una formulazione ambigua e oscura che attribuisce di fatto al futuro legislatore ordinario una discrezionalità priva di limiti e indicazioni.
[33] A proposito della elezione del presidente della Repubblica il nuovo articolo 83 prevede un quorum iniziale dei due terzi dell’assemblea, che si riduce a tre quinti della stessa al quarto scrutinio. Il quorum previsto dal quarto al sesto scrutinio (solo apparentemente più rigoroso di quello attuale, considerata la diversità del corpo elettorale) lascia, peraltro, il posto, a partire dal settimo scrutinio, ai tre quinti dei votanti, così aprendo la strada a scenari inquietanti di elezione del Capo dello Stato con un consenso anche inferiore alla maggioranza semplice dell’assemblea.
[34] Le funzioni principali attribuite al Senato sono (oltre a quelle appena ricordate) la compartecipazione a talune ipotesi di legislazione ordinaria e costituzionale, l’elezione di due giudici della Corte costituzionale, il concorso nelle funzioni di raccordo fra lo Stato e gli enti territoriali, alcuni inediti compiti in tema di valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni, alcune funzioni legate all’integrazione comunitaria.
[35] L’articolo 1, lettera g,della 6 maggio 2015 n. 52 prevede, in particolare che «sono proclamati eletti, fino a concorrenza dei seggi che spettano a ciascuna lista in ogni circoscrizione, dapprima i capolista nei collegi, quindi i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze». Ciò significa che 100 parlamentari della lista più votata e quasi tutti i parlamentari delle altre liste saranno designati dalle segreterie dei relativi partiti e che, essendoci la possibilità di candidature come capolista della stessa persona in dieci collegi, un’ulteriore forzatura rispetto alle scelte degli elettori deriverà dalle opzioni di chi è stato eletto in una pluralità di collegi.
[36] Non bastano a compensare questa triplicazione delle firme necessarie la previsione del nuovo articolo 71, comma 2, parte 2, secondo cui «la discussione e la deliberazione sulle proposte di legge di iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari» (formula di assoluta indeterminatezza che conferma semplicemente l’ovvio e cioè che l’iter di tali proposte sarà regolato dalla legge) e la previsione, nel terzo comma dello stesso articolo, di «referendum popolari propositivi e di indirizzo, nonché di altre forme di consultazione», che costituisce nulla più di un “buon proposito”, priva com’è di qualunque ulteriore indicazione e demandata a una futura nuova legge costituzionale.
[37] L’espressione è tratta da M. Revelli, Le due destre, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p. 29.
[38] Quando si esce dagli slogan si può incorrere in eccessi un po’ grotteschi, come la quantificazione del valore economico della riforma costituzionale (sic!) determinato dalla ineffabile Maria Elena Boschi in «qualcosa come otto miliardi da spendere» (Corriere della Sera, 17 settembre 2015) o in imbarazzanti non sense, come l’appello della stessa ministra alla conferma referendaria delle modifiche costituzionali in cui si legge, tra l’altro, che «non sarà un voto contro, quello al referendum di ottobre, ma per, aperto al cambiamento, se solo saremo in grado di rendere il meno accidentato possibile questo percorso di decisione, di definizione di Lebenschancen per dirla con Dahrendorf, questa assunzione di responsabilità da parte dei cittadini che siamo» (Corriere della Sera, 5 marzo 2016).
[39] L’atteggiamento di Craxi e del suo entourage è forse il più vicino a quello del renzismo: sarebbe certo piaciuta al nostro presidente del Consiglio l’infastidita evocazione del «catechismo dei nonni» fatta da Claudio Martelli a fronte del richiamo di Bobbio ai princìpi del socialismo!
[40] Grottesco – e insieme illuminante – è il fatto che un cambiamento nella direzione della riforma costituzionale ed elettorale in esame sia richiesto a gran voce proprio da quei poteri sovranazionali. Si legge infatti, per esempio, in un documento della grande banca d'affari americana J. P. Morgan (The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013) che «Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un'ulteriore integrazione della regione. [...] Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; […] diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi. [...] Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l'opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche».
[41] A rinforzo di questo diversivo si usa spesso il leitmotiv che la necessità del cambiamento della Costituzione è dimostrata dal fatto che da trent’anni si susseguono, senza costrutto, Commissioni parlamentari per le riforme istituzionali: circostanza che dimostra, casomai, la mancanza di un progetto condiviso di cambiamento (anche a tacere del fatto che ci sono Costituzioni, come quelle degli Stati Uniti d’America, in vigore da oltre due secoli senza che ci siano progetti concreti di modificarle).
[42] Facile aggiungere che la formazione di una diversa classe politica richiede un’azione di profondo rinnovamento culturale, professionale ed etico che non conosce scorciatoie e non può essere sostituito dal cambiamento delle regole che presiedono al funzionamento delle istituzioni. Piuttosto quel rinnovamento potrebbe essere agevolato e favorito da interventi normativi (soprattutto di legislazione ordinaria) che, prevedendo obblighi e incompatibilità adeguate, aiutino a restituire la politica a chi ha a cuore la cosa pubblica e non personali interessi presenti e futuri.
[43] Non è inutile ricordare che proprio la Germania, dove vige un sistema elettorale di stampo prevalentemente proporzionale, è da decenni il paese europeo con la maggior stabilità di governo.
[44] È a dir poco singolare che la denuncia della impossibilità di legiferare si accompagni spesso, con sprezzo di ogni coerenza, a quella dell’eccesso di leggi nel nostro Paese … .
[45] Sono al riguardo ben note le difficoltà incontrate dal presidente Obama, per l’opposizione del Congresso, nella realizzazione di riforme fondamentali (come quella sanitaria e quella sul controllo della vendita di armi) o nella nomina di giudici della Corte suprema, ma ciò è considerato negli Stati Uniti (indipendentemente dalle valutazioni di merito sulle singole vicende) un momento di necessaria dialettica tra i poteri che nessuno propone di limitare.
[46] Spesso, a dimostrazione dell’insostenibilità della situazione italiana, si cita il fatto che il nostro Paese ha visto, in 70 anni di Repubblica, il succedersi di ben 63 Governi. Tale denuncia dell’affannoso (e non commendevole) succedersi di Governi tace peraltro una circostanza non eliminabile con meccanismi elettorali. I cambiamenti di maggioranza sono stati, infatti, assai più ridotti e del tutto fisiologici mentre gli avvicendamenti alla guida del Governo sono stati assai spesso determinati da ragioni personalistiche e dal ribaltamento dei rapporti di forza interni al partito di maggioranza: in questa prospettiva la sostituzione, avventa il 22 gennaio 2014, del premier Letta con Matteo Renzi non appare poi così diversa da quella, risalente a 55 anni prima, del presidente del Consiglio Fanfani con Antonio Segni all’indomani della riunione della “Domus Mariae” del gennaio 1959 … .
[47] La trasmigrazione di parlamentari da una forza politica all’altra ha assunto, nella legislatura in corso, dimensioni di massa fino a diventare una vera e propria transumanza. Nella sola Camera (dove pure non c’erano problemi di maggioranza, avendo la coalizione di centrosinistra ottenuto, grazie al premio di maggioranza, 340 seggi su 617) hanno “cambiato casacca” ben 150 deputati, pari a poco meno del 25 per cento.
[48] La curvatura maggioritaria dei sistemi elettorali di Comuni e Regioni ha affiancato e talora preceduto quella relativa al sistema previsto per le Camere. Analogo il segno politico resta, peraltro, la evidente diversità di effetti, dovuta al diverso ruolo delle assemblee territoriali e di quelle politiche (come rilevato anche dalla Corte costituzionale nella più volte citata sentenza n. 1/2014).
[49] Secondo uno studio recente, l’impatto della riforma è stimabile tra l’8 e il 20 per cento dell’attuale bilancio del Senato (che nel 2016 ammonta a 540 milioni), con un risparmio di spesa oscillante tra i 50 e 100 milioni annui. E ciò perché la struttura del Senato, con il relativo apparato burocratico ad essa connesso, è destinata a sopravvivere.
[50] Le cariche pubbliche elettive devono prevedere un giusto compenso, ad evitare che siano appannaggio esclusivo di esponenti delle classi abbienti (che non hanno necessità di mantenersi con il proprio lavoro) ma già nel 1871 K. Marx auspicava che «dai membri della Comune in giù», ogni servizio pubblico sia compiuto «per salari da operai», annullando i diritti acquisiti e le alte indennità dei dignitari statali (K. Marx, La guerra civile in Francia, richiamato in V. Pazé, Cittadini senza politica, cit., p. 70).
[51] Entrambe le citazioni sono tratte da V. Pazé, Cittadini senza politica, cit., p. 11.
[52] S. Rodotà, La sovranità nel tempo della tecno politica. Democrazia elettronica e democrazia rappresentativa, in Politica del diritto, n. 4/1999, p. 582.
[53] Le primarie hanno fatto il loro ingresso in Italia, su scala nazionale, il 16 ottobre del 2005 per la designazione del candidato alla presidenza del Consiglio del centro sinistra (o, più esattamente, per l’incoronazione a leader di Romano Prodi, sin dall’inizio pacifica per l’inesistenza di candidati alternativi di peso). A quelle primarie partecipò un ingente numero di elettori (4 milioni 311 mila), che non ebbe seguito nelle occasioni successive.
[54] Significativamente tale pratica viene utilizzata o elusa, anche dai partiti o movimenti che se ne sono fatti alfieri, a seconda della convenienza politica. A Torino, per esempio, i candidati sindaci del Pd e del Movimento 5Stelle per le elezioni dell’estate 2016 sono stati scelti entrambi senza farvi ricorso.
[55] Nelle primarie del 2016 per la designazione dei candidati sindaci del centrosinistra a Roma, Napoli e Milano hanno votato rispettivamente – secondo i dati riportati dalla stampa – 43mila, 30mila e 60mila persone (cioè percentuali, al di là delle dichiarazioni di facciata, assai insoddisfacenti).
[56] Non è inutile ricordare che le primarie del centrosinistra del 2011 per la designazione del candidato sindaco di Napoli vennero annullate per l’accertata esistenza di brogli.
[57] V. Pazé, Cittadini senza politica, cit., p. 9.
[58] È una deriva già in atto, in questo primo scorcio di millennio, in parallelo con le intervenute trasformazioni istituzionali, con casi che si potrebbero definire di scuola (a cominciare dalla vicenda della gestione della pluriennale opposizione alla costruzione del Tav in Val Susa).