Magistratura democratica

L’autonomia politica delle Regioni ordinarie e il riparto della funzione legislativa nel disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi

di Marco Bignami

Il testo si occupa della proposta di riforma costituzionale del Titolo V, Parte II, della Costituzione. Dopo aver dato conto degli obiettivi sottesi alla forma di Stato regionale e aver esaminato lo stato attuale della giurisprudenza costituzionale, ci si sofferma sul riparto della potestà legislativa, con particolare riguardo alla nozione di “disposizioni generali e comuni”.

Attenzione è dedicata infine alla cd clausola di supremazia.

1. Introduzione

«Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio»[1]. Lo scetticismo a cui Samuel Beckett affidava le capacità euristiche della letteratura può facilmente essere trasposto agli affanni con cui il legislatore della revisione costituzionale pone mano, oramai periodicamente, allo sfortunato regionalismo italiano.

La Costituzione ha consegnato, nel quadro della unità e indivisibilità della Repubblica, un modello regionalista polivalente, la cui “pagina bianca”, secondo la celebre definizione di Paladin[2], avrebbe potuto essere vergata con più di una tonalità di inchiostro.

Vi era la potestà legislativa, e, in base al principio del parallelismo, ad essa seguiva la funzione amministrativa. Novità, la prima, senza dubbio animata dall’influsso del modello spagnolo e di quello tedesco[3], ma ugualmente rivoluzionaria, specie se letta alla luce della seconda. Non si inganni il disincantato lettore del 2016: nel 1948 la legge non era divenuta quel simulacro di se stessa, cui è stata oramai consegnata dal degrado del parlamentarismo, ma piuttosto fulcro e spirito identificativo dell’Ordinamento. La Regione conquistava così le chiavi della politica, e ne veniva di conseguenza che si spalancassero le porte dell’ancillare attività amministrativa. Prima il legislatore, e solo a rimorchio l’amministratore!

Al contempo, non vi era spazio aperto al regionalismo che non fosse attentamente vigilato dallo Stato, né potestà legislativa che potesse scrollarsi di dosso le briglie dei principi fondamentali enunciati dalla normativa statale. Uno stato di minorità in perenne attesa di evolvere in età matura, secondo tempi scanditi dall’evoluzione sociale e regolati dalle cure del legislatore nazionale.

Ma la prima necessita di correzioni ortopediche, che raddrizzino le storture della disgregazione localistica tipicamente italiana; le seconde sono dosate con parsimonia da una maggioranza di Governo così stabile, nella formula politica, da avere in sospetto forme di concorrenza alternative cullate dalla dimensione regionale.

Si attende, infatti, fino agli anni 70’. Le carte della politica nazionale vengono ridistribuite, mentre la linea di divisione sociale corre sul crinale della ideologia, piuttosto che del localismo. Ne emergono le Regioni ordinarie, ma i vagiti promettenti lasciano il campo alla raucedine. Si diviene legislatori proprio quando è dichiarata la crisi della legge, e quel poco di autorità che le rimane va salvaguardato come il nucleo dell’atomo centralista, piuttosto che disgregato nei rivoli del regionalismo.

A Costituzione invariata, la riforma Bassanini degli anni 90’ insegue allora un nuovo traguardo: svuotata la legge, si fa leva sull’amministrazione per rilanciare le fiacche sorti regionali (il parallelismo invertito). Se viene meno l’indirizzo politico, è sottinteso, si apre libero pascolo per le amministrazioni locali. Prima l’amministratore, e solo a rimorchio il (latitante) legislatore!

Nel 2001, la revisione costituzionale del Titolo V della Costituzione arriva tardi e male. Sono gonfiate le vele del federalismo, quando la scienza costituzionalistica già sa che la distinzione tra Stato regionale e Stato federale è quantitativa, piuttosto che qualitativa. Ed ecco l’inversione nell’elenco delle competenze legislative, che, mediante la clausola di residualità a favore di quella regionale, contenuta nel quarto comma dell’art. 117 Cost., fa eco ad una dogmatica impolverata dal tempo.

Questa tecnica, che punta nuovamente sulla legge, si affianca in modo rudimentale all’assenza di una circoscritta, ma efficace clausola di supremazia statale (l’art. 120 Cost. guarda alle sole funzioni amministrative), e spalanca in potenza una voragine che lo Stato unitario non può che richiudere. Ci pensa infatti la Corte costituzionale.

Il nuovo tentativo di sfondamento del legislatore superprimario, respinto dal referendum del 2006, impatta su un sistema che ha raggiunto il suo equilibrio tra istanze centraliste e fughe localistiche, benché già si intravvedano le prime crepe. Dopo il 2006, come vedremo, l’edificio si incrina vistosamente e pendola verso Roma.

Nel 2016, ci risiamo: la riforma costituzionale che sarà sottoposta al voto referendario investe pesantemente il Titolo V della II Parte della Costituzione, dichiara velleità regionaliste e persegue, con ogni evidenza, un intento del tutto opposto[4]. Sopire e troncare, e in tal modo riguadagnare allo Stato ciò che lo Stato avrebbe perduto, compromettendo l’efficacia e la tempestività dell’azione di Governo, a causa della spinta regionalista del 2001.

Una controriforma del regionalismo, insomma, che smaschera le fragilità della riforma confermata dal voto popolare del 2001. È mai possibile, infatti, che le scelte costituzionali di fondo sull’assetto della forma di Stato tornino in discussione ogni cinque anni circa? Per chi crede che una Costituzione aspiri, nel tempo che le è concesso, all’immortalità, il quesito ammette la sola risposta negativa. Si tratterebbe di cogliere il consolidamento sociale di impulsi sistemici e largamente condivisi, così da conferire loro una robusta veste normativa contro i fremiti volubili dei tempi.

Qui siamo invece dall’altro lato del campo: si insegue ossessivamente lo Zeitgeist, ambendo ad un regionalismo prêt-à-porter, buono per l’uso stagionale.

Vi è allora il dubbio che, anche in fatto di Regioni, a latitare sia davvero una linea di tendenza univoca e forte della società civile, e della stessa dottrina, verso un assetto consapevole e duraturo della forma di Stato regionale. Senza un tale presupposto, costituzionalizzare il regionalismo non è difficile, quanto piuttosto inutile. Del resto, se il referendum prossimo venturo avrà successo, un corpo elettorale nella sostanza omogeneo rinnegherà un approdo che, solo quindici anni fa, era sembrata una buona mano di rilancio.

Le ragioni che hanno segnato il fallimento del regionalismo all’italiana sono innumerevoli[5]. L’artificiosità della dimensione regionale, costruita su compartimenti disegnati nel 1864 a fini statistici; la prevalenza nella storia nazionale del Comune, originale contributo alla scienza politica[6] e fondamento dell’identità locale; l’ambizione verso politiche unificanti a fronte di una realtà sociale infinitamente diluita; la massiccia presenza di partiti politici di dimensione nazionale, capaci di reprimere la nascita di un’autonoma classe dirigente sul territorio; la crisi economica, che impone scelte centripete di controllo della spesa; la vocazione centralista del pubblicismo italiano predominante, con una naturale penetrazione nella giurisprudenza costituzionale[7]; il discredito che ha colpito la classe politica delle Regioni, in particolare, o che comunque non le ha risparmiate; le lacune tecniche nella continua riscrittura delle disposizioni attributive di competenza; la sovrapposizione del diritto dell’Unione europea alle competenze legislative dello Stato, che si contraggono e trascinano con sé le funzioni regionali, cui non resta che un sempre più angusto spazio di autonomia.

Si potrebbe continuare, ma è forse più proficuo domandarsi se, su una scala più larga, non sia stata piuttosto determinante l’incapacità a rispondere ad un quesito consegnato ai posteri dai Padri costituenti, e a tutt’ora aleggiante nell’aria senza una risposta definitiva.

A che dovrebbero servire le Regioni? Vi è, certamente, il principio di sussidiarietà verticale, che si declina anzitutto in una funzione amministrativa più sensibile alle esigenze delle collettività territoriali, e comunque innervata da iniezioni di democraticità. Eppure, su questo piano, oltre che la temibile concorrenza del livello comunale di governo, si percepisce una qualche sovrabbondanza del mezzo rispetto al fine. Senza tener conto che il trend alimentato dall’art. 97 Cost., nella lettura che la Corte costituzionale ha dato al principio dell’imparzialità lì enunciato[8], suggerisce, piuttosto, di tener separata la fase della decisione politica da quella dell’amministrazione.

Vi è, poi, l’affinamento delle scelte legislative nazionali mediante uno strumento che le adatti al profilo delle comunità locali. Una sorta di tecnica del buon governo, che sprigiona aroma di uffici, piuttosto che di assemblee legislative, posto in crisi da un duplice ordine di fattori. Il carattere pervasivo della normativa statale da un lato, perché propensa a recuperare nella quantità ciò che ha smarrito nella qualità, a causa dell’incapacità politica di identificare principi davvero degni di tale appellativo (che è come dire, a causa dell’incapacità di fare politica); dall’altro, il progressivo appiattimento della disomogeneità dei costumi di vita degli italiani verso un modello nazional-popolare, che rende meno evidenti le ragioni di una distinzione basata sul solo fattore localistico. Anche in questo caso, la legge regionale suona come uno strumento non imprescindibile per l’orchestra, rispetto a scelte statali di delegificazione che precedano l’intervento, anche in via regolamentare, dell’amministrazione locale, e soddisfino così in modo altrettanto efficace le esigenze della comunità di base.

E, quindi, se si ritiene che le Regioni abbiano precipuamente tali obiettivi, il passaggio dalla riforma del 2001 alla controriforma del 2016 sarà indolore. Enti di decentramento amministrativo[9], nobilitati nel rango, continueranno ad assumere decisioni di piccolo governo, nell’interesse della collettività di cui sono espressione.

Non era senza dubbio ciò che Togliatti temeva in Assemblea Costituente, perlomeno all’inizio del percorso. Piuttosto, nel pensiero del Pci, le Regioni avrebbero potuto costituire un ostacolo nel passaggio dalla rivoluzione mancata alla rivoluzione promessa. Esse, in altri termini, sarebbero divenute formidabili centri di disgregazione del potere, rallentando la marcia verso la palingenesi sociale.

Se si pensa alla preoccupazione di allora, viene da chiosare che essa dovrebbe essere il vanto di oggi. Il costituzionalismo è per l’appunto (anche) una tecnica di frazionamento del potere, ripartito lungo plurimi canali di sovranità limitata, affinché il bene comune non possa divenire appannaggio dell’interesse particolare di una maggioranza onnipotente. Le Regioni ben possono inserirsi in questa trama[10], a condizione che esse siano in grado di esprimere la autonomia “politica” che una celebre sentenza della Corte costituzionale redatta da Enzo Cheli riconobbe loro (sentenza n. 229 del 1989). Non soltanto, quindi, legislatori di secondo grado, alla faticosa ricerca di peculiarità locali; ma, anzitutto, fonti di un indirizzo politico autonomo[11], coltivato nel rispetto della unità e indivisibilità della Repubblica, ma pur sempre affrancato dal perdurante paternalismo statale. In altri termini, per impiegare le parole di un’altra importante sentenza della Corte, al vertice di «un circuito politico-rappresentativo, che è ulteriore e diverso rispetto all’indirizzo politico ed amministrativo di cui si rende garante il Governo della Repubblica, e che corrisponde all’accentuato pluralismo istituzionale e delle fonti del diritto prescelto dalla Costituzione» (sentenza n. 219 del 2013).

Se si segue questa strada, il rapporto tra legge e amministrazione non è suscettibile di inversione. La prima non può che precedere la seconda, mentre il soffocamento della legislazione non viene riscattato dall’ossigeno concesso agli amministratori. A dire il vero, però, siamo in uno scenario che ha molto del fantastico, perché nella prassi la direzione imboccata è stata quella contraria.

Il regionalismo della riforma del 2001 è stato essenzialmente scritto dalla sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale, poi affinata dalla sentenza n. 6 del 2004. Innanzi alla pretesa regionale di espandere la residualità delle attribuzioni legislative al campo dello sviluppo economico, pur quando di evidente (ma non dichiarata) pertinenza statale, e in mancanza di una clausola di supremazia che temperasse siffatto sbilanciamento, la Corte ha elaborato una elegante e sofisticata finzione giuridica[12], che è a tutti ben nota.

In sintesi: grazie alla flessibilità recata dall’art. 118 Cost., deve ritenersi che la funzione amministrativa, per soddisfare ineludibili esigenze unitarie, possa essere chiamata in sussidiarietà a livello statale; posto che il principio di legalità impone che la funzione sia prevista e descritta dalla legge, ne segue che quest’ultima a sua volta segue l’attribuzione centralista, nel rispetto del principio di proporzionalità; la compensazione accordata alla Regione, che è così spogliata della competenza legislativa in concreto, viene recuperata in forza dell’intesa che lo Stato dovrà trovare con quest’ultima, o in sede di Conferenza unificata, ai fini dell’esercizio della funzione amministrativa.

Le ragioni che hanno indotto la Corte ad assumere questa posizione (forse la migliore, compatibilmente con il quadro costituzionale delle competenze malamente raffazzonato dal legislatore costituzionale del 2001) non vanno qui indagate, se non per precisare che essa avrebbe dovuto costituire una soluzione-ponte, in attesa che una nuova riforma costituzionale introducesse la dimensione regionale nel procedimento legislativo statale, attraverso forme di coordinamento e compartecipazione alle scelte fondamentali[13].

Resta il fatto che un tale indirizzo, invertendo palesemente l’ordine dei fattori (in base al principio di legalità, dovrebbe essere la legge a precedere la funzione amministrativa, e non viceversa) si rende icastica dello schiacciamento subito dall’autonomia politica regionale. Laddove il legislatore è costretto a ritrarsi, là riguadagna terreno l’amministratore, che patteggia con lo Stato non i presupposti politici, ma il contenuto concreto dell’atto amministrativo che consegue alla chiamata in sussidiarietà.

Insomma, persino nella sua fase più aperta alle istanze regionali, la Corte costituzionale è stata costretta ad inventarsi dal nulla un istituto certamente funzionale, ma corrispondente ancora una volta alla logica dell’amministrare, anziché alla autonomia politico-legislativa delle Regioni.

Si era in attesa di un nuovo intervento di revisione costituzionale, che avrebbe potuto sparigliare il tavolo. La riforma del 2016 non è, però, quel che ci si aspettava, perché manca l’occasione di incidere adeguatamente sul procedimento legislativo statale, nella direzione auspicata[14]. Piuttosto, come si vedrà subito, essa cristallizza lo stato delle cose, irrigidendo il respiro regionale nella bombola di ossigeno della discrezionalità amministrativa, piuttosto che aprirlo nell’etere dell’indirizzo politico tracciato dalla legge.

Allora, chi crede che le Regioni possano servire, nel costituzionalismo odierno, a distribuire il potere politico, correggendone parzialmente l’agglutinazione, dovrà riflettere prima del voto referendario ben più di chi vi cerca il mero decentramento amministrativo.

2. Lo stato dell’arte

Per comprendere verso che direzione si va, è opportuno riflettere sul punto di partenza.

La giurisprudenza costituzionale, nel periodo immediatamente seguente alla riforma del 2001, aveva mostrato un’apertura a favore del sistema regionale che, progressivamente, si è andata attenuando. La sentenza n. 282 del 2002 esordiva con un’enunciazione programmatica: risolvere un problema di competenza avrebbe richiesto di partire «non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell'intervento regionale, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale». È facile osservare che di una tale metodologia non è rimasta traccia nella giurisprudenza posteriore, che ha piuttosto permesso al legislatore regionale di intrufolarsi nelle aree che non fossero state già occupate dalla normativa statale.

Ha senz’altro giocato un ruolo importante, in questo senso, la crisi economica, come è comunemente riconosciuto, perché il contingentamento delle risorse ha strozzato la capacità di spesa delle Regioni[15]. Ma non bisogna trascurare neppure la composizione della Corte. Fino al 2005, all’incirca, siedono nel Collegio cinque costituzionalisti, tre dei quali provenienti dalle file del cattolicesimo democratico, tradizionalmente ben disposto verso le istanze regionali. In seguito, e fino ai più recenti ingressi, i costituzionalisti si riducono a due. La voce delle Regioni risuona allora meno potente a palazzo della Consulta. Il restringimento della autonomia regionale è inesorabile.

Le competenze legislative residuali e concorrenti, in assenza della clausola di supremazia statale, sono aggirate mediante almeno tre tecniche.

Anzitutto, la chiamata in sussidiarietà, frequentemente disposta dalla legge statale, e censurata dalla Corte per difetto di proporzionalità, a quanto risulta a chi scrive, soltanto in tre casi[16]. Qui, mentre l’intesa, con cui si restituisce alle Regioni la codecisione sull’atto amministrativo, è inizialmente qualificata “forte”[17] e dunque non superabile da un’iniziativa unilaterale dello Stato, in seguito l’accento è piuttosto posto sull’esigenza di giungere comunque ad una decisione. Si distingue, allora, il fallimento delle trattative dalla «condotta meramente passiva» della Regione, che non merita tutela[18] e, soprattutto, fanno capolino riferimenti, per superare lo stallo, ai meccanismi a tal fine previsti, a tutt’altro fine, dalla normativa sulla Conferenza unificata[19], che sacrificano notevolmente la posizione regionale, assegnando al Consiglio dei ministri la decisione finale.

Al contempo, la chiamata in sussidiarietà talora raggiunge la stessa potestà regolamentare[20], in contrasto con quanto espressamente teorizzato dalla sentenza n. 303 del 2003.

In secondo luogo, l’azione delle competenze statali di natura trasversale (concorrenza, ambiente, livelli essenziali delle prestazioni), che si dilatano in modo abnorme[21], risucchiando l’autonomia regionale attraverso un giudizio di prevalenza, nel concorso tra materie, che la Corte risolve spesso in termini apodittici[22].

In terzo luogo, la mobilità dei principi fondamentali della legislazione concorrente, che possono assumere tratti di tale analiticità, ove necessari per il conseguimento dello scopo prefissosi dal legislatore statale, da occupare interamente la sfera di regolazione primaria, lasciando le briciole alla capacità di sviluppo regionale (già in sé mortificata da una definizione, “normativa di dettaglio”, che non ha alcun aggancio in Costituzione).

L’emblema di tale fenomeno è offerto naturalmente dal coordinamento della finanza pubblica, materia a riparto concorrente in base all’art. 117, terzo comma, Cost.. La legittimità del solo limite complessivo alla spesa regionale determinato dalla norma statale[23], ferma la autonomia della Regione nel ripartirla secondo valutazioni di opportunità, ha via via ceduto a restrizioni sempre più particolareggiate, dalla spesa per il personale[24] a quella per consumi intermedi[25], agli «aggregati di spesa particolari»[26], fino a raggiungere persino la minuzia dei gettoni di presenza[27]. Un ferreo controllo della finanza regionale da parte dello Stato, soggetto ad un effetto moltiplicatore, poiché capace di sovrapporsi all’esercizio di qualsivoglia competenza legislativa che richieda l’impiego di risorse economiche.

Al contempo, il divieto di istituire fondi statali a destinazione vincolata nelle materie di competenza della Regione, se non già attivati prima della riforma del Titolo V[28] si piega laddove debba assicurarsi un livello uniforme di godimento dei diritti[29], con l’effetto, ancora una volta, di indirizzare la legislazione regionale, in materie di carattere residuale, verso obiettivi predeterminati in forza degli stanziamenti decisi dal centro.

In definitiva: a quindici anni di distanza dall’entrata in vigore della riforma del 2001, non solo si sono spente le velleità federaliste, ma in capo alla autonomia politica regionale è rimasto un pugno di mosche. Non vi è settore nel quale la legislazione statale non possa inserirsi con un effetto trainante, per di più soggetto ad un controllo di costituzionalità a maglie estremamente larghe. Talune rilevanti competenze residuali sono state di fatto annichilite (il commercio, la caccia, l’agricoltura, il turismo), e trovano una compensazione sempre più incerta nella fase di esecuzione amministrativa. Vi sono competenze concorrenti, ove alla legge regionale sono oramai riconosciute capacità regolatrici inferiori a quelle di cui essa godeva prima della revisione costituzionale del 2001, a causa dell’inasprimento della legislazione statale di cornice (è il caso, ad esempio, della materia “professioni”, ove non spetta più al legislatore regionale definire i requisiti di idoneità alle professioni turistiche[30]).

Intendiamoci: si tratta di una fase di ripiego del regionalismo che non ha assunto ancora tratti definitivi. La giurisprudenza costituzionale è una miniera di spunti, talvolta poco armonici, dai quali tuttavia poter ripartire verso obiettivi più ambiziosi. Le decisioni maggiormente articolate e meglio motivate appartengono per la parte più grande ad un filone scevro da rigurgiti statalisti, e, nella logica delle cose, dovrebbero con il tempo avere la meglio su successivi interventi asfittici e del tutto casistici, che si muovono nel senso contrario.

Ma è in questo contesto che sopraggiunge la riforma costituzionale del 2016, e ciò non è privo di importanza. Perché essa, da un lato, sembra ignorare la realtà, inseguendo invece lo spettro di un regionalismo debordante e tale da paralizzare l’efficacia dell’azione di governo, di cui obiettivamente non si avverte traccia alcuna.

Ma, dall’altro lato, non ha forza sufficiente per spingersi oltre l’orizzonte già delineatosi, e si limita ad un ripiego su di esso, che, se non cambia granché le cose nella sostanza, tuttavia le paralizza nella fase più penalizzante per il nostro regionalismo.

Bisogna ora dimostrare questi assunti, esaminando la riforma più nel dettaglio con precipuo riferimento al riparto della funzione legislativa, ovvero sul terreno più sensibile alla dimensione politica dell’autonomia regionale.

Il discorso che segue si riferisce alle sole Regioni ordinarie, posto che la revisione costituzionale ha, in modo deprecabile, sprecato l’occasione di incidere sugli anacronistici statuti di autonomia speciale.

3. Tratti peculiari del nuovo riparto delle competenze legislative

Le linee essenziali della revisione costituzionale del 2016, quanto al riparto della funzione legislativa, sono agevolmente individuabili: a) viene soppressa la potestà legislativa concorrente prevista dal vigente terzo comma dell’art. 117 Cost., basata sul concorso tra i principi fondamentali adottati dallo Stato e la normativa di sviluppo spettante al legislatore regionale; b) di conseguenza, sono ridefinite le materie di competenza esclusiva dello Stato, e quelle oggetto di potestà legislativa regionale residuale; c) mentre le prime sono decisamente implementate, le seconde si alimentano non soltanto grazie alla clausola di residualità, ma anche per mezzo di un elenco nominativo, per quanto non tassativo; d) è finalmente introdotta una clausola di supremazia, che consente alla legge statale di tagliare fuori la competenza regionale, quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.

Ciascuno di questi punti merita attenzione.

4. La soppressione della potestà concorrente

La soppressione del riparto concorrente delle materie (salvo il caso del’art. 122, primo comma, Cost.) non ha suscitato “grandi rimpianti”[31], in considerazione della cattiva prova che esso avrebbe offerto di sé, del forte contenzioso costituzionale che se ne sarebbe generato, e infine del fatto che, a ben vedere, permangono nel nuovo testo dell’art. 117 Cost. “clausole di colegificazione”[32], con le quali tornerà a riproporsi la sovrapposizione della fonte statale con quella regionale. Ciò accade perlomeno laddove lo Stato detta a titolo esclusivo «”disposizioni generali e comuni” ( tutela della salute; politiche sociali; sicurezza alimentare; istruzione; istruzione e formazione professionale; attività culturali; turismo; governo del territorio), o “disposizioni di principio” (forme associative dei Comuni)».

Ora, è certamente vero che la potestà concorrente si è rivelata modesta per chi vi affidava le sorti dell’autonomia politica regionale, ma si tratta di un fallimento che non è direttamente imputabile al modello, quanto alla torsione che esso ha subito[33].

Decisivo, verosimilmente, è stato l’indirizzo della giurisprudenza costituzionale che ha continuato ad avallare l’individuazione dei principi fondamentali al di fuori di un’espressa legislazione statale di cornice (sentenza n. 282 del 2002), permettendo di isolarli, piuttosto, in specifiche disposizioni rinvenibili nel vasto mare dell’Ordinamento.

Una soluzione che indubbiamente poneva rimedio alla pigrizia del legislatore statale, o anche alla incapacità politica di elaborare ed assumere scelte davvero fondanti, demandandone lo sviluppo alla legge regionale. Ma che, al contempo, ha favorito la penetrazione nelle materie concorrenti di normative settoriali e spesso analitiche, dalle quali solo con un certa fantasia si sono potuti e dovuti ricavare principi.

L’espansione verticale della normativa cd di principio ha costretto nell’angolo il legislatore regionale, senza creare soverchi disagi interpretativi alla Corte costituzionale, tanto che non appare per nulla convincente l’idea, da cui è partito il legislatore, che il contenzioso Stato/Regioni sia ad oggi nutrito, in particolare, dalla difficoltà di separare il principio dal suo “dettaglio”[34].

Questa operazione è stata compiuta destrutturando il principio dei sui caratteri sistematici di “rigidità e universalità[35], ciò che ha permesso, in difetto di una definizione teorica affidabile, di sbrogliare la matassa caso per caso, ma senza un particolare sforzo esegetico.

D’altro canto, in un simile contesto, non poteva senza dubbio essere il riparto concorrente delle materie a frenare l’azione del legislatore statale, o a vellicare ambiziose rivendicazioni regionali.

È vero, piuttosto, il contrario: insostenibile, nei fatti, si è rivelata la potestà residuale della Regione concessa su materie di strategico interesse nazionale, che ha infatti trovato i suoi correttivi nell’azione delle competenze trasversali dello Stato e nella chiamata in sussidiarietà. È su questo campo che le Regioni hanno giocato, e in definitiva perso, la loro partita. E si capisce: il gioco, in questo caso, è a somma zero, perché, quanto al meccanismo della attrazione in sussidiarietà, o la regolazione degli interessi viene intestata allo Stato, e la dimensione legislativa regionale ne è estromessa, oppure l’opposto. E, quanto alle competenze trasversali, la vocazione finalistica dell’intervento statale può portare con sé tutto il precipitato normativo necessario a conseguire l’obiettivo, ed invadere pressoché l’intera materia, come è con evidenza accaduto, per esempio, nel “commercio[36]”.

Tali effetti sono naturalmente mediati da giudizi di proporzionalità sull’intervento dello Stato assai più complessi, a prenderli sul serio, di quanto non sia la distinzione tra il principio e il suo dettaglio, e forieri di un contenzioso ben più impegnativo.

La potestà concorrente, per paradosso, si mostra più flessibile. Anzitutto, per quanto profonda possa rivelarsi l’azione della disposizione statale, resta di regola un margine di intervento alla legge regionale, pur qualitativamente poco apprezzabile e talora limitato ai contorni. Poi, proprio grazie al carattere pretorio della qualificazione di una norma in termini di principio fondamentale, o di dettaglio, essa permette pur sempre alla Regione di segnare punti a suo favore, laddove sia meno avvertito l’interesse centralistico.

Insomma, è soprattutto qui, anziché sul terreno della potestà residuale, che le Regioni hanno conseguito pur non numerosi successi innanzi al giudice costituzionale[37].

Un primo elemento da rimarcare, allora, è che la rinuncia al riparto concorrente cade proprio nel punto in cui, nei fatti, più ampie si sono mostrate le chances di prevalenza delle istanze regionali a palazzo della Consulta.

Va aggiunto, però, che la potestà ripartita è meno idonea a sorreggere un indirizzo politico regionale autonomo, perché lo confina pur sempre nella gabbia di scelte fondanti assunte a livello centrale. E quindi, atteso lo spirito della riforma, essa avrebbe potuto essere conservata, piuttosto che superata.

Ma, forse, per ampi ambiti competenziali è proprio quanto la riforma del 2016 realizza, sia pure per vie traverse.

4.1 Le “disposizioni generali e comuni”

Vi è infatti da chiedersi, a questo punto, se davvero il riparto concorrente si sia eclissato, o se, piuttosto, esso riviva nelle clausole di colegificazione.

Si tende ad escludere, anzitutto, che le “disposizioni generali e comuni” attribuite allo Stato in numerose materie dal nuovo art. 117, secondo comma, Cost. equivalgano ai principi fondamentali della materia concorrente oggi previsti dall’art. 117, terzo comma, Cost.[38] A tal fine, è frequente il richiamo alla sentenza n. 279 del 2005, con cui la Corte costituzionale si trovò a confrontarsi con la competenza esclusiva dello Stato in tema di “norme generali sull’istruzione”, a fronte dell’attribuzione della materia “istruzione” alla potestà concorrente. Si disse in quell’occasione che le norme di principio si prestano ad ulteriori sviluppi e «informano (…) altre norme, più o meno numerose», mentre le norme generali, fondate «su esigenze unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito propriamente regionale», esauriscono «in sé stess(e) la loro operatività».

È dubbio, però, che questo criterio sia altro che l’escamotage necessario ad uscire dall’imbarazzo creato da un’inedita suddivisione delle competenze, oramai in corso di superamento. Se si sofferma l’attenzione sulle scelte legislative cui la Corte attribuì il carattere di norma generale (le finalità di ciascuna scuola; la tipologia degli incarichi di insegnamento e l’individuazione dei titoli richiesti; i limiti di età per l’iscrizione scolastica), si realizza subito che, pur in difetto di una competenza esclusiva statale, esse sarebbero state senza difficoltà ricondotte alla competenza statale, a titolo di principi fondamentali della materia. Stabilire a quale età si debba frequentare la scuola è disposizione evidentemente insuscettibile di ulteriore sviluppo da parte del legislatore regionale, ma ben pochi sarebbero disposti a sostenere che non si tratti di una scelta di principio, sottratta per ciò stesso alla sfera di intervento della Regione. A fronte di un interesse costituzionale legato ai diritti della persona, non vi è né ragione, né modo per disarticolare l’opzione unitaria sulla base di specificità territoriali, ovvero di indirizzi politici alternativi.

Viene quindi il sospetto che il criterio distintivo tra le norme generali e i principi fondamentali della materia sia occasionale e piuttosto debole per fondare su di esso la chiave di volta del nuovo riparto delle concorrenze[39].

L’esperienza non giustifica, infatti, né l’affermazione secondo cui i principi non producono in nessun caso norme di carattere auto-applicativo, né che alle sole norme generali debba riservarsi il soddisfacimenti di interessi unitari.

Da un lato, si sono avuti nella giurisprudenza costituzionale numerosi esempi di principi fondamentali del tutto auto-applicativi, e insuscettibili di ulteriori estensioni, la cui giustificazione è stata rinvenuta nella necessità di uniforme regolazione statale della fattispecie[40].

Dall’altro lato, il principio fondamentale, se rettamente inteso, coglie la dimensione infrazionabile degli interessi sollecitati dalla materia, per poi consentirne una diversificazione in sede regionale, rispondendo a «speciali esigenze di unitarietà da soddisfare»[41]. La finalità unitaria, sorretta dal principio di uguaglianza, non è di appannaggio delle sole norme generali, e non gli è affatto estranea, posto che le deroghe dovrebbero essere ammesse per i profili che, adattandosi alla dimensione locale, giustificano la devianza da una normativa uniforme, ovvero in ragione di scelte legislative periferiche, ma rispettose della sostanza dell’indirizzo politico centrale. La stessa sentenza n. 279 del 2005 ammette infatti che anche i principi fondamentali sono «sorretti da esigenze unitarie»[42].

E come potrebbe un principio fondamentale di una materia suddividersi per "ambito regionale», a voler usare l’espressione della Corte, senza esporre con ciò il fianco al rilievo che esso non coglie il tratto necessariamente comune ad una disciplina normativa, ma piuttosto surroga la potestà concorrente della Regione nel conformare questo tratto alla realtà del proprio territorio, ovvero all’indirizzo politico regionale resosi disponibile, in difetto di un’opzione unitaria imputabile allo Stato, proprio perché di dimensione territoriale?

In definitiva, la chiave di distinzione tra principio statale e regola regionale, nonostante sia indirizzata anzitutto dal grado di astrattezza della disposizione quale indizio qualificante preliminare, può già ora travalicare questo gradino di indagine per operare sul piano della dimensione degli interessi. Non a caso, è stato autorevolmente detto che in concreto principi sono stati ravvisati, dal giudice costituzionale, in «tutte le norme statali di una certa importanza e generalità»[43]. La questione non sta, allora (o, perlomeno non soltanto) nel separare dogmaticamente i principi dalle “disposizioni generali e comuni”, sul piano del contenuto, quanto nel chiedersi se la introduzione delle seconde in luogo dei primi non possa essere l’occasione per ridefinire il rapporto tra la legislazione statale e quella regionale, per come avrebbe potuto funzionare già nel riparto concorrente. E cioè secondo criteri che conservino allo Stato le scelte strategiche, se del caso puntuali, ma di contro aprano alle Regioni margini di azione, laddove la normativa non abbia a che fare con le prime, e si presti agli sviluppi suggeriti dal carattere locale dell’interesse, o comunque da un indirizzo politico regionale alternativo a quello centrale, ma compatibile, nel suo concreto dispiegamento, con il suo nucleo primario.

Per testare la effettiva differenza che potrà correre tra i principi fondamentali e le “disposizioni generali e comuni”, si deve allora rispondere a due quesiti: a) se queste ultime siano tali da esaurire l’oggetto dell’intervento normativo, ovvero se esse, al pari dei principi fondamentali, siano capaci di integrazione da parte della legge regionale; b) se le “disposizioni generali e comuni” vadano enunciate esplicitamente dallo Stato, per mezzo di leggi organiche, o possano desumersi, allo stesso modo dei principi, dalla legislazione vigente (con l’effetto di inibire l’espansione della normativa regionale, anche qualora il legislatore statale non avesse fissato espressamente le norme comuni).

In caso di risposta positiva a questi duplici quesiti, la riforma avrebbe in effetti introdotto novità significative nel sistema delle fonti.

In caso contrario (e si tratta dell’opzione da ritenere più convincente) è legittimo il sospetto che tutto sia cambiato, perché nulla cambi.

4.2 Interesse nazionale e carattere “comune” delle disposizioni statali

Ci si è chiesti, anzitutto, se nelle materie oggetto di “disposizioni generali e comuni” sia ammesso l’intervento della fonte regionale.

Non sfugge, a tale proposito, che le attribuzioni esclusive dello Stato relative alle “disposizioni generali e comuni” sono puntualmente doppiate (con l’eccezione della “sicurezza alimentare”) dalla sfera di competenza residuale delle Regioni: la tutela della salute dall’”organizzazione dei servizi sanitari”; l’istruzione dai “servizi scolastici”; le politiche sociali dall’”organizzazione dei servizi sociali”; l’istruzione e formazione professionale dall’”organizzazione della formazione professionale”; il turismo dalla “valorizzazione e organizzazione regionale del turismo”; le attività culturali da una corrispondenza competenza «per quanto di interesse regionale; il governo del territorio dalla “pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno”».

Non è detto che l’enfasi posta dal legislatore della revisione costituzionale sulla mera componente organizzativa di ciascuna di tali materie, che allo Stato sono invece riservate attraverso la tradizionale e più ampia denominazione, sottenda lo scopo di ridimensionare l’autonomia regionale entro stretti limiti, segnati per lo più dalla regolazione di meccanismi erogativi di prestazioni.

In tal caso, però, l’obiettivo non sarebbe stato raggiunto adeguatamente, perché, innanzi alla competenza esclusiva dello Stato a dettare le sole “disposizioni generali e comuni” di materie “nominate”, la clausola generale di residualità dovrebbe implicare la competenza regionale ad intervenire, con una normativa speciale e differenziata, sul medesimo oggetto. Se, in definitiva, la “tutela della salute”, menzionata nella lett. m) del nuovo art. 117, secondo comma, Cost. coincide con l’”organizzazione dei servizi sanitari” di cui al nuovo art. 117, terzo comma, Cost., poco importa. In caso contrario, vi sarà comunque la potestà residuale innominata della Regione, ogni qual volta la materia non sia precondizionata da “disposizioni generali e comuni” riservate al legislatore statale.

Dunque, è senza dubbio da escludere che la competenza esclusiva statale sulle “disposizioni generali e comuni” possa occupare interamente una materia, che continua, per altri profili, a far capo all’autonomia regionale[44]: il concorso delle fonti, che si vorrebbe escludere mediante la soppressione della potestà legislativa concorrente, torna invece a manifestarsi nella dialettica tra competenza esclusiva statale e competenza residuale della Regione.

Ciò chiarito, e superata la immediata suggestione offerta dai precedenti della giurisprudenza costituzionale relativa alle “norme generali sull’istruzione”, bisogna attendere al non facile compito di determinare che si intende per “disposizioni generali e comuni”. L’ipotesi a cui è possibile lavorare è che questa espressione non sia così lontana, quanto al contenuto, dal principio fondamentale che connota la potestà concorrente, e che non ha evidentemente potuto essere dichiaratamente ospitato nel contesto di una riforma che si fa vanto proprio del superamento di tale ultima tecnica di riparto della funzione legislativa[45].

Non dovrebbe essere di ostacolo a questa premessa la circostanza che la lett. p) del nuovo art. 117 Cost. menziona le “disposizioni di principio” (sulle forme associative dei Comuni), cui perciò dovrebbe assegnarsi un contenuto equivalente a quello dei principi fondamentali della materia[46], e dunque diverso da quello proprio delle “disposizioni generali e comuni[47].

Tanto le “disposizioni generali e comuni”, quanto le “disposizioni di principio” manifestano l’attitudine ad acquisire, nei confronti della potestà residuale regionale, un contenuto non dissimile dai principi fondamentali della materia concorrente, nel senso che verosimilmente, come si preciserà in seguito, le prime agiranno di fatto da fondamento e al contempo da limite nei confronti delle iniziative regionali, con un grado di penetrazione variabile a seconda del livello degli interessi coinvolti; e le seconde esprimeranno le scelte basilari attinenti alle forme associative di Comuni, tali da vincolare parimenti il legislatore regionale.

In entrambi i casi, il concorso di fonte statale e fonte regionale presumibilmente opererà nel senso che la seconda usufruirà dei (soli) spazi concessi dalla prima; e che la norma dello Stato, allo stesso tempo, potrà rivestire a tratti carattere dettagliato, ma mai al punto di estromettere del tutto la legge regionale dall’oggetto dell’intervento normativo, in ragione non tanto della sua natura generale, quanto del suo tratto necessariamente “comune”.

Ponendo da parte il caso unico delle “disposizioni di principio”, occorre infatti chiedersi se la specificazione del carattere “comune” della disposizione statale esclusiva, in luogo del carattere fondamentale del principio concorrente, serva ad una più rigorosa delimitazione di un concetto affidato ad oggi, nella sostanza, al variabile umore del giudice costituzionale.

L’accento andrebbe infatti posto proprio sulla natura “comune” della norma, “autentica novità del testo approvato in Senato[48], piuttosto che sulla sua generalità.

Non nel senso, in verità poco appagante, che la legge statale non possa indirizzarsi che all’intero territorio nazionale, secondo una ricostruzione meramente dichiarativa del significato proprio dell’espressione impiegata. Quanto, invece, alla ricerca di una corrispondente portata precettiva, che valga a restringere l’arbitrio del legislatore statale nell’adozione di una disciplina comunque tenuta a confrontarsi con la corrispondente potestà residuale delle Regioni.

In quest’ottica, dovrebbe ritenersi “comune” solo la disposizione che intercetta un interesse indeclinabile in sede locale, ovvero della quale vi sia necessità per assicurare un’uniforme regolazione legislativa di istituti che non si prestano ad adattamenti suggeriti dalle peculiarità dei territori, e la cui omogeneità sia il riflesso del carattere fondante della scelta politica che vi si pone alla base.

Non può ritenersi “comune”, in quest’accezione, né la norma che, per il suo contenuto, si allontana eccessivamente dal cuore dell’indirizzo politico sotteso all’intervento legislativo, e ne diviene piuttosto un rivolo accidentale, né quella che pretende di conferire carattere unitario ad interessi vibranti su una scala minore, per i quali, alla luce della ragione giustificatrice e degli obiettivi del legislatore statale, sono invece i tratti peculiari del contesto territoriale a connotare l’oggetto normativo.

È “comune”, in definitiva, (solo) ciò che non potrebbe divenire parziale, perché, secondo la ratio legis oppure la natura fondamentale degli interessi costituzionali in gioco, non avrebbe alcun senso, o comprometterebbe il comune godimento dei diritti fondamentali, circoscrivere una certa scelta politica di fondo ad alcune persone, escludendone altre, in base ad un criterio territoriale, o alla disomogeneità degli indirizzi politici.

Per tale ragione, è incerto se il nuovo art. 116 Cost., nella parte in cui permette di attribuire ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia a singole Regioni, anche in materie ove la potestà statale si limiti alle “disposizioni generali e comuni”, possa concernere la potestà legislativa. È già stato posto in luce che questa disposizione costituzionale ha un carattere «alquanto contraddittorio anche in termini logici[49]», perché non si vede come una norma generale e comune possa provenire dai singoli legislatori regionali. Si potrebbe però ritenere che, in questo caso specifico, la materia di cui all’art. 117, secondo comma, Cost. possa divenire oggetto di un regionalismo differenziato quanto all’esercizio della potestà regolamentare (che altrimenti potrebbe essere delegata al sistema regionale nel suo complesso, e non a favore di talune Regioni soltanto), o all’allocazione della funzione amministrativa (che, altrimenti, sarebbe di spettanza statale).

Certamente, per tornare al carattere “comune” delle norme statali, siamo innanzi ad un criterio di opinabile applicazione nei casi concreti, ma pur sempre oggettivo, perché fa leva sugli scopi e la natura intrinseca allo specifico intervento legislativo statale, ovvero sulla dimensione costituzionale degli interessi da esso coinvolti. Anche nel primo caso, il legislatore statale non sarebbe arbitro indiscusso della propria competenza, in danno di quella regionale, ma risulterebbe comunque vincolato perlomeno alla coerenza, non potendo spingersi oltre quanto strettamente necessario a conferire impulso alla sua scelta politica qualificante.

La generalità della disposizione, allora, diviene un carattere accessorio e secondario, perché colloca la norma al grado di astrattezza sufficiente e necessario per conseguire l’obiettivo indotto dal carattere “comune” della normativa. Non si può escludere che esso sia minimo, e che la norma statale si occupi dettagliatamente di una fattispecie, quando ciò sia richiesto dalle esigenze del caso (ma si è già osservato che tale fenomeno ricorre anche con riguardo a taluni principi fondamentali del riparto concorrente). Ma, usualmente, vi sarà invece un margine, più o meno ampio, e riservato alla legge regionale, per la parte della materia che eccede il contenuto normativo “comune”. Si potrebbe dire che quanto più la disposizione appare generale, tanto più è probabile che essa rispetti le condizioni perché la legislazione statale possa ritenersi a buon titolo di carattere “comune”. La generalità è un indizio di legittimità della disposizione statale, tanto più forte, quanto più essa è marcata, aprendo la legislazione esclusiva alle integrazioni dei legislatori regionali.

Al contempo, ci si potrebbe chiedere se la generalità, pur consentendo alle disposizioni statali di assumere tratti analitici, non debba in ogni caso comportare un divieto per il legislatore statale di ricorrere, nelle corrispondenti materie, a leggi provvedimento, atteso che esse non possono certo definirsi generali sul piano sistematico. Questa idea, pur opinabile e da discutere, assegnerebbe alla generalità una specifica e primaria funzione di interdizione, da accompagnare a quella secondaria di indizio sulla legittimità della disposizione statale, cui si è appena accennato.

La denominazione quale “comune” della disposizione, insomma, non ha funzione descrittiva, ma prescrittiva. Impone un certo contenuto, verificabile secondo criteri giuridici, in difetto del quale essa non può reputarsi legittima espressione di una competenza esclusiva dello Stato, ma illegittima compressione dell’autonomia regionale. Per tale verso, la norma statale adempie al ruolo di principio della materia, accantonando la poco probante distinzione rispetto alle regole auto-applicative di competenza regionale, per recuperare un limite intrinseco alla funzione di indirizzo dell’attività legislativa regionale.

È possibile, in altri termini, che alle “disposizioni generali e comuni” sia precluso di rendersi “self-executing”, quando il “dettaglio” eccede lo scopo giustificato dal carattere “comune” dell’azione legislativa, oppure il contrario, secondo un giudizio inevitabilmente casistico.

Segue

Resta, ovviamente, un tratto di profonda divaricazione tra la potestà concorrente, ed il dualismo tra competenze esclusive e residuali.

Queste ultime, in particolare, pur dovendosi flettere innanzi alle “disposizioni generali e comuni” adottate dallo Stato, non saranno vincolate a sviluppare principi desumibili altrove. Con ciò si intende dire che, in linea astratta, un peculiare ambito della materia, non ancora conformato dalla disciplina esclusiva dello Stato, ben potrebbe essere normato integralmente in forza della potestà residuale regionale.

Solo alla legge dello Stato spetta, infatti, la decisione in ordine alla sussistenza di interessi sintetizzabili mediante “disposizioni generali e comuni”, cosicché, in assenza di una tale scelta, la legge regionale si dovrebbe presupporre libera di attingere ad un livello di regolazione completa della fattispecie.

Il condizionamento subito dalla legge regionale è dunque potente, perché lo Stato è in grado di occupare i molteplici settori di cui si compone una materia per mezzo di disposizioni che potrebbero lasciare di fatto la Regione nella sola facoltà di specificarne le linee applicative. Ma esso sembra anche meramente potenziale, fino a quando il legislatore statale non abbia provveduto in merito.

Veniamo, allora, al secondo quesito formulato innanzi.

È decisivo domandarsi se la potestà residuale regionale, per le materie di colegislazione, incontrerà i limiti desumibili dalla normativa statale vigente, al pari della normativa cd di dettaglio nell’attuale riparto delle competenze, ovvero se questi ultimi dovranno, stavolta, essere posti con un apposito organico intervento, che si autoqualifichi in questi termini, come è già stato sostenuto[50].

Nel primo caso, ancora una volta la presunta novità del modello duale tra competenza esclusiva e residuale (naturalmente per il caso delle materie oggetto di “disposizioni generali e comuni” dello Stato) dovrebbe finire per rivolgersi, nella sostanza, allo schema del riparto concorrente a tutt’oggi in vigore, perché non vi sarà campo che non sarà già stato occupato, in qualche modo, dalla normativa statale. E, al limite, si vedrà se la Corte costituzionale vorrà approfittare del nuovo art. 117 Cost. per rendere più stringente il suo controllo sui limiti da opporre all’invasività della legislazione dello Stato, il che, nell’attuale contesto giurisprudenziale di ripiegamento dell’autonomia regionale, appare incerto, anche se auspicabile.

Nel secondo caso (che pure apparirebbe in linea di principio il più compatibile con il «concorso sostanzialmente libero»[51] delle fonti regolato dal nuovo art. 117 Cost.), in assenza di un tempestivo intervento dello Stato capace di comprimere la potestà residuale, essa potrebbe in teoria espandersi verso lidi da sempre considerati di spettanza del legislatore statale, per di più in materie chiave del nostro ordinamento. Si avrebbe, così, una bizzarra manifestazione di “cedevolezza invertita”. Mentre, perlomeno anteriormente alla riforma del 2001, la legge dello Stato poteva dettare, nelle materie concorrenti, disposizioni di dettaglio, cedevoli solo a seguito dell’iniziativa legislativa regionale che si riappropriasse della competenza, domani potremmo assistere all’invasione, da parte del legislatore regionale, di sfere di competenza ad oggi riservate ai principi fondamentali spettanti al legislatore statale, fino a quando quest’ultimo non provveda a legiferare organicamente. Uno scenario, quest’ultimo, piuttosto improbabile dal lato pratico oltre che in contrasto con l’afflato statalista della riforma del 2016, e neppure auspicabile a dire il vero.

Se, per tale ragione, è verosimile che la Corte costituzionale si attesti nuovamente sulla consolidata posizione della sua giurisprudenza, ricavando le “disposizioni generali e comuni” dal tessuto ordinamentale, l’eco della potestà legislativa concorrente diverrà innegabile, almeno nel funzionamento concreto del sistema legislativo, sia pure con tutte le sottili distinzioni teoriche.

E, in tal caso, il saldo per le Regioni sarebbe comunque negativo, perché i limiti statali opponibili a tre potestà legislative attualmente residuali (l’assistenza sociale; la formazione professionale; il turismo) in linea teorica verrebbero implementati, mentre nulla sarebbe guadagnato nel passaggio alla residualità delle attuali competenze concorrenti sulla “tutela della salute”, sul “governo del territorio” e sull’”istruzione”.

4.3 Conclusioni sul nuovo concorso di fonte statale e fonte regionale

In conclusione, e per riassumere. La potestà legislativa concorrente è in sé meno ambiziosa della potestà residuale regionale, perché lascia minor spazio ad un autonomo indirizzo politico periferico. Per tale ragione, essa pare compatibile con gli obiettivi della controriforma del 2016, che vi ha però a prima vista rinunciato, sulla base dell’erronea percezione che essa alimentasse la conflittualità costituzionale, piuttosto che incanalarla verso forme elastiche di composizione degli interessi.

Sul piano teorico, il rapporto tra potestà esclusiva dello Stato in punto di “disposizioni generali e comuni” e potestà residuale delle Regioni sulle corrispondenti materie (una volta scartata l’idea che queste ultime debbano limitarsi ai profili organizzativi assegnati nominativamente dal nuovo art. 117, terzo comma, Cost.) non riproduce la dinamica tra i principi fondamentali e la cd normativa di dettaglio, essenzialmente per quattro aspetti connessi: a) la legge regionale non è limitata allo sviluppo dei principi fondamentali posti dal legislatore statale; b) di conseguenza, all’interno della materia, vi possono essere settori privi di una regolazione a livello centrale, sui quali il legislatore locale può per primo porre le mani[52]; c) la legislazione della Regione può così dilatarsi verso la dimensione che è oggi di pertinenza dei principi fondamentali prescritti dallo Stato[53]; d) la legislazione statale, ove esercitata, a sua volta non necessita di alcun completamento in sede decentrata, potendo rendersi direttamente auto-applicativa.

Di fatto, però, vi sono ottimi motivi per ritenere che il meccanismo tornerà ad impigrirsi sulle forme ben note del riparto concorrente, forgiate tramite i principi fondamentali e la conseguente normativa di sviluppo.

I primi, ad onta di qualsivoglia inquadramento sistematico, hanno già dimostrato di poter di volta in volta assumere tratti di estrema analiticità, che, se per un verso non permettono di estrapolarvi altro, per il verso parallelo neppure richiedono un completamento normativo regionale quale condizione necessaria per andare a segno (e, così, salta il punto d). Per questo, si può porre in dubbio che il tratto distintivo delle “disposizioni generali e comuni”, al di là del caso del tutto peculiare delle “norme generali sull’istruzione” già affrontato dalla giurisprudenza costituzionale, consista davvero, rispetto ai principi fondamentali, nella capacità di esaurire interamente una certa disciplina, in forza di preminenti esigenze unitarie. Al contempo, è sostenibile che già ad oggi il test sulla natura di principio fondamentale della materia non sia estraneo alla verifica di simili esigenze, in rapporto agli interessi solleticati dalla norma.

Come si è visto, si può solo concedere che la specificazione del carattere “comune” della disposizione “generale” possa rilanciare un’indagine più rigorosa, da parte della Corte costituzionale, sulla natura di principio di una certa norma, ma su questo punto servirebbero capacità profetiche, mentre il passato congiura per lo scetticismo.

Con riguardo alla vis espansiva della legge regionale, poi, tutto dipende dalla decisione, ancora una volta affidata alle cure del giudice costituzionale, di rinvenire anche implicitamente le “disposizioni generali e comuni” nelle pieghe dell’ordinamento, ovvero di imporre al legislatore statale un intervento organico, che si autoqualifichi in ragione della competenza esercitata.

Se, come pare probabile, prevarrà la prima opinione, la legge regionale incontrerà fin da subito l’opposizione di una coriacea normativa statale, idonea a precluderne sia le iniziative solitarie (punto a), sia la conquista del livello normativo di principio (punto c). Sarebbe possibile solo incunearsi nei sottosettori aperti dalle imprevedibili novità dell’evoluzione sociale, ma, anche ammesso che essi non siano forzosamente riadattati dalla mentalità tassonomica del giurista a fattispecie già regolate, è facile immaginare che un pronto intervento del legislatore statale ricaccerà indietro gli avamposti normativi regionali (punto b). L’attitudine della legge dello Stato ad occupare le materie dovrebbe infine confinare l’iniziativa regionale in pascoli già frequentati, per i quali non resterà che il “dettaglio”.

Se, in conclusione, il giudice costituzionale non dovesse decidersi a imprevedibili e repentine evoluzioni regionaliste della propria giurisprudenza (quanto al controllo sul carattere “comune” della norma statale, pur qui auspicato, e sulla esigenza di un’espressa adozione di essa), il nuovo art. 117 Cost., per quanto qui interessa, non pare destinato a mutare granché rispetto alla vituperata potestà concorrente[54]. E questo a patto che siano respinti tentativi di integrale annichilimento della funzione legislativa regionale in ambiti cruciali per l’Ordinamento, come accadrebbe se si ritenesse che il differente nomen iuris tra l’oggetto delle “disposizioni generali e comuni” di cui al secondo comma del nuovo art. 117 Cost., e le competenze “organizzative” delle Regioni nominate dal nuovo art. 117, terzo comma, Cost., sottintenda l’esclusione di queste ultime dall’ambito di materie in tal modo riservate allo Stato.

Va infine rimarcato che l’incontro della potestà esclusiva statale con quella residuale delle Regione, fuori dall’intermediazione della funzione a riparto concorrente, erode i regolamenti regionali, che sono adottabili solo nelle materie residuali ai sensi del nuovo sesto comma dell’art. 117 Cost. , salva delega statale. Ciò che persisteva della funzione normativa regionale, anche in caso di chiamata in sussidiarietà di un oggetto a riparto concorrente, viene così definitivamente eliso.

5. Le altre competenze esclusive dello Stato

Cancellato il riparto concorrente delle materie, si è resa necessaria la distribuzione di esse tra potestà esclusiva dello Stato e potestà residuale delle Regioni.

Si è già detto della figura, piuttosto oscura, delle competenze statali concernenti le (sole) “disposizioni generali e comuni”, che si annettono anche materie in precedenza conferite in via residuale alle Regioni (assistenza sociale; istruzione e formazione professionale; turismo). Al di là di esse, l’evidente tendenza della revisione costituzionale si manifesta nella centralizzazione delle attribuzioni.

Essa avviene mediante plurime tecniche normative, talora intrecciate:

a) talune materie sono sic et sempliciter assegnate allo Stato, conservando la denominazione attualmente adottata dall’art. 117, terzo comma, Cost. Si tratta del “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”; della “previdenza complementare e integrativa”; della “tutela e sicurezza del lavoro”; del “commercio con l’estero”; della “valorizzazione dei beni culturali”; dell’”ordinamento sportivo”; dell’ordinamento delle “professioni”; dell’”ordinamento della comunicazione”; della “produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia”. Tra tali oggetti, deve convenirsi con chi ha già segnalato la potenziale carica dirompente insita nella consegna integrale al legislatore statale del “coordinamento della finanza pubblica[55], perlomeno se esso continua ad intendersi quale sinonimo di finanza pubblica tout court.

Si è già osservato che la giurisprudenza costituzionale si è servita di questa materia per condizionare pesantemente la fonte regionale, eccettuando, e non sempre, le misure restrittive più minute e settoriali. A fronte di finalità di contenimento della spesa, i vincoli alla autonomia legislativa, organizzativa e finanziaria della Regione sono divenuti effetti indiretti di una opzione normativa spettante allo Stato. Persistendo a ragionare in questi termini, e venuto meno persino l’argine desunto dalla sfera di competenza concorrente riservata alle Regioni, la legge statale sarebbe legittimata a imporre misure analitiche e dettagliate, forse anche di natura permanente, in danno della Regione, frustrandone l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa garantita dall’art. 119 Cost.

È auspicabile che, facendo leva proprio su tale ultima disposizione, si voglia invece evitare una simile deriva, prendendo atto che coordinare la finanza non significa divenire l’unico assuntore finale di ogni scelta che ponga in gioco le risorse finanziarie dei soggetti pubblici. Resta il fatto, però, che una linea di giurisprudenza costituzionale fortemente segnata dal contesto emergenziale troverebbe un consolidamento normativo in Costituzione, svincolandosi dalla contingenza, e divenendo stabile.

Con riguardo alle altre materie, è difficile trovarne una che abbia permesso alla Regione di esercitare un’apprezzabile autonomia fino ad oggi: già si è ricordato l’esempio delle “professioni”, nella sostanza già interamente svuotato di competenze regionali. Ancora una volta, la revisione costituzionale fotografa la giurisprudenza costituzionale, nel tratto discendente della parabola regionale, prevenendone un eventuale riscatto;

b) altre materie, a conferma dell’indirizzo sostanzialmente ricettivo seguito dalla riforma del 2016 nei confronti della giurisprudenza costituzionale, sono trasposte di pari peso da quest’ultima e affidate allo Stato: la “promozione della concorrenza” (già inclusa nella tutela della concorrenza); le “norme sul procedimento amministrativo” (già per larga parte imputate a titolo di livelli essenziali delle prestazioni) e la “disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche” (già ricompresa nell’ordinamento civile), “tese ad assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale”; l’”ordinamento di Comuni e Città metropolitane”, ovvero degli enti locali sopravvissuti alla soppressione delle Province disposta dal nuovo art. 114 Cost. Con l’eccezione dell’intervento sulla concorrenza (indiscutibilmente già riconosciuta allo Stato), però, la riforma sceglie in ogni caso, tra i punti irrisolti della giurisprudenza costituzionale, l’orientamento meno favorevole alle Regioni, cristallizzandolo, o conferendovi una spinta ulteriore.

Così, il dibattito sulla competenza relativa all’ordinamento degli enti locali, che, sulla base di alcuni precedenti della Corte, avrebbe potuto reputarsi residuale[56], come accade nelle Regioni a statuto speciale, è definitivamente troncato a favore della tesi statalista. La natura del rapporto di lavoro dei dipendenti regionali, forse imputabile all’ordinamento civile fino a quando le Regioni non avessero deciso di affrancarsi dal modello di privatizzazione proprio del dlgs n. 165 del 2001[57], è ora consegnata nella sole mani del legislatore statale. Il procedimento amministrativo, transitato fino ad oggi solo in parte nei livelli essenziali delle prestazioni[58], subisce adesso una integrale cannibalizzazione da parte dello Stato. Difatti, la finalità di assicurare uniformità di disciplina sul territorio nazionale, che, salvo delimitate eccezioni, è implicita in ogni materia oggetto di potestà esclusiva dello Stato, sembra oggetto di una valutazione squisitamente discrezionale del legislatore statale, che fa corpo con l’atto stesso di legificare la materia. Quando ciò accade, un’eventuale normativa regionale dissonante ne viene irrimediabilmente scacciata. La formulazione della lett. g) del nuovo art. 117, secondo comma, Cost. concede, al limite, che, nel frattempo e prima di siffatta valutazione, il legislatore regionale possa agire provvisoriamente in una materia che permane nella piena sfera di disponibilità dello Stato;

c) altre materie ancora sono prelevate dall’attuale art. 117, terzo comma, Cost., e riadattate con formule che collegano la competenza esclusiva dello Stato alla dimensione nazionale dell’interesse. A parte il caso della “produzione, trasporto e distribuzioni nazionali dell’energia”, in cui incongruamente già rilevava il carattere nazionale dell’oggetto normativo, si tratta del “sistema nazionale e coordinamento della protezione civile”; delle “grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale”; dei “porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale”, cui può accostarsi la “programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica”. Rispetto all’elenco dell’attuale art. 117, terzo comma Cost., si aggiungono le “infrastrutture strategiche”, che a propria volta rimandano alla natura centralizzata dell’interesse. Se ne arguisce che, laddove quest’ultimo sia meramente locale, la competenza spetti in via residuale alle Regioni, e possa liberamente coesistere con la corrispondente normativa statale, che verte su altro oggetto. Per quanto si è osservato in precedenza, l’indivisibilità degli interessi, insieme con la proiezione dell’intervento normativo statale su scala nazionale, contraddistingue in via tendenziale anche le “disposizioni generali e comuni”. Ma, per le materie qui ricordate, il legislatore della revisione costituzionale, enfatizzandolo e concretizzandolo con riguardo all’oggetto dell’intervento statale, si è servito della clausola di residualità per assegnare a contrario una sfera competenziale riservata alle Regioni. Essa, in linea di principio, parrebbe insensibile alla legislazione statale, perché quest’ultima si arresta innanzi alla localizzazione territoriale dell’interesse. Fa eccezione il “sistema nazionale e coordinamento della protezione civile”, che rimanda piuttosto ad un meccanismo di concorso delle fonti, nella sostanza concorrente.

6. Le competenze residuali delle Regioni

Le materie riconosciute alla potestà residuale delle Regioni si valgono, come si è visto, di una duplice fonte. Alla clausola generale di residualità corrisponde un elenco nominativo contenuto anch’esso nel terzo comma del nuovo art. 117 Cost. È già stato notato che questa tecnica presenta il vantaggio di ancorare saldamente un nucleo di prerogative regionali al testo costituzionale, assicurandone il riconoscimento giurisprudenziale[59].

È anche vero, però, che essa potrebbe celare un intento assai più subdolo in danno dell’autonomia regionale. Si è già posto in chiaro che alla competenza esclusiva dello Stato nell’adottare “disposizioni generali e comuni” fa eco una potestà regionale nominata, ma con espressioni linguistiche di ridimensionamento, come se essa dovesse venire ritagliata in seno ad una attribuzione più ampia, comunque preclusa al legislatore regionale quand’anche essa ecceda un oggetto generale e comune.

L’interpretazione più convincente, tuttavia, deve respingere questa ipotesi, che lascerebbe prive importanti materie di una normativa (regionale), per così dire, “speciale e differenziata”, a completamento delle scelte romane: la “pianificazione del territorio regionale e mobilità del suo interno” è dunque governo del territorio; la “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali”, tutela della salute e politiche sociali; l’”organizzazione della formazione professionale”, istruzione e formazione professionale; la “valorizzazione e organizzazione regionale del turismo”, turismo. In un caso analogo, infatti, lo stesso testo del nuovo art. 117 Cost. si serve del medesimo linguaggio per definire il campo statale (“disposizioni generali e comuni sulle attività culturali”) e regionale (“disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali”). Il riferimento all’interesse regionale, qui esplicito, conferma a contrario la coessenzialità della dimensione propria dell’interesse nazionale a base delle “disposizioni generali e comuni”.

La tecnica impiegata dal nuovo terzo comma dell’art. 117 Cost. potrebbe avere anche una funzione inversa: permette di ricavare competenze esclusive dello Stato di natura innominata, ma univocamente “espresse”per il fatto che certe materie sono attribuite solo parzialmente alla Regione (ciò potrebbe essere sufficiente per rinvenire una espressa riserva, visto che essa discende comunque dal testo letterale del nuovo art. 117 Cost.)[60].

La “promozione dello sviluppo economico locale” e la “organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese”, grazie alla indicazione espressa sulla natura locale dell’interesse, non può che echeggiare una corrisponde potestà dello Stato di scala nazionale, eccedente il carattere trasversale proprio della tutela e promozione della concorrenza. Una competenza-oggetto sulle attività produttive nazionali, che si affianca a quella riconosciuta espressamente in tema di “politiche attive del lavoro”.

Tra le materie nominate vi è la “promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici” di interesse regionale, che si vale di un termine (la “promozione”) di ambiguo significato, se si considera che la “valorizzazione” ora prevista dall’art. 117, terzo comma, Cost. è risalita tra le competenze esclusive dello Stato (“tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; “ambiente ed ecosistema”). Si potrebbe pensare ad iniziative volte a favorire l’accesso al bene da parte della collettività (finanziamenti; pubblicità; trasporti e così via), senza che al contempo esso possa divenire oggetto di una regolamentazione normativa diretta sulle stesse modalità di conservazione, di fruizione e di gestione, con un arretramento rispetto alla punta più avanzata della giurisprudenza costituzionale in tema di “fruizione” dei beni ambientali[61].

Esso, però, non dovrebbe comportare che la legge regionale non possa migliorare gli standard statali di tutela ambientale, quando ciò accada quale effetto indiretto dell’esercizio di una competenza propria della Regione, perché proprio il carattere inessenziale dell’effetto ai fini di qualificare la competenza renderebbe superfluo, a tali fini, il passaggio, nel nuovo art. 117 Cost. dalla “tutela dell’ambiente” alla competenza esclusiva statale in materia di “ambientetout court[62].

Infine, appare degna di nota l’attribuzione alla legge regionale in via residuale della competenza in tema di “rappresentanza delle minoranze linguistiche”, anche se essa dovrà coesistere con la competenza della Repubblica (e, dunque, statale) a tutelare queste minoranze, prevista dall’art. 6 Cost.

Segue

Le altre materie da ridistribuire confluiscono, al contrario, nella potestà normativa residuale delle Regioni, grazie alla clausola generale confermata dal nuovo art. 117, terzo comma, Cost. e si ricavano da quanto fino ad ora precisato con riferimento ai limiti della potestà esclusiva statale: la normativa di pendant alle “disposizioni generali e comuni”; l’eventuale sviluppo delle “disposizioni di principio sulle forme associative di Comuni”; norme sul procedimento amministrativo e sul lavoro pubblico regionale, fino a che lo Stato non reputi opportuno uniformare la materia; disposizioni legittimate, su scala locale, dall’espressa limitazione della competenza centrale alla dimensione nazionale; i pochi oggetti già menzionati dal vigente art. 117, terzo comma, Cost. e non consegnati allo Stato : anzitutto, la “alimentazione”, privata però del profilo della “sicurezza alimentare” e i “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni”, temperati, peraltro, dalla persistente attribuzione alla legge dello Stato delle norme di procedura per l’attuazione degli accordi internazionali e del diritto dell’Unione (art. 117, quinto comma, Cost.)

Vi sono, infine, le “casse di risparmio, case rurali, aziende di credito a carattere regionale” e gli “enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale”. Difficile, tuttavia, immaginare che su materie così delicate non si sovrapponga una disciplina statale, ricavata da disposizioni costituzionali estranee al Titolo V, come l’art. 47 Cost. in tema di disciplina, coordinamento e controllo dell’esercizio del credito[63] (oltre che, naturalmente, le disposizioni a tutela e promozione della concorrenza).

Restano alla residualità, da ultimo, le materie innominate finora individuate dalla giurisprudenza costituzionale, di cui si è già sottolineato il livellamento patito per effetto, in particolare, delle competenza trasversali dello Stato.

7. Conclusioni sul nuovo assetto delle competenze legislative

Nel complesso, la legislazione regionale viene inchiodata all’impoverimento impostole, allo stato, dalla più recente giurisprudenza costituzionale. Quest’ultima è valorizzata nei picchi più decisamente statalisti, mentre sono sorpassate le meditate e complesse posizioni assunte nell’immediatezza della revisione del 2001.

Il punto predominante del riassetto delle competenze è l’interesse nazionale[64], celato: a) ora nella natura “comune” delle disposizioni generali dello Stato (nuovo art. 117, secondo comma, lett. m, n, o, s, u); b) ora nella finalità espressa di uniformare certe discipline (lett. g); c) ora nella dimensione dichiaratamente nazionale della materia per fine ed oggetto (lett. n, u, v, z, ma anche il nuovo art. 117, terzo comma, Cost., quando lega la competenza regionale al carattere locale dell’intervento).

La tecnica normativa, però, è esageratamente variegata, e rischia di porre nuovi dubbi in un campo che si era ormai ben assestato grazie agli stimoli creativi del giudice costituzionale.

In linea di massima, resistono ampie zone di contatto tra potestà statale e potestà regionale, e, quanto al contenuto delle disposizioni prodotte in forza dell’una e dell’altra, è prevedibile che nei fatti non ci si dovrebbe allontanare troppo dal (modesto, per l’autonomia regionale) riparto concorrente, pur formalmente cancellato.

Certo, il meccanismo è differente, ma lo Stato ha ampi margini per occupare la materia, lasciando alle Regioni il dettaglio, e talora neppure quello, con le “disposizioni generali e comuni” (che, se rinvenibili implicitamente, condizioneranno ineludibilmente l’autonomia regionale); le “disposizioni di principio” di cui alla lett. p (la cui assenza, segno della scelta politica di non attivare queste forme, potrebbe persino congelare l’iniziativa residuale regionale); le norme di “coordinamento” della lett. u (coordinare, come nell’ipotesi della finanza pubblica, può equivalere a imporre forme e mezzi comuni di azione); le disposizioni che spettano alla Repubblica (come con riferimento alla tutela delle minoranze linguistiche e agli enti di credito regionali, alle quali il legislatore regionale dovrà adattarsi).

Solo laddove la competenza statale o regionale si radica con riguardo alla localizzazione dell’oggetto normativo o alla strategicità di esso (lett. n, v, z, ma anche parte del nuovo art. 117, terzo comma, Cost.) parrebbe che le Regioni possano sviluppare a livello territoriale una politica autonoma dall’indirizzo romano, che viene espressamente circoscritto secondo una scala dimensionale oggettiva. Le scelte regionali, in altri termini, non dovrebbero conformarsi ai “principi” tracciati dalla legislazione statale secondo le nuove forme “generali e comuni” introdotte dalla riforma del 2016, ma sullo sfondo aleggiano ancora le competenze trasversali dello Stato, oltre che la clausola di supremazia di cui ci si occuperà a breve.

La competenza esclusiva dello Stato, dall’altro lato, si allarga a nuovi oggetti, tra i quali rischia di acquisire egemonia il “coordinamento della finanza pubblica”, e non ne perde alcuno. Talora essa si annette materie già attribuitele dalla giurisprudenza costituzionale, privilegiando, nelle pieghe dei latenti contrasti, la versione più centralista (la lett. p sull’ordinamento degli enti locali). Ad essa viene dietro anche la potestà regolamentare, salva graziosa delega alle Regioni.

Le chances regionali di resistere all’onda d’urto sono quindi affidate alla sensibilità del giudice costituzionale, specie quanto ai criteri che si vorranno adottare per scrutinare la legittimità delle “disposizioni generali e comuni”. Se prevalesse un orientamento volto a riconoscere questa qualità per effetto di una scelta “squisitamente politica”[65] del legislatore statale, nei limiti della non manifesta irragionevolezza, verrebbe precluso ogni ulteriore sviluppo della autonomia regionale oltre le sbarre costruitole intorno, specie nella seconda fase temporale della riforma del 2001.

Certamente, dell’idea che le Regioni possano costituire un polo autonomo di elaborazione di un indirizzo politico alternativo a quello del Governo, allo scopo di diluire la sovranità e frazionare il potere, non resta nulla.

La ridefinizione delle materie premia lo Stato, fermando l’oscillazione del pendolo della giurisprudenza costituzionale proprio nel punto più lontano dalle istanze di decentramento legislativo.

Non vi sono allora esiti sconvolgenti rispetto al quadro di riparto che oggi vive, ma piuttosto la definitiva rinuncia ad un assetto davvero regionalista della forma di Stato, assieme a nuove difficoltà applicative[66], altri dubbi di interpretazione e rinnovate sfide a cercare la coerenza logica (o, meglio, ad imporla ex post) in un intrico di formule anodine, prive di un chiaro collegamento reciproco.

Si sarebbe potuto fallire meglio.

8. La clausola di supremazia e cenni sul Senato. L’incerto destino del regionalismo italiano

Il nuovo quarto comma dell’art. 117 Cost. formula la cd clausola di supremazia[67], di cui era monca la revisione costituzionale del 2001. Su proposta del Governo, la legge dello Stato può avocare a sé ogni intervento legislativo, quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale. La sola garanzia procedimentale per le Regioni è recata dal nuovo art. 70 Cost., che prevede l’esame del disegno di legge da parte del Senato, e l’obbligo per la Camera di approvarlo a maggioranza assoluta, ove intenda non approvare le modificazioni proposte dal Senato con la medesima maggioranza.

Davvero troppo poco, se si considera che la nuova legge elettorale garantisce agevolmente il quorum alla maggioranza di Governo, mentre più difficoltoso potrebbe esserne il conseguimento in Senato.

Difatti, la nuova legge elettorale per la Camera consegnerà immancabilmente la maggioranza assoluta di cui il Governo necessita per sostenere la sua iniziativa, mentre altrettanto non può dirsi con riguardo al Senato, i cui componenti (a parte la quota di nomina presidenziale) sono designati dai Consigli regionali e delle Province autonome con metodo proporzionale, in base al nuovo art. 57 Cost.

Ora, se il Senato dovesse davvero rappresentare le istanze regionali nella loro unità, il conseguimento di una maggioranza assoluta non sarebbe problematico. Ma vi sono due ostacoli. In primo luogo, si tratta di capire se la molteplicità delle istanze regionali, storicamente segnate da una linea divisoria perlomeno di carattere geografico tra nord, centro e sud d’Italia, possano davvero ricompattarsi in una posizione condivisa.

In secondo luogo, si dovrebbe dare per scontato ciò che non lo è affatto, ovvero che il Senato non obbedisca piuttosto alle medesime logiche politiche che governano la dialettica tra maggioranza e opposizione alla Camera. Questo perché il predominio dei partiti politici nazionali sulla classe dirigente locale, unitamente ad un’elezione dei senatori da parte dei Consigli, che per di più non si accompagna a mandati imperativi o a clausole di recall, suggerisce piuttosto che il voto dei membri dell’Assemblea possa essere diretto da sollecitazioni provenienti dai centri di elaborazione della politica nazionale[68]. In questo caso, la maggioranza assoluta diviene obiettivamente conquista più ardua, con l’effetto di disinnescare l’intervento regionale proprio laddove sarebbe più opportuno bilanciare con esso il supposto interesse nazionale.

Vi è quindi una profonda asimmetria tra le maggioranze qualificate, pur formalmente identiche, che si richiedono a Camera e Senato, in via generale, e più specificamente nell’ambito tracciato dalla clausola di supremazia. Più onesto sarebbe stato permettere al Senato di deliberare a maggioranza semplice, perché vi è l’ipotesi non peregrina che, diversamente, il potere di arresto temporaneo dell’iniziativa del Governo non sia di fatto esercitabile.

Segue

Nella reintroduzione di un concetto, l’interesse nazionale, espunto dalla riforma del 2001 (e di tale ampiezza da assorbire i riferimenti alla tutela dell’unità giuridica ed economica), il legislatore della revisione costituzionale del 2016 scolpisce un palese intento, che funge da sottotraccia all’intera modifica del Titolo V: l’indiscussa predominanza dell’indirizzo politico governativo, che ambisce a incarnare la salus rei publicae, a fronte della minorità amministrativa delle Regioni. Non vi è infatti competenza legislativa di queste ultime che non ceda di fronte alla legge di supremazia, se così vuole il Governo che si fa carico del relativo disegno di legge. Mentre nell’originario art. 117 Cost. scritto dal Costituente l’interesse nazionale operava, nel rispetto delle competenze, da limite alla legislazione regionale, o anche da base di quella statale, qualora fosse stata impugnata innanzi alla Corte costituzionale, il nuovo quarto comma dell’art. 117 Cost. ne esalta l’affinità elettiva con l’azione del Governo, permettendo a tale organo un’iniziativa di carattere preventivo che altera il riparto delle competenze[69].

Siamo perciò nel campo della straordinarietà, ed essa riposa tutta sul peso politico di cui il Governo dispone presso la Camera, allo scopo di qualificare la sua azione in termini di indispensabilità per il poziore raggiungimento dell’interesse comune. Glorificato dai crismi del suggello governativo, l’interesse nazionale si presenta innanzi al giudizio della Corte intriso di una politicità poderosa e recalcitrante a scrutinio, tanto da poter alimentare il dubbio che esso possa trasmodare, in danno della legge regionale, in un limite di merito, anziché di legittimità, seguendo il percorso opposto a quello subito dall’analoga espressione contenuta nel “primo” art. 117 Cost.

Eppure, è stato ribadito di recente che la supremazia dello Stato nei confronti delle Regioni «riassume i contenuti di tutte le clausole che consentono allo Stato di ingerirsi nella materie regionali», e che quindi essa si espande secondo un moto impresso «dall’interpretazione che diamo di queste clausole»[70]. Esse non possono generare rassegnazione innanzi alla manifestazione di potenza di una sovranità centralizzata peraltro sempre più evanescente, ma piuttosto stimolare l’interprete ad una lettura sistematica che tenga in conto la forma di Stato regionalista prescelta dal Costituente.

Se dunque si intende contrastare la degenerazione e conservare un qualche senso alla autonomia legislativa regionale, si dovrà piuttosto lavorare di fino, per contenere quanto più possibile l’abuso di una vera e propria “clausola-vampiro”[71], affidandosi ancora una volta al controllo di costituzionalità.

A tal fine, la premessa è che l’interesse nazionale presupposto dal nuovo quarto comma dell’art. 117 Cost. non abbia una vocazione esclusivamente politica (come aveva il corrispondente limite di merito affidato al controllo del Parlamento dal Costituente del 1948), ma rifletta su scala generale il medesimo concetto già declinato per particolari ambiti di competenza dagli altri commi del nuovo art. 117 Cost. In tal senso milita la constatazione che già nel vigore del “primo” Titolo V esso fu assorbito nel novero dei limiti di legittimità, ciò che allora sembrò ridimensionare l’autonomia regionale, ma che oggi potrebbe costituirne un’arma di difesa, grazie all’affinamento del controllo di costituzionalità relativo al principio di proporzionalità[72].

Nell’ipotesi appena formulata, la clausola di supremazia non è indifferente alla materia legislativa su cui incide. Si possono distinguere quattro ipotesi principali:

a) con riguardo agli oggetti colegificati per mezzo di “disposizioni generali e comuni”, si è cercato di suggerire che queste ultime sono tali, perché inglobano già la dimensione di un interesse infrazionabile, e irraggiungibile se non per mezzo di un’unica legislazione di matrice statale. In caso contrario, le norme non potrebbero dirsi davvero “comuni”. Non siamo quindi lontani dalla tradizionale definizione di interesse nazionale[73]. Rispetto a tale novero di competenze, la condizione perché lo Stato possa legiferare sconta già, almeno in una parte significativa, le finalità centraliste manifestate dal quarto comma del nuovo art. 117 Cost. Per definizione, la legislazione regionale che residua si colloca, quindi, in una dimensione prettamente locale, lontana dal cuore pulsante delle scelte strategiche di fondo. Per attivare la clausola di supremazia anche in tali casi, sarà allora necessario un quid pluris davvero significativo, e difficilmente immaginabile in astratto. Una rottura dell’ordine costituzionale o una compromissione dei valori fondanti della Repubblica e dei diritti fondamentali della persona, che per qualche imprevedibile ragione sia indotta dalla proliferazione di legislazioni regionali disomogenee;

b) con riferimento alla distribuzione delle competenze secondo la scala nazionale o locale dell’oggetto o del fine, la clausola di supremazia incontra analoghi limiti concettuali. È infatti direttamente la Costituzione a determinare entro che margini (appunto, finalistici o materiali) l’elemento nazionale possa assumere rilievo ai fini del riparto delle competenze. Un intervento legislativo che si estenda ad una modesta rete di trasporto di livello locale, in altri termini, per definizione non dovrebbe di regola permettere l’attivazione del potere di supremazia statale, atteso che l’interesse nazionale che lo legittima è già stato valutato una volta per tutte quale elemento costitutivo del riparto delle attribuzioni legislative;

c) nei casi in cui il nuovo art. 117 Cost. affida già direttamente alla legge statale ogni valutazione di opportunità circa il se e il modo di regolare una materia (le norme sul procedimento giuridico e sul lavoro pubblico) il ricorso al quarto comma appare in sé superfluo;

d) infine, vi sono le materie oggetto di potestà regionale residuale, sulle quali non è già attivo alcun fattore di controllo, da parte dello Stato, secondo la prospettiva dell’interesse nazionale. Tra di esse si contano oggetti innominati di grande importanza, come l’industria, l’artigianato, l’agricoltura, il commercio; altri impliciti (le disposizioni “di dettaglio” sulle forme associative dei Comuni); altri nominati (la “rappresentanza delle minoranze linguistiche”).

Per tali casi, la clausola di supremazia attenua il livello qualitativo cui deve attingere l’interesse nazionale, che torna ad articolarsi intorno ai concetti di infrazionabilità, urgenza, necessità[74]. A distanza di trent’anni circa da quella giurisprudenza costituzionale, potremmo dire che essa incorpora un giudizio di proporzionalità ante litteram di carattere trifasico, ove si testa l’idoneità della misura a perseguire l’obiettivo unitario; la necessità di essa a fronte della inadeguatezza della sfera regionale; la non manifesta irragionevolezza nel bilanciare l’interesse unitario con l’autonomia regionale.

È vero che l’osservanza del principio di proporzionalità non è stata espressamente richiamata nel testo del nuovo quarto comma dell’art. 117 Cost., ma nondimeno essa sembra imposta dalla rilevanza costituzionale dell’autonomia politica regionale, che funge da limite implicito all’incontrollata annessione da parte dell’indirizzo politico nazionale.

La strada lungo la quale la Corte potrebbe muoversi è stretta, ma non impercorribile. Anche quando la Camera, su iniziativa del Governo, abbia dichiarato sussistere l’interesse nazionale con riguardo a specifici obiettivi, si potrà lavorare dall’interno della ratio legis, per testare la idoneità causale delle singole misure a soddisfare lo scopo, mentre le Regioni ricorrenti potrebbero pur sempre dimostrare che la sfera regionale è altrettanto capace di servirle, in linea con l’indirizzo strategico del legislatore statale.

Certo, un piano di sviluppo energetico nazionale implica in sé l’inidoneità di misure locali. Ma ciò non esclude che vi possa essere, al suo interno, un livello di intervento sensibile alla dimensione territoriale, ove, ad esempio, si trattasse di valutare la compatibilità in concreto di un certo impianto di minor portata (e, dunque, di strategicità obiettivamente complementare) con l’assetto del territorio o i criteri urbanistico-edilizi. Qui non solo sarebbe contestabile l’allocazione in sede centrale della funzione amministrativa in base all’art. 118 Cost., ma la stessa disciplina normativa che la precede, ove la Regione potesse dimostrare la compatibilità del proprio intervento legislativo di attuazione con gli obiettivi più generali sottesi all’iniziativa del Governo.

Del resto, la stessa tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, dovendosi confrontare con l’assetto regionale della forma di Stato, non può risolversi in una petizione di principio, perché, nelle materie di competenza regionale, ciò che si desidera in linea di massima è proprio l’opposto della omogeneità, ovvero la diversificazione del trattamento normativo della fattispecie. Si dovranno perciò manifestare eventi di particolare gravità per consentire l’attivazione della clausola tesa alla uniformità, su cui la Corte potrebbe esigere una adeguata motivazione[75], e persino, entro i limiti della “non manifesta insussistenza” dei presupposti, per così dire, impiegare con più determinazione poteri istruttori.

Come si vede, non è detto che la clausola di supremazia si renda nella sostanza ingiustiziabile[76], benché si debba ammettere che si tratta di un rischio concreto ed elevato proprio a causa della politicità che connota l’iniziativa del Governo.

Bisogna anche concordare con chi ha già dimostrato, con vari argomenti, che essa manda in soffitta l’istituto della chiamata in sussidiarietà[77], e così indebolisce la partecipazione regionale, persino per la fase di esecuzione degli atti amministrativi assunti sulla base della legge statale. Come si è visto, l’attrazione in sussidiarietà pone rimedio, nel vigente Titolo V, alla assenza di una clausola di supremazia, nell’ambito di un riparto di competenze residuali esageratamente generoso nei confronti delle Regioni. Non essendovi formalmente modo di riallocare la potestà legislativa, si è rimediato pretendendo che ciò dovesse avvenire per effetto della attribuzione allo Stato della corrispondente funzione amministrativa.

Il nuovo Titolo V inverte il percorso: la legge di supremazia si impossessa della materia. Sola condizione perché ciò accada è il rispetto della garanzia procedimentale indicata dal nuovo art. 70 Cost. e la sussistenza delle condizioni prescritte dal quarto comma dell’art. 117 Cost. (l’iniziativa legislativa del Governo; una legge formale; la tutela dell’unità giuridica o economica o dell’interesse nazionale). L’intesa, forte o debole che sia con la Regione, non è dunque prevista ad alcun livello.

Ottenuto ciò, in base all’art. 118 Cost. (nella sostanza lasciato immutato dalla riforma del 2016) spetta al legislatore statale allocare la funzione amministrativa, sia pure sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. La sola linea difensiva regionale, sul piano dell’esercizio della attività amministrativa, si esaurirà nella contestazione del livello di governo prescelto dalla legge statale, ove un livello inferiore si mostri costituzionalmente preferibile alla luce dell’art. 118 Cost. Ma non sembra esservi modo per inchiodare l’amministrazione statale, una volta che essa sia stata reputata l’unica adeguata, all’intesa con la Regione, quale condizione per l’esercizio della funzione. Né può logicamente ricorrere un concorso di competenze, atteso che la legge di supremazia se le intesta interamente.

A dire il vero, non è che vi sia molto da lamentarsi per il superamento di istituti collaborativi che si prestano alla conflittualità e corroborano la farraginosità del procedimento, quando esso risponde ad interessi comuni e prioritari. Non è nella fase di esecuzione delle decisioni politiche che si colloca con più opportunità un recupero dell’autonomia regionale, con il sacrificio che esso comporta in danno della tempestività dell’azione. Né appare in sé inopportuna la introduzione, per queste ipotesi, di una clausola di supremazia che si riallacci al carattere unico ed indivisibile della Repubblica. Del resto, si è già detto che auspicabile sarebbe la valorizzazione dell’elemento regionale nella sua dimensione politica, piuttosto che nella fase di mera attuazione.

Il deficit della nuova disciplina costituzionale non è dunque qui, ma piuttosto nel fatto che essa ha uno spettro di azione molto ampio, sia per oggetto (raggiunge ogni potestà legislativa regionale), sia per presupposti (l’interesse nazionale, in primo luogo). Sarebbe allora stato necessario trovare un correttivo procedimentale, coinvolgendo le Regioni nella fase ascendente dell’intervento legislativo statale, o direttamente, o per mezzo di una specifica competenza del nuovo Senato[78].

Ciò non è avvenuto, se non per il palliativo descritto dal nuovo art. 70 Cost., del tutto insufficiente. Più in generale, è massimamente incerto, come si è detto innanzi, che il Senato agirà davvero quale assemblea rappresentativa delle istituzioni territoriali. A parte quanto già osservato, a indicare il contrario vi è persino l’elenco delle competenze legislative che gli sono attribuite dal nuovo art. 70 Cost., alcune delle quali evidentemente connesse a profili di unità e indivisibilità (perlomeno le leggi di revisione costituzionale e le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati relativi all’appartenenza all’Unione europea). Mentre è curioso che ve ne siano altre, di altrettanto chiara pertinenza alla sfera regionale, cui il Senato resta estraneo, se non per il blando meccanismo previsto dal nuovo comma terzo dell’art. 70 Cost., e tra queste tutte le materie ove si tratti di specificare il carattere nazionale o locale, strategico o accessorio, dell’intervento normativo[79].

Per questo motivo, l’autonomia regionale è potenzialmente alla mercé del Governo, e della sua maggioranza politica, e la sola ancora di salvezza riposa, ancora una volta, sulla improbabile ipotesi, qui caldeggiata, che sia la Corte costituzionale a bilanciare il piatto stavolta per l’altro verso, attraverso uno scrutinio davvero serrato dell’interesse nazionale quale vero e proprio motore di spinta del nuovo Titolo V.

Non vi è molto da rallegrarsi per questa considerazione conclusiva, che rende estremamente incerta la sorte del regionalismo italiano, ed anzi è il caso di parafrasare Beckett. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire peggio.

[1] S. Beckett, Worstward Ho 1983, ed. it. In nessun modo ancora, 2008, p. 66.

[2] L. Paladin, Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie di competenza regionale, in Foro amm. 1971, p. 36.

[3] S. Mangiameli, Le Regioni e le riforme: questioni risolte e problemi aperti, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo, 2012, pp. 1 ss.; A. D’Atena, Tra Spagna e Germania. I modelli storici del regionalismo italiano, ivi, pp. 81 ss.

[4] M. Cecchetti, I veri obiettivi della riforma costituzionale dei rapporti Stato-Regioni e una proposta per realizzarli in modo semplice e coerente, in www.gruppodipisa.it.

[5] C. Desideri, La nascita e l’evoluzione delle Regioni, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo tra tradizioni unitarie e processi di federalismo, 2012, pp. 39 ss.

[6] M. Weber, Economia e società. La città, ed. it. Donzelli 2003, pp. 65 ss. e pp. 134 ss.

[7] S. Mangiameli, Il titolo V della Costituzione alla luce della giurisprudenza costituzionale e delle prospettive di riforma, in Il sindacato di costituzionalità sulle competenze legislative dello Stato e delle Regioni, Atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 15 maggio 2015, p. 64.

[8] A partire dalla sentenza n. 104 del 2007.

[9] M. Cecchetti, I veri obiettivi cit.

[10] V. Crisafulli, Vicende della “questione regionale”, in Le Regioni, 1982, p. 497.

[11] G. Grassi, Il giudizio costituzionale sui conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni, 1985, 11 ss.

[12] A. Gentilini, Dalla sussidiarietà amministrativa alla sussidiarietà legislativa, a cavallo del principio di legalità, in Giur. cost. 2003, 2805.

[13] Ad. es., sentenza n. 385 del 2005 della Corte costituzionale.

[14] U. De Siervo, Complessità e lacune nel sistema delle fonti statali, in questo numero della Rivista.

[15] A. D’Atena, Il riparto delle competenze tra Stato e Regioni ed il ruolo della Corte costituzionale, in Il sindacato cit., 55 ss.

[16] Sentenze n. 168 del 2008; n. 215 del 2010; n. 232 del 2011.

[17] Sentenza n. 383 del 2005.

[18] Sentenza n. 239 del 2013.

[19] Sentenza n. 121 del 2010.

[20] Sentenza n. 79 del 2009.

[21] G. Falcon, Le materie trasversali: tutela dell’ambiente, tutela della concorrenza, livelli essenziali delle prestazioni, in Il sindacato cit. pp. 79 ss.

[22] R. Bin, Prevalenza senza criterio. Nota alla sent. 411/88, in www.forumcostituzionale.it.

[23] Sentenza n. 36 del 2004.

[24] Sentenza n. 169 del 2007.

[25] Sentenza n. 289 del 2008.

[26] Sentenza n. 211 del 2012.

[27] Sentenza n. 151 del 2012.

[28] Sentenza n. 222 del 2005.

[29] Sentenza n. 272 del 2013.

[30] Sentenza n. 117 del 2015.

[31] G. Scaccia, I tipi di potestà legislativa statale e regionale nel progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi, in corso di pubblicazione in Istituzioni del federalismo, n. 1/16.

[32] Secondo la felice espressione di S. Pajno, Considerazioni sulla riforma costituzionale in progress, tra Governo, Senato e Camera dei deputati, in www.federalismi.it.

[33] U. De Siervo, Una prima lettura del progettato nuovo art. 117 Cost., in www.rivistaaic.it. parla di «palese pretestuosità delle argomentazioni addotte contro la potestà legislativa ripartita»; G. Tarli Barbieri, Testo dell’audizione sul disegno di legge n. 1429-B, in www.osservatoriosullefonti.it 2015, ricorda la «necessità in un ordinamento complesso di una legislazione integrata tra Stato e Regioni».

[34] G. Rivosecchi, Introduzione al tema: riparto legislativo tra Stato e Regioni: le c.d. “disposizioni generali e comuni”, in www.gruppodipisa.it.

[35] Sentenza n. 50 del 2005.

[36] V. Onida, Quando la Corte smentisce se stessa, in www.rivistaaic.it.

[37] Secondo A. D’Atena, Diritto regionale, 2013, 155, la Corte «vigila sul rispetto del confine tra principio e dettaglio con un’incisività priva di precedenti nell’esperienza pregressa».

[38] Ampiamente, G. Scaccia, I tipi cit.

[39] Nel nuovo testo dell’art. 117 Cost., la sola lett. p) del secondo comma menziona le «disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni», accomunate peraltro dalla attribuzione di esse alla potestà esclusiva dello Stato, sicché è discutibile che la linea di demarcazione tracciata a suo tempo per regolare i confini tra principi e norme generali continuerebbe a essere attuale, una volta evaporati i primi.

Le norme generali sull’istruzione convivono con i principi fondamentali della medesima materia, perché possono dividersi i compiti. Le prime, enunciate in modo organico dal legislatore statale, comprimono interamente la dimensione regionale, ma per profili peculiari. I secondi, eventualmente desunti dalla legislazione vigente, restano necessari a indirizzare, in termini più ampi, le scelte del legislatore regionale (che sono dunque preservate), laddove manchi una simile, espressa regolazione. La legge regionale, a sua volta, incontra un limite quantitativo nella necessità di lasciar vivere i principi statali, così da collocarsi in un’area comunque non espandibile illimitatamente.

Il principio fondamentale, in altre parole, è la cerniera tra norme generali dello Stato e norme di dettaglio delle Regioni, che permette alla Corte di distinguerlo, con riguardo allo specifico settore dell’istruzione, in ragione della sua attitudine allo sviluppo per mezzo di altre disposizioni.

[40] A solo titolo di esempio, sentenze nn. 275 del 2012; 151 del 2012; 287 del 2007; 430 del 2007; 417 del 2005; 388 del 2004.

[41] S. Bartole, R. Bin, G. Falcon, R. Tosi, Diritto regionale, 2003, p. 153.

[42] Tra le molte nel medesimo senso, la sentenza n. 219 del 2013 ragiona in termini di «misure necessariamente uniformi sull’intero territorio nazionale».

[43] L. Paladin, Diritto regionale, 2000, p. 107.

[44] S. Pajno, Considerazioni cit.; G. Rivosecchi, Introduzione cit.

[45] Contra, G. Serges, La potestà legislativa delle Regioni nel progetto di riforma della Costituzione, in www.rivistaaic.it; nel senso del testo, A. Anzon Demmig, L’assetto delle potestà legislative e i diversi modelli del regionalismo, in Osservatorio costituzionale AIC.

[46] G. Scaccia, I tipi cit.

[47] È vero infatti che la lett. p) del nuovo art. 117 Cost. assegna alla competenza esclusiva statale le “disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni”, sicché esse vanno distinte dalle “disposizioni generali e comuni”. Ma questo non significa che l’elemento che connota con alterità le une e le altre al contempo impedisca di riconoscere un tratto comune con i principi fondamentali della materia concorrente.

Mentre le “disposizioni generali e comuni” afferiscono a materie per le quali è inimmaginabile che un ordinamento giuridico non adotti una regolazione normativa (tutela della salute; governo del territorio, e così via), le forme associative dei Comuni sono istituti del tutto eventuali, sulla cui effettiva nascita è preliminare una valutazione politica di opportunità. Nell’assegnare quest’ultima in via esclusiva alla legge dello Stato, la nuova lett. p) dell’art. 117, secondo comma, Cost. (che, non a caso, centralizza contestualmente la competenza sull’ordinamento degli enti locali) pone un limite espresso alla corrispondente potestà residuale delle Regioni, che potrà esercitarsi solo a condizione che la normativa statale le abbia dato il via libera, indicando, a titolo di principio, se e quali forme associative siano consentite, nel rispetto della composizione ordinamentale indicata dall’art. 114 Cost.

L’esercizio della funzione legislativa statale, quanto alle “disposizioni generali e comuni”, dovrebbe inoltre essere subordinato, come si vedrà a breve, ad uno scrutinio obiettivo, sia pure a maglie larghe, in ordine alla corrispondenza di esse ad un interesse infrazionabile; al contrario, la scelta statale se normare o no le forme associative dei Comuni è meramente politica e dunque del tutto libera.

[48] S. Pajno, Considerazioni cit.

[49] U. De Siervo, Una prima lettura cit. nota 10.

[50] Con accenti diversi, G. Scaccia, I tipi cit.; G. Rivosecchi, Introduzione cit.

[51] G. Scaccia, I tipi cit.

[52] Ad oggi, è «in contrasto con l’assetto costituzionale dei rapporti Stato-Regioni» il «presupposto secondo cui queste ultime, in assenza di una specifica disciplina di un determinato fenomeno emergente nella vita sociale, abbiano in via provvisoria poteri illimitati di legiferare» (sentenza n. 359 del 2003). In presenza di una clausola di residualità può porre talvolta difficoltà la decisione se ascrivere il «fenomeno emergente della vita sociale» ad una materia nominata, in ragione del fatto che con essa perlomeno confina, rendendolo un ambito di questa competenza, ovvero se estrapolarvi una materia innominata. Nel primo caso, la specificità del caso potrebbe rendere inadeguate le disposizioni generali e comuni formulate con un altro obiettivo dal legislatore statale, aprendo la via alla legge regionale.

[53] A. D’Atena, Il riparto cit.; in senso parzialmente diverso, U. De Siervo, Una prima lettura cit.

[54] P. Bilancia - F. Scuto, La riforma costituzionale tra superamento del bicameralismo paritario e riordino delle competenze Stato-Regioni, in www.csfederalismo.it.

[55] G. Tarli Barbieri, Testo cit.

[56] Sentenze nn. 326 del 2008 e 324 del 2010; in senso contrario, sentenze n. 48 del 2003, 377 del 2003, 238 del 2007 e 158 del 2008.

[57] P. Sordi, Il sistema delle fonti nella disciplina del lavoro pubblico (dopo il d.lgs n. 150 del 2009), in Lavoro nella p.a., n. 5 del 2010, pp. 805 ss.

[58] G. Falcon, Le materie cit., p. 92.

[59] G. Scaccia, I tipi cit.; G. Rivosecchi, Introduzione cit. Nell’elenco vanno ricomprese la “polizia amministrativa locale” desunta dalla lett. h) del secondo comma dell’art. 117 Cost., la normazione sui limiti alla potestà regolamentare degli enti locali, che il sesto comma del nuovo art. 117 Cost. ambiguamente ripartisce tra Stato e Regioni; la regolazione delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali, indicata dal nuovo terzo comma dell’art. 117 Cost.

[60] Contra, U. De Siervo, Una prima lettura cit.

[61] Ad. es., sentenza n. 367 del 2007.

[62] Dubbi sul punto sono invece manifestati da G. Scaccia, I tipi cit.

[63] Per un esempio di competenza legislativa statale esterna al riparto dell’art. 117 Cost., si veda la sentenza n. 388 del 2004.

[64] S. Pajno, Considerazioni cit.

[65] G. Scaccia, I tipi cit.

[66] E. Cheli, Una riforma necessaria, ma che rischia di non funzionare, in www.osservatoriosullefonti.it, 2016.

[67] P. Caretti, La potestà legislativa regionale nelle proposte di riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione, in www.osservatoriosullefonti.it.

[68] N. Lupo, La (ancora) incerta natura e del nuovo Senato: prevarrà il cleavage politico, territoriale o istituzionale? In www.federalismi.it, 2016.

[69] S. Mangiameli, Il Titolo V cit..

[70] S. Bartole, Supremazia e collaborazione nei rapporti tra Stato e Regioni anche alla luce della legge costituzionale n. 1 del 2012, in Il Sindacato cit., p. 120.

[71] A. D’Atena, Luci e ombre della riforma costituzionale Renzi-Boschi, in www.rivistaaic.it.

[72] Il contatto con la giurisprudenza della Corte di giustizia, in particolare, alimenta una più rigorosa delimitazione del principio di proporzionalità, e ne può favorire una migliore applicazione anche nel giudizio di costituzionalità. Per un esame della natura di questo principio volto in tale direzione, F. Trimarchi Banfi, Canone di proporzionalità e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in corso di pubblicazione in Diritto processuale amministrativo, 2, 2016, pp. 361 ss.

[73] Si veda, ad esempio, la sentenza n. 177 del 1988 della Corte costituzionale.

[74] Sentenza n. 177 del 1988 cit.

[75] G. Scaccia, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa, 2009, pp. 113 ss.

[76] S. Mangiameli, Il Titolo V cit.

[77] G. Scaccia, I tipi cit. ; S. Pajno, Considerazioni cit.

[78] Il rilievo accomuna pressoché tutti i lettori della riforma costituzionale: ad. es., U. De Siervo, Una prima lettura cit.

[79] U. De Siervo, Complessità cit.