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Profili processuali della legge 219/2012

di Costanzo Mario Cea
presidente della prima sezione civile del tribunale di Foggia
La legge provocherà un massiccio trasferimento di contenzioso civile dal giudice minorile a quello ordinario. La scelta del collegio camerale, il rischio di allungamento del processo e il tentativo di verificare la possibilità che la fare collegiale possa essere riservata al solo momento decisorio.
Profili processuali della legge 219/2012

1 - La legge 10 dicembre 2012, n.219, entrata in vigore l’1.1.2013, riscrivendo, con l’art. 3, 1° comma, l’art. 38 d.a.c.c. provocherà un massiccio trasferimento di contenzioso civile dal giudice minorile a quello ordinario, sia perché sono state drasticamente ridotte le ipotesi di competenza del tribunale per i minorenni, sia perché è stata prevista una competenza suppletiva del giudice ordinario anche nei casi di provvedimenti demandati alla competenza del giudice minorile.

Nel far ciò, però, non si è previsto, more solito, alcun adeguamento delle piante organiche, sicché è lecito attendersi un aggravio di lavoro del giudice ordinario. Il problema si pone perché il legislatore della riforma ha scelto come modello processuale quello camerale, il quale prevede la partecipazione del collegio sin dall’inizio del processo: il che comporta, come ognun comprende, un dispendio di energie processuali di gran lunga superiore rispetto a modelli processuali imperniati sul giudice monocratico.

Appare, pertanto, doveroso, alla luce del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, un  tentativo ermeneutico diretto a verificare la possibilità che la fase collegiale non debba caratterizzare l’intero procedimento camerale, ma possa essere riservata al solo momento decisorio.

 

2 - Il nostro sistema, per le controversie demandate al giudice in composizione collegiale, prevede una pluralità di modelli processuali, spesso dissonanti.
a) C’è innanzi tutto quello previsto per il processo a cognizione ordinaria, caratterizzato da una collegialità minima, visto che il processo si snoda essenzialmente davanti ad un giudice singolo, mentre il collegio interviene solo alla fine, quando, cioè, bisogna decidere la causa.
b) C’è poi un modello di collegialità piena (si pensi, per esempio, ai procedimenti camerali), nelle quali la composizione collegiale dell’organo è prevista sin dalla prima fase del giudizio.
c) Infine, nell’ambito del modello indicato sub b), se ne può individuare un sottotipo, che potrebbe definirsi a collegialità imperfetta, nel quale, pur prevedendosi la presenza dell’organo collegiale sin dall’inizio della controversia, singole fasi del giudizio possono svolgersi davanti ad uno solo dei suoi componenti: si pensi al giudizio camerale di modifica di provvedimenti della separazione, ovvero a quello sommario collegiale, per i quali è prevista la possibilità di delegare la fase dell’assunzione delle prove ad un singolo componente del collegio (artt. 710, 2° comma, c.p.c., 3, 2° comma, d.lgs. 150/2011).

Proprio quest’ultima ipotesi (quella indicata sub c) si presta a preziose indicazioni ai fini che ci interessano.

Infatti, se ci si riflette su, la previsione di demandare al giudice singolo alcuni spezzoni del giudizio nei casi di procedimenti in cui l’organo collegiale interviene sin dall’inizio sembra ispirata a chiari ragioni di economia processuale, apparendo la collegialità un lusso eccessivo (per il dispendio di energie che comporta) in fasi processuali la cui trattazione può essere garantita senza inconvenienti anche da un solo componente del collegio.

Se si parte da questo presupposto e si intraprende il percorso dell’interpretazione costituzionalmente orientata (avendo come punto di riferimento il valore costituzionale della ragionevole durata del processo), è possibile tentare un’interpretazione evolutiva di norme come quelle dettate dagli artt. 710, 2° comma, c.p.c., 3, 2° comma, d. lgs. 150/2011, che abbia come risultato, in una situazione di sopravvenienza di un carico consistente di controversie attribuite all’organo collegiale, quello di ottenere un significativo risparmio di energie processuali, demandando lo svolgimento di spezzoni dei procedimenti davanti ad un singolo componente del collegio.

In particolare, può prevedersi che si compiano davanti ad uno solo dei componenti del collegio le seguenti attività processuali: svolgimento della prima udienza con verifica della regolare instaurazione del processo, rinvio dell’udienza tutte le volte che ciò sia necessario per garantire il diritto di difesa delle parti, segnalazione delle questioni rilevabili d’ufficio, raccolta delle dichiarazioni che le parti o i difensori intendano rilasciare a precisazione e chiarimento dei fatti allegati, fissazione definitiva del thema decidendum e del thema probandum, assunzione delle prove, fermo restando che lo stesso giudice singolo dovrà investire il collegio tutte le volte che debbano assumersi decisioni istruttorie o sul merito della controversia.

In buona sostanza il modello processuale conseguente all’interpretazione che si sostiene non prevede mai la fissazione di un’udienza collegiale, posto che, depositato il ricorso, il presidente designa il giudice relatore davanti al quale è celebrata la prima udienza, nel corso della quale è possibile compiere tutte le attività processuali innanzi indicate; indi, se vi sono richieste istruttorie, il giudice relatore demanda la decisione al collegio, il quale, in caso di ammissione delle prove, fissa l’udienza davanti al singolo giudice (normalmente il relatore) per l’assunzione delle stesse; una volta esaurita la fase istruttoria, lo stesso giudice singolo davanti al quale sono state assunte le prove rimette la causa al collegio per la decisione.

 

3 – Si è già detto in precedenza che il legislatore, nel trasferire parte del contenzioso civile dal giudice minorile a quello ordinario, ha scelto come modello processuale quello imperniato sul rito camerale. Sennonché, la tecnica utilizzata non è impeccabile e lascia alquanto perplessi. Invero, da un lato, il nuovo testo dell’art. 38 d.a.c.c., al secondo comma, prevede che, nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori, si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile; dall’altro, il terzo comma dello stesso art. 38, dopo aver fatto salva la specifica disciplina prevista per le azioni di stato, prevede che il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. A voler dar credito alla lettera della legge, sembrerebbe che si sia in presenza di due distinti modelli processuali: l’uno, utilizzabile per i processi in materia di affidamento e di mantenimento dei minori, disciplinato dagli artt. 737 ss. c.p.c., in quanto compatibili; l’altro, previsto per tutti gli altri giudizi, caratterizzato dal rito camerale, dalla partecipazione necessaria del p.m. e dall’efficacia immediata del provvedimento emesso.

Se così fosse, si avrebbe che nei giudizi in materia di affidamento e di mantenimento dei minori il rinvio agli artt. 737 ss. farebbe sì che i provvedimenti, giusta quanto previsto dall’art. 741 c.p.c., acquisterebbero efficacia soltanto quando sia decorso il termine previsto senza che sia stato proposto reclamo.

Tale conclusione, però, mi sembra inaccettabile, sia perché contrasta con la ratio legis, sia perché ostacolata dalla lettera del nuovo testo dell’art. 38, 3° comma, d.a.c.c., dove si dispone che, fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Invero, l’uso della locuzione in ogni caso lascia intendere che, quale che sia l’oggetto del procedimento, comunque deve ritenersi che il provvedimento sia immediatamente efficace.

Peraltro, tale interpretazione è avvalorata anche dal fatto che il modello ex artt. 737 ss. c.p.c. è applicabile, per espressa previsione normativa, in quanto compatibile, nonché dal rilievo che, ogni qualvolta il legislatore delinea un procedimento camerale senza ulteriori specificazioni normative, si intende quella previsione come richiamo implicito del modello processuale ex artt. 737 ss. c.p.c., che, per communis opinio, è considerato l’archetipo dei procedimenti camerali.

3.1 – Come si è detto in precedenza, nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori, si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile.

Indubbiamente tale nuova previsione va valutata positivamente perché mette fine al doppio regime di tutela davanti al giudice ordinario ed a quello minorile, a seconda che l’oggetto del giudizio fosse costituito dalla sola domanda di mantenimento, ovvero anche da quella di affidamento.

I problemi, però, non sono del tutto risolti, giacché, non estinguendosi l’obbligo di mantenimento dei genitori con il raggiungimento della maggiore età da parte dei figli, resta pur sempre scoperta l’ipotesi delle controversie tra genitori che abbiano ad oggetto il mantenimento dei figli maggiorenni ma non ancora economicamente indipendenti.

Se si resta fedeli alla lettera della legge, che fa riferimento ai procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori, occorre concludere affermando che in caso di controversie sul mantenimento dei figli maggiorenni il rito è quello del processo a cognizione ordinaria; ulteriore conseguenza è che, ove il procedimento abbia ad oggetto il mantenimento di un figlio minore e quello di un maggiorenne, il rito cui assoggettarlo è quello ordinario, come impone l’art. 40, 3° comma, c.p.c.

Se però si tiene conto della chiara intenzione legislativa di assicurare la concentrazione di tutele presso il giudice ordinario con l’utilizzazione di un unico rito, potrebbe forse essere autorizzata una lettura espansiva della norma che consenta il ricorso al rito camerale anche per questo tipo di azioni.

3.2 - La piena equiparazione tra figli nati durante il matrimonio e figli nati fuori del matrimonio vorrebbe che, in caso di contrasto tra i genitori circa l’affidamento ed il mantenimento della prole, la parte interessata non debba attendere l’esito del giudizio, dovendosi consentire la possibilità di ottenere provvedimenti immediati, ancorché provvisori, come avviene nei processi di separazione e divorzio, dove tale misure sono demandate al presidente e, dopo l’esaurimento della fase presidenziale, al giudice istruttore; nonché nei giudizi di modifica delle condizioni di separazione e divorzio dove l’art. 710, 3° comma, c.p.c. prevede la possibilità di adottare provvedimenti provvisori, il cui contenuto può essere modificato ulteriormente nel corso del procedimento.

Il fatto che nei giudizi di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio la legge non dica nulla a riguardo non significa che si sia di fronte ad un deficit di tutela urgente, posto che l’art. 710, 3° comma, c.p.c. è norma suscettibile di applicazione analogica, sicché può essere utilizzata a tal fine. Peraltro, quand’anche non dovesse convenirsi sulla capacità espansiva della norma in questione, comunque il problema non si porrebbe, giacché il principio di effettività del diritto di azione (costituzionalmente tutelato dall’art. 24 Cost.) imporrebbe l’esperibilità della tutela cautelare in corso di causa per neutralizzare il periculum in mora che si configura secondo lo schema classico del pericolo da tardività.

3.3 - Ovviamente la piena tutela dei crediti di mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio ha indotto il legislatore della riforma a prevedere meccanismi diretti a garantirne l’attuazione. Infatti, l’art. 3, 2° comma, l. 219/2012 prevede l’imposizione al genitore obbligato di idonea garanzia reale o personale, la possibilità per il giudice di disporre il sequestro dei beni dello stesso, nonché di ordinare ad un terzo il pagamento diretto delle somme che quest’ultimo è tenuto a corrispondere, anche periodicamente, all’obbligato. Infine si è previsto che i provvedimenti definitivi costituiscono titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ex art. 2818 c.c.

Se però la strumentazione cui il legislatore della riforma ha fatto ricorso è quella consueta prevista nei giudizi di separazione e divorzio, la tecnica utilizzata presenta delle peculiarità che è opportuno evidenziare. Invero, mentre con riferimento al sequestro la nuova normativa ricalca pedissequamente quella prevista dalla legge del divorzio, per quel che concerne il pagamento diretto da parte del terzo debitor debitoris il legislatore si è discostato tanto dal modello previsto per la separazione dall’art. 156, 6° comma c.c., quanto da quello previsto nel divorzio dall’art. 8, commi 3°, 4°, 5° e 6°. Infatti, essendosi previsto l’ordine del giudice al terzo, il meccanismo, in parte qua, si avvicina a quello ex art. 156, 6° comma, c.c., sicché sono del tutto inapplicabili i commi 3° e 4° dell’art. 8 l. div., laddove il richiamo contenuto nella nuova normativa all’art. 8, secondo comma e seguenti della legge 898/1970 deve intendersi limitato ai commi 5° e 6° dello stesso art. 8.

Un’ultima annotazione appare doverosa.

I rimedi innanzi esaminati sono stati previsti dal legislatore a garanzia dei provvedimenti patrimoniali in materia di alimenti e mantenimento della prole.

Se il termine mantenimento ha senso soltanto se riferito ai figli minori (o a quelli maggiorenni ma non ancora economicamente indipendenti), la parola alimenti ha una portata diversa ed include tutti i figli maggiorenni, anche se non più titolari del diritto al mantenimento. Il che significa che il legislatore, nel prevedere meccanismi di garanzia anche per i crediti alimentari, ha voluto tutelare la posizione di tutti i figli, compresi quelli che non hanno diritto al mantenimento, ma versino nelle condizioni che consentano loro il riconoscimento del diritto agli alimenti.

 

4 – I problemi suscitati dalla nuova legge non sono ancora finiti, giacché, oltre alle controversie definitivamente trasferite al giudice ordinario, è stata prevista anche una competenza transitoria del giudice ordinario, che fa sì che in determinate circostanze provvedimenti demandati alla competenza del giudice minorile debbano essere pronunciati da quello ordinario.

Il 1° comma del nuovo testo dell’art. 38 d.a.c.c., nell’ultima parte, dispone che i procedimenti ex art. 333 c.c. diventano di competenza del giudice ordinario nei casi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’art. 316 c.c.; peraltro, subito dopo, la stessa norma prevede che per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario.

Il perché dell’utilizzazione di tale tecnica legislativa (cioè il far prima riferimento soltanto all’ipotesi ex art. 333 c.c., per poi assimilare sotto lo stesso regime tutti i casi di provvedimenti di competenza del giudice minorile ) resta oscuro; di certo, stante la portata letterale della norma in esame, deve ritenersi che la competenza del tribunale ordinario, nelle ipotesi di pendenza di giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’art. 316 c.c., sia estesa a tutti i provvedimenti che l’art. 38 d.a.c.c. demanda al giudice minorile.

Assodato che il maggior carico di contenzioso sarà quello provocato dai procedimenti ex artt. 330, 333 c.c., si tratta ora di vedere come debbano svolgersi tali giudizi davanti al giudice ordinario. In caso di pendenza del giudizio ex art. 316 c.c. (intervento del giudice chiamato a risolvere un conflitto de protestate tra genitori conviventi) non si pongono grossi problemi giacché entrambi sono soggetti allo stesso rito (quello camerale), sicché, una volta instaurato il procedimento ex art. 316 c.c., nel corso dello stesso potranno essere chiesti ed adottati i provvedimenti che normalmente la legge demanda al giudice minorile.

Benché la nuova legge taccia a riguardo, credo che la stessa soluzione vada adottata in caso di conflitto de protestate ex art. 317 bis c.c. che riguardi i figli che, prima della riforma, venivano definiti naturali.

Il problema si complica quando pende invece un giudizio di separazione o divorzio, posto che, come è a tutti noto, tali processi sono speciali solo per la fase iniziale (quella presidenziale), ma successivamente si trasformano in giudizi a cognizione piena che si svolgono  secondo le cadenze codicistiche previste per il processo ordinario ex artt. 163 c.p.c., con la fase davanti al g.i. e la decisione rimessa al collegio.

Il quesito da porsi è se in tali ipotesi, ove ci sia richiesta di provvedimenti che l’art. 38 d.a.c.c. demanda al giudice minorile, debba instaurarsi un autonomo giudizio camerale o l’istanza debba essere inoltrata al giudice  della fase di svolgimento del processo di separazione o divorzio.

Per rispondere è necessario tener conto che si è in presenza di ipotesi di competenza non autonoma, la cui giustificazione risiede nel fatto che vi è già pendente un altro giudizio in cui si controverte sulle questioni relative ai minori, sicché appare chiara sia la ratio di economia processuale, sia soprattutto l’intenzione di evitare sovrapposizione di distinti organi giudiziari.

Tali considerazioni sono importanti perché, da un lato, circoscrivono l’ambito di operatività della norma, dall’altro, consentono anche di risolvere la questione del rito. Infatti, se è la pendenza del giudizio di separazione o divorzio che determina la vis attractiva, appare ovvio sostenere la prevalenza del rito di quel processo anche per i provvedimenti di competenza trasferita. Il che significa che, se il processo pende davanti al presidente o al giudice istruttore, la relativa istanza va proposta a tali giudici.

Se mai il problema è chiedersi se tali giudici, in quanto dotati del potere di pronunciare misure provvisorie nell’interesse della prole e dei coniugi, possano emettere anche i provvedimenti in questione. La questione si pone sia perché ci sono provvedimenti di tale gravità che sarebbe opportuno che a pronunciarli sia solo il collegio (si pensi alla decadenza della potestà), sia perché, tra le misure in questione, ce ne sono alcune che producono conseguenze irreversibili (si pensi all’autorizzazione del matrimonio del minore ex art. 84 c.c.), rispetto alle quali, pertanto, sarebbe un non senso parlare di provvedimento provvisorio.

Per quanto possa sembrare paradossale, credo che il problema non si ponga nei casi di maggiore frequenza statistica ed importanza, quali quelli di cui ai provvedimenti ex artt. 330, 333 c.c. Infatti, le misure ex art. 333 c.c. sono pienamente reversibili, tant’è che l’ultimo comma dell’art. 333 c.c. ne prevede la perenne revocabilità; pertanto, non credo che ci siano ostacoli alla possibilità di pronuncia delle stesse da parte del presidente o del g.i.

Per quel che concerne la decadenza dalla potestà, è vero che è un provvedimento reversibile, ma sicuramente ha conseguenze talmente drastiche che ne riserverei la pronuncia solo al collegio. Ciò però non comporta alcun inconveniente pratico, giacché, ove il presidente o il g.i. ritengano ravvisabili gli estremi che giustifichino la decadenza dalla potestà, pur non potendola pronunciare, comunque possono adottare tutte le misure che la presuppongono, come l’affidamento esclusivo o l’allontanamento del figlio o del genitore di cui parla l’ultimo comma dell’art. 330 c.c. (provvedimenti – questi ultimi – pienamente reversibili).

Ove invece si sia in presenza di misure dalle conseguenze irreversibili, la competenza a pronunciarli va riconosciuta esclusivamente all’organo collegiale.

Una volta risolto questo problema, diventa agevole anche quello dell’individuazione della forma del provvedimento. Se può essere pronunciato dal presidente o dal g.i., la forma sarà quella dell’ordinanza, se la competenza è solo del collegio, a mio avviso bisogna distinguere due ipotesi: se il collegio viene investito soltanto di tale questione, la pronuncia avverrà con decreto reclamabile ai sensi dell’art. 739 c.p.c.; se invece il collegio è investito di altre questioni (si pensi, per esempio, alla pronuncia sullo status, ecc.), la pronuncia avverrà con sentenza, il cui regime di impugnazione è quello consueto dei giudizi di separazione o divorzio: appello immediato.

Altro quesito da porsi è se la competenza temporanea trasferita al giudice ordinario sussista in tutti i casi di pendenza di un giudizio di separazione o divorzio.

Se tiene conto di quanto osservato circa la ratio sottesa al trasferimento temporaneo di competenza (dal giudice minorile a quello ordinario), mi sembra che la risposta sia obbligata, nel senso che non è sufficiente la mera pendenza di un giudizio di separazione o divorzio, ma è necessario anche che in tale processo si agitino questioni relative all’affidamento dei minori. Il che significa che, ove nel processo sia stata già pronunciata una sentenza non definitiva che abbia già risolto la questione dell’affidamento dei figli (si pensi al caso in cui il giudizio continua a pendere soltanto per le decisioni economiche), non ci sono i presupposti per il trasferimento della competenza, sicché la richiesta dei provvedimenti contemplati dall’art. 38, 1° comma, d.a.c.c. va inoltrata al giudice minorile.

Questi rilievi sono preziosi per risolvere anche il problema dell’individuazione del giudice competente ad emettere le misure di cui si discute ove il processo non sia più pendente in primo grado. Infatti, in caso di proposizione di appello, se l’impugnazione non investe anche la questione dell’affidamento dei minori, non ci potrà essere trasferimento temporaneo di competenza al giudice di appello; in caso contrario sì.

In caso di pendenza del processo di cassazione, stante i limiti di tale giudizio, la richiesta dei provvedimenti in questione va avanzata al giudice di appello, sempre che l’impugnazione abbia coinvolto anche la questione dell’affidamento dei minori.

Il legislatore ha completamento dimenticato l’ipotesi della pendenza del giudizi di modifica delle statuizioni della separazione o del divorzio ex artt. 710 c.p.c., 9 l. 898/1970.

Se la ratio del trasferimento temporaneo di competenza è quella innanzi indicata, mi sembra innegabile la soluzione estensiva della previsione in esame, sempre che, ovviamente, il giudizio de quo involga la questione dell’affidamento dei minori, ovvero sia stato adottato per le finalità cui fa riferimento l’art. 709 ter c.p.c.

Come si è detto in precedenza, il trasferimento di competenza dal giudice minorile a quello ordinario si verifica se il procedimento che esercita la vis attractiva pende tra le stesse parti. Tale previsione crea un non lieve problema di coordinamento con la norma di cui all’art. 336, 1° comma, c.c., secondo cui i provvedimenti richiesti al giudice minorile (e la cui competenza diventa del giudice ordinario nel caso in cui si sia verificato il presupposto innanzi indicato) sono adottati su ricorso dell’altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato.

Se il procedimento davanti al giudice minorile è instaurato da un genitore, nulla quaestio, visto che si realizza il presupposto che consente il trasferimento di competenza al giudice ordinario: cioè, la pendenza del giudizio che esercita la vis attractiva tra le stesse parti. Il problema si pone ove il procedimento minorile sia iniziato dal p.m ovvero da un parente. In tal caso, nonostante la lettera della legge possa fra propendere per la soluzione negativa, in considerazione della chiara ratio legis, credo che si verifichi il trasferimento del procedimento dal giudice minorile a quello ordinario.

Altro caso che potrebbe far discutere è quello in cui il giudizio minorile, instaurato dopo l’entrata in vigore della l. 219/2012, preceda l’instaurazione del processo che esercita la vis attractiva.

Benché il principio desumibile dall’art. 5 c.p.c. potrebbe indurre ad affermare il mantenimento della competenza del giudice minorile, credo che meriti adesione l’opinione che propende per la soluzione opposta, in quanto rispettosa dell’intenzione del legislatore di favorire la concentrazione delle tutele per tutte le questioni che concernono la potestà e l’affidamento dei minori.

Una volta che si realizza il presupposto che determina la trasmigrazione del procedimento dal giudice minorile a quello ordinario, occorre chiedersi in quale modo debba definirsi il giudizio minorile.

Se si ritiene che l’art. 50 c.p.c., in quanto espressione di un principio generale del nostro ordinamento processuale, valga per tutti i giudizi civili, credo che il giudice minorile in questi casi debba declinare la competenza a favore del tribunale ordinario assegnando il termine per la riassunzione. Ove il tale termine non sarà rispettato, il procedimento iniziato davanti al giudice minorile si estinguerà, fermo restando che un nuovo procedimento avente ad oggetto la stessa questione potrà essere instaurato nell’ambito del giudizio che esercita la vis attractiva.

   

5 –  L’art 4 l. 219/2012 prevede una scarna disciplina transitoria.

Il primo comma dispone che la normativa dettata dall’art. 3 l. 219/2012 si applica ai giudizi instaurati a decorrere dalla data di entrata in vigore della stessa legge. Il che significa che il giudice minorile sarà ancora competente a pronunciare tutti i provvedimenti che l’originaria formulazione dell’art. 38 d.a.c.c. gli demandava, ove il relativo procedimento sia stato iniziato prima dell’entrata in vigore della legge di riforma.

Ulteriore conseguenza è che deve ritenersi sussistente la competenza del giudice minorile, sempre che il relativo giudizio sia stato iniziato prima dell’entrata in vigore della l. 219/2012, anche quando, successivamente all’entrata in vigore della nuova legge, sia stato instaurato davanti al tribunale ordinario uno di quei procedimenti ch esercitano la vis attractiva. Né si obbietti che, così opinando, si contraddice quanto detto nel paragrafo precedente, giacché in quell’occasione la soluzione opposta è giustificata dal fatto che il giudizio minorile, precedente quello ordinario, è stato iniziato dopo l’entrata in vigore della l. 219/2012.

L’altra norma transitoria è quella dettata dall’art. 4, 2° comma, secondo cui «ai processi relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli di genitori non coniugati pendenti davanti al tribunale per i minorenni alla data di entrata in vigore della presente legge si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile e il comma 2 dell’art. 3 della presente legge».

Quanto all’ultima parte della previsione in esame, appare chiara l’intenzione del legislatore di rendere immediatamente operativi, nei giudizi sull’affidamento e sul mantenimento dei figli di genitori non coniugati, gli strumenti di garanzia previsti dal 2° comma dell’art. 3 l. 219/2012.

Quella che invece desta perplessità è la prima parte della norma in esame, laddove si prevede l’immediata applicazione davanti al giudice minorile degli artt. 737 ss. c.p.c., in quanto compatibili, quasi che non sia vero che davanti a tale organo i procedimenti si declinano nelle forme del rito camerale.

Non senza trascurare che l’art. 336 c.c., che appunto disciplina il giudizio camerale davanti al tribunale per i minorenni, prevede norme non contemplate dal modulo processuale ex artt. 737 ss. c.p.c., quale l’assistenza necessaria del difensore per il minore, o i provvedimenti temporanei nell’interesse dei figli.

Il problema più grosso, però, è dato dal fatto che tra le norme di cui al procedimento camerale previsto dal codice di procedura civile vi è anche l’art. 741, in forza del quale i decreti acquistano efficacia soltanto se allo scadere del termine previsto non sia stato proposto reclamo (salvo che il giudice per ragioni di urgenza non li dichiari immediatamente efficaci).

In precedenza (v. sub 4) abbiamo visto come si ponga analogo problema per gli stessi procedimenti instaurati davanti al tribunale ordinario dopo l’entrata in vigore della l. 219/2012. Ebbene, la soluzione adottata in quella occasione (applicazione della regola dettata dal 3° comma del nuovo testo dell’art. 38 d.a.c.c., secondo cui i provvedimenti sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente) deve valere anche nel regime transitorio previsto davanti al giudice minorile, pena il vulnus del principio costituzionale di eguaglianza.

 

Alcune delle considerazioni svolte in questo scritto fanno parte della proposta di organizzazione del lavoro della prima sezione civile del tribunale di Foggia (di cui sono presidente), in corso di pubblicazione in Foro it.

21/02/2013
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