Magistratura democratica

Brevi considerazioni sugli organi di garanzia nella riforma costituzionale Renzi-Boschi

di Francesco Rimoli

Il testo rappresenta i rischi cui potrebbero essere esposti gli organi di garanzia a seguito della revisione costituzionale, soffermandosi sulle modalità di composizione della Corte costituzionale e sulla elezione del Capo dello Stato.

È altresì valutato criticamente l’introduzione del controllo preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali.

Coglie infine la tensione tra difesa dei valori di una democrazia discorsiva-deliberativa e le esigenze di celerità e semplificazione nell’assunzione di decisioni imposte dalla finanziariarizzazione dell’economia.

1. Il disegno generale

Non è possibile – e neanche opportuno, sul piano dell’analisi tecnica – dare un giudizio complessivo univoco su una revisione costituzionale profonda e complessa come quella attualmente in itinere. Certo, letta nel suo insieme, la riforma Renzi-Boschi sembra ridurre gli spazi della democrazia, poiché varia in tal senso i modi del confronto: ma è soprattutto il congiungersi del “superamento” del bicameralismo paritario, perseguito tramite un sostanziale depotenziamento del Senato, con la forte distorsione maggioritaria consentita in certe condizioni (non improbabili) dalla nuova legge elettorale per la Camera dei deputati (legge n.52 del 2015, il cd Italicum), a imporre un mutamento che investe l’intero disegno costituzionale. La riforma Renzi-Boschi, inoltre, tende a ridurre i tempi della democrazia, poiché ne accelera le procedure, semplifica alcuni passaggi dell’iter legislativo, rende più debole l’azione delle opposizioni in Parlamento, indebolisce le Regioni come “contropotere” dello Stato, e rafforza dunque nel complesso l’Esecutivo centrale e la sua maggioranza (anche con strumenti nuovi, come la richiesta di priorità e il voto a data certa di cui al nuovo art.72, co.7 Cost.)[1], nel programmatico tentativo di rendere il meccanismo decisionale complessivo più “efficiente”. E d’altro canto non compensa in alcun modo i nuovi poteri reali di Governo e maggioranza con adeguate modifiche di sistema: così, per esempio, nel nuovo comma inserito nell’art.64 Cost., in relazione ai regolamenti parlamentari, si dice che questi «garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari», e che quello della Camera «disciplina lo statuto delle opposizioni», ma non si modifica la maggioranza necessaria per approvarli (che resta quella assoluta dei componenti della singola Camera, già diventata peraltro insufficiente con una legislazione elettorale fortemente distorsiva e produttiva di una maggioranza precostituita, com’era quella dettata in origine dalla legge n.270 del 2005). Ancora, per fare un altro esempio, il nuovo art.82, anziché cogliere l’occasione della riforma per rafforzare il ruolo delle opposizioni nell’istituzione di Commissioni d’inchiesta (scelta che sarebbe tanto più necessaria dato l’accresciuto ruolo dell’Esecutivo), conserva il criterio di proporzionalità nella composizione delle stesse e mantiene nel complesso una configurazione dell’istituto come strumento di maggioranza, affatto incongruo per svolgere una reale funzione ispettiva, secondo quanto era peraltro stato rilevato da lungo tempo dalla dottrina già nell’assetto originario della Carta[2]; in più, ora la riforma limita la possibilità per il Senato di disporre inchieste alle sole «materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali». Dunque, un certo squilibrio tra i poteri, e soprattutto sull’asse maggioranza/minoranze, è manifesto. Inoltre, lo scopo dichiarato della revisione in atto (a parte quello, alquanto demagogico, del risparmio sui costi della politica, peraltro decisamente esiguo rispetto al bilancio dello Stato) è quello dell’aumento di efficienza complessiva del sistema. Però, in proposito, c’è da rilevare che, moltiplicando i tipi di procedimento legislativo nel nuovo modello di bicameralismo asimmetrico, rimescolando ancora la sempre problematica distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni (certo semplificata in senso centralistico, ma con diversi punti oscuri), e per di più esprimendosi con una tecnica normativa foriera di molti dubbi interpretativi,la riforma è potenzialmente produttiva di un contenzioso che ben presto investirebbe la Corte costituzionale[3], e comunque pare introdurre nell’insieme non pochi fattori di complicazione nuovi al posto di quelli che vuole eliminare. Dunque, a dispetto delle intenzioni manifestate, questa riforma potrebbe infine rendere addirittura meno efficiente, probabilmente anche dal punto di vista funzionale, l’intero sistema. Ma certamente lo renderebbe tale soprattutto da quello dell’integrazione democratica, giacché l’efficienza in democrazia non è quella meramente quantitativa, misurabile in termini numerici di “prodotti” e di tempi, ma soprattutto quella qualitativa, da valutare alla luce della capacità di inclusione e consenso che le scelte politiche, gli outputs del sistema, dimostrano, e che sono infine il presupposto per generare effettività dell’intero Ordinamento. Salvo quanto si dirà in conclusione, in ordine però a tutt’altra prospettiva di lettura, è questo il dubbio maggiore che il nuovo testo ispira.

Comunque, dal punto di vista del più circoscritto oggetto di analisi di queste note, ciò renderà più arduo, ma tanto più prezioso, il compito degli organi chiamati a garantire il rispetto degli assetti fondamentali della Carta repubblicana, ossia del paradigma di democrazia rappresentativa, liberale e pluralista voluto dal Costituente del 1947.In altre parole, dinanzi a un blocco di maggioranza probabilmente artefatto, quasi certamente rappresentativo di una quota non maggioritaria dell’elettorato (quale sarà quello “costruito” dall’Italicum nell’unica Camera che conterà davvero) e nondimeno assai coeso (almeno potenzialmente: perché in Italia non si sa mai, e perché le leggi elettorali condizionano le forze politiche per i comportamenti precedenti al voto, ma non per quelli successivi, come l’esperienza ha ampiamente dimostrato), il ruolo di garanzia, svolto nelle forme peculiari di ciascun organo, dalla Corte costituzionale e dal Capo dello Stato dovrà essere inteso, ancor più di quanto sia accaduto finora, come un solido (e forse estremo) baluardo verso le sempre possibili tentazioni autoritarie che l’Esecutivo e il suo vertice, corroborati da una Camera assai probabilmente molto accondiscendente ai loro voleri, potrebbero eventualmente nutrire. Perché nel Paese di Machiavelli (e di Mussolini) non è mai stato saggio confidare nel self-restraint dei politici. Ma anche perché quando si costruisce un carro armato non si può sapere davvero chi sarà a guidarlo, se a salirci sarà cioè un convinto democratico o un potenziale dittatore. E allora, meglio sarebbe immaginarsi non solo come chi si troverà dietro il cannone, ma anche (e forse anzitutto) come chi potrebbe infine trovarsi, suo malgrado, davanti alla sua bocca. In altre parole, pensarsi non come vincitori potenziali, ma come potenziali sconfitti, è regola di saggezza per chi scrive (e per chi approva in Parlamento, o con un referendum) costituzioni e leggi elettorali. Anche questa consapevolezza, che fu propria dei Costituenti, ha reso fin qui possibile la nostra democrazia. Se però la regola non è così sentita prima, ancor maggiore diventa, dopo, l’importanza degli organi di garanzia. E dato che la riforma incide anche su questi, sarà opportuno valutare se le modifiche introdotte siano tali da mutarne infine il ruolo.

2. La Corte costituzionale: a) le competenze

La Corte costituzionale è il primo degli organi cui si pensa parlando di funzione di garanzia, ed è in apparenza poco toccata dalla riforma, che sembra concentrarsi piuttosto sul Parlamento, sull’assetto Stato-Regioni, sulle Province e sul Cnel (in questi due ultimi casi, per sancirne un’opportuna soppressione, salvo quanto si dirà poi in ordine alle prime). Ma spesso l’apparenza, com’è noto, inganna. Perché almeno due sono i profili per cui si introducono modifiche rilevanti: in relazione alle competenze e in relazione alla composizione della Corte. Quanto alle prime, l’art.13 co.2 della legge di revisione introduce nell’art.134 Cost. un secondo comma, per aggiungere a quelle già esistenti una nuova, importante competenza dell’organo, ossia il giudizio sulla «legittimità costituzionale delle leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica ai sensi dell’art.73, secondo comma»; e il primo comma dello stesso art.13, coerentemente, incide sull’art.73 Cost., modificandone il testo e dettando un nuovo iter relativamente alla fase integrativa dell’efficacia nel procedimento legislativo. Fermo restando, ovviamente, che le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dalla loro approvazione, si statuisce che «le leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo della Corte costituzionale, su ricorso motivato presentato da almeno un quarto dei componenti della Camera dei deputati o da almeno un terzo dei componenti del Senato della Repubblica entro dieci giorni dall’approvazione della legge, prima dei quali la legge non può essere promulgata». Il termine dato poi alla Corte per pronunciarsi è di trenta giorni, e fino ad allora «resta sospeso il termine per la promulgazione della legge»; ovviamente, se poi la pronuncia è nel senso dell’incostituzionalità, «la legge non può essere promulgata». Competenza nuova, dunque, e non da poco: la ragione contingente di un simile intervento, che (un po’ approssimativamente) imita l’esempio francese, nel quale al Conseil constitutionnel è tradizionalmente affidato (seppur con ben altra puntualità normativa) il controllo di costituzionalità di alcune leggi in via preventiva (e solo dal 2008 anche uno di tipo successivo, filtrato però dalla Corte di cassazione e dal Consiglio di Stato)[4], è nota. Si vuole evitare che una pronuncia della Corte costituzionale su una legge elettorale già vigente finisca con il creare una normativa di risulta conformata per via giurisprudenziale, e soprattutto con il provocare una delegittimazione di fatto del Parlamento in carica, come è accaduto (peraltro senza le conseguenze che sarebbe stato logico aspettarsi, essendo quel Parlamento ancora in piena attività, e addirittura autore di un’ampia riforma costituzionale) con la notissima sentenza n.1 del 2014, oggetto di numerosissimi commenti in dottrina sia per il modo di accesso alla Corte esperito nella fattispecie, sia per la portata effettiva dei contenuti della decisione[5].

Naturalmente, lo strumento è per sé inadeguato rispetto all’obiettivo, poiché mentre una dichiarazione di incostituzionalità impedirebbe la promulgazione della legge, attualmente nessuna norma, nel nostro Ordinamento, impedirebbe la riproposizione, dopo la promulgazione, di una questione di legittimità inerente a quella stessa legge nella quale la Corte non aveva (in un certo momento e con un certo collegio) ravvisato motivi di illegittimità. Dunque, dal punto di vista tecnico, la soluzione è debole, e può giustificarsi solo per quel tanto di “valore aggiunto” che una pronuncia favorevole del giudice costituzionale, in sede di controllo preventivo, potrebbe apportare alla nuova legge[6]. Ma si tratta di un fattore essenzialmente politico-istituzionale, che si andrebbe probabilmente attenuando con il passare del tempo dalla pronuncia, e che sarebbe inoltre legato all’ampiezza del ventaglio dei vizi dedotti nella motivazione che la stessa norma costituzionale impone per il ricorso in sede preventiva. Laddove cioè si sollevassero questioni inerenti ad altri vizi non rilevati nella fase suddetta, ovvero si ponesse la questione prospettandola in modo nuovo, come potrebbe la Corte optare per l’inammissibilità, o sentirsi più di tanto legata alla pronuncia resa in precedenza?

Vi sono però altri profili problematici nel controllo così costruito: il primo è quello della modalità di accesso, e anche qui l’innovazione intenderebbe forse superare le dispute sul sostanziale aggiramento dei limiti previsti dalla legislazione attuale in occasione del procedimento che ha dato origine alla sent. n.1/14, allorché si parlò da alcuni commentatori di una sorta di fictio litis apprestata onde aprire le porte della Corte, introduttiva di una modalità di accesso surrettizia, ulteriore rispetto a quelle consentite dalla legge n. 87 del 1953, e in sé discutibile seppur meritoriamente rivolta al superamento di una delle “zone d’ombra” del giudizio costituzionale[7]. Non è qui il caso di entrare nei complessi profili legati, in quella fattispecie, alla distinzione tra il petitum del processo principale e quello del processo costituzionale, al fine di valutare la complessiva ammissibilità dell’azione di accertamento della portata del diritto di voto sottesa alla questione proposta al giudice costituzionale dal giudice rimettente (nella fattispecie, la Corte di cassazione)[8]. Ciò che interessa ai fini del nostro discorso è il fatto che, non essendo il controllo di costituzionalità, in questo ambito specifico, normativamente escluso dopo l’entrata in vigore della legge (nonostante questa sia stata valutata positivamente in via preventiva dalla Corte), anche i problemi inerenti al modo di accesso, almeno per quest’ultima ipotesi, rimangono intatti. Dunque una “zona franca” in materia, almeno per chi non voglia ammettere la sostanziale legittimità del modo seguito per il procedimento che ha originato la sentenza n.1/14[9], rimane.

Vi è poi un’altra perplessità, più sistematica. Uno dei dubbi di fondo sull’introduzione di questa nuova competenza della Corte è ovviamente quello inerente al nuovo ruolo che tale organo assumerebbe partecipando, in caso di pronuncia in via preventiva, alla formazione di queste leggi[10]. La riforma invero costruisce il ricorso come eventuale, ossia come strumento riconosciuto in sostanza a gruppi di minoranza per tentare di arrestare l’iter conclusivo della legge elettorale, rilevandone l’incostituzionalità: ma ciò coinvolge ancor di più la Corte nella dinamica contingente della decisione politica sul meccanismo elettorale, ossia su scelte legislative che sono di fatto uno dei pilastri dell’intero sistema politico. Non solo, in altre parole, la si costringe a intervenire in un procedimento ancora in fieri, pronunciandosi, sia pure sui soli motivi attinenti alla legittimità costituzionale – il che tuttavia non esclude affatto, pragmaticamente, scivolamenti sul merito –, su una legge estremamente delicata per l’assetto effettivo del Paese, ma lo si fa connotandone in certo modo il giudizio come una sorta di adesione o rifiuto rispetto alle ragioni addotte da una parte politica. Meglio sarebbe stato, forse, elaborare un giudizio pensato in forma necessaria, ossia come passaggio ordinario del procedimento: pur includendosi così apertis verbis il Tribunale costituzionale nell’iter legislativo specifico, e dunque rendendolo direttamente partecipe (per questo tipo di leggi) della stessa funzione legislativa, una simile configurazione sarebbe stata meno compromettente dal punto di vista della definizione del ruolo della Corte.

Come detto, peraltro, e senza voler qui dare un giudizio complessivo sulla riforma e sulla sua opportunità sistemica (che, come si dirà oltre, dovrebbe essere valutata anche nel contesto evolutivo dei processi socioeconomici globali), ciò che maggiormente inquieta è la connessione del nuovo bicameralismo, fortemente asimmetrico, con una legge elettorale come l’Italicum, che consentirà anche a forze politiche che conseguano un risultato limitato in termini percentuali di conquistare un’ampia maggioranza di seggi nella Camera in cui sarà concentrata la gran parte dei poteri (fiduciario, di controllo, di inchiesta su materie di “pubblico interesse” di portata nazionale). Ora, l’art.39 del testo approvato il 12 aprile, dettando le disposizioni transitorie, dispone al comma 11 che «in sede di prima applicazione, nella legislatura in corso alla data di entrata in vigore» della nuova legge costituzionale, su ricorso motivato di almeno un quarto dei deputati o un terzo dei senatori, presentato entro dieci giorni dalla data suddetta (o da quella di entrata in vigore della legge per il Senato di cui al nuovo art.57, co. 6, Cost.), «le leggi promulgate nella medesima legislatura che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte al giudizio di legittimità della Corte costituzionale», che si pronuncia entro trenta giorni. Dunque, lo stesso Italicum, entro il termine indicato, potrebbe essere rimesso secondo il procedimento in questione alla Corte, per valutarne la conformità ai principi posti con la sentenza n.1/14 (peraltro, com’è noto, la Corte è già stata investita della relativa questione con le modalità di accesso consuete)[11]; perché ove la legge elettorale in oggetto, che esplicherà i suoi effetti dal prossimo luglio, fosse dichiarata, almeno nella parte inerente al premio di maggioranza, incostituzionale, probabilmente l’intero disegno complessivo della “Grande Riforma” (che, valga il dirlo, poggia politicamente anche su un ulteriore pilastro, ossia la legge n.220 del 2015, di riforma della radiotelevisione pubblica) sarebbe fortemente scosso, e forse anche la valutazione critica della revisione costituzionale in esame potrebbe essere, in tale ipotesi, diversa.

Nondimeno, ferma restando la situazione attuale, l’inserimento di questa nuova competenza, in sé come detto inidonea a raggiungere l’obiettivoper cui appare pensata, potrebbe tuttavia rivelarsi, nella prospettiva ora detta, assai prezioso, in una sorta di inopinata eterogenesi dei fini: in altri termini, dinanzi all’ipotesi di una deriva autoritaria dell’Ordinamento, che – la storia insegna – passa sovente anche per una legislazione elettorale resa gradualmente sempre più disrappresentativa[12], la possibilità per la Corte di intervenire prima della promulgazione della legge, e di costituire dunque un passaggio (non obbligatorio, ma quasi certamente richiesto) per l’eventuale ulteriore distorsione della rappresentanza, diventa un fattore di garanzia non trascurabile nello scenario costituzionale che si prospetta a riforma acquisita. Non può ignorarsi, infatti, che, una volta entrata in vigore la riforma[13], il meccanismo disegnato da questa è tale per cui, essendo la legge elettorale della Camera (a differenza di quella per il Senato) di tipo monocamerale, anche laddove l’Italicum, o una futura legge elettorale,fossero dichiarati incostituzionali (in tutto o in parte, al termine di un giudizio in via incidentale a seguito di un’azione di accertamento relativa al diritto di voto come quella esperita per la sentenza n.1/14, a mio parere sempre possibile, e salvo restando quanto stabilito dal citato art.39 co. 11, applicabile però alla sola legislatura ivi indicata, ovvero, nel caso di una nuova legge, anche in via preventiva), e pur dinanzi a una normativa di risulta che dovrebbe essere comunque autoapplicativa, non sarebbe difficile, per una Camera fondata su una maggioranza compatta e strettamente legata all’Esecutivo, approvare in tempi brevi (anche senza poterne chiedere la priorità di iscrizione all’ordine del giorno, esclusa dal co. 7 del nuovo art. 72 Cost.) una nuova legge elettorale ancor più rafforzativa dell’egemonia acquisita, magari con qualche nuovo escamotage tecnico, suggerito dalla fervida fantasia dei molti “ingegneri costituzionali” in attività, che aggiri la sentenza del giudice costituzionale. In tale ipotesi, un nuovo controllo preventivo della Corte, nonché quello del Capo dello Stato in sede di rinvio (e in extremis di rifiuto di promulgazione), sarebbero davvero l’ultimo (e forse purtroppo vano) baluardo della democrazia. Ma al di là delle conseguenze, politiche e giuridiche, di un tale quadro di evidente, gravissima crisi istituzionale (scioglimento della Camera, conflitto tra poteri o quant’altro sarebbe poi difficilmente prevedibile in un contesto così critico per l’intero sistema politico), in cui sarebbe di fatto travolto anche il principio del vincolo che grava sul legislatore in ordine al “seguito” legislativo delle pronunce della Corte, è evidente che, letta in questa (non rassicurante) prospettiva, la nuova competenza della Corte non è affatto da sottovalutare, costituendo quanto meno, per i futuri Governi e per le loro maggioranze, un deterrente e un rilevante ostacolo da superare dinanzi all’opinione pubblica prima di cedere a eventuali tentazioni autoritarie.

3. La Corte costituzionale: b) la composizione

L’art. 37 della legge di revisione sostituisce l’attuale primo comma dell’art. 135 Cost., disponendo che i cinque giudici della Corte di derivazione parlamentare non siano più eletti dal Parlamento in seduta comune, bensì «tre dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica»; l’art. 39, co. 10, dispone poi che, in sede di prima applicazione del nuovo art. 135 Cost., «alla cessazione dei giudici della Corte costituzionale nominati dal Parlamento in seduta comune, le nuove nomine sono attribuite alternativamente, nell’ordine, alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica»[14]. È evidente che anche questa innovazione ha diverse finalità: la prima è quella di confermare la distinzione e il diverso peso (nonché la diversa natura) delle due Camere; la seconda è quella di snellire un procedimento che si è rivelato non di rado molto faticoso, con un numero assai elevato di votazioni prive di risultati utili prima di giungere a proficui accordi di compromesso tra le diverse forze politiche presenti nell’intero Parlamento[15]. Il mutamento introdotto però è rilevante: pur ribadendo che è assai difficile prevedere come i nuovi meccanismi opereranno (eventualmente) nella prassi concreta e nella dinamica delle forze in gioco, forse qualche considerazione può tuttavia essere avanzata. Anzitutto, sul piano politico (seppur in relazione alla scansione temporale della cessazione dei singoli giudici), le nuove disposizioni potrebbero rendere, salvo sorprese, un po’ più semplice l’elezione dei nuovi componenti per la maggioranza di tempo in tempo presente alla Camera, che potrebbe eleggere i “propri” giudici non con le sole sue forze, ma altresì senza bisogno di accordi troppo ampi con opposizioni che sarebbero per di più presumibilmente frammentate dalla non alta soglia di sbarramento dell’Italicum (le dinamiche concrete del nuovo Senato restano comunque più difficili da prevedere a priori: prevarrà negli schieramenti un fattore di appartenenza partitica nazionale, o un atteggiamento di appartenenza regional-localistica, magari conflittuale con l’altro ramo del Parlamento, ulteriore fattore di potenziale impasse del sistema?)[16]. Vero è che l’art.38 co.16 della legge di revisione, nell’apportare i dovuti adeguamenti all’art.3 della l.cost. n.2 del 1967 che disciplina l’elezione dei giudici, non tocca le maggioranze richieste, che dunque restano quelle attuali (due terzi dei componenti l’Assemblea fino al terzo scrutinio, la maggioranza assoluta dal quarto in poi), e ciò farebbe intendere la perdurante necessità di accordi comunque trasversali, sebbene più ristretti di quelli imposti dall’attuale sistema[17]. Se ciò però non accadesse, e si arrivasse all’elezione di un candidato imposto dalla maggioranza di Governo con l’ausilio solo di un gruppo di deputati “esterni” alla stessa, in vario modo reclutati entro un quadro da sempre assai mobile (e non sempre per nobili motivi), si produrrebbe una conseguenza evidente, ossia un legame alquanto più stretto del singolo giudice eletto con la maggioranza (e con il partito) che lo ha sostenuto. Giacché nel modello attuale la ricerca di un accordo ampio, per un più alto quorum, e soprattutto la composizione plurale complessiva del ben più numeroso organo parlamentare in seduta comune, rallentano sì il procedimento, ma garantiscono un margine di condivisione della scelta e un consenso di base alquanto consistente sul singolo candidato, sicché certe appartenenze “di area”, benché spesso adombrate nella velata logica “distributiva” invalsa in certi periodi nella prassi per la scelta dei giudici di elezione parlamentare[18], non sono mai state facilmente comprovabili (e sono peraltro state sovente smentite dall’effettiva indipendenza dei giudici in carica, che per essere eletti debbono comunque, con il meccanismo attuale, presentare un profilo elevato e non troppo connotato in senso partitico). Con il nuovo art.135, insomma, appare possibile una maggiore “appropriazione” partitica degli scranni “parlamentari” della Consulta: e se ciò potrebbe avere l’effetto (forse positivo) di una maggior trasparenza delle scelte di ciascuna Camera dinanzi all’opinione pubblica, comporterebbe tuttavia anche il prezzo (alto) di un certo vulnus all’imparzialità e al prestigio dell’organo e dei cinque giudici così eletti, nonché di un possibile scadimento del livello, finora invero assai alto, dei preposti in tal modo alla carica. Si potrebbe obiettare che, in fondo, ciò riguarda solo un terzo dei componenti dell’organo: ma specialmente sulle decisioni più delicate e divisive, come quelle su temi eticamente sensibili, ovvero per pronunce che comportano effetti evidenti sul piano della politica contingente o sugli assetti finanziari generali (si pensi solo alla citata sentenza n.1/14 e in genere alle pronunce sulle leggi elettorali di cui si è detto, o, per il secondo aspetto, alla nota sentenza n.70/15)[19], gli equilibri interni del collegio possono essere talmente in bilico che uno o due voti “di appartenenza” possono condizionare in modo decisivo l’esito finale. Vero è, peraltro, che la durata della carica dei giudici diluisce la capacità effettiva delle maggioranze politiche contingenti di “gestire” realmente l’assetto complessivo della Corte; ma una stabilità effettiva dei Governi, quale quella perseguita con la riforma, ove realmente fosse ottenuta con l’irrigidimento del sistema, potrebbe rendere anche questo aspetto meno rilevante, consentendo una progressiva (e rischiosa) omologazione politica dello stesso organo agli indirizzi della maggioranza (anche per quanto si dirà oltre circa il ruolo del Presidente della Repubblica nella nomina di un altro terzo dei giudici). Ed è evidente che, ove ciò accadesse, anche la suddetta capacità della Corte di svolgere un effettivo ruolo di freno rispetto a leggi elettorali troppo disrappresentative subirebbe una grave diminuzione: ma, ben più ampiamente, ne sarebbe in certa misura compromessa l’intera sua funzione di garanzia. In tal senso, comunque, e volendo percorrere questa via, si dovrebbe pensare almeno all’introduzione, anche per la nostra Corte, dell’istituto della dissenting opinion, ben noto in altri ordinamenti (come quello statunitense, quello tedesco o quello spagnolo), onde rendere maggiormente trasparenti e verificabili le scelte dei singoli giudici all’interno dell’organo e aumentare il grado complessivo di responsabilità politica del medesimo in coerenza con il suo accresciuto grado di politicità strutturale[20]. Per completare il quadro, si deve aggiungere che la riforma interviene anche sulla composizione della Corte per i giudizi di accusa contro il Presidente della Repubblica, disponendo (art.37 co.1, lett.b), a modifica dell’art.135, co.7, Cost., che i requisiti necessari per essere inclusi nell’elenco dei sorteggiabili da cui sono tratti i sedici membri che integrano il Collegio ordinario non sono più quelli per l’eleggibilità a senatore, ma quelli per l’elezione a deputato; il che è abbastanza coerente con il disegno complessivo, ma può creare in prima battuta alcuni problemi applicativi, già messi in rilievo da qualche commento[21].

4. Il Presidente della Repubblica

Quanto al Presidente della Repubblica, altro organo chiamato a svolgere, seppur in tutt’altre forme rispetto alla Corte costituzionale, un ruolo di garanzia del funzionamento del sistema disegnato dalla Carta[22], le modifiche introdotte dalla riforma sono altrettanto significative. Anzitutto, in ordine alla sua elezione: l’art.83 della Costituzione è innovato dall’art.21 della legge di revisione in due punti sostanziali: si abroga il secondo comma, con ciò eliminandosi la partecipazione dei delegati regionali all’elezione stessa, che resta dunque affidata al solo Parlamento in seduta comune, privo di integrazioni (giacché, nella logica della riforma, una rappresentanza regionale si trova già nel nuovo Senato)[23]. Inoltre, si modificano le maggioranze richieste: per i primi tre scrutini, è necessario il voto dei due terzi dell’assemblea; dal quarto, il quorum si abbassa ai tre quinti dei componenti dell’organo, e, dal settimo, ai tre quinti dei votanti. Ovviamente, anche qui lo scopo è quello di evitare, fin dove possibile, la situazione di protratta impasse politica che ha caratterizzato alcune elezioni presidenziali[24]: un criterio di “efficienza” pare anche qui aver guidato la mano dei riformatori. Altrettanto ovviamente, però, la riduzione dell’organo eligente e delle percentuali comporta una potenziale riduzione del consenso sulla persona del nuovo Capo dello Stato, e dunque una sua minor rappresentatività sostanziale. Ma soprattutto, il quorum di tre quinti dei votanti assunto come strumento risolutivo di un eventuale stallo significa che il nuovo Presidente potrebbe nascere infine anche dal voto di un gruppo relativamente esiguo, in termini numerici assoluti, di componenti dell’assemblea: in sostanza, non c’è un numero minimo preordinato, se non quello connesso al quorum strutturale dell’organo di cui all’art.64 co.3 Cost. (esteso per analogia e calcolato secondo il regolamento della Camera), e ciò non rassicura troppo[25]. Ovviamente, ove i parlamentari (come appare plausibile per ovvi motivi e secondo prassi) partecipino al voto in modo compatto, la maggioranza dei tre quinti rimarrebbe più alta di quella attuale in termini percentuali (ma non assoluti, data la minor consistenza del collegio: sarebbero cioè necessari circa 438 voti contro gli oltre 500 attuali). Valga notare che l’art.83 Cost. attualmente vigente riferisce sempre le percentuali necessarie per l’elezione ai componenti dell’assemblea, non ai soli votanti, e la maggioranza assoluta assunta dal terzo scrutinio in poi come limite minimo è pur sempre un numero consistente, data l’ampiezza dell’assemblea eligente, composta di oltre mille elettori. Se ciò si collega a quanto detto in ordine alla connessione tra nuovo bicameralismo e Italicum, il risultato appare evidente: sia pure con un margine di incertezza inerente all’effettivo assetto del futuro Senato (laddove una legge elettorale bicamerale dovrà essere approvata ai sensi del nuovo art.57, co.6 entro sei mesi dalle elezioni della nuova Camera, mentre in prima applicazione il Senato sarà formato secondo le norme transitorie di cui all’art.39 della legge di revisione), è evidente che una maggioranza formata alla Camera con i meccanismi dell’Italicum (dunque potenzialmente espressiva di una frazione ridotta dell’elettorato) potrà probabilmente gestire in concreto l’elezione presidenziale in modo alquanto più agevole di quanto non sia finora accaduto nella storia repubblicana, anche perché, evidentemente, i 630 deputati della Camera assumono nel nuovo Parlamento in seduta comune, rispetto all’assai ridotto numero di senatori, un peso proporzionalmente assai maggiore[26]. In questo campo, come detto, è molto difficile prevedere le dinamiche concrete di un sistema leggendole solo sulla carta. Anche per il Capo dello Stato, tuttavia, sembra potersi dire che ove le opposizioni non concordino sul candidato del partito di maggioranza, il nuovo meccanismo non spinge quest’ultimo a cercare un compromesso politico largo e un ampliamento del consenso, bensì il contrasto e la vittoria sul campo nei confronti dell’avversario, con una strategia che diventa comunque infine premiante; detto nei termini di Habermas, gli attori non si orientano qui all’intesa, ma al successo. Quanto però questo inciderà, in certe condizioni, sulla legittimazione democratica di un Capo dello Stato che deve rappresentare, e non solo simbolicamente, l’unità della Nazione, non è facile dire: certo è che il suo ruolo di garanzia ne potrebbe essere, in prospettiva, significativamente condizionato. In più, in ordine al nostro tema specifico, in quale misura un Presidente troppo legato al partito di maggioranza finirebbe con il conformare nello stesso senso anche la Corte costituzionale, ove fosse influenzato politicamente nell’esercizio del suo potere di nomina di cinque giudici di questa (ossia, almeno di alcuni, in base alla loro cessazione)? Si tratterebbe di un riflesso non irrilevante per l’intera funzione di garanzia nel sistema istituzionale, nel senso di un’ulteriore e pericolosa espansione di una logica ipermaggioritaria, moderata solo dalle scansioni temporali di durata delle cariche (peraltro non sempre prevedibili).

Qualche altra breve notazione tuttavia meritano le altre innovazioni presenti nella riforma in ordine alla figura e alle funzioni del Capo dello Stato: una prima si riferisce al potere di scioglimento (uno degli strumenti fondamentali per l’esercizio della funzione di garanzia da parte del Presidente), che il nuovo art.88 Cost. riferisce alla sola Camera dei deputati. Qui la scelta appare ovviamente coerente con il nuovo assetto del bicameralismo, essendo solo la Camera titolare del rapporto fiduciario: se la ratio sistematica del potere in questione è quella di evitare un blocco del funzionamento della forma di governo, appare del tutto logico che (come accade in molti altri ordinamenti) l’atto di scioglimento debba intervenire (solo) sulla causa effettiva dell’impasse del sistema stesso. Infine, un altro strumento di primaria importanza, il potere di rinvio di cui all’art.74 Cost., è altresì modificato, seppur lievemente[27]. Il nuovo testo, nel confermare che il messaggio di rinvio, ovviamente anteriore alla promulgazione, deve essere motivato, richiede che esso sia indirizzato «alle Camere», anche ove la legge sia di tipo monocamerale (potendosi trattare, in ipotesi, anche di vizio attinente alla scelta stessa del procedimento in concreto adottato)[28]; tra i due commi originari, poi, se ne introduce uno nuovo, con cui ci si preoccupa di chiarire che qualora la richiesta riguardi la legge di conversione di un decreto legge, il termine per la conversione «è differito di trenta giorni», e ciò tenta di risolvere un problema concreto emerso nella prassi e ampiamente sottolineato dalla dottrina[29].

Complessivamente, dunque, anche le novità introdotte in merito alla figura del Capo dello Stato lasciano qualche perplessità, soprattutto in ordine al nuovo meccanismo della sua elezione e alle conseguenze che, seppur non necessariamente, se ne potrebbero produrre: è ben possibile, cioè, che il nuovo Presidente riscuota un consenso tanto vasto da rendersi fin dall’inizio capace di raccogliere su di sé il gradimento generale: ma ciò sarà rimesso piuttosto al fair play e alla cautela politica della maggioranza, la cui scelta dovrà orientarsi su nomi non divisivi: laddove però ciò non accadesse, le (malintese) esigenze di rapidità ed “efficienza” indurrebbero a insistere anche su nomi controversi, confidando in un meccanismo che, comunque, premia infine chi disponga in assemblea di una maggioranza anche relativa. Ne nascerebbe un Presidente percepito (a ragione o a torto) come un soggetto “di parte”, con evidenti limiti di legittimazione (non formale, ma) sostanziale, e con presumibili difficoltà nello svolgere efficacemente quel ruolo di garanzia e di moral suasion che tanto si fondano, più ancora che sull’investitura istituzionale, sull’autorevolezza di un individuo per il quale essere super partes, nella forma e nella sostanza,è presupposto essenziale per il buon esercizio della funzione[30].

5. Qualche considerazione per concludere (in una diversa prospettiva)

Non è certo questa la sede per esprimere un giudizio complessivo sulla riforma in atto, che presenta nel suo insieme aspetti molto diversi, né per tentare, rispetto agli specifici profili qui trattati, una definizione più lata della funzione di garanzia costituzionale, che vada cioè oltre gli organi cui questa è palesemente affidata dalla Carta (quale quella, per esempio, che potrebbe essere individuata in via diffusa per l’intera magistratura – peraltro non toccata direttamente dalla revisione – in ordine al compito di concretizzazione dei princìpi costituzionali operata mediante la giurisdizione)[31]. Tuttavia, almeno per il primo punto, qualche brevissimo accenno di riflessione deve essere svolto. La riforma Renzi-Boschi, come detto in apertura di questo breve scritto, riduce spazi e tempi della democrazia, e allontana alquanto da quel paradigma discorsivo-deliberativo della stessa che, così attentamente elaborato da Habermas, ha rappresentato, pur con la sua carica utopica (o forse anche per questa), un riferimento per non pochi studiosi[32]. Negare questo aspetto della riforma significa peccare quanto meno di scarso realismo: è evidente che, calata nel contesto più ampio della contingenza politica, affiancata dall’Italicum e dalla nuova legge sulla Rai, questa modifica della Carta porterà trasformazioni reali dell’assetto politico italiano con effetti consistenti, e soprattutto di lungo termine: perché, al pari di quanto si disse per la riforma Berlusconi bocciata dal referendum del 2006, una modifica profonda della seconda parte della Costituzione ridonda, inevitabilmente seppur indirettamente, in una trasformazione della prima (che pure resta formalmente intatta). Il che non vuol dire che la Carta del 1948, già non priva dall’origine, a dispetto di ogni retorica, di difetti strutturali, non potesse (e dovesse) essere aggiornata: significa però che questa riforma, in particolare, pur non priva di qualche elemento positivo (la soppressione, o forse meglio la “decostituzionalizzazione” delle Province[33], e del Cnel), nella sua palese ansia di semplificazione di strutture e procedimenti, lascia, al di là di ogni considerazione di politica corrente e osservata in prospettiva, più di qualche motivo di perplessità, e forse di inquietudine.

Tuttavia, la riflessione non può fermarsi qui, al livello sistematico, ma deve almeno sfiorare una prospettiva di più ampia portata, ossia di natura sistemica, che introduce certo elementi diversi. Dinanzi a un contesto globale in cui l’inarrestabile finanziarizzazione dell’economia esaspera le dinamiche operative pressoché istantanee e autoreferenziali proprie dei mercati, ormai non controllabili perché prodotto di matrici comunicative e funzionali affatto anonime e capaci di riflettersi in modo immediato sulle scelte politiche della multilevel governance,imponendo a ciascuno dei livelli opzioni rapide e sovente tecnicamente coatte, e coartando infine la democrazia procedurale, questa semplificazione dei modi e questa accelerazione dei tempi è evitabile? In altre parole, guardando ben oltre le ambizioni proprie di singoli o gruppi nella lotta per un potere comunque circoscritto (da sempre vive in politica), il processo in atto appare ben più vasto, profondo e inquietante, investendo in pratica tutti i sistemi democratici contemporanei, e andando molto al di là della dimensione dei singoli Stati. I meccanismi espansivi degli schemi funzionali suddetti obbligano i governi nazionali, e ancor prima quelli della governance sovranazionale e globale, a scelte di policy che infine determinano, secondo la nota formula di Lowi, quelle strutturali di politics[34]. In altre parole, si chiedono ai Governi decisioni rapide, certe e sovente frutto di opzioni meramente apparenti, perché in realtà predeterminate, tecnicamente e politicamente, nei contenuti: e rispetto a tali inputs, le lentezze della democrazia discorsiva sono vissute, duole dirlo, come un mero intralcio. Inoltre – questo è l’aspetto più grave e inquietante – questi processi appaiono realmente non controllabili dalle stesse oligarchie economico-finanziarie transnazionali, che certo se ne servono ma ne sono di fatto succubi al pari di ogni altro soggetto del sistema economico (seppur in condizioni ovviamente privilegiate)[35].

Dunque, se questo è il quadro, resta un dilemma di fondo, al quale queste brevi note non possono davvero rispondere: è più lungimirante, in tale frangente, assumere un atteggiamento pragmatico, e rinunciare a una parte di quegli spazi e di quei tempi che connotano una democrazia ideale per salvarne una reale, adeguata ai tempi e certo ridotta, ma ancora viva, oppure, secondo una pura etica dei valori, cercare di difendere l’esistente a ogni costo, evitando magari rischi immediati per il proprio contesto locale ma esponendosi a pericoli di più lungo termine e più vasta portata, allorché un’eventuale emarginazione dai processi di trasformazione globali indurrebbe quasi certamente il singolo Paese all’isolamento e a un’involuzione autoritaria più severa, probabilmente mediata da una sua sostanziale colonizzazione economica? Si tratta, in fondo, della riproposizione aggiornata, seppur in tutt’altra forma, del paradigma tradizionale delle teorie contrattualiste: la cessione di una quota della propria libertà al sovrano in cambio di protezione e sicurezza[36]. Così è nato – e soprattutto si è voluto giustificare – il concetto di sovranità, e così si è generata la sua espressione nello Stato moderno; così è sorto, per reazione, il costituzionalismo, che a quel sovrano ha voluto, e quasi sempre saputo, porre limiti, costruendo norme, apparati e meccanismi capaci di conseguire tale risultato[37]. E qui sta, a ben vedere, anche la ratio più profonda della genesi di quella funzione di garanzia della costituzione di cui ci si è occupati in queste brevi note. Sebbene oggi sia molto difficile, per quanto detto, individuare il vero sovrano, tanto da potersi porre ragionevolmente in dubbio la sua stessa esistenza in senso soggettivo, questa è, mi pare, la prospettiva più corretta per l’analisi del problema delle riforme costituzionali da parte dello studioso. Quale sia però, nell’attuale contingenza storica, la più opportuna soluzione del dilemma prima adombrato è questione alla quale solo il lettore, per sé, può rispondere.

[1] Su quest’ultimo, T. Guarnier, Rischi e aporie del procedimento legislativo a data certa, in www.federalismi.it, n.5/2016; R. Dickmann, Alcune considerazioni sull’istituto del “voto a data certa”, ibidem, n.6/2016.

[2] In proposito già A. Pace, art.82, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Zanichelli, Bologna-Roma, 1979, spec.310 ss., ove si rileva la trasformazione di un istituto nato per controllare l’Esecutivo in uno strumento di governo della maggioranza (si veda anche Id., Il potere di inchiesta delle Assemblee legislative. Saggi, Giuffrè, Milano, 1973, pp. 103 ss.).

[3] Su questi punti, tra gli altri, P. Passaglia, Il presumibile aumento delle denunce di vizi procedurali e l’ampliarsi di una “zona d’ombra” della giustizia costituzionale, in www.federalismi.it, n. 5/2016.

[4] Si veda l’art.61 della Costituzione francese del 1958, a norma del quale «(1) Les lois organiques, avant leur promulgation, les propositions de loi mentionnées à l'article 11 avant qu'elles ne soient soumises au référendum, et les règlements des assemblées parlementaires, avant leur mise en application, doivent être soumis au Conseil constitutionnel qui se prononce sur leur conformité à la Constitution.(2) Aux mêmes fins, les lois peuvent être déférées au Conseil constitutionnel, avant leur promulgation, par le Président de la République, le Premier ministre, le président de l'Assemblée nationale, le président du Sénat ou soixante députés ou soixante sénateurs. (3) Dans les cas prévus aux deux alinéas précédents, le Conseil constitutionnel doit statuer dans le délai d'un mois. Toutefois, à la demande du Gouvernement, s'il y a urgence, ce délai est ramené à huit jours. (4) Dans ces mêmes cas, la saisine du Conseil constitutionnel suspend le délai de promulgation.»; l’art.61.1, introdotto con la revisione del 23 luglio 2008, statuisce poi che «(1) Lorsque, à l'occasion d'une instance en cours devant une juridiction, il est soutenu qu'une disposition législative porte atteinte aux droits et libertés que la Constitution garantit, le Conseil constitutionnel peut être saisi de cette question sur renvoi du Conseil d'État ou de la Cour de cassation qui se prononce dans un délai déterminé. (2) Une loi organique détermine les conditions d'application du présent article.» Si veda in merito l’Ordonnance n.58-1067 del 7 novembre 1958 (legge organica sul Consiglio costituzionale), consultabile in www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000000705065, il cui capitolo II bis regola la question prioritaire de constitutionnalité(QPC). Da notare che, all’art.23.2, co.1, n.2, si stabilisce che per sollevare questione di legittimità in via incidentale (possibilità come detto aperta dalla riforma del 2008), la norma oggetto del giudizio «n’a pas déjà été déclarée conforme à la Constitution dans les motifs et le dispositif d’une décision du Conseil constitutionnel, sauf changement des circonstances». Sul tema si vedano M. Cavino, Lezioni di giustizia costituzionale francese, Napoli, 2014, 127 ss.; F. Laffaille, Hic sunt leones. La question prioritaire de constitutionnalité en France, in www.rivistaaic.it, n.4/2010; P. Conte, La question prioritaire de constitutionnalité devant les jurisdictions répressives en droit français, in Aa.Vv., Genesi ed evoluzione dei sistemi di giustizia costituzionale. Italia, Francia e Spagna, Jovene, Napoli, 2012, pp. 1 ss.

[5] Entro una messe enorme di annotazioni, segnalo il commento a più voci pubblicato nel Dibattito sulla sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014 dichiarativa dell’incostituzionalità di talune disposizioni della legge n.270 del 2005, in Giur.cost., 2014, 629 ss.; ma si vedano anche G. Serges, Sentenze costituzionali e dinamica delle fonti, Editoriale scientifica, Napoli, 2015, 152 ss.; P. Carnevale, La Corte vince, ma non (sempre) convince. Riflessioni intorno alla “storica” sentenza n.1 del 2014 della Corte costituzionale, in Nomos, n.3/2013, pp. 5 ss.

[6] In più, si aprono una serie di problemi ulteriori, al momento difficilmente individuabili: per esempio, cosa accadrebbe se la Corte ravvisasse solo una illegittimità parziale nella legge giudicata in via preventiva? In Francia, l’art.23 della citata Ordonnance n.58-1067 prevede che in tal caso il Presidente possa scegliere se promulgare la parte non toccata dal Conseil oppure chiedere una nuova deliberazione al Parlamento: ma qui per ora il punto resta oscuro. Sul ddl di revisione ancora nel corso dell’iter approvativo, si vedano i commenti di F. Dal Canto, Corte costituzionale e giudizio preventivo sulle leggi elettorali, in www.gruppodipisa.it; S. Catalano, Prime riflessioni sul controllo preventivo sulle leggi elettorali inserito nella proposta di revisione costituzionale all’esame del Parlamento, in www.forumcostituzionale.it (23.5.2015); si veda anche A. Rauti, Il giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali di Camera e Senato, in www.federalismi.it, n.6/2016, che ben rileva altri problemi relativi al rapporto tra giudizio preventivo ed esercizio dei poteri di rinvio e di promulgazione del Presidente della Repubblica (ivi, pp. 9 ss.).

[7] Si vedano, tra molti, i commenti di A. Anzon Demmig, Accesso al giudizio di costituzionalità e intervento “creativo” della Corte costituzionale, in www.rivistaaic.it, n.1/2014; E. Olivito, Fictio litis e sindacato di costituzionalità della legge elettorale. Può una finzione processuale aprire un varco nelle zone d’ombra della giustizia costituzionale?, in www.costituzionalismo.it, 2/2013. Sulle “zone d’ombra” (o “franche”) del giudizio costituzionale si vedano i volumi Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi, Giappichelli, Torino, 2007, a cura di R. Balduzzi e P. Costanzo; R. Pinardi, Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sui conflitti di attribuzione e sull’ammissibilità del referendum abrogativo, Giappichelli, Torino 2007; di recente sul tema, A. Ruggeri, Confessioni religiose e intese tra iurisdictio e gubernaculum, ovverosia l’abnorme dilatazione delle decisioni politiche non giustiziabili (a prima lettura di Corte cost. n. 52 del 2016), in www.federalismi.it, n.7/2016.

[8] Sul punto si veda però, con perspicua analisi, G. Serges, op.cit., pp.157 ss.

[9] Per una opinione positiva in merito, sia però consentito il rinvio a F. Rimoli, in Dibattito, cit., pp. 684 ss.

[10] Peraltro, il 12 marzo 2015, a margine dell’annuale relazione sull’attività della Corte, anche l’allora Presidente Alessandro Criscuolo espresse le sue perplessità sull’opportunità di introdurre un controllo preventivo sulle leggi elettorali, affermando che un giudizio siffatto «tradisce il ruolo della Corte» e «le affida un compito che non le spetta, perché la Corte giudica sulle leggi approvate», e che dunque «questa sarebbe una sorta di consulenza preventiva», forse «non opportuna»; sul punto si veda www.repubblica.it/politica/2015/03/12/news/legge_elettorale_criscuolo-109352278/?refresh_ce.

[11] Si veda l’ordinanza di rinvio del 17 febbraio 2016 del Tribunale di Messina (n.69/2016 r.o.) in www.cortecostituzionale.it/schedaOrdinanze.do?anno=2016&numero=69&numero_parte=1; a commento, M. Bignami, La legge elettorale torna al vaglio della Corte costituzionale, in questa Rivista, 29.2.2016;G. D’Amico, “Adelante, Pedro … si puedes”. L’Italicum all’esame della Corte costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 28.4.2016; M. Cosulich, Contra Italicum, ovvero dell’ordinanza del Tribunale di Messina del 17 febbraio 2016 (Nota editoriale), in www.osservatorioaic.it, 4.3.2016.

[12] Per un esempio nella storia italiana, sull’approvazione della legge Acerbo del 1923, che fu uno degli strumenti di costruzione del regime, si veda tra molti il noto studio di R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino, 1995, pp. 518 ss.

[13] Nell’art.41 della legge costituzionale si dispone che le disposizioni della stessa si applicano «a decorrere dalla legislatura successiva allo scioglimento di entrambe le Camere», salvo quelle previste dagli articoli 28, 35, 39 commi 3, 7 e 11, e 40 commi 1,2,3 e 4.

[14] Da notare che si è qui mantenuto l’uso alquanto promiscuo dei termini “nomina” ed “elezione”, in sé tecnicamente non equivalenti, già fatto proprio dall’art. 135 Cost., nonché dalla legge cost.le n.2 del 1967 che ne ha introdotto il testo attualmente vigente: a rigore, “nomina” diretta, in senso stretto, c’è solo per i giudici designati tali dal Presidente della Repubblica, con decreto controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri (art.4 della legge n.87 del 1953). Sulla discussione relativa alla configurazione della Corte costituzionale in Assemblea costituente, tra molti, F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, NIS, Roma, 1996, pp. 33 ss.

[15] Sul punto si veda, con una ricostruzione del tortuoso percorso che ha condotto alla soluzione approvata in via definitiva, anche G. Piccirilli, Il procedimento di elezione dei giudici costituzionali “a Camere separate” nella legge costituzionale approvata il 12 aprile 2016, in www.federalismi.it, n. 8/2016.

[16] Sul tema N. Lupo, La (ancora) incerta natura del nuovo Senato: prevarrà il cleavage politico, territoriale o istituzionale?, in www.federalismi.it, n. 4/2016; sul profilo, non semplice da definire, del rapporto tra natura “regionalista” del nuovo Senato e giudici da questo eletti svolge alcune considerazioni G. Piccirilli, op.cit., p. 8.

[17] Che richiede un minimo di circa 570 voti (con l’attuale composizione, 571) per eleggere un giudice, ossia circa 100 in più della maggioranza assoluta dei componenti il Parlamento in seduta comune, laddove il nuovo ne richiederebbe, alla Camera 378, ossia 38 in più della maggioranza costruita dalla legge elettorale, mentre al Senato sarebbero sufficienti 60 voti (che, salve restando le dette incognite, in certe condizioni potrebbero essere facilmente ottenuti dalla stessa maggioranza di Governo, rendendo ancor più semplice che alla Camera l’elezione di propri candidati). In altre parole, pur essendo vero che le percentuali aumentano, in termini numerici assoluti ai nuovi giudici eletti alla Consulta basterebbero rispettivamente 192 (dalla Camera) e 510 voti (dal Senato) in meno di quelli attualmente necessari (dal Parlamento in seduta comune); se la ratio che indusse a introdurre un terzo dei giudici eletti dal potere legislativo era quella di avere un certo grado di rappresentatività democratica all’interno del Collegio, è evidente che con il nuovo meccanismo questo viene a essere considerevolmente ridotto. Sul dibattito svoltosi in Assemblea costituente in ordine alla composizione della Corte, F. Bonini, op.cit., pp. 127 ss.

[18] Sul punto si vedano le critiche portate già negli anni Settanta in ordine alla prassi per cui «i partiti, per quote, designano i ‘loro’ candidati, destinati poi a essere votati dallo schieramento parlamentare necessario», da G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, il Mulino, Bologna, 1977, 294-295 (si legga però anche quanto molti anni dopo fu scritto dallo stesso, dopo un’esperienza diretta di giudice e Presidente della Corte in ordine all’indipendenza di valutazione dei giudici, in Id., Princìpi e voti. La Corte costituzionale e la politica, Einaudi, Torino, 2005).

[19] Sulla sent.n.70/2015, tra molti, si vedano, con diversi accenti, i commenti di G.M. Salerno, La sentenza n.70 del 2015: una pronuncia non a sorpresa e da rispettare integralmente, in www.federalismi.it, n.10/2015; A. Morrone, Ragionevolezza a rovescio. L’ingiustizia della sentenza n.70/2015 della Corte costituzionale, ibidem; A. Anzon Demmig, Una sentenza sorprendente. Alterne vicende del principio dell’equilibrio di bilancio nella giurisprudenza della Corte costituzionale sulle prestazioni a carico del pubblico erario, in www.rivistaaic.it, n. 3/2015.

[20] Sul tema, da sempre dibattuto, si vedano già il volume Le opinioni dei giudici costituzionali e internazionali, a cura di C. Mortati, Milano, Giuffrè, 1964; gli atti di un convegno tenuto presso la stessa Corte, L’opinione dissenziente, a cura di A. Anzon, Milano, Giuffrè, 1995, nonché gli scritti di S. Panizza, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 1998; S. Cassese, Una lezione sulla cosiddetta opinione dissenziente, in Quaderni costituzionali, n.4/2009, 973 ss.; per un quadro comparativo,M. Gorlani, La dissenting opinion nella giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti: un modello importabile in Italia, in Forum di Quaderni costituzionali, 2002;L. Luatti, Profili costituzionali del voto particolare. L’esperienza del Tribunale costituzionale spagnolo, Giuffrè, Milano,1995; più in generale L. Pegoraro, Giustizia costituzionale comparata. Dai modelli ai sistemi, Giappichelli, Torino, 2015.

[21] Sul punto G. Piccirilli, op.cit., pp.10-11.

[22] Sul tema, tra molti, E. Cheli, Il Presidente della Repubblica come organo di garanzia costituzionale, in Studi in onore di Leopoldo Elia, I, Giuffrè, Milano, 1999, pp. 301 ss..

[23] S. Mangiameli, Quale ruolo del nuovo Senato: composizione, rappresentanza e procedimenti alla luce del riparto delle competenze, in www.italianpapersonfederalism.issirfa.cnr.it, n. 3/2015, avrebbe preferito, per tale elezione, un’integrazione dell’organo simile a quella prevista dall’ordinamento tedesco in base all’art.54 del Grundgesetz, secondo il quale l’Assemblea federale chiamata a eleggere il Presidente «si compone dei membri del Bundestag e di un uguale numero di membri eletti dagli organi rappresentativi del popolo dei Länder secondo i princìpi del sistema elettorale proporzionale»; è da rilevare, però, che tale norma si giustifica con il fatto che, essendo il Bundesrat composto di rappresentanti degli esecutivi dei Länder, la rappresentanza di questi, entro uno Stato federale, richiedeva nell’Assemblea un’integrazione del Bundestag di tipo diverso, rappresentativa dell’intero elettorato dei Länder stessi. Nella riforma qui esaminata, invece, la diversa configurazione del nuovo Senato, che già applica un criterio proporzionale sia nella ripartizione dei seggi tra le Regioni in base alla popolazione, sia nel metodo di elezione dei senatori da parte dei Consiglieri delle Regioni e delle Province autonome (vincolo alla relativa legge elettorale, tra i futuri parametri per il giudizio sulla stessa da parte della Corte costituzionale: si veda il nuovo art.57, co. 2 e co. 4, Cost.), sembra invero giustificare l’elisione dei delegati regionali.

[24] Benché le situazioni contingenti abbiano dato luogo, nel tempo, a esiti assai vari: solo per ricordare qualche esempio, nel 1971 si giunse a ben 23 scrutini per eleggere Leone, e nel 1964 a 21 per eleggere Saragat; anche le elezioni di Pertini (nel 1978) e di Scalfaro (nel 1992), richiesero 16 scrutini. All’estremo opposto, Cossiga (nel 1985) e Ciampi (nel 1999) furono eletti al primo scrutinio.

[25] Salvo piccoli margini di approssimazione dovuti, in prima battuta, al numero di senatori di diritto e a vita presenti (che rimarranno in carica come tali, mentre i futuri nominati in base al nuovo art.59 Cost. dureranno in carica sette anni), essendo il quorum strutturale del nuovo organo (calcolato secondo la prassi della Camera, ossia salvo seggi vacanti) di 366 voti (dunque facilmente raggiungibile da una maggioranza che ne dovrebbe avere già 340 dai soli deputati), il numero minimo effettivo, laddove tutti i presenti votassero, sarebbe qui di 220 voti (arrotondato all’unità), ossia assai più che dimezzato rispetto a quello attualmente necessario (di oltre 500), e ben al di là della percentuale di riduzione complessiva dei componenti del Parlamento in seduta comune (che la riforma taglia del 30 per cento circa). È da ricordare peraltro che a tale organo si applica il regolamento della Camera (art.35 co.2 RC e art.65 RS: questo prevede però la possibilità per le Camere riunite di approvare norme specifiche), ove, salvo future modifiche, si esclude il computo degli astenuti (ossia non votanti) dal quorum funzionale (deliberativo).

[26] Anche S. Mangiameli, op.cit., rileva il riflesso dello squilibrio numerico tra deputati e senatori sull’elezione del Presidente della Repubblica, pur tenendo ferma l’idea che tale elezione rimarrebbe ancora frutto di un compromesso politico tra maggioranza e opposizione, nel quale però i senatori, ridotti a un numero proporzionalmente esiguo, finirebbero con l’essere poco rilevanti.

[27] Sul punto della riforma concernente il rinvio presidenziale delle leggi per vizi di formazione delle stesse, e sui problemi che ne nascono, I Pellizzone, Procedimenti di formazione delle leggi e potere di rinvio, in www.federalismi.it, n.9/2016.

[28] Si noti qui che il nuovo art.70, co.6, Cost. prevede che siano i Presidenti delle Camere a decidere, d’intesa fra loro, «le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti», il che però non pare poter escludere un margine di apprezzamento in proposito da parte del Presidente della Repubblica in sede di promulgazione (e di eventuale rinvio); si veda però sul punto quanto ben rilevato da I. Pellizzone, op.cit., pp. 5 ss.

[29] Sul tema, tra molti, D. Chinni, Decretazione d’urgenza e poteri del Presidente della Repubblica, Editoriale scientifica, Napoli, 2014; sulla riforma, A. Morelli, Notazioni sulle novità della riforma costituzionale riguardo alla decretazione d’urgenza e al rinvio presidenziale delle leggi di conversione, in www.federalismi.it, n. 11/2016; I. Pellizzone, op.cit., pp. 14 ss.

[30] Nel proliferare degli scritti inerenti alle funzioni del Capo dello Stato negli ultimi anni, si segnalano gli scritti di A. Baldassarre, Il Presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di governo, in Il Presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di governo, a cura di A. Baldassarre e G. Scaccia,Aracne, Roma, 2011, pp. 19 ss.; Id., Il Capo dello Stato come rappresentante dell’unità nazionale, in Lezioni magistrali di diritto costituzionale, a cura di A. Vignudelli,Mucchi, Modena, 2012, pp. 29 ss.; V. Lippolis-G.M. Salerno, La Presidenza più lunga. I poteri del Capo dello Stato e la Costituzione, il Mulino, Bologna, 2016; per una ricognizione dei modi in cui nella prassi alcuni Presidenti hanno esercitato il loro ruolo di persuasione, si veda anche A. Pirozzoli, Il potere di influenza degli organi di garanzia costituzionale, Jovene, Napoli, 2013, pp. 23 ss.

[31] Si pensi solo al delicato ruolo ermeneutico del giudice e al dibattuto tema dell’interpretazione conforme a Costituzione: tra molti, si vedano gli scritti di F. Modugno, Al fondo della teoria dell’interpretazione conforme a Costituzione, in Diritto e società, n. 3/2015, pp. 461 ss.; M. Ruotolo, Interpretazione conforme a Costituzione e tecniche decisorie della Corte costituzionale (2012), ora in ID., Interpretare. Nel segno della Costituzione, Napoli 2014, pp. 57 ss.; F. Mannella, Giudici comuni e applicazione della Costituzione, Editoriale scientifica, Napoli, 2011, spec. pp. 135 ss.; M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato. Contributo al dibattito sui confini della giurisdizione, Giappichelli, Torino, 2015. Su altri profili, M. Volpi, I membri laici del Csm: ruolo politico o di garanzia?, in www.federalismi.it, n.6/2016; sul tema della concretizzazione, si vedano inoltre K. Hesse, L’interpretazione costituzionale (1999), tr.it. in Id., L’unità della Costituzione. Scritti scelti di Konrad Hesse, a cura di A. Di Martino e G. Repetto, Editoriale scientifica, Napoli, 2014, pp. 85 ss.; V. Baldini, La concretizzazione dei diritti fondamentali. Tra limiti del diritto positivo e sviluppi della giurisprudenza costituzionale e di merito, Editoriale scientifica, Napoli, 2015.

[32] Basti qui ricordare il noto studio di J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992), tr. it. a cura di L. Ceppa, Laterza, Roma-Bari, 2013; per una critica ad alcune delle tesi di Habermas sia consentito il rinvio a F. Rimoli, Democrazia discorsiva e laicità: il modello di Habermas alla prova del postsecolarismo, in Noi e gli altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo, a cura di M.P. Paternò, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, pp. 133 ss..

[33] Perché non si debbono trascurare gli “enti di area vasta” di cui all’art.40 co.4 della legge di revisione (che rischiano di rendere tale abolizione affatto apparente): sul tema C. Pinelli, Gli enti di area vasta e la riforma del livello intermedio di governo locale, relazione leggibile in www.upinet.it/docs/contenuti/2015/12/Relazione_Pinelli_30novembre2015.pdf, e già F. Merloni, Sul destino delle funzioni di area vasta nella prospettiva di una riforma costituzionale delle funzioni del titolo V, in Istituzioni del federalismo, n. 2/2014, 215 ss.; sul concetto, già emerso nella legge n. 56 del 2014, che definisce le Province come “enti territoriali di area vasta” (art.1 co.3), si vedano i volumi Il nuovo governo dell’area vasta. Commento alla legge 7 aprile 2014, n. 56, a cura di A. Sterpa, Jovene, Napoli, 2014; La riforma delle autonomie territoriali nella legge Delrio, a cura di F. Fabrizzi e G.M. Salerno, Jovene, Napoli, 2014.

[34] Il riferimento è a T.J. Lowi, La scienza delle politiche (raccolta di saggi 1964-1992), tr. it. il Mulino, Bologna, 1999, secondo il quale le modalità di determinazione delle politiche pubbliche finiscono con il conformare le stesse strutture pubbliche: sul punto una critica in G. Pasquino, Nuovo corso di scienza politica, IV ed. il Mulino, Bologna, 2009, p. 249.

[35] Tema vastissimo, per il quale è qui possibile dare solo pochi riferimenti bibliografici, tra moltissimi possibili: C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003; Id., Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo (2011), tr. it. Laterza, Roma-Bari, 2012; L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2013. Per un approccio più strettamente giuridico, G. Teubner, Nuovi conflitti costituzionali (tr. it. parz. di Verfassungsfragmente: gesellschaftlicher Konstitutionalismus in der Globalisierung, 2012), B. Mondadori, Milano-Torino 2012; G. Grasso, Il costituzionalismo della crisi. Uno studio sui limiti del potere e sulla sua legittimazione al tempo della globalizzazione, Napoli 2012; C. Pinelli, L’incontrollato potere delle agenzie di rating, in www.costituzionalismo.it, n. 2/2012; ma sul tema si veda già M. Luciani, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Riv. dir. cost., n. 1/1996, pp. 124 ss.

[36] Sul tema, per tutti, N. Matteucci, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, il Mulino, Bologna, 1997, pp. 101 ss..

[37] Sul tema, tra molti, M. Fioravanti, Costituzionalismo. Tendenze della storia e percorsi attuali, Laterza, Roma-Bari, 2014; G. Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, Feltrinelli, Milano, 2006; P. Ridola, Diritti di libertà e costituzionalismo, Giappichelli, Torino, 1997; sia altresì consentito il rinvio a F. Rimoli, L’idea di costituzione. Una storia critica, Carocci, Roma, 2011.