Magistratura democratica
Corti europee e Corti internazionali

La disciplina italiana dei licenziamenti collettivi all'esame della Corte di Giustizia

di Raffaella Calò
giudice del lavoro del Tribunale di Livorno
Breve nota alla sentenza CGUE 13 febbraio 2014 causa C-596/12
La disciplina italiana dei licenziamenti collettivi all'esame della Corte di Giustizia

Si è concluso dopo oltre un lustro il procedimento che vedeva contrapposte Italia e Commissione Europea circa l’applicabilità anche ai dirigenti del sistema di tutele che la direttiva 98/59, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, appresta alla generalità dei lavoratori.

Con sentenza del 13 febbraio 2014 la Corte di giustizia ha infatti affermato che lo Stato italiano, escludendo la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura dei licenziamenti collettivi, è venuto meno agli obblighi sullo stesso gravanti ai sensi dell’art. 1 para. 1 e 2 della direttiva anzidetta.

Il ragionamento dei giudici del Lussemburgo assume la forma di un chiaro sillogismo: posto che la nozione di lavoratore, ai fini dell’applicazione della direttiva 98/59, è una e una soltanto in tutto il sistema UE, e posto che anche i dirigenti sono lavoratori secondo la direttiva sopra richiamata, ai dirigenti deve applicarsi il sistema di tutele apprestato dal diritto dell’Unione per la generalità dei lavoratori nei casi di licenziamenti collettivi.

Ne deriva la contrarietà al diritto dell’Unione del disposto dell’art. 4 comma 9 l. 223/91 nella parte in cui ammette a beneficiare delle garanzie da essa previste unicamente gli operai, gli impiegati e i quadri, escludendo i dirigenti.

Tale sillogismo, all’evidenza, muove da una premessa, del resto esplicitata dalla Corte al paragrafo 24 della sentenza in commento: ai fini dell’applicazione della direttiva 98/59, fatta eccezione per i casi tassativi di cui all’art. 1 para 2 della direttiva, tutti i lavoratori subordinati vantano i medesimi diritti, senza alcuna distinzione tra una categoria e l’altra di lavoratori.

La Corte, dunque, che già in passato aveva stigmatizzato la legislazione italiana per l’esclusione dalla disciplina dei licenziamenti collettivi dei datori di lavoro non imprenditori (v. sentenza CGUE del 16 ottobre 2003, nella causa C-32/02), aggiunge un altro tassello al sistema di garanzie previsto per i lavoratori nel caso di licenziamento collettivo, affermando che a fronte della riduzione di personale dell’impresa la distinzione tra le diverse categorie di lavoratori occupati non ha alcuna ragion d’essere.

Quanto alle ricadute pratico-applicative di tale pronuncia nella giurisprudenza nazionale si osserva anzitutto che a fronte del tenore letterale dell’art. 4 comma 9 della l. 223/1991, secondo cui “l’impresa ha facoltà di collocare in mobilità gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti”, si potrebbe ipotizzare un’interpretazione adeguatrice della norma nazionale alla luce del diritto UE, estendendo in via esegetica ai dirigenti le disposizioni di cui alla l. 223/91.

Per questa via, facendo leva sull’obbligo del giudice nazionale di interpretare le disposizioni interne “quanto più possibile” alla luce della lettera e dello scopo della direttiva e valorizzando lo strumento dell’analogia juris, sarebbe possibile garantire l’immediato adeguamento dell’ordinamento italiano al diritto dell’Unione, con una manifestazione concreta e diffusa della primauté comunitaria.

Laddove invece, in una logica di self-restraint, si ritenesse tale opzione ermeneutica impraticabile, dovrebbe parimenti escludersi la possibilità per il giudice nazionale di disapplicare la legge italiana nella parte in cui esclude i dirigenti dalle tutele di cui alla l. 223/91.

Costituisce infatti un principio consolidato, tanto nella giurisprudenza della CGUE che nella giurisprudenza nazionale, quello secondo cui le disposizioni contenute in una direttiva non trasposta possono essere invocate nei confronti dello Stato inadempiente (effetti cosiddetti "verticali") ma non possono essere fatte valere nei rapporti tra privati (effetti cosiddetti "orizzontali") non potendo di per sé creare obblighi a carico di un singolo individuo (principio questo ribadito dalla giurisprudenza di legittimità proprio in materia di mancato recepimento della direttiva sui licenziamenti collettivi, v. Cass. n. 17004 del 26.07.2006).

Pertanto, poiché la disposizione dell’art. 4 comma 9 l. 223/91, in contrasto con la direttiva 98/59 nella misura in cui esclude la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura dei licenziamenti collettivi, benché di evidente rilievo economico e sociale, non regola direttamente rapporti con la pubblica amministrazione quale ente esponenziale di interessi collettivi, disciplinando piuttosto rapporti tra privati, la stessa non pare possa avere efficacia diretta (sul punto, v. Cass. n. 17004 del 26.07.2006; sulla necessità di valutare la reale portata degli interessi sottesi alla norma nazionale incompatibile con la direttiva comunitaria, v. Cass. n. 20275 del 14.10.2004).

Né vale rilevare, per affermare l’efficacia diretta della norma, che alla base della pronuncia in commento vi sia l’esigenza di evitare la disparità di trattamento tra i lavoratori coinvolti in un licenziamento collettivo, includendo i dirigenti tra i destinatari delle norme di tutela.

La norma comunitaria oggetto di mancata attuazione da parte dello Stato Italiano non ha infatti ad oggetto un divieto di discriminazione in senso proprio, quanto piuttosto la previsione, in positivo, di una completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità che si risolve in un controllo dell'iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell'impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione; di talché, un eventuale richiamo alla giurisprudenza della CGUE che, valorizzando il ruolo di garante dei diritti del giudice nazionale, ha riconosciuto entro certi limiti effetti diretti orizzontali anche alle direttive non trasposte (v. sentenza CGUE 22 novembre 2005, causa C-144/04 in materia di discriminazioni fondate sull’età) non pare pertinente.

Pertanto, per le ragioni anzidette, laddove si ritenesse di non potere superare il contrasto tra norma nazionale e norma comunitaria attraverso l’interpretazione conforme, in assenza di un intervento legislativo volto all’adeguamento delle norme sui licenziamenti collettivi al diritto dell’Unione, nel senso indicato dalla CGUE, la conformità del diritto nazionale al diritto UE potrebbe essere garantita soltanto da un intervento della Corte Costituzionale, utilizzando le pertinenti disposizioni della direttiva 98/59 come norme interposte ai sensi dell’art. 117 Cost.

Com’è noto, infatti, l’impossibilità di disapplicare la legge interna in contrasto con una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta non significa tuttavia che la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario, che spetta alla Corte costituzionale, davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale, per asserita violazione dell’art. 11 ed oggi anche dell’art. 117, primo comma, Cost. (in questo senso, v. da ultimo Corte Cost. n. 28/2010 e n. 284/2007).

Infine, la pronuncia della CGUE ha il merito di porre in luce la distanza che corre tra le ipotesi di licenziamento individuale del dirigente e quelle di licenziamento collettivo.

La sentenza in commento mette infatti in evidenza la fallacia dell’affermazione, pure sostenuta da autorevole dottrina, secondo cui l’esclusione dei dirigenti dalla procedura di cui alla l. 223/91 troverebbe ragion d’essere nel fatto che ai dirigenti non si applica la tutela prevista per la generalità dei lavoratori subordinati nel caso del licenziamento individuale; si è detto, in particolare, che sarebbe un controsenso che la legge tutelasse i dirigenti solo contro il licenziamento collettivo avendoli esclusi dalla tutela contro il licenziamento individuale.

Tale percorso argomentativo, piuttosto semplicistico, da un lato, pare dimentico della direttiva europea in materia di licenziamenti collettivi; dall’altro, non tiene nella dovuta considerazione la diversa ratio che sta alla base delle norme nazionali che limitano il potere di recesso del datore di lavoro da un singolo rapporto di lavoro e di quelle che, procedimentalizzando il licenziamento collettivo, offrono un sistema di tutela alla generalità dei lavoratori nel caso di ridimensionamento dell’impresa.

Mentre le prime, com’è noto, impedendo il recesso ad nutum del datore di lavoro sono volte, in ultima analisi, alla tutela della dignità e della sicurezza del singolo lavoratore nel corso del rapporto di lavoro, le seconde perseguono lo scopo di assicurare il controllo delle organizzazioni dei lavoratori sulla prevista riduzione di personale, al fine di trovare soluzione alternative al licenziamento e di evitare discriminazioni tra i lavoratori coinvolti.

Pertanto, se il rapporto fiduciario che lega il dirigente, soprattutto se in posizione apicale, al datore di lavoro e il possibile mutamento delle strategie di impresa costituiscono ragionevoli motivi di deroga all’applicazione al dirigente delle disposizioni in punto di licenziamento individuale dettate per la generalità dei lavoratori (su cui v. per tutte Cass. n. 25145 del 13.12.2010), lo stesso rapporto fiduciario o il mutamento delle politiche aziendali non assume rilevanza alcuna nelle ipotesi di licenziamento collettivo.

09/04/2014
Altri articoli di Raffaella Calò
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.