Magistratura democratica

Se questo è un giudice.
Nelle leggi elettorali con ‘bollino di costituzionalità’ il rischio della riduzione della Costituzione a ideologia

di Silvia Niccolai

La riforma Renzi-Boschi intesta alla Corte costituzionale un inedito giudizio preventivo di legittimità costituzionale delle leggi elettorali.

L’articolo mette in risalto come si tratti di un dettaglio qualificante la riforma.

Il rischio è quello di una modifica del ruolo della Corte, da interlocutore dialettico in una dinamica democratica aperta a certificatore di indirizzi legislativi.

«La prima cosa che si impara stando in una famiglia di gente di legge
è che a nulla si può rispondere in modo preciso e sicuro»

H. Lee, Il buio oltre la siepe, trad. it. 1963

1. Il nuovo giudizio preventivo: una cartina di tornasole dei tratti salienti della revisione costituzionale Renzi-Boschi

Sono due i principali aspetti distintivi della revisione costituzionale Renzi-Boschi. In primo luogo, essa rappresenta, anziché una innovazione, la sedimentazione o legittimazione di qualche cosa che c’è già, ovverosia di caratteri da tempo consolidatasi nel nostro Ordinamento costituzionale. La preminenza dell’esecutivo, la riduzione del ruolo del parlamento, la ri-centralizzazione dello Stato, i tre contenuti portanti della cd riforma, sono in realtà tratti già saldamente instauratisi nella nostra vita istituzionale. In secondo luogo, la revisione costituzionale, contrariamente alle aspettative suscitate nei cittadini dai suoi promotori, anziché un periodo di stabilità ed efficienza del funzionamento delle istituzioni, apre (o prosegue), verosimilmente, una fase di continuo assestamento.

Su questo secondo aspetto – il carattere non compiuto della riforma – è bene soffermarsi un momento. Sempre il disegno astratto delle istituzioni richiede il proprio completamento, e sviluppo, in prassi, consuetudini o anche norme attuative, e si deve solo alla semplificazione invalsa nella comunicazione politica, se non all’elemento di ingannevolezza insito nella stessa retorica della ‘riforma’ quale strumento salvifico, se nei cittadini viene, all’opposto, coltivata l’illusione che un colpo di bacchetta magica cambierà le cose, naturalmente in meglio, da un giorno all’altro. Dire che la nuova Costituzione, non diversamente dalla vecchia, sarà fatta in concreto dalle prassi che saranno adottate dai soggetti politici, e ne rifletterà inesorabilmente la qualità e le mentalità è una semplice considerazione di buon senso, che non varrebbe nemmeno la pena fare se non fosse che, nel caso della riforma Renzi-Boschi la componente di incompiutezza non rimanda soltanto alla naturale dinamica tra Costituzione formale e Costituzione materiale, non chiama in causa, solo, la ineliminabile tendenza, o l’innegabile capacità, degli effettivi rapporti di forza di plasmare le disposizioni sulla forma di Stato e di Governo, che ha fatto la storia della Costituzione repubblicana e continuerà a farla. Particolarmente accentuato e ricorrente in punti essenziali (la modalità di elezione del nuovo Senato; le forme di decisione dei conflitti di competenza tra le Camere, rimesse a un accordo tra i Presidenti di cui non si conosce l’efficacia e il regime giuridico, per fare due soli esempi), nella attuale revisione costituzionale quell’elemento di incompiutezza è invece anche e soprattutto un segno dei tempi, che non investono più nella Costituzione rigida, nelle narrative che la accompagnano (la Costituzione preserva nel mutamento una tavola di valori) ma puntano sulla adattabilità della Costituzione (alle esigenze concrete delle relazioni di potere e politiche) e pregiano nuove narrative. Tutto il processo di revisione è stato accompagnato da un unico messaggio: la Costituzione deve essere cambiata perché il Governo (nel senso lato delle strutture del potere) sia più efficiente, e questo messaggio può essere rovesciato nel senso: la Costituzione serve all’efficienza del Governo, cui ogni cosa è subordinata. Se è così, il senso stesso della rigidità tramonta a favore di una istanza continua di adattabilità delle istituzioni alle dinamiche del potere, cosa del resto predicata da tutti i teorici della post-democrazia, e l’incompiutezza della riforma esprime di quest’ultima un tratto qualificante.

I due aspetti della riforma Renzi-Boschi che ho evocato sin qui, consolidamento-legittimazione di trasformazioni già avvenute e adozione di una filosofia di adattabilità delle istituzioni alle esigenze di governo, sono in connessione tra loro.

Adattabilità delle istituzioni significa, tra l’altro, alto tasso di de-formalizzazione delle procedure, degli atti, degli ambiti di competenza (cioè, alla fine, perdita di legalità), e anche di questo tipo di fenomeni la vita istituzionale degli ultimi anni ci ha dato numerosissimi esempi, dalla lettera della BCE e della Commissione che nel 2011 detta l’Agenda di governo, alle leggi approvate senza relazione di Commissione e via ‘canguro’ diventate abitudine col governo Renzi, alla ridefinizione dell’organo Governo (sparito nella sua dimensione collegiale e risucchiato, dal Governo Monti in poi, nella sola figura del presidente del Consiglio); alle trasformazioni dell’istituzione Presidenza d’assemblea parlamentare, che da rappresentante e tutore dell’indipendenza costituzionale di ciascuna Camera è smottata in una mera cinghia di trasmissione dell’indirizzo governativo; fino alle disinvolte confusioni, continuamente praticate con riferimento a questo o a quell’istituto e alla sua natura e funzione; non ultimo, il caso del referendum sulla riforma costituzionale interpretato, dal Governo in carica, come ‘plebiscito’ su di sé. È chiaro che una Costituzione pensata per consentire al Potere di assumere le configurazioni che gli sono utili in vista dei fini che di volta in volta persegue non può pregiare molto forme, procedure, tipicità degli atti, tutto il bagaglio dello Stato di diritto, che chiamiamo legalità.

Di questi due caratteri della riforma costituzionale – continuità col presente, ossia con tratti degenerativi già ben installati nell’esperienza; incompiutezza che apre una fase di continua adattabilità delle istituzioni alle esigenze concrete di Governo, queste ultime rappresentanti il vero ‘valore’ costituzionale di fondo – la cartina di tornasole è la disposizione dedicata alla introduzione del giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali[1], una innovazione tutta intrisa, a sua volta, dell’illusione da bacchetta magica in cui la riforma affida nel complesso le sue speranze di affermazione e dietro la quale camuffa la propria reale portata.

2. Il giudizio preventivo: annuncio e coronamento di un modificato intendimento della giustizia costituzionale

Oltre alla preminenza senza confini del Governo (che assorbe in se l’interezza delle dinamiche politiche nella sparizione del ruolo intermediario dei partiti), oltre allo spegnimento della dialettica parlamentare (dunque della rappresentanza politica e della idea stessa che l’attività del Governo sia sottoponibile a indirizzo e controllo); oltre al neo-centralismo di ritorno (con riduzione dei territori a risorse economiche), vi è infatti un quarto carattere della nostra vita istituzionale attuale che è piuttosto preoccupante e che la riforma, col giudizio preventivo, tende a istituzionalizzare. Questo carattere riguarda la giustizia costituzionale ed è rappresentato dal cambio di passo ultimamente registratosi nel ruolo della Corte, sempre più spesso incaricata (o auto-incaricatasi) di funzionare, anziché come interlocutore dialettico di una dinamica democratica aperta, come soggetto supervisore e certificatore che, tra gli sviluppi e scelte degli organismi rappresentativi, cioè della politica, seleziona quelli autorizzati e quelli non. Proprio la sentenza n. 1 del 2014, la sentenza che ha dichiarato l’incostituzionalità del ‘Porcellum’ ha avuto con grande nitore questa valenza.

Fino a quel momento, si era sempre ritenuto che la nostra Costituzione nulla prescriva sul sistema elettorale, in particolar modo non prescriva se questo debba essere proporzionale o maggioritario; con la sent. n. 1 del 2014 è stata invece impartita l’indicazione che solo un tipo di sistema elettorale è ammissibile nel nostro ordinamento, ed è quello maggioritario, poiché maggioritario è il sistema che, segnalando i difetti del Porcellum, la Corte ha modellato, e definito rispondente a quelle esigenze di ‘governabilità’ che essa ha eretto, in quella occasione, per la prima volta a principio della nostra democrazia. Nei fatti, dopo la sentenza n. 1 del 2014 la discussione sul sistema elettorale è stata a senso unico: non poteva essere che un maggioritario, e lo spazio di manovra del legislatore consisteva nell’evitare di incorrere nei vizi di incostituzionalità indicati dalla Corte, come il problema della soglia per ottenere il premio di maggioranza, o le preferenze. Oltre questo confine non si poteva andare, questa la convinzione implicita, ma ferma, delle forze politiche, degli organi costituzionali, e, di rimbalzo, del dibattito pubblico: non si poteva ridiscutere il problema del sistema elettorale a 360 gradi, e così, per esempio, tornare a ragionare dei pregi di un proporzionale. L’autorevolezza della decisione della Corte ha contribuito non poco a che la libertà di scelta delle forze politiche, e dello stesso dibattito presso l’opinione pubblica sia apparsa, e di fatto sia stata, incanalata dentro un percorso prestabilito.

Un segnale analogo ha lampeggiato nella discussione intorno alla legge sulle unioni civili, dove è stato speso l’argomento che non solo parificarle al matrimonio, ma anche fare ‘troppi’ richiami alle norme del codice civile sul matrimonio, sarebbe stato ‘contrario’ alla sentenza della Corte costituzionale, la n. 138 del 2010, che sul problema si pronunciò e che era, invero e invece, una decisione aperta a diverse interpretazioni (oltre che, ormai, è da dire, piuttosto risalente nel tempo). Fondati o meno i richiami fatti dalla stampa alle ‘perplessità del Capo dello Stato in ordine al disegno di legge Cirinnà alla luce della sentenza 138[2], hanno avuto purtuttavia un peso: con essi, il dibattito intorno alla legge sulle unioni civili ha di fatto registrato un notevole cambio di percezione del senso e della funzione della giustizia costituzionale, la cui giurisprudenza è stata utilizzata, presso l’opinione pubblica, come fonte di una indicazione prescrittiva, indirizzata al Parlamento, circa quale strada può seguire, e quale non, nell’affrontare un tema inerente i diritti e le libertà fondamentali: una indicazione prescrittiva e, va aggiunto, di segno restrittivo.

Eppure, sappiamo che su qualunque questione la Corte si pronunci con una sentenza di infondatezza, o di inammissibilità, la questione si può riproporre. È questo il merito del carattere successivo, incidentale e concreto della nostra forma di giudizio di legittimità sulle leggi: mostrare che ogni problema della vita civile mai ha una soluzione indiscutibile, valida una volta per tutte, ma è sempre rivedibile alla luce di mutate circostanze di tempo, dell’emergere di nuove sensibilità, di una modificata percezione dei principi e della qualità degli interessi coinvolti. La Costituzione non è un testo dal quale si traggano enunciati di verità e falsità, ma è l’oggetto di una interpretazione che la lega alla vita della comunità cui si indirizza. Il legislatore, che non può reintrodurre tal quale una disposizione dichiarata incostituzionale, può, con nuove scelte, segnalare una modificata percezione dei principi costituzionali e spingere esso la Corte verso un mutamento interpretativo. Se la politica perde questa responsabilità, questa libertà, sono i cittadini, che dovrebbero essere rappresentati dalle sedi politiche, a perderne, e si imbocca la via della democrazia dei custodi.

Numerosi e significativi sono stati di recente i casi in cui la Corte ha emanato decisioni che legittimano e consolidano, nell’Ordinamento, cambiamenti il cui senso e il cui valore è difficilmente spiegabile alla luce dei principi costituzionali quali sono stati per lungo tempo intesi: la decisione sullo ‘speciale grado di riservatezza’ spettante al Capo dello Stato è parsa reinterpretarne il ruolo in quello di un Panopticon[3], che sembrerebbe estraneo in premessa ai principi di trasparenza che innervano una democrazia; le decisioni sulla legge di conversione del decreto legge che ne hanno sancito la natura di legge a competenza riservata hanno prefigurato la riduzione della potestà legislativa delle Camere, per Costituzione piena in ogni caso, a una posizione di mera ratifica quando a esercitare la proposta è il Governo[4], assecondando così preventivamente linee che la revisione costituzionale avrebbe di lì a poco formalizzato (con la legge prioritaria che si somma al decreto legge facendo del Governo il dominus di un procedimento legislativo sottoposto a termini e pertanto svuotato della sua funzione di autentica discussione e deliberazione).

La giustizia costituzionale segue dunque, da diversi anni ormai, un nuovo passo, quello di una autorità la cui funzione è individuare e pre-stabilire la direzione che le istituzioni rappresentative possono o non possono prendere[5]. È un passo che richiama piuttosto da vicino i caratteri di una democrazia ‘protetta’ e uno dei cui costi è la confusione tra critica politica e valutazione giuridica, che a sua volta non da oggi zavorra e opacizza la nostra esperienza, restringendo gli spazi della prima, e alterando la funzione della seconda. A forze politiche che non hanno il coraggio di intavolare una discussione aperta sul matrimonio omosessuale fa comodo nascondersi dietro il ‘veto’, reale o presunto, della Corte costituzionale. Alla maggioranza che avrà approvato una contestata legge elettorale che passerà il vaglio della Corte farà comodo zittire le critiche politiche, che potrebbero pur sempre e più che legittimamente sopravvivere contro di essa sbandierando il ‘bollino’ ottenuto dalla Consulta. Il costo della confusione tra merito politico e legittimità costituzionale tende in effetti a far dimenticare che non tutto ciò che è legittimo è anche opportuno, e viceversa. In un Paese come il nostro, abituato a attaccare gli oppositori politici sul piano della eventuale illiceità del loro agire, molto meno che sul piano del merito politico delle loro scelte, le due cose sono continuamente confuse; lungo il crinale che le distingue si colloca la giustizia costituzionale, che concerne la legittimità delle leggi, non la loro opportunità. Una Corte che, giusta gli esempi che richiamavo poco sopra, ha spesso fatto apparire quel crinale incerto e compromesso, viene invitata dal nuovo giudizio preventivo a farlo saltare del tutto. Il fine perseguito dall’ottenimento di una pronta decisione che certifichi la legittimità della legge elettorale difficilmente può essere individuato in altro se non che la discussione, il dibattito e la critica, durino poco e si spengano. Il rischio è notevole perché, con quelle, si spegne la coscienza che la democrazia è un percorso aperto, che attraverso discussione, dibattito e critica trova le sue strade, per esempio sostituendo una legge valida, non viziata, con una anch’essa non viziata certo, ma politicamente migliore se tale giudicata dai cittadini e dai loro rappresentanti.

Un tempo si studiava che la discussione, il dibattito, la critica sono le premesse necessarie di una democrazia; che siano diventati problemi da evitare, o cose da svalutare come mere perdite di tempo, è solo il segno che la nostra convivenza a quel tipo di valori non si ispira più. Il diritto costituzionale, in questo contesto, si riduce a un terreno di enunciazioni dogmatiche piegate alla valutazione di opportunità. Vi è chi, studiando la sentenza n. 1 del 2014, ha notato che in essa la Corte costituzionale conferisce valore costituzionale a una dottrina politica (consistente in un certo intendimento della governabilità), attraverso la quale i valori pluralistici, partecipativi e rappresentativi cedono alla efficienza decisionale pur essendo i primi, e non la seconda, sicure componenti della nostra ‘tavola di valori’[6]. Ricordando la giurisprudenza sul decreto legge, o quella sulla responsabilità del Capo dello Stato, cui facevo cenno poco sopra, i casi in cui la Corte, anziché sindacare le manifestazioni odierne del potere alla luce dei principi della nostra Costituzione, preferisce impartire lezioni di un nuovo diritto costituzionale che non trova linfa vitale in quei principi, ma nella realtà delle nuove esigenze di governo, appaiono numerosi.

In un libro molto bello di alcuni anni fa Mannori e Sordi hanno contrapposto la mentalità ‘esecutiva’, che tende a privilegiare il fine che il pubblico potere intende raggiungere, senza bisogno che esso dimostri le sue ragioni, alla mentalità ‘giurisdizionalistica’ che è una mentalità che mette sullo stesso piano due interessi confliggenti ma paritetici e impone a chi accampa una pretesa di dimostrare le sue ragioni[7]. La prima è decisionistica, la seconda, per l’ethos di indipendenza che alimenta, è cattiva conduttrice di decisionalità; ma, tra le due, è naturalmente la seconda la più sensibile alle istanze isonomiche proprie di una democrazia. La nuova Corte degli anni recenti esprime sempre più spesso, o sempre più spesso è chiamata a esprimere, più la prima mentalità che la seconda. In questa cornice, l’introduzione del nuovo giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali annuncia il consolidarsi di una concezione del ruolo della Corte costituzionale che vede in questo organo il titolare di una interpretazione autoritativa della Costituzione; una concezione che si associa al decadere del carattere giurisdizionalistico del ruolo della Corte, e, in generale, del valore del diritto nella nostra convivenza.

Per avvalermi del linguaggio più corrente negli studi di diritto costituzionale, potrei dire che abbiamo una Corte sempre più ‘politicizzata’ e sempre più attenta a difendere quello che un tempo si chiamava ‘il diritto costituzionale oggettivo vale a dire l’interesse ordinamentale, che non ai diritti individuali e al piano delle libertà. E sono appunto questi due gradienti, politicizzazione e difesa del diritto costituzionale oggettivo, che la stessa dottrina ha notato come segnali che accompagnano problematicamente il nuovo giudizio preventivo[8], giustificato da retoriche, e costruito su meccanismi, che svalutano del tutto la sua componente di giudizio a favore di quella di pura decisione.

3. Verso un diritto costituzionale senza processo.Un giudizio ‘a data certa’ e senza petitum

È piuttosto significativo che la più naturale ratio che in teoria verrebbe da associare a un giudizio preventivo su ricorso parlamentare contro la legge elettorale, la ratio cioè di tutelare le minoranze, sia rimasta quasi del tutto assente dal dibattito, e anche dall’analisi scientifica. Ancora più significativo è che i pochi che hanno prestato attenzione a questo punto abbiano rilevato che, per come è concepito, il nuovo giudizio preventivo non è affatto uno strumento di tutela delle opposizioni. Dato il numero molto alto di parlamentari richiesto per sollevare il ricorso, e tenuto conto di come la nuova legge elettorale, l’Italicum, influenzerà la composizione della Camera, il giudizio preventivo «sembra più un ricorso del partito di ‘opposizione’ che non uno strumento di tutela delle minoranze», quale il ricorso contro la legge elettorale è in altri Paesi che lo prevedono, come la Francia e la Spagna[9]. Quando si riflette sul fatto che l’accordo sulla legge elettorale potrebbe essere trasversale, cioè coinvolgere il partito di maggioranza e la principale opposizione, appaiono piuttosto evidenti due dati: uno, è che il giudizio preventivo tendenzialmente non permetterà proprio a chi potrebbe essere più sensibile ai vizi della nuova legge elettorale, ossia i gruppi minori, di ricorrere avverso di essa; la seconda è che, così stando le cose, il nuovo giudizio preventivo può funzionare, anziché come rimedio avverso una legge elettorale incostituzionale o approvata in modi incostituzionali[10], come meccanismo protettivo nei confronti di essa, e dell’accordo politico che vi è sotteso, vuoi perché la principale opposizione potrebbe decidere di non sollevare il ricorso; vuoi perché il ricorso potrebbe essere sollevato proprio per ottenere una pronuncia che sancisca la costituzionalità, dunque come dirò l’indiscutibilità, della nuova legge elettorale, e, magari, proprio dal partito di maggioranza. Mentre, numeri alla mano, i gruppi parlamentari minori saranno nell’impossibilità di sollevare il ricorso, potranno farlo i più grandi, compreso, appunto, il gruppo di maggioranza.

Il giudizio preventivo non è dunque un istituto a garanzia delle minoranze[11], e, in effetti, lungi dal chiamare in causa il rapporto tra maggioranza e minoranze parlamentari, le giustificazioni che hanno sorretto l’introduzione del nuovo giudizio preventivo, nell’opinione pubblica e in quella scientifica hanno insistito su altre rationes; in particolare, quella di sapere prima, una volta per tutte, rapidamente e con certezza se la legge elettorale è o non conforme a Costituzione, e perciò evitare cioè che si ripresenti l’ipotesi che mediante il giudizio successivo una legge elettorale possa essere contestata[12].

L’obiettivo che la introduzione del giudizio preventivo persegue non è quello di rendere più dialettici e trasparenti i rapporti tra maggioranza e opposizioni, ma è un obiettivo che investe la natura della giustizia costituzionale e la sua funzione, e le argomentazioni che ho appena evocato lo dimostrano.Sono argomentazioni semplificanti e ingannevoli, anche perché non è stata certamente colpa della Corte costituzionale, ma semmai delle forze politiche, se un sistema elettorale quale il Porcellum, vistosamente criticabile, è rimasto per lunghi anni intangibile; né è una Corte costituzionale, ma l’arena politica, la fonte naturale di elaborazione del sistema elettorale. Sono, soprattutto, quelle che insistono sulla rapidità e certezza della decisione – depositatesi nell’inedita previsione di un giudizio costituzionale ‘a data certa’ dato che la legge di revisione assegna alla Corte trenta giorni per decidere sul ricorso intorno alla legge elettorale[13] – argomentazioni profondamente antigiuridiche, poiché se il diritto ha una funzione di civiltà, è quella, da una parte, di prospettare alla mente umana uno spazio di giudizio più complesso di quello che distingue il nero dal bianco e il vero dal falso, dall’altra parte, di tenere presente la dimensione temporale, che incide sulla percezione delle cose. Il giudizio sulla legge elettorale lo si vuole ‘subito’ e lo si vuole irrivedibile, ‘certo’, cioè ‘definitivo’: pur non escludendo in linea di principio la possibilità di una questione di legittimità successiva, l’intento del legislatore costituzionale, con l’introduzione del giudizio preventivo, è di prevenire e rendere nei fatti impossibile questa ipotesi[14]. Dato il tipo di sindacato che è stato immaginato, privo cioè, come tornerò a far notare, di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, la Corte potrà pronunciarsi su ogni aspetto della nuova legge elettorale, di tanto che, è da presumere, l’eventualità di un giudizio successivo che superi in vaglio di ammissibilità o un giudizio di manifesta infondatezza, pur non esclusa in astratto, è in pratica estremamente ridotta[15]. Del resto, se si introduce un giudizio preventivo, solo per ipocrisia non si esclude quello successivo, il timore del cui ripresentarsi è all’origine della riforma. Ciò che l’introduzione del giudizio preventivo segnala, dunque, è un cambiamento culturale: unanimemente, il modello preventivo di giustizia costituzionale, ispirato alla esperienza premoderna dell’interinazione, è considerato meno efficace, rispetto al giudizio incidentale, alla soddisfazione dei diritti individuali, «essendo più esplicitamente orientato alla garanzia oggettiva della Costituzione ed essendo un giudizio astratto che trova il suo limite nella circostanza di non potersi giovare della esperienza applicativa concreta della legge, dalla quale possono scaturire profili di incostituzionalità difficilmente ipotizzabili a priori»[16]. L’introduzione in Costituzione del giudizio preventivo è il segno di un cambiamento, recessivo, nell’intendimento della funzione e della natura della giustizia costituzionale.

La ‘certezza’ oggi che la legge elettorale non è incostituzionale, costa la possibilità di ridiscuterla domani alla luce di nuove argomentazioni o della percezione di problemi e mancanze, di vizi, che essa riveli nella pratica. Si incrina così un profondo fattore di equilibrio, e direi di civiltà, di cui è portatore il nostro sistema di giustizia costituzionale, dove una legge può essere dichiarata incostituzionale, ma mai «conforme alla Costituzione». Questo è un valore profondo perché tiene aperta la possibilità di discutere della costituzionalità delle leggi in mutate circostanze di tempo e di contesto, possibilità che, grazie alla concretezza del giudizio, cioè all’incidentalità, è rimessa alla coscienza sociale, all’esperienza di chi vive l’applicazione della legge, ovverosia ai cittadini. Il giudizio preventivo di costituzionalità che aspira a dare alle leggi elettorali una ‘bollinatura’ di costituzionalità, e introduce nei fatti la nuova figura della dichiarazione di costituzionalità, di conformità a Costituzione[17], destinata a proteggere la legge elettorale da ogni attacco futuro, tende a espropriare da un lato la cittadinanza del proprio diritto di essere giudice diffuso, insieme alla giurisdizione, della costituzionalità delle leggi, dall’altro a privare le minoranze e le opposizioni politiche del proprio diritto di critica[18]. Una volta che la legge elettorale avrà ricevuto il ‘bollino di costituzionalità’, questo basterà, con un colpo solo, a evitare questioni future di costituzionalità, e spegnere, se non a ridicolizzare, la critica politica intorno al sistema elettorale.

Il giudizio prevenivo sulla legge elettorale si pone dunque, dicevo, in continuità coi tratti involutivi che la nostra democrazia ha conosciuto nel corso del tempo, e che hanno toccato il senso stesso della giustizia costituzionale, che ci appare nel corso di un molto ambiguo cambiamento. Sempre più spesso incaricata, o spontaneamente volenterosa, di dirigere e legittimare, contenere e limitare, i percorsi della discussione politica, coi paletti del ‘permesso’ e del ‘vietato’, la nuova giustizia costituzionale si intona con un ordinamento sempre più verticalizzato, sempre meno pluralista e partecipativo, il cui valore massimo è decidere, e che svaluta, se non irride, la discussione, il dibattito, il dubbio e la critica.

Come il resto della riforma in cui si inserisce, dunque, il giudizio preventivo condivide la tendenza a istituzionalizzare, legittimare e consolidare tratti trasformativi già insediatisi nel nostro Ordinamento circa il funzionamento e la natura delle istituzioni repubblicane; con il resto della riforma, inoltre, il nuovo giudizio preventivo condivide il carattere di consapevole incompiutezza che annuncia un crescente grado di de-formalizzazione – un crescente grado di caduta della legalità – nelle manifestazioni dell’Ordinamento.

Tutti coloro che hanno commentato la nuova disposizione sul giudizio preventivo rilevano la sua incompletezza: che cosa accadrebbe se ci fosse una dichiarazione di incostituzionalità parziale? La legge andrebbe promulgata in parte[19]? Quali i rapporti tra il giudizio preventivo e il, pur non formalmente escluso, giudizio successivo? Quale la ragionevolezza del prevedere il sindacato preventivo solo per le leggi elettorali statali, e non anche per quelle regionali[20]? Lo stesso oggetto del nuovo giudizio è ambiguo: parlando di «leggi che disciplinano l’elezione» la nuova Costituzione apre la possibilità a ricorsi che non investano le leggi elettorali in senso stretto, e non delimita dunque né il campo di intervento della Corte, lasciandolo aperto all’intera normativa elettorale di contorno, comprese le norme su incompatibilità, ineleggibilità, incandidabilità, né il raggio d’azione delle forze parlamentari che abbiano interesse a sollevare il ricorso, conferendo a questo giudizio la possibilità di essere giocato ad ampio, indeterminato raggio nelle relazioni politiche, secondo contingenti determinazioni[21].

Il fatto che il nuovo giudizio preventivo si apra a dubbi di questo genere denota soltanto che esso è pensato per essere un giudizio sempre rivolto alla totalità della legge (di cui garantirà la ‘conformità a Costituzione’); un giudizio che serve a escludere quello successivo, riservando ai ‘rami alti’ la prima e l’ultima parola e che «nel suo complesso allontana la Corte dal suo ruolo di giudice»[22]. Il vero problema diventa allora quello se si tratterà veramente di un giudizio, posto che come ricordato poco sopra, e come notato dai commentatori generalmente con grande perplessità, salta in questo caso la regola della corrispondenza tra chiesto e pronunciato[23]: il ricorso, semplicemente ‘motivato’ non dovrà indicare i parametri costituzionali che si assumono violati, e la Corte potrà spaziare come vuole nelle previsioni della legge e in quelle costituzionali. Ciò va sommato al fatto, che ricordavamo poco sopra, per cui a ricorrere potrà essere un partito politico che ha partecipato alla maggioranza che ha votato la legge elettorale, se non lo stesso partito di maggioranza, mossi dall’interesse di ottenere dalla Corte (in questo caso davvero chiamata in causa come ‘terza camera’) la ‘sanzione’ sulla legge elettorale, mentre le minoranze vere, coloro che sono rimasti esclusi, che potrebbero avere un concreto interesse avverso la nuova legge elettorale, non possono sollevare il ricorso, difficilmente avendone ‘i numeri’. Se la nuova legge elettorale nasce per esempio da uno scavalcamento delle norme di procedura, saranno coloro che le hanno subite a non potersene lamentare.

In un giudizio che origina da un ricorso semplicemente motivato, e che non si deve impegnare a individuare i vizi di costituzionalità e parametri violati, manca la natura contenziosa; in un giudizio che non richiede a chi lo solleva di dimostrare il proprio interesse, anzi che può nascere da chi ha interesse a che la legge (solo apparentemente impugnata, dunque), venga conservata, manca la dimensione del controverso. Secondo una traiettoria che ha preso vistosamente corpo con la sent. n. 1 /2014, dalla giustizia costituzionale sembra che si attenda sempre meno che sia processo, ossia attività regolata da forme e il cui fine non deve essere altro che «la determinazione delle buone o cattive ragioni delle parti che vi si confrontano», e sempre più, invece, decisione preordinata a un fine, di cui è ben consapevole[24]. Ci si può chiedere se questo è un giudizio; se è un giudice quello che può dire quello che vuole, scegliere a piacere su cosa pronunciarsi e cosa non, non trovandosi limitato neppure da una quaestio che definisca un conflitto tra interessi, valori, principi. Se è una sentenza, quella che alla sua base non ha una domanda circostanziata, e che viene emessa in un procedimento le cui regole e i cui presupposti sono tutti incerti, indefiniti, rimessi in buona sostanza al giudice e ai soggetti ricorrenti.

Il nuovo giudizio preventivo ci conduce allo snodo più problematico, inquietante, che investe la nostra democrazia, che riduce i suoi atti portanti (la legge, la sentenza) a meri simulacri.

Occorrerebbe tornare a ricordare che una legge è non una legge solo perché la emana il Parlamento, ma perché presuppone un dibattito compiuto, in cui i diritti delle minoranze e delle opposizioni sono rispettati, e un procedimento dotato di un certo grado di stabilità viene rispettato. Negli ultimi anni, tra questioni di fiducia, canguri, emendamenti premissivi, voti in aula senza Relazione di commissione, il procedimento parlamentare è stato fatto a pezzi, e con esso i valori che il procedimento protegge, legalità e qualità democratica della decisione. Ci siamo abituati a considerare legge il mero involucro esterno, il mero fatto che una deliberazione sia votata alle Camere, non importa come.

Occorrerebbe ricordare che una sentenza non è una sentenza sol perché la emana una autorità di tipo giurisdizionale ma perché è il frutto di una procedura che, per prima cosa, circoscrive i poteri del giudicante di condizionare l’esito della decisione secondo un fine dal giudicante prediletto, in primo luogo vincolandolo a pronunciarsi solo su qualcosa che qualcuno ha chiesto.

Un enorme tasso di formalismo (la legge è tale solo perché votata dalle Camere, non importa come; una sentenza è tale perché emessa da una autorità giurisdizionale, non importa come) corrisponde oggi nel nostro Paese al più alto tasso di de-formalizzazione: nel procedimento legislativo si può calpestare qualunque disposizione, qualunque principio, pur di arrivare al risultato dell’approvazione; nel procedimento giurisdizionale pure?

L’alleanza tra legalità-procedura e tra la qualità democratica della convivenza sembra dimenticata. Chi impugna la legge elettorale non dovrà neppure fare la fatica di spiegare perché, ma disporsi a ricevere la lezione di diritto costituzionale che la Corte vorrà impartire, o limitarsi a darle l’occasione di enunciarla. Ma una lezione non è una sentenza. Se il processo costituzionale non è processo, il diritto costituzionale non è diritto, ma ideologia, che può essere buona a tutti gli usi.

Dicevo in apertura che l’antica narrativa, di tipo giurisdizionalistico, cui rimanda la Costituzione (mantenere viva, nel mutamento, una tavola di valori, un complesso di principi ritenuti fondamentali per la convivenza) cede a una diversa, secondo cui la Costituzione serve a proteggere l’efficienza delle istituzioni. Una tavola di valori, un complesso di principi si protegge con l’arte del giudizio; all’efficienza delle istituzioni del giudizio basta e conviene l’apparenza. Sottesa alla nuova Costituzione è una mentalità antigiuridica, che oggi mi pare largamente diffusa: tutto ciò che col diritto si apparenta, cioè l’analisi problematica e dialettica delle questioni, svolta considerando su un piede di parità interessi contrapposti e i loro portatori, e con pensiero possibilista, viene oggi screditato nel nostro Paese, dove ai cittadini viene detto che possono gioire perché finalmente sapremo subito, con certezza irrevocabile, se una legge (si comincia con quella elettorale, vedremo dove si va a finire) è costituzionale o non, purché essi non ci mettano bocca (il ‘rischio’ del giudizio successivo deve essere evitato; la voce delle minoranze fatta tacere). Scambiandolo con un mero fatto di autorità, del diritto viene smarrito il contributo di civiltà che esso dà alla convivenza: educare al senso delle possibilità, che vanno esplorate con spirito aperto, dubitativo, con moderazione e autodisciplina, e col tempo che richiedono, e, soprattutto, in una dialettica reale e veridica tra argomenti. Sono valori di cui va perduto il senso, quando a esser coltivato è solo il bello delle pronte certezze a scatola chiusa. E a una cosa chiamata a dare certezze così intese è difficile dare il nome di Costituzione e di diritto costituzionale.

[1] Secondo l’art. 13 della legge di revisione costituzionale nel testo approvato il 14 aprile 2016 all'articolo 73 della Costituzione, il primo comma è così sostituito: «Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dall'approvazione. Le leggi che disciplinano l'elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, su ricorso motivato presentato da almeno un quarto dei componenti della Camera dei deputati o da almeno un terzo dei componenti del Senato della Repubblica entro dieci giorni dall'approvazione della legge, prima dei quali la legge non può essere promulgata. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può essere promulgata».

Con l’intento di garantire che l’Italicum non andrà esente dal giudizio di costituzionalità, la disposizione transitoria n. 11 stabilisce inoltre che «in sede di prima applicazione, nella legislatura in corso alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, su ricorso motivato presentato entro dieci giorni da tale data, o entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore della legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale, da almeno un quarto dei componenti della Camera dei deputati o un terzo dei componenti del Senato della Repubblica, le leggi promulgate nella medesima legislatura che disciplinano l'elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte al giudizio di legittimità della Corte costituzionale. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni». Si tratta in questo caso di un giudizio successivo, con effetti che dovrebbero essere in linea di principio analoghi a quelli degli ordinari giudizi di legittimità, compresa, trattandosi di leggi elettorali, la necessità di preservare la normativa di risulta; su questi aspetti v. F. Dal Canto, pp. 13 ss.; S. Catelano, Prime riflessioni sul controllo preventivo sulle leggi elettorali inserito nella proposta di revisione costituzionale all’esame del Parlamento, in Forum dei Quaderni Costituzionali (online), 23 maggio 2015. Il problema della normativa di risulta si porrebbe peraltro anche nel caso del giudizio preventivo, almeno secondo A. Rauti, Il giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali di Camera e Senato, in Federalismi.it, 6/2016, p. 8. Con osservazione interessante, I. Ciolli, Appunti per l’audizione del 20 ottobre 2015, in Osservatorio AIC, Rivista online, 2015 rileva che «la disposizione transitoria dell’art. 39, comma 13, nel fissare il termine di 10 giorni per il controllo di legittimità della Corte costituzionale sull’Italicum, indirettamente dispone che in un tempo successivo a quel termine, tale legge elettorale non potrà più essere sottoposta al sindacato di costituzionalità (preventivo o astratto che si voglia). Ciò potrebbe indurre la maggioranza parlamentare a modificare la legge elettorale n. 52 del 2015, magari fino a stravolgerla, piuttosto che deliberarne una nuova, perché solo attraverso l’Italicum si eviterebbe il controllo preventivo disposto dall’art. 73 Cost. che vale, invece, per tutte le altre leggi elettorali successive a esso».

[2] Il richiamo a tali ‘perplessità’ si diffuse a partire da un articolo comparso su La Repubblica del 16 gennaio 2016 e tradottesi in una vulgata ben riassunta in questo titolo: Unioni civili, dubbi del Quirinale: simili a nozze sono incostituzionali (del tgcom24, 18.1.2016, online).

[3] Con riferimento alla sent. 1/2013 v. in questo senso A. Morrone, Il nomos del segreto di stato, tra politica e Costituzione, in www.forumcostituzionale.it, 2013.

[4] G. Filippetta, L’emendabilità del decreto-legge e la farmacia del costituzionalista, in Rivista AIC, 2012 (online). Id., La sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, ovvero dell’irresistibile necessità e dell’inevitabile difficoltà di riscrivere l’art. 77 Cost., in www.federalismi.it – Focus Fonti, n.1/2014 (online).

[5] È, peraltro, un passo in cui si invera una delle possibili opzioni circa il ruolo della Corte che sono state avvalorate dalla dottrina italiana, dove fortissima sia sempre stata la tendenza a riconoscere alla Corte costituzionale un ruolo decisionistico, di natura politica, che è, come vengo dicendo nel testo, quello che col tempo sembra essersi sempre più inverato, a discapito delle componenti giurisdizionalistiche del sindacato di costituzionalità delle leggi. Secondo una linea di studi che trova un suo punto cardinale nella riflessione di C. Mezzanotte, Le ideologie del costituente, Milano, 1979, la giustizia costituzionale serve a fornire alla democrazia parlamentare un insieme di razionalizzazioni infinitamente adattabili, in funzione di una utilità individuata in base a una logica calcolante, riassumibili nella creazione dell’unità e del consenso. Va da sé che le letture ‘decisioniste’ del ruolo della Corte sono quelle sfiduciate sia nei confronti della capacità della democrazia pluralista di produrre coesione sia nei confronti della ragione giuridica che procede dialetticamente e in maniera imparziale.

[6] La sent. n. 1 accoglie «una concezione che si potrebbe definire meramente ‘ingegneristica’ della ‘governabilità’ che la Corte fa propria senza alcun tentennamento» e che rappresenta, per il giudice delle leggi, «un obiettivo di rilievo costituzionale – generabile da una certa normativa elettorale – volto a, in sequenza: a) agevolare la formazione di una adeguata, nel senso di stabile, maggioranza in Parlamento; b) favorire la formazione di stabili governi; c) garantire la stabilità del governo del Paese; d) rendere più rapido ed efficiente il processo decisionale nell’ambito parlamentare; e) garantire l’efficienza decisionale del sistema». Ciò «significa aderire ad una concezione ideologica della democrazia che muove dal presupposto – opinabile – che i regimi politici ‘maggioritari’ funzionerebbero meglio di quelli ‘consensuali’; che i sistemi elettorali proporzionali, al contrario di quelli maggioritari, genererebbero instabilità e inefficienza; che la capacità rappresentativa dell’organo parlamentare dovrebbe o potrebbe essere artificialmente alterata dalla disciplina elettorale al fine di raggiungere l’obiettivo della governabilità, ecc.». Così A. Deffenu, Legge elettorale e governabilità. Riflessioni a partire dalla legge 6 maggio 2015, n. 52, in corso di pubblicazione su Costituzionalismo.it, 2016.

[7] L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Laterza, Bari, 2003.

[8] Che la giustizia costituzionale, il suo senso e la sua funzione, sia il vero obiettivo della riforma che introduce il giudizio preventivo è espresso con molta chiarezza da E. Catelani, Pregi e difetti di questa fase di revisione costituzionale: proposte possibili, in Osservatorio sulle fonti, 1/2015 (online), p. 4: «introdurre un meccanismo di accesso preventivo e su una legge “politicamente sensibile”, significa introdurre una trasformazione del ruolo della Corte e quindi delle sue caratteristiche essenziali. Se si vuole apportare una modifica così sostanziale delle competenze della Corte, del suo rapporto con gli altri organi costituzionali e nel sistema nel suo complesso, lo si faccia pure, ma in modo esplicito con scelte omogenee ed unitarie. La sua natura di organo ibrido con una composizione politica e giurisdizionale insieme che opera con metodo giurisdizionale ha sempre costituito l’elemento caratterizzante e tipico dell’organo stesso che non è utile cambiare, proprio e solo con riguardo alla legislazione elettorale. La Corte in questi ultimi anni ha più volte esercitato poteri interpretativi andando oltre le regole che per lungo tempo si è posta ed interferendo fortemente con gli altri organi costituzionali (si pensi alla sentenza n. 1/13 sui poteri del Presidente della Repubblica, la stessa n. 1/14 sulla legge elettorale ed ancora altri esempi anche degli ultimi giorni potrebbero essere fatti) ed inserire il giudizio costituzionale all’interno della decisione politica del contenuto della legge elettorale significherebbe accentuare questa sua tendenza, se non addirittura trasformare completamente le caratteristiche ed il ruolo della Corte stessa. D’altra parte l’intervento del Presidente della Corte costituzionale, critico su tale competenza, è indicativo dei dubbi che lo stesso organo ha in ordine all’opportunità di esercitare questo potere, cosciente delle difficoltà che una tale nuova competenza potrebbe determinare sul particolare e delicato assetto dei poteri di essa e dei suoi rapporti con il potere politico». Dell’introduzione del giudizio preventivo ‘non sono stati considerati gli effetti di sistema’ secondo G. Azzariti, Audizione alla I Commissione della Camera dei Deputati, in Osservatorio Aic, 2015, on line. Per diffuse critiche v. altresì G. Tarli Barbieri, Audizione alla I Commissione del Senato, luglio 2015, in www.senato.it.

[9] Così A. Rauti, Il giudizio preventivo, cit., p. 5, corsivi dell’A. Rauti rileva che il ricorso deve essere attivato da forze politiche che posseggano più della metà dei seggi destinati ad altre liste, poiché il quorum richiesto è di ¼ di deputati e d1 1/3 di senatori, onde alla Camera sarà richiesto l’intervento di almeno 154 parlamentari (158 secondo F. Dal Canto, Corte costituzionale, cit., p. 7. Da notare che nella prima versione della legge di riforma i numeri erano ancora più alti, richiedendosi 211 deputati). Poiché, con l’Italicum, la lista di maggioranza potrà contare su almeno il 54% dei seggi complessivi mentre il restante 46% verrà suddiviso tra le altre liste, «qui si richiede che il ricorso sia attivato da forze politiche che posseggano più della metà dei seggi destinati alle altre liste (il 25% contro il 46% per cento), ipotesi che rende ‘il principale partito antagonista, se ve n’è uno, il reale dominus del ricorso». Anche al Senato sarà necessario un numero molto alto (33 o, secondo altri, 34 senatori su 100). L’A. giustamente osserva che il legislatore costituzionale «avrebbe dovuto rimodulare i numeri in modo da consentire il ricorso anche alle formazioni politiche minori, atteso che problemi reali di costituzionalità potrebbero sorgere anche, e forse proprio, laddove i due principali partiti dovessero raggiungere un accordo sulla legge elettorale». La possibilità per il Senato di impugnare la legge elettorale della Camera è considerata irragionevole da F. Dal Canto, op. cit., p. 8; giustificata da altri (A. Rauti, op. loc. cit.) con la funzione di ‘controllo’ attribuita al Senato.

[10] Almeno in linea teorica il ricorso dovrebbe poter far valere anche i vizi in procedendo, che potrebbero derivare, in particolare, dal mancato rispetto del procedimento normale di approvazione delle leggi e dall’indebita attivazione della facoltà del Governo di chiedere alla Camera l’iscrizione del progetto di legge elettorale con priorità all’ordine del giorno, cfr. anche su questi punti A. Rauti, op. cit., p. 7.

[11] La disarmonia tra il ricorso sulla legge elettorale e la ratio ‘delle ulteriori norme di riforma sulle opposizioni’ è rilevata ancora da A. Rauti, op. cit., p. 4; dal momento che in queste norme (che si riducono peraltro alla previsione che i Regolamenti parlamentari dovranno garantire ‘i diritti delle minoranze parlamentari’ e disciplinare ‘lo statuto delle opposizioni’) compare il concetto di ‘minoranza’, come detto non valorizzato dalla norma sul giudizio preventivo sulla legge elettorale.

[12] È unanimemente rilevato che lo scopo della riforma è impedire che si possa avere per una seconda volta un giudizio successivo sulla legge elettorale, v. per tutti A. Rauti, op. cit., p. 1, il quale espressamente apprezza lo scopo della riforma, di individuare in modo ‘sicuro e subito’ i vizi di incostituzionalità delle leggi elettorali, ivi, p. 19.

[13] La dottrina tende a razionalizzare la previsione del termine ritenendolo meramente ordinatorio, perché «se fosse perentorio, risulterebbe assai arduo per la Corte, anche per ragioni di carattere organizzativo, svolgere un giudizio ‘a tutto tondo’ ovvero sull’intera legge e con riguardo a ogni possibile vizio» che è il tipo di giudizio che l’assenza di petitum le impone, o le permette, di fare (F. Dal Canto, Corte costituzionale e giudizio preventivo sulle leggi elettorali, Seminario del Gruppo di Pisa, Corte costituzionale e riforma della Costituzione, Firenze, 23 ottobre 2015, on line, p. 10). La questione del termine resta il segnale del carattere incompiuto, abbozzato e mal risolto della nuova forma di sindacato (aspetti sui quali tornerò nel testo) perché, anche a ritenere che il termine non sia perentorio, ma ordinatorio, siccome la pendenza del giudizio sospende la promulgazione, sorge il problema degli effetti su quest’ultima di un’eventuale tardivo provvedere della Corte. La promulgazione resterà sospesa sine die finché la Corte decide? Scaduti i trenta giorni il termine per la promulgazione riprende, e a spirare è il potere della Corte di decidere? Sono questioni che la riforma destinata a dare al nostro sistema certezza e stabilità lascia aperte, e che v. esaminate ancora da Dal Canto. Tende a superare l’alternativa sul carattere perentorio/ordinatorio del termine A. Rauti, op. cit., p. 11 s., con una considerazione realistica (il principio di leale collaborazione dovrebbe spingere la Corte a decidere rapidamente) e non senza ipotizzare l’eventualità di un conflitto di attribuzione per menomazione sollevato davanti e contro la Corte del Capo dello Stato in caso del protrarsi di un ritardo ingiustificato da parte della Corte.

[14] Al fascino di una individuazione ‘sicura e subito’ dei vizi di incostituzionalità delle leggi elettorali cede peraltro anche il giurista, qualche volta, v. per es. le conclusioni di A. Rauti, op. cit., p. 19, per il quale del resto è un bene anche che la Corte possa decidere ‘extra petita’ perché così si eviterebbe «il rischio che l’incompletezza o reticenza del ricorso possano mandare indenni leggi elettorali comunque incostituzionali», con ragionamento che, al tempo stesso, dà per scontato che non possa esservi giudizio successivo, e manda al macero i principi fondanti della nostra giustizia costituzionale, i quali non conoscono leggi ‘incostituzionali per definizione’ e ammettono costitutivamente che una stessa legge possa essere oggetto di questioni diverse di costituzionalità.

[15] «Da un punto di vista sostanziale i margini sono ridotti: se il sindacato preventivo ha riguardato l’intera legge e ha preso in considerazione tutti i suoi possibili vizi gli spazi per l’altro controllo tenderanno a ridursi. Il secondo giudizio, in particolare, prevedibilmente si concluderà con una decisione di infondatezza, magari manifesta, in relazione al precedente rappresentato dalla prima decisione»: così F. Dal Canto, Corte costituzionale e giudizio preventivo, cit., p. 12. Così anche A. Rauti, op. cit., p. 14 («se il sindacato preventivo fosse governato dal principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato risulterebbe ovviamente molto più ampia la possibilità del giudizio successivo») il quale nota anche che, in ogni caso «la riforma non precisa i rapporti tra i due tipi di sindacato, per quanto si rientrerebbe nelle condizioni di proponibilità dei giudizi costituzionali che, ai sensi dell’art. 137 Cost., richiederebbero una legge costituzionale». Il controllo ‘ad ampio raggio’ consentito alla Corte è approvato dai sostenitori della riforma proprio perché ‘riduce il rischio’ di dichiarazioni di incostituzionalità successive all’entrata in vigore, cfr. in questi termini M. D’Amico, Audizione alla I Commissione della Camera dei deputati, in Osservatorio AIC, 2015, on line.

[16] F. Dal Canto, Corte costituzionale, cit., p. 5.

[17] L’ipotesi che il nuovo sindacato aspiri a una pronuncia di «conformità totale della legge alla Costituzione», è presupposta dal fatto che alla Corte è consentito un giudizio «a 360 gradi sulla delibera legislativa finora sconosciuto al nostro sistema di giustizia costituzionale», A. Rauti, op. cit., p. 12.

[18] Secondo F. Dal Canto, Corte costituzionale, cit., p. 9, l’obiettivo perseguito con l’introduzione del nuovo giudizio preventivo è dar vita «a un tipo di giudizio destinato a concludersi con una pronuncia del tutto inedita, idonea, in caso di rigetto dell’istanza, a dotare la legge di una sorta di salvacondotto, o patente di legittimità». Svuotatosi il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, «il giudizio preventivo finisce per assomigliare a un controllo ex officio e la Corte costituzionale si allontana sempre di più dal suo ruolo di giudice». «L’obiettivo implicito, di dotare la legge elettorale di una sorta di patente di legittimità è disarmonico rispetto al modello italiano di giustizia costituzionale; la sentenza di infondatezza coprirebbe tanto il dedotto quanto il deducibile con conseguente impossibilità, una volta formato il giudicato, di promuovere una nuova questione sulla medesima legge», ibid., p. 10.

[19] S Catelano, Prime riflessioni, cit. Problema ulteriore è quello del «rapporto tra il ricorso, non ancora presentato o in attesa di definizione entro trenta giorni da parte della Corte, e l’eventuale potere di rinvio presidenziale della delibera legislativa con messaggio motivato, il cui esercizio non viene espressamente impedito o sospeso», lo nota A. Rauti, Il giudizio preventivo, cit., pp. 9 e 10, ritenendo che «il giudice costituzionale dovrebbe plausibilmente sospendere il giudizio e attendere che la legge venga riapprovata, ma con ogni evidenza occorrerebbe introdurre nelle future, eventuali norme sul giudizio preventivo, l’ipotesi dell’estinzione del giudizio nel caso di esercizio del potere presidenziale di rinvio».

[20] Il rilievo è di E. Catelani, op. cit.

[21] Data l’indeterminatezza dell’oggetto del nuovo giudizio, «tutto è rimesso alla giurisprudenza costituzionale» (F. Dal Canto, Corte costituzionale, cit., p. 9).

[22] F. Dal Canto, op. cit., p. 10.

[23] La presentazione di ricorsi corredati da motivazioni prive dell’indicazione di specifici profili di incostituzionalità è «una soluzione che non trova riscontro nel diritto processuale vigente», osserva F. Dal Canto, op. cit., p. 9; l’autore opina che a questi giudizi dovrebbe comunque applicarsi l’art. 23 della legge 87/1953, sui giudizi davanti alla Corte (la Corte si pronuncia ‘nei limiti dell’impugnazione’) pur ritenendo che allo scopo sia necessaria «una disciplina attuativa ad hoc intesa a regolamentare il nuovo istituto». Un esempio ad abundantiam, anche, della incompiutezza con cui il nuovo istituto è regolamentato.

[24] G. Zagrebelsky, La sentenza n. 1/2014 e i suoi commentatori. Il saggio, pubblicato su Giur. Cost., 2014, è facilmente reperibile anche on line.