Magistratura democratica

Legge elettorale e democrazia d’investitura.
Quattro criticità costituzionali per un modello di democrazia

di Gaetano Azzariti

Un esame attento dei punti di possibile frizione della legge elettorale Italicum con la Costituzione. L’analisi muove dalla lettura analitica dei meccanismi elettorali (premio di maggioranza, capilista bloccati, pluricandidature, differenze trai due rami del Parlamento) e culmina nella riflessione sul modello di democrazia sotteso alla legge elettorale.

1. Premessa non dovuta: abbassare i toni

Vorrei fare una premessa non necessaria in questo dibattito, perché in questa sede nessuno di noi, ovviamente, ha intenzione di “trascendere”. Un preambolo che ritengo però sia oggi doveroso per reagire al modo con cui si sta sviluppando la discussione pubblica  e la polemica politica, troppo di frequente dominati da toni esasperati e volgari. Una rozza superficialità che ha lambito – qualche volta – anche il dialogo scientifico. Di questo oggi pubblicamente mi lamento.

Stiamo, in effetti, assistendo (personalmente con qualche sconcerto), non tanto ad un confronto d’idee, magari ad uno scontro su temi assai controversi, bensì ad una vera a propria strategia di delegittimazione delle opinioni e delle argomentazioni altrui. Vorrei essere chiaro sul punto: mi accingo – tra un attimo, dopo questa “premessa non dovuta” – a manifestare liberamente le mie opinioni. Non pretendo di parlare in nome della verità o della pura scienza. Dunque, accetto che le mie considerazioni possano non essere condivise. Lo accetto tanto più ritenendo che anche le opinioni da altri espresse siano confutabili, ed anzi saranno da me discusse, magari esplicitamente criticate. Questa, che dovrebbe essere la regola prima e più banale del confronto scientifico, culturale, politico, – ahimè – sembra lasciare il passo all’insofferenza se non, direttamente, all’invettiva. Trovo stupefacente che, accingendosi a modificare una “legge di sistema” (quella elettorale) così importante, coloro che ne contestano alcuni tratti (o magari integralmente l’impianto) vengano  indicati come meri “oppositori politici”, privando così le loro argomentazioni di valore scientifico, ovvero vengano direttamente insultati, perlopiù da una ceto politico incolto.

2. La legge n. 52 del 2015 è incostituzionale? L’ultima parola spetta alla Corte

Che il clima si sia deteriorato – e mi accingo ad entrate in  argomento – può essere dedotto anche dalla radicalizzazione delle testi che si vanno – legittimamente, ma rigidamente – ad esprimere. Da un lato coloro che – anche in sede scientifica e non solo in sede politica – esaminando la nuova legge elettorale non vedono alcun problema di costituzionalità, dall’altro coloro che ritengono del tutto incostituzionale ogni singola disposizione normativa. La mia impressione generale è diversa. Dopo la sentenza n. 1 del 2014, ed alcune oscillanti decisioni successive sempre in materia elettorale, non credo che si possano fare previsioni indubbie. Bisognerebbe essere assai cauti, trovandoci dinanzi ad un quadro di sistema tutt’altro che stabile e ad una giurisprudenza ancora in divenire. Sulla costituzionalità o meno delle disposizioni della legge n. 52 del 2015 – allo stato – si possono fare previsioni, avanzare argomentazioni, indicare criticità costituzionali. Sarà poi la Corte ad avere l’ultima parola. Una “parola” che ad oggi non è stata ancora pronunciata.

Per mio conto vorrei esporvi due ordini di considerazioni. Anzitutto, vorrei riflettere su quelle che a me paiono le quattro maggiori “criticità costituzionali” della legge elettorale appena approvata dal Parlamento. Per poi affrontare un tema ancor più rilevante, cercando di individuare quel che spiega la scelta di un tale sistema elettorale da parte dell’organo legislativo e della maggioranza politica che ha sostenuto il disegno di legge ora trasformato in legge. Ben più importante questo secondo aspetto poiché coinvolge direttamente l’idea stessa di democrazia, come in conclusione diremo.

3. Criticità costituzionali

Ma andiamo per ordine. Per quanto riguarda il primo profilo, vorrei inizialmente sottolineare l’importanza di prendere sul serio i dubbi che vengono da più parti sollevati, poiché – stante l’incertezza di sistema cui facevo poc’anzi riferimento – qualora la Corte dovesse accertare la fondatezza delle critiche e dichiarare, conseguentemente, per la seconda volta nel giro di poco tempo, l’incostituzionalità della legge elettorale, l’effetto sul sistema politico sarebbe assai grave. Un intero ceto politico si dimostrerebbe incapace di prendere insegnamento dalla Corte (dalla sentenza n. 1 del 2014, in particolare) e non in grado – per la seconda volta! – di adottare una legge elettorale che possa passare il vaglio di costituzionalità. Un colpo alle istituzioni che non potrebbe imputarsi alla Corte, bensì ad una politica distratta e autoreferenziale che sfida le ragioni del diritto e della Costituzione oltre il limite del ragionevole.

Vi elenco ora le quattro criticità costituzionali su cui credo sia opportuna una riflessione attenta. Non sono questioni marginali, anzi esse riguardano i quattro pilastri su cui si erige l’intero edificio della legge n. 52 del 2015. Questi i temi:

  1. i premi;
  2. i capilista;
  3. la pluricandidabilità;
  4. la diversità di normativa tra i due rami del Parlamento.
3.1 I premi alla lista

a) Iniziamo dai premi. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2014, ha ritenuto la “governabilità” un obiettivo legittimo; da ciò discende la possibilità di introdurre misure “premiali”. Allo stesso tempo, essa ha anche affermato che le distorsioni nel riparto dei seggi – le “disproporzionalità”, secondo il linguaggio attualmente in voga – non possono in nessun caso determinare «una compressione della funzione rappresentativa dell’Assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’Ordinamento costituzionale vigente» [argomento esposto al punto 3.1 delle considerazioni in diritto]. Ed è quest’ultimo aspetto che laicamente dobbiamo valutare: l’attuale sistema premiale comprime eccessivamente la rappresentanza democratica?

Com’è noto sono di due tipi i “premi” che possono essere attribuiti in base ai risultati ottenuti nelle votazioni, a seconda che una lista superi o meno il 40% dei voti espressi. Nel primo caso, una soglia è fissata, il premio sarebbe certamente ancora molto elevato, espressione – come poi meglio indicheremo – di una certa idea di democrazia, eventualmente criticabile dal punto di vista dell’opportunità politica, ma che verrebbe probabilmente ritenuta legittima alla luce delle indicazioni della giurisprudenza della Corte (sebbene non sia stato esplicitamente indicato il confine oltre il quale la “compressione” della funzione rappresentativa dell’Assemblea diventi eccessiva, e dunque un margine di dubbio permane). Assai diversa è però la seconda modalità di attribuzione del premio. 

Nel caso nessuna lista ottenga almeno il 40% dei consensi espressi, due sole liste si confronteranno al ballottaggio, quella che otterrà un voto in più dell’altra conseguirà il premio e le verrà attribuita la maggioranza dei seggi alla Camera. Per il passaggio al ballottaggio non è prevista nessuna soglia minima; dunque possono, al secondo turno, risultare vincitori della competizione elettorale ed ottenere il premio che consegna la maggioranza dei seggi della Camera anche liste del tutto minoritarie, se valutati sul piano della rappresentanza reale. Dobbiamo, in effetti, mettere nell’ordine del possibile il fatto che – senza soglia – al secondo turno possano presentarsi liste di partiti o movimenti il cui seguito reale è pari al 25% o al 20% nei casi più estremi, per poi, nello scontro diretto con un unico altro contendente, ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Mi chiedo – tralasciando per adesso la questione del secondo turno, su cui dirò subito dopo – se con il ballottaggio si assegna un premio ad una lista che ha ottenuto solo il 20% dei consensi, questo non risulti essere eccessivo e tale da produrre «un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica». A me sembra di sì.

L’argomento che viene utilizzato per rispondere a questa obiezione – che farebbe ricadere la normativa attualmente vigente nello stesso vizio di costituzionalità già  dichiarato nel caso della legge n. 270 (premio “abnorme”) – fa leva sul secondo turno. Si sostiene che la percentuale di consenso non può essere riferita al primo turno, ma solo definita nel ballottaggio. Ecco allora che tutto sembra risolversi e i dubbi svanire. La lista che ottiene il premio deve aver ottenuto almeno il 50% più un voto rispetto all’avversario. Dunque un vero e proprio “premio di maggioranza”. Portando all’estremo questo ragionamento, che tra poco vedremo essere in verità fallace, addirittura un “mini” premio, di pochi seggi per ottenere solo il 54% dei seggi; al limite addirittura penalizzante se la lista vincitrice al ballottaggio avesse superato l’avversario diretto oltre quest’ultima percentuale. Ma è evidente che c’è qualcosa che non torna nell’esito del ragionamento condotto sul piano logico-formale, ma carente – anzi paradossale – sul piano sostanziale.

Il vizio logico-sostanziale è, a mio parere, il seguente: si ritenere siano sovrapponibili i piani su cui operano i due turni, assegnando al secondo la funzione di sanare i limiti della rappresentanza democratica riscontrati al primo. Così non è.

Il secondo turno ha tutt’altra funzione rispetto al primo. Nel ballottaggio non si tende più a definire la rappresentanza politica (recte: gli equilibri tra tutte le forze politiche che partecipano alla competizione elettorale), bensì ha l’unico scopo di investire un leader, stabilire chi debba governare conquistando la maggioranza dei seggi alla Camera, a prescindere dalla sua forza di rappresentanza reale, che – in caso – è quella riscontrata in precedenza, e che si è dimostrata inferiore al minimo necessario per assegnare un premio che non fosse illimitato (la soglia del 40%). La “sfida” oramai è tra due, i quali non potranno collegarsi alle altre forze al secondo turno, ricercare nuove alleanze, rimarranno cristallizzati e si affronteranno nell’ultimo duello: alla fine ne resterà soltanto uno (There can be only one). All’ultimo sopravvissuto si consegnerà la maggioranza dei seggi in ogni caso. Quale che sia la percentuale dei voti espressi, di quelli ottenuti dalla lista, che possono essere anche in numero inferiore a quelli ottenuti al primo turno, purché superiori all’unica altra lista rimasta in competizione. Vincere, non rappresentare, è la ragion d’essere di un secondo turno elettorale che non prevede soglie di accesso, non permette di coalizzarsi, non richiede un vasto consenso, si impone sul piano nazionale (e non di collegio) per la “conquista” dell’intera posta in gioco: la maggioranza parlamentare. Ai perdenti – tutte le altre liste, senza alcuna distinzione tra chi è arrivato al ballottaggio e le altre rimaste al palo – non rimarrà che da spartirsi i resti. Solo per questi, in effetti, varrà la logica della rappresentanza, ottenendo ciascuna lista i seggi a seconda dei consensi originariamente ottenuti. In base a computi e logiche distinte – anzi tenute ben separate – da quelle che assegnano un numero predeterminato di seggi all’unico vincitore riconosciuto. V’è un mantra che riassume bene l’essenza dell’ultimo voto: la sera delle elezioni si saprà chi governerà il Paese (recte: chi avrà una maggioranza di seggi alla Camera), il resto non conta. Ma a questo punto non mi sembra improprio chiedersi se il premio (e l’intero sistema elettorale) non sia abnorme.

3.2 Capilista bloccati

b) Anche per quanto riguarda i capilista bloccati credo sia essenziale ricordare il principio fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014. La Consulta ha stabilito che è necessario garantire un margine di scelta dei propri rappresentanti agli elettori, pertanto non è costituzionalmente ammissibile una scelta rimessa totalmente ai partiti.

Si tratta, dunque, nel nostro caso di verificare se – e in che forme – permane quel “margine” costituzionalmente necessario affinché si possa ritenere soddisfatto il principio indicato dal giudice delle leggi. E la risposta non può che essere articolata, dovendosi distinguere tra la lista che ottiene il premio e le altre. Nel primo caso, l’alto numero di seggi certamente favorirà l’elezione, oltre che dei capilista scelti direttamente dai partiti, anche di altri rappresentanti indicati dagli elettori. Negli altri casi la possibilità di ottenere il seggio per chi non è capolista si riduce radicalmente. Per tutti i partiti medi o piccoli è certamente esclusa la possibilità che riescano a essere eletti altri oltre ai primi delle rispettive liste.

La domanda da porsi è allora la seguente: è sopportabile una discriminazione nella selezione dei parlamentari che solo in alcuni casi (con certezza solo per la lista che ottiene la maggioranza assoluta dei seggi grazie all’alterazione prodotta dal premio) assicura un margine di scelta che possa imputarsi direttamente agli elettori? Il principio affermato dalla Corte può valere solo per alcuni e non per tutti? Escluso che il “margine” di scelta degli elettori possa essere fatto valere nei casi di una lista apparentemente plurinominale, ma sostanzialmente bloccata.

Una modalità di selezione dei candidati che appare peraltro caratterizzata da due altri inconvenienti di sistema.

In primo luogo, può risultare ingannevole. Dietro l’apparenza di una lista formalmente plurinominale si cela un sistema sostanzialmente uninominale. Tutti gli elettori dei partiti medio-piccoli credono di poter scegliere uno dei candidati nominalmente presenti nella lista, ma in realtà votano per il capolista, l’unico che ha la effettiva possibilità di farsi eleggere in base ai suffragi espressi da tutti gli elettori del suo partito. Non potrebbe in tali casi neppure proporsi un’equiparazione con i sistemi uninominali, che garantirebbero un equilibrio tra scelta del partito e “margine” di scelta per l’elettore, poiché l’elettore sarebbe tratto in inganno proprio dalla presenza di altri candidati che – pur senza speranza – condizionerebbero in modo improprio la scelta per la lista e per il candidato.

L’ultima ragione di perplessità riguarda il rischio di discriminazione nell’elettorato passivo tra i candidati dei partiti maggiori, che possono sperare nell’elezione anche se non indicati come capilista, e quelli di tutti gli altri partiti, che tale possibilità non hanno. Il tutto, nei casi dei partiti maggiori, legato peraltro all’esito incerto e al premio eventualmente conseguito nel caso di vittoria della propria lista.

In conclusione sul profilo dei capilista vorrei esprimere l’opinione che – al di là di eventuali incostituzionalità del sistema prescelto – la soluzione adottata non appare per nulla lineare. Un ibrido insensato tra sistema di lista e quello uninominale. Se non si voleva adottare un tipico sistema di lista plurinominale, meglio sarebbe stato scegliere il classico sistema uninominale. Almeno, senza fingimenti, si sarebbe trovato un equilibrio tra scelta dei partiti e quella degli elettori. I primi indicano le persona da cui farsi rappresentare nei singoli collegi, ai secondi rimane la possibilità di scegliere se votare per uno o l’altro tra i candidati presentati. I partiti scelgono chi vogliono far eleggere, mentre gli elettori scelgono chi votare.

3.3 Pluricandidature

c) Riguardo alla questione concernente le “pluricandidature” mi limito a ricordare quanto ha già avuto modo di rilevare incidentalmente la Corte (ancora con la sentenza n. 1 del 2014): questo istituto rappresenta un’ulteriore limitazione della libertà dell’elettore. Esso, infatti, rimette al partito e – ancor peggio – al suo leader, non invece all’elettore, la scelta ultima su chi debba essere eletto, al posto di qualcun altro.

È inoltre da rilevare come, anche in questo caso, si ponga un problema di discriminazione nell’elettorato passivo. La scelta su chi verrà eletto tra due o più candidati arrivati secondi entro la medesima lista in collegi diversi, viene determinata da una sola persona: il leader pluricandidato. Se anche non si volesse indicare questa come una violazione di un esplicito principio costituzionale, essa a me pare debba essere considerata almeno una criticità costituzionale che incide su diritti politici fondamentali.

3.4 La diversità di normativa tra i due rami del Parlamento

d) Sulla questione della diversità di normativa tra i due rami del Parlamento ho già da tempo manifestato le mie perplessità[1]. Il fatto che questa legge riguardi soltanto la Camera e non il Senato si configura come una criticità costituzionale rilevante. Non si tratta semplicemente di riscontrare la diversità tra i due sistemi elettorali. Anzi, anche in sistemi a bicameralismo perfetto è del tutto fisiologico che non vi sia un identico sistema elettorale. In passato, la difformità tra i due sistemi ha prodotto alcune disfunzioni ed ha rischiato di produrre diverse maggioranze politiche tra i due rami del Parlamento. In tutti questi casi, però, non si è posta alcuna questione di costituzionalità, semmai si sono registrati l’acuirsi della debolezza delle maggioranza di Governo e l’instabilità della legislatura spesso finita anticipatamente. Un problema politico dunque, non costituzionale.

Nel nostro caso, però, non è in discussione una diversità tra due sistemi (quello ora definito dalla legge n. 52 per la Camera e quello rimasto in vigore a seguito della sentenza n. 1 del 2014 per il Senato), bensì la loro totale incompatibilità. Discordanze incolmabili tra i due sistemi che possono produrre l’”irrazionalità della legge”, ovvero la sua incostituzionalità.

Ricordo – e mi appare particolarmente significativo – che proprio questo vizio è stato fatto valere dal giudice delle leggi per dichiarare l’illegittimità costituzionale dei premi del Senato. Illegittimità di questa parte della disciplina della legge n. 270 dichiarata a seguito della rilevata «inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito» [argomento esposto al punto 4 delle considerazioni in diritto].

Nel caso della legge n. 52, può ripetersi un analogo argomento: se essa ha come suo principale – se non unico – scopo quello di garantire la governabilità “imponendo”, in ogni caso, una maggioranza alla Camera, quest’obbiettivo viene posto nel nulla qualora la legge del Senato non venisse cambiata, lasciando un sistema elettorale complessivo del tutto inidoneo allo scopo.

Conosco la replica a questa mia considerazione: la riforma della Costituzione attualmente in discussione prevede che il rapporto di fiducia intercorra solo tra la Camera il Governo. Mi limito a rilevare in proposito che questa può essere una motivazione politica, senza però alcun pregio costituzionale. Confidare su una futura ed incerta modifica costituzionale per legittimare una scelta irragionevole sul sistema elettorale, mi sembra quantomeno avventato. Comunque inaccettabile in sede scientifica. In ogni caso esposta ad una verifica di incostituzionalità.

4. Quale modello di democrazia?

Vorrei da ultimo svolgere alcune riflessioni sull’altro tema inizialmente indicato. Credo che per ben valutare la ratio sottesa al nuovo sistema elettorale si debba andare a verificare quale sia il modello di democrazia propugnato dai suoi fautori. La mia impressione è che la nuova legge elettorale si ponga in netta continuità con la precedente (la legge n. 270 del 2005), rappresentando un altro – non così dissimile – modo per  assecondare le logiche proprie di quel modello di democrazia riconducibile al nomen “democrazia d’investitura”.

Un modello di democrazia che a me pare esprimere una visione povera della politica, in cui il legame con i rappresentati si riduce sostanzialmente al momento elettorale. Momento elettorale che viene semplificato, astraendosi del conflitto reale degli interessi diversi, amplificando la natura spettacolare del “duello”. Una sfida che non vede neppure più contrapporsi diverse forze politiche, espressione ciascuna di programmi ideali e indirizzi politici distinti, bensì una contesa solo tra leader.

Si tende, dunque, a limitare il confronto con i rappresentati al giorno delle elezioni, dando in fondo ragione a Rousseau quando sosteneva che solo in quel giorno si fosse liberi mentre in tutti gli altri si fosse schiavi[2].

Ecco io credo che questa sia la logica del tempo, con cui dobbiamo confrontarci. E laicamente mi chiedo se in democrazia – e nel sistema politico che la sostiene – sia sufficiente garantire la decisione, la stabilità dei Governi, un unico vincitore il giorno delle elezioni. Ovvero non sia preferibile guardare ad un altro modello di democrazia che si proponga essenzialmente – ancor prima della decisione – di garantire il pluralismo, il conflitto, la mediazione tra diversi. Certo questo modello – quello proprio delle cosiddette “democrazie pluraliste” – pretende tempi lenti, necessari per giungere al compromesso tra interessi tra loro disomogenei.

Sono consapevole che non è questo lo “spirito del tempo” (Zeitgeist). Oggi prevale un altro paradigma: ai tempi lenti della mediazione si sono sostituiti i tempi veloci della decisione. Che poi questa voglia di decidere risulti “vuota”, priva di direzione e contenuto, spesso solo apparente e sempre spettacolare, non sembra rilevare più di tanto. In fondo, l’apparente rottura ma la sostanziale continuità dei sistemi elettorali che si sono succeduti dal 1994 ad oggi rappresenta una chiara dimostrazione del prevalere di un cambiamento conservativo. Non per caso siamo il Paese del Gattopardo.

Riconosciuto che quello sommariamente indicato appare essere lo spirito del tempo, che orienta nel profondo, in modo persistente, tutti i sistemi elettorali che si sono succeduti; i quali hanno progressivamente accentuato il distacco tra rappresentanti e rappresentati, auspicando la sterilizzazione del conflitto sociale e del pluralismo politico, mi limito a porre una domanda: è questo un processo irreversibile?

Se così non dovesse ritenersi, forse varrebbe la pena cercare ancora altri principi che possano invertire una rotta aprendo le porte alla rappresentanza reale, al pluralismo, alla partecipazione. Un sistema elettorale che abbia come scopo principale la rappresentanza reale della divisione sociale entro le istituzioni potrebbe non riuscire ad assicurare che il giorno stesso delle elezioni si sappia chi governerà il Paese per i successivi cinque anni. E, la sera delle elezioni, potremmo dover andare a dormire senza sapere qual è il capo del Governo cui delegare ogni nostra decisione; ma il giorno dopo potremmo svegliarci scoprendo di avere un sistema politico più equilibrato e più solido.

[1] Si v. G. Azzariti, Relazione svolta al II Seminario dell’Associazione Italiana Costituzionalisti, I Costituzionalisti e le Riforme, tenutosi presso l’Università degli Studi di Milano il 28 aprile 2014, in Rivista AIC, n. 2/2014, spec. p. 9.

[2] J.J. Rousseau, Il contratto sociale III, p. 15.