Magistratura democratica

Uno sguardo oltre l’Europa. La discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale negli Stati Uniti e la prospettiva del controllo politico sul pubblico ministero: limiti di un modello e brevissimo spunto di comparazione

di Jacopo Mazzuri

La ricorrente idea di imprimere un indirizzo ab externo all’azione penale, e di sottoporre così l’operato della pubblica accusa a forme di controllo politico, può evocare alla mente la figura del prosecutor statunitense. Il contributo, previa ricostruzione del modello di pubblico ministero di quel Paese (sia a livello statale che federale), mette in evidenza alcuni degli aspetti problematici sottolineati dagli studiosi con particolare riferimento proprio alla prosecutorial discretion e al funzionamento dei meccanismi che la bilanciano (o meglio, che la dovrebbero bilanciare). In conclusione, esso cerca di investigare se e in che misura l’esperienza d’oltreoceano possa offrire degli spunti al giurista nazionale.

1. Un controllo democratico sull’esercizio dell’azione penale? / 2. Il caso del prosecutor statunitense / 2.1. L’ordinamento del pubblico ministero negli Stati Uniti: breve quadro ricostruttivo / 2.1.1. Il livello federale / 2.1.2. Il livello statale / 2.2. Il prosecutor fra discrezionalità e (ir)responsabilità / 2.2.1. Limiti della responsabilità civile e di quella disciplinare / 2.2.2. I limiti del controllo politico / 2.2.2.1. Il livello statale: prosecutor elettivo e controllo elettorale / 2.2.2.2. Il livello federale e il controllo governativo / 2.3. Il controllo politico sul prosecutor: sintesi / 3. Usa e Italia: un (limitato) spunto comparatistico / 3.1. Difficoltà della comparazione fra pubblico ministero e prosecutor… / 3.2. … ma con uno spunto sul controllo politico

 

1. Un controllo democratico sull’esercizio dell’azione penale?

Gli studi sul pubblico ministero sono concentrati da decenni su alcune questioni dalle quali l’attenzione dei commentatori sembra non riuscire a distogliersi: la diatriba sul principio di obbligatorietà dell’azione penale sancito all’art. 112 Cost. ne è forse l’esempio più noto[1].

In particolare, molti sembrano convergere sull’idea che una certa discrasia fra la lettera della Costituzione e la prassi sia inevitabile, giacché le procure della Repubblica non sarebbero in grado di assicurare quella applicazione uniforme della disposizione in esame che essa pure richiederebbe; ciò, non solo a causa della cronica scarsità delle risorse destinate a tali uffici (limite, questo, astrattamente superabile con diverse scelte di bilancio) o di difetti nell’organizzazione degli stessi (anch’essi risolvibili), quanto perché la magistratura requirente risulterebbe comunque impossibilitata de facto a perseguire con il medesimo impegno ogni singola notizia di reato che le pervenga[2]. Insistere su di una interpretazione rigoristica del principio sarebbe, dunque, inutile e contribuirebbe ad alimentare, prendendo in prestito l’espressione da un famoso comparatista, una non salutare «disarmonia tra formanti»[3]

Una prima soluzione teorica al problema ora esposto potrebbe essere rappresentata da una riscrittura dell’art. 112 Cost. che sostituisca il principio di obbligatorietà dell’azione penale con quello, diverso, di opportunità (o discrezionalità); e, a complemento di ciò, individui gli organi incaricati di operare le valutazioni (di opportunità, appunto) che l’adozione di quest’ultimo comporterebbe.

In alternativa, si potrebbe evitare di sostituire un principio con l’altro, e limitarsi a “temperare” l’obbligatorietà mediante la previsione di criteri di priorità che guidino l’esercizio dell’azione penale; ma, anche in questo caso, bisognerebbe pur sempre integrare l’art. 112 Cost. attribuendo a uno o più organi dello Stato il compito di definire i criteri suddetti. Si tratta della soluzione proposta in alcuni progetti di revisione costituzionale attualmente pendenti in Parlamento[4]; nonché di un’idea popolare pure tra coloro che hanno affrontato la questione in un’ottica “riformistica” ma prescindendo da un intervento diretto sulla Carta fondamentale[5]. In questa prospettiva, l’obiettivo diventa non tanto il “trapianto” in Italia dell’opportunità dell’azione penale sic et simpliciter, ma la realizzazione di un “governo dell’obbligatorietà” che superi l’attuale prassi per cui i criteri in oggetto, pur senza mai contraddire esplicitamente il principio ex art. 112 Cost., vengono definiti dai singoli capi degli uffici requirenti (a riprova, sembrerebbe, della loro ineluttabilità) in assenza di una chiara base normativa[6].

In tale “governo dell’obbligatorietà”, infatti, troverebbe spazio il coinvolgimento di soggetti diversi dalla magistratura e dagli organi di «amministrazione della giurisdizione»[7]: le Camere, il Governo (collegialmente inteso)[8] o alcuni Ministri[9], chiamati a intervenire data l’intrinseca “politicità” delle decisioni in oggetto (sul punto, cfr. infra). La ratio è evidente: ritenuta l’impossibilità di garantire l’attuazione dell’art. 112 Cost. per come attualmente formulato, i fautori di proposte come quelle in esame cercano di ricondurre (ma, va precisato, senza mai prevedere la possibilità che all’organo inquirente siano impartite delle istruzioni concrete su come trattare il singolo caso) la selezione dei reati da perseguire in via prioritaria a organi dotati di quella legittimazione democratica (diretta o indiretta) che nel nostro sistema notoriamente manca alla magistratura, nonché della corrispettiva accountability nei confronti dei cittadini-elettori. In fondo, è stato sottolineato, tale operazione costituirebbe parte integrante della definizione della politica criminale del Paese[10].

Va da sé che una simile riconduzione dell’esercizio dell’azione penale al controllo democratico (da intendersi in senso lato, sia come definizione di un indirizzo sia come controllo successivo sull’attività svolta) sarebbe obbligata a fortiori nel caso di accoglimento puro e semplice del principio di opportunità dell’azione penale[11].

Ma davvero ci si potrebbe aspettare un simile risultato? Oppure l’idea stessa di sottoporre l’esercizio dell’azione penale a un indirizzo e a un controllo “politici” è un mito, almeno quanto la perfetta applicazione del principio di obbligatorietà?

In questo quadro, incentrato sull’asse “discrezionalità (ossia, potere di scelta)-responsabilità”, rappresenta per il giurista italiano l’occasione di volgere lo sguardo a un ordinamento come quello degli Stati Uniti d’America, considerandolo tanto al livello statale quanto a quello federale. Esso, infatti, è notoriamente caratterizzato dal riconoscimento ai prosecutors (ossia, sostanzialmente, gli ufficiali del pubblico ministero) di un marcata discrezionalità nello svolgimento delle loro funzioni, non solo per quanto riguarda l’esercizio dell’azione penale ma più in generale la conduzione dell’intero procedimento (sul punto, infra). Allo stesso tempo, i medesimi prosecutors (statali o federali) si considerano stabilmente inseriti nel potere esecutivo, ricevendo gli indirizzi fondamentali di politica criminale dai vertici dello stesso ovvero (in gran parte degli Stati federati) direttamente dagli elettori. Ai medesimi soggetti, poi, essi dovrebbero anche rispondere – vuoi “nelle urne” o nell’ambito di un rapporto di subordinazione fra organi pubblici. Eppure, proprio in un contesto simile, fondato cioè sul valore (in sintesi, il controllo democratico sulla pubblica accusa) che le revisioni cui si è accennato intenderebbero parzialmente tradurre nell’ordinamento italiano, non sembra che il suddetto problema della accountability per l’esercizio della funzione inquirente-requirente possa considerarsi risolto. Al contrario, nel tempo esso è stato oggetto di riflessione critica da parte della dottrina americana (e non solo), che ha evidenziato seri limiti alla possibilità, per la cittadinanza, di controllare quegli organi che sono pur sempre i diretti titolari di tale funzione (i prosecutors) e chiamarli – immediatamente; o anche mediatamente, a mezzo dei propri rappresentanti – a rispondere del loro operato (cd. “prosecutorial accountability”). In modo abbastanza singolare, ciò sembra particolarmente vero proprio nel caso dell’elezione diretta del prosecutor. Ne andrebbe così della capacità per il popolo (o, per conto di esso, dei suoi rappresentanti) di dare a questi funzionari un indirizzo che orienti, limitandolo, il loro potere discrezionale.

Scopo del presente lavoro non è certo quello di dare una sicura risposta alle domande poste poco sopra, né tantomeno di risolvere la querelle su quale sia il principio migliore fra quello di obbligatorietà e quello di opportunità dell’azione penale: si cercherà piuttosto, pur senza pretese di esaustività, di offrire una ricostruzione del modello statunitense di pubblico ministero (sia a livello statale che federale) e di indicarne alcuni degli aspetti problematici messi in evidenza dagli studiosi di quel Paese – con particolare riferimento alla prosecutorial discretion e al funzionamento dei meccanismi che la bilanciano (o meglio, che la dovrebbero bilanciare). In conclusione, ci si domanderà se e in che misura l’esperienza d’oltreoceano può dare degli spunti al giurista nazionale.

 

2. Il caso del prosecutor statunitense

In effetti, sembra che l’aspetto che ha più interessato i commentatori italiani che hanno preso in esame l’ordinamento d’oltreoceano sia proprio quello del controllo sull’attività del prosecutor, con particolare attenzione al momento delicatissimo dell’esercizio dell’azione penale. Nulla di cui stupirsi, in fondo, trattandosi di giuristi provenienti da una realtà ove lo stesso costituente ha ritenuto di “tagliare la testa al toro” rendendo l’avvio del processo un atto (in linea di principio) dovuto. L’attenzione si è dunque concentrata sugli strumenti disponibili per contrastare l’inerzia (il problema che in Italia si ritenne di affrontare inserendo nella Carta l’attuale art. 112) o, al contrario, gli eccessi della pubblica accusa americana, sulla base del presupposto che anche la discrezionalità debba pur sempre conoscere dei limiti. Ebbene, proprio in quest’ottica si è sottolineata non solo l’insufficienza dei rimedi processuali cui l’accusato può ricorrere in quel Paese (su cui, brevemente, infra)[12]; ma anche, appunto, l’inefficacia dei controlli “esterni” di natura, almeno in senso lato, politica e la conseguente difficoltà di limitare efficacemente la discrezionalità del pubblico ministero. In particolare, il giudizio è generalmente guardingo per quanto riguarda l’effettività del controllo elettorale[13]. Al contrario, viene messa in luce la capacità dei vertici delle singole procure di assumere e mantenere la direzione dei rispettivi uffici (cfr. infra)[14]. Infine, pur riconoscendo tutti gli studiosi le ragioni che in quel sistema stanno alla base di una prosecutorial discretion tanto marcata, nessuno ne predica il “trapianto” in Italia sub specie dell’introduzione pura e semplice dell’opportunità dell’azione penale[15].

 

2.1. L’ordinamento del pubblico ministero negli Stati Uniti: breve quadro ricostruttivo

Il carattere duale del sistema costituzionale statunitense si riflette, come è ovvio, anche sull’organizzazione della pubblica accusa: essa è infatti esercitata, notoriamente, sia da un pubblico ministero federale che da un pubblico ministero statale – i quali, peraltro, trattano anche contenzioso civile e amministrativo (in particolare, nel campo dell’antitrust)[16].

 

2.1.1. Il livello federale

Il prosecutor federale non è previsto dalla Costituzione del 1787: il suo atto di nascita si può considerare piuttosto l’istituzione, nell’ambito del Judiciary Act del 1789, del procuratore generale (Attorney General) degli Stati Uniti e di analoghe figure presso ogni corte distrettuale[17]. Da allora la sua disciplina si è significativamente evoluta, fino all’attuale previsione di 94 procure dislocate sull’intero territorio nazionale in corrispondenza dei distretti giudiziari (ovviamente, ci si riferisce sempre a quelli federali)[18]. La nomina degli U.S. Attorneys, ossia degli ufficiali preposti ad esse, così come quella dell’Attorney General, è di competenza del Presidente degli Stati Uniti in base all’art. 2, sezione 2, clausola 2 della Costituzione[19]: sia il primo che i secondi si considerano infatti officers of the United States, con conseguente necessità tanto della nomina presidenziale che dell’advice and consent del Senato (28 USC 541(a))[20]. Quest’ultimo aspetto, si badi, non va sottovalutato: la partecipazione del Senato alla procedura di appointment conferisce a tale atto un ineliminabile grado di politicità e rende pressoché inevitabile che all’esito dell’iter risulti vincitore solamente chi gode del benestare dei senatori dello Stato corrispondente al distretto per cui è candidato[21]. Non c’è invece bisogno di spiegare perché quella dell’Attorney General, che è capo del Dipartimento della giustizia (28 USC 503; Dipartimento che, si noti, non fu istituito fino al 1870[22]) e siede nel Gabinetto, sia una nomina di natura politica. Ogni procura federale, oltre che dal capo dell’ufficio, è poi costituta da un numero variabile (fino ad alcune centinaia) di addetti ulteriori che lo coadiuvano: si tratta degli Assistant Attorneys of the United States (cd. AUSAs). A differenza del U.S. Attorney, essi non sono considerati officers of the United States ai sensi della norma costituzionale suddetta[23], cosicché la loro nomina non soggiace ai medesimi requisiti procedurali di quella degli U.S. Attorneys (e dell’Attorney General): essa è infatti formalmente di competenza diretta dell’Attorney General (28 USC 542(a)), ma sostanzialmente giace nelle mani degli stessi U.S. Attorneys, i quali si considerano liberi di scegliere i propri collaboratori (senza però che ciò impedisca all’Attorney General di nominarne alcuni di sua diretta fiducia, laddove ritenga ciò conforme al pubblico interesse, in conformità con la già citata section 542(a) dello United States Code)[24]. L’incarico di U.S. Attorney ha durata quadriennale (come quello presidenziale) ed è revocabile, anche se generalmente i capi degli uffici non vengono rimossi prima dell’“entrata a regime” dell’amministrazione successiva a quella del Presidente che li ha nominati; e, comunque, i loro poteri sono prorogati fino a quando i nuovi procuratori distrettuali non entrano in possesso delle rispettive funzioni (28 USC 541(b)). Discorso diverso vale per gli AUSAs: di diritto, gli Assistant Attorneys sono revocabili liberamente dall’Attorney General ma, come avviene per la nomina, de facto tale potere spetta allo U.S. Attorney cui sono sottoposti. Alla luce di quanto detto, va da sé che il pubblico ministero federale è solidamente incardinato nel potere esecutivo (in particolare, nel Dipartimento della giustizia, al cui vertice è appunto collocato l’Attorney General) ed è costituito non da burocrati in carriera ma da avvocati in possesso di determinati requisiti[25] e investiti pro tempore di una funzione pubblica. Quest’ultima annotazione sullo status dei funzionari della pubblica accusa è rilevante, come si dirà infra, in materia disciplinare. Venendo poi all’organizzazione interna delle procure (le quali, si ricordi, non svolgono solo funzioni penali), essa si considera generalmente caratterizzata da un notevole grado di gerarchia, sia de iure che de facto. Quest’ultima si manifesta non solo nella facoltà per il capo dell’ufficio di scegliere e rimuovere i propri collaboratori ma anche in quella, assai delicata e (per quanto interessa al presente scritto) espressiva del principio di opportunità dell’azione penale, di decidere quali casi trattare e in che maniera; nonché, inoltre, di stabilire più in generale l’impiego delle risorse disponibili[26]. Meno accentuato, almeno nella prassi, risulta invece il rapporto gerarchico pure sussistente fra l’Attorney General e i singoli uffici di procura. Infatti, è vero che, oltre al potere di nomina e revoca degli AUSAs, spettano al procuratore generale la supervisione su quelli distrettuali e la facoltà di dare istruzioni sui singoli affari trattati a livello periferico: facoltà, quest’ultima, che si esprime anche nel famoso nolle prosequi, ossia nella rinunzia all’esercizio dell’azione penale. Tuttavia, generalmente egli si limita solo a pubblicare direttive astratte, volte a orientare nello stesso senso l’azione complessiva del proprio Dipartimento e raccolte nel Justice Manual (cd. JM; in precedenza, U.S. Attorney’s Manual, USAM)[27]. Va infine ricordato che, a livello centrale, sono istituite presso il Dipartimento della giustizia sezioni specializzate per il perseguimento di specifici reati (su tutte, la Criminal Division), che presentano specificità su cui però non ci dilungheremo in questa sede[28].

 

2.1.2. Il livello statale

Per quanto riguarda il livello statale, la presenza di (almeno) 50 ordinamenti distinti rende pressoché impossibile svolgere un’analisi puntuale; e, comunque, si tratterebbe di un’impresa al di là dei limiti del presente lavoro. Si può però cercare di tratteggiare le caratteristiche comuni ad essi, in modo da indicare quantomeno gli elementi essenziali del modello più diffuso. Ebbene, il tratto che colpisce di più l’osservatore, specie europeo, è probabilmente la modalità de selezione di questi prosecutors: infatti, come noto, si tratta in larga misura di funzionari elettivi. A questo proposito andrebbe inoltre fatta un’ulteriore distinzione, dovendosi discernere fra l’Attorney General di ogni Stato e i pubblici ministeri di grado inferiore (spesso indicati in letteratura, al di là delle molte denominazioni ufficiali, come District Attorneys, ossia i procuratori competenti per circoscrizioni territoriali sub-statali; non mancano esempi, addirittura, di procuratori che si trovano sostanzialmente a lavorare in una dimensione cittadina[29]), giacché il sistema con cui vengono nominati può tranquillamente variare fra il centro e la periferia. Tuttavia, pare che la considerazione di questo elemento non contraddica quanto testé affermato: risulta infatti che l’opzione per l’elezione diretta dell’organo incaricato della pubblica accusa (oltre che, giova ripeterlo, di una seria di competenze civili e amministrative) sia assolutamente prevalente in entrambi i casi, riguardando 43 Attorney Generals su 56[30] e circa il 95 per cento degli uffici inferiori[31]. La durata dell’incarico, considerando tutte le figure di pubblico ministero presenti nel panorama degli Stati federati, va da due[32] a otto[33] anni. Ciò detto, l’organizzazione e il funzionamento della singola procura statale, almeno in linea tendenziale, non sembrano perlopiù discostarsi da quanto già riportato relativamente a quelle federali[34]. Al chief prosecutor si aggiunge un numero variabile (da poche unità ad alcune centinaia) di assistant prosecutors, da lui (formalmente o sostanzialmente) assunti per coadiuvarlo nelle sue funzioni. I requisiti per l’assunzione variano, e in certi casi (a differenza di quanto avviene a livello federale) non è nemmeno necessario essere già parte del Bar (cioè dell’avvocatura)[35]. La gerarchia interna è rigida, e il capo dell’ufficio si considera libero sia di nominare che di licenziare gli addetti, nonché di definirne in piena autonomia le policies criminali, esercitando quella discretion che comprende anche il principio di opportunità dell’azione penale; di converso, analogamente a quanto giù detto in proposito del rapporto tra U.S. Attorney General e U.S. Attorneys, fra il procuratore generale dello Stato e quelli distrettuali il legame è molto debole e i secondi agiscono non solo in piena indipendenza gli uni dagli altri, ma anche rispetto al primo[36].

 

2.2. Il prosecutor fra discrezionalità e (ir)responsabilità

Da quanto esposto si deduce che, quantomeno nella prassi, l’indipendenza del singolo ufficio di procura è la cifra caratteristica del pubblico ministero statunitense in tutte le sue varianti; si è visto infatti come questo dato non sembri cambiare in modo apprezzabile muovendosi fra il livello statale e quello federale. Di tale indipendenza, però, non godono indifferentemente tutti i prosecutors ma solo il capo dell’ufficio; in altre parole, è ad esso solo che usualmente va ricondotta quella broad discretion che ben si presta a colpire il giurista italiano e a spingerlo all’indagine comparata[37]. Va subito ribadito, a questo proposito, che tale discrezionalità non pertiene soltanto alla scelta se esercitare o meno l’azione penale, che pure rimane il profilo centrale di questa riflessione: essa piuttosto riguarda in generale l’intera attività della pubblica accusa, dallo svolgimento delle indagini alla strategia da adottare in dibattimento, dalla conduzione del plea bargaining (ovvero la contrattazione dell’ammissione di colpevolezza dell’accusato e delle conseguenze di essa) alla decisione se appellare o meno una pronuncia giudiziale sfavorevole[38]. Ciò detto, quanto segue è da intendersi come rivolto a quello specifico atto della procedura penale.

D’altronde, che l’esercizio dell’azione penale non possa che essere (ampiamente) discrezionale viene dato per scontato negli Usa, come ebbe a ricordare molti anni fa la stessa Corte suprema decidendo il caso Bordenkircher c. Hayes:

«In our system, so long as the prosecutor has probable cause to believe that the accused committed an offense defined by statute, the decision whether or not to prosecute, and what charge to filegenerally rests entirely in his discretion. Within the limits set by the legislature’s constitutionally valid definition of chargeable offenses, “the conscious exercise of some selectivity in enforcement is not in itself a federal constitutional violation” (…)»[39].

Tuttavia, come emerge dalla citazione riportata, proprio in questa pronuncia i giudici supremi sentirono la necessità di ricordare anche che la prosecutorial discretion può essere ampia ma non illimitata, e che «no doubt (…) the breadth of discretion that our country’s legal system vests in prosecuting attorneys carries with it the potential for both individual and institutional abuse»; d’altronde, la stessa sentenza di appello poi impugnata avanti la Corte suprema si era invece espressa nel senso dell’illegittimità della condotta del prosecutor[40].

 

2.2.1. Limiti della responsabilità civile e di quella disciplinare

Invero, la dottrina americana non ha lesinato critiche a tale concentrazione di potere, e più di una volta è stato denunciato come essa non viene bilanciata, almeno in concreto, né da forme adeguate di responsabilità giuridica né da altri meccanismi efficaci di accountability[41]. Il problema cui si fa qui riferimento, sia chiaro, non riguarda tanto le conseguenze processuali del cattivo esercizio del potere da parte dell’accusa pubblica (il quale, pure, è di notevole delicatezza: si pensi ad esempio alle sofferenze patite da chi, a causa dell’assenza di adeguati “filtri” nel procedimento, affronta il giudizio nonostante sia evidente ab initio la mancanza di prove sufficienti ad accusarlo)[42]. Basti qui ricordare, proprio con riferimento al momento dell’esercizio dell’azione penale, che la stessa giurisprudenza della Corte suprema limita fortemente la possibilità per il giudice di verificare l’eventuale “abuso del processo” da parte del prosecutor[43]. Nell’ottica del presente lavoro, il focus riguarda piuttosto l’insufficienza degli strumenti tramite cui l’ufficiale del pubblico ministero può essere chiamato a rispondere personalmente della propria misconduct, ossia dell’utilizzo improprio dei suoi poteri. Se si guarda al novero delle “classiche” responsabilità giuridiche che possono avere una qualche efficacia in questo senso, infatti, negli Stati Uniti risulta estremamente difficile sia far valere quella civile che un’eventuale responsabilità disciplinare. Per quanto riguarda la prima, sin dalla sentenza Imbler v. Pachtman del 1976[44], è stato affermato il principio per cui l’attività del prosecutor non dà mai luogo a responsabilità risarcitoria qualora essa ricada nella judicial phase del procedimento, e che comunque esso gode di una immunità qualificata (per quanto non assoluta) anche per tutti gli atti di esercizio del suo ufficio che restano al di fuori di essa (ad esempio, gli atti di indagine o le attività amministrative connesse al processo)[45]. Con riferimento, invece, alla responsabilità disciplinare, la questione è più complessa. Negli Stati Uniti, infatti, anche in ragione del già ricordato carattere federale dell’ordinamento, non esistono delle vere e proprie norme generali sull’illecito disciplinare del pubblico ministero ma piuttosto una miriade di fonti di soft law, locali e nazionali, che tutte insieme concorrono a definire un ideale di buona condotta (tant’è che lo stesso concetto di “responsabilità disciplinare” nel contesto in esame non è esattamente sovrapponibile al significato “hard” da esso assunto nell’ordinamento giudiziario italiano, sulla base dell’art. 105 Cost. e del d.lgs n. 109/2006). Non esiste dunque un “codice” uniformemente applicabile a livello nazionale né un unico apparato predisposto per garantirne il rispetto. Secondo un censimento realizzato da una studiosa alcuni anni fa, le fonti delle suddette norme “soft” si possono distinguere in almeno quattro categorie: 1) “linee-guida interne”, adottate dallo stesso apparato pubblico di cui fanno parte i prosecutors e rivolte ai medesimi (fra cui il già ricordato Justice Manual del Department of Justice federale); 2) “linee-guide professionali”, adottate dalle associazioni forensi e rivolte ai propri membri; 3) “linee-guida legislative”, ossia vere e proprie norme giuridiche (sostanziali e processuali) che disciplinano l’attività del pubblico ministero a livello statale; 4) “codici etici professionali”, cioè la deontologia forense. Si noti, riprendendo un accenno fatto supra, che non si tratta necessariamente di documenti relativi al solo pubblico ministero ma, specie in un caso estremamente rilevante[46], di fonti riferibili a tutti gli avvocati. Esse sono finalizzate a dare orientamenti generali all’attività forense sia a livello statale che nazionale, fornendo standard dai quali si fa discendere il “canone di buona condotta” applicabile anche al prosecutor: ciò spiega il ruolo centrale giocato dai collegi professionali forensi nell’enforcement degli stessi, anche quando l’infrazione è stata commessa da un membro del pubblico ministero[47]. Una menzione a parte merita la responsabilità disciplinare del procuratore federale, regolata sotto il profilo sostanziale dal già ricordato Justice Manual o da altre fonti rilevanti a tale proposito[48]. L’investigazione sull’addebito viene condotta da un apposito ufficio dipartimentale, l’Office of Professional Responsibility (OPR; per il personale amministrativo del Dipartimento è, invece, competente un Office of the Inspector General, OIG), il quale opera una prima valutazione; laddove la responsabilità in parola sia accertata, la sanzione verrà applicata direttamente dal Presidente degli Stati Uniti (solo per quanto riguarda gli AUSAs, in alcuni casi, dal capo della procura)[49]. Non è però detto che analoghe strutture e procedure esistano a livello statale, dove pure è impiegato il maggior numero di prosecutors; e comunque, almeno fino a un recente passato, è stata lamentata una diffusa “timidezza” degli organi preposti nell’esercitare la loro potestà punitiva[50].

Si potrebbe tuttavia obiettare, riprendendo il tema centrale di questo paragrafo, che tali deficienze del sistema siano compensate dall’esistenza di una forma di responsabilità politica del pubblico ministero (rectius, del capo del singolo ufficio); o, comunque, dal coinvolgimento di questo nel circuito democratico. La sua discretion sarebbe cioè pur sempre vincolata al rispetto degli indirizzi espressi dagli elettori o dai loro rappresentanti, e la deviazione del prosecutor da questi ultimi (indice di un disallineamento fra esercizio dell’azione penale e aspettative sociali) sarebbe dunque sanzionata “nelle urne” o nell’ambito di un rapporto di subordinazione nei confronti dell’autorità politica (maxime con la revoca dell’incarico). Ma forse non è così – almeno, non nella misura e nei modi che ci si potrebbero aspettare stando alla teoria sottostante al modello in esame[51].

 

2.2.2. I limiti del controllo politico

2.2.2.1. Il livello statale: prosecutor elettivo e controllo elettorale

Se non altro poiché la grande maggioranza delle procure negli Stati Uniti è statale e non federale (come risulta chiaramente da quanto detto supra), conviene partire da questo livello. Esso, come noto, è caratterizzato dall’elettività (non tanto dei singoli prosecutors, quanto) dei capi degli uffici investiti della funzione inquirente-requirente – sia a livello statale che sub-statale.

In teoria, la ratio dell’elettività del prosecutor sarebbe quella di garantire la corrispondenza fra l’esercizio della pubblica accusa e le aspettative della comunità di riferimento. In astratto, il sistema è molto semplice: esattamente come per qualsiasi carica politica, periodicamente si tengono delle elezioni per scegliere il District Attorney[52] ovvero l’Attorney General dello Stato. In questo modo, si dovrebbe assicurare che l’indirizzo di politica criminale sia effettivamente espressivo delle necessità dei cittadini, visti come gli unici legittimi interpreti di queste ultime: ad esempio, se gli elettori esigono (per ragioni insindacabili) una maggiore severità nella repressione di una certa categoria di reati, allora la procura dovrà orientarsi privilegiando l’avvio di procedimenti relativi a questi ultimi e ottenere poi più condanne possibili. Laddove ciò non avvenga sembra ragionevole aspettarsi una mancata riconferma del chief prosecutor, facendo così valere nel modo più classico la responsabilità politica di quel funzionario. Per quanto riguarda invece i suoi subordinati, la loro soggezione al capo elettivo dovrebbe responsabilizzare gli stessi “a cascata” verso la cittadinanza[53]. Nelle intenzioni, è così che viene bilanciata la prosecutorial broad discretion, e che si può parlare di un asse “discrezionalità (ossia, potere di scelta fra più opzioni legittime, fra cui primariamente quella di esercitare o meno l’azione penale)-responsabilità (in questo caso, addirittura elettorale)”.

Storicamente, il modello in esame non risale alle origini della Repubblica americana: mentre, come si è visto, gli elementi essenziali dell’ordinamento delle procure federali risalgono agli anni ottanta del XVIII secolo, i primi esempi di prosecutor elettivo vedono la luce più di quarant’anni dopo. Fu infatti solo con la Costituzione del Mississippi del 1832 che questa modalità di reclutamento conobbe il suo primo successo, per poi essere “esportata” in oltre venticinque Stati federati già prima della Guerra di Secessione (1861-1865). Peraltro, proprio la storiografia ha sottolineato come l’opzione per l’elettività del pubblico ministero, più che da aspirazioni genuinamente democratiche, fosse probabilmente motivata da sfiducia nei confronti del metodo adottato fino ad allora, ossia quello delle nomina politica “dall’alto” (perlopiù governatoriale), e da comprensibile avversione per la logica clientelare che la animava: il problema per il legislatore statale, quindi, non era tanto quello di assicurare che la prosecutorial function fosse soggetta a un controllo “dal basso”, quanto sgravarla dal political patronage e dalle indebite interferenze che ne discendevano[54]. Quale che sia stata l’origine di questa figura, comunque, la ratio democratica del prosecutor elettivo non sembra contestabile.

Tuttavia, alcune ricerche empiriche condotte negli ultimi quindici anni paiono suggerire che il periodico controllo elettorale esercitato dai cittadini sugli organi di pubblica accusa sia in verità abbastanza debole, risultando perciò insufficiente al fine di compensare le suesposte mancanze in punto di responsabilità “giuridiche” del pubblico ministero. Secondo uno studio del 2009[55], l’altissimo tasso di rielezione dei candidati uscenti (95 per cento; nell’85 per cento dei casi censiti, fra l’altro, si riscontra addirittura l’assenza di candidature alternative)[56] indicherebbe che il corpo elettorale incontra serie difficoltà nel valutare il lavoro svolto dal suo prosecutor, il quale verrebbe quindi confermato per inerzia al termine del mandato senza alcun effettivo scrutinio delle policies attuate – fra cui, chiaramente, i criteri assunti per orientare l’esercizio dell’azione penale. Tale conclusione sarebbe confortata dall’analisi delle tematiche affrontate nel dibattito elettorale, che verterebbero quasi esclusivamente sulle qualità professionali personali del candidato oppure, tuttalpiù, su quei pochi fra i casi trattati che abbiano suscitato un qualche strepitus fori[57]. Come conclude l’Autore, «the rhetoric of election campaigns puts too much weight on the wrong criteria and completely ignores some criteria that could help voters make meaningful judgments about the quality of a prosecutor’s work. Some of the most common themes are downright silly»[58]. Un aggiornamento del 2014[59] confermò in misura sorprendente le conclusioni rassegnate pochi anni prima, portando l’Autore ad affermare:

«Elections do not give chief prosecutors enough guidance about the priorities and policies they should pursue to achieve public safety (…) [e] tell prosecutors very little about how to organize their offices, how to choose their priority cases, or-most important of all-how to select their least important cases, the ones the prosecutors will dismiss or decline to charge at all» (enfasi aggiunta)[60].

Stando a un recente lavoro del 2020[61], invece, non sono tanto le elezioni in sé a risultare inefficaci nella prospettiva della prosecutorial accountability, ma il modo specifico in cui esse si svolgono negli Stati federati. In particolare, gli Autori assumono che non è tanto il tasso di rielezione a doversi considerare significativo, quanto l’esistenza di una effettiva competizione durante la campagna elettorale; e che questa sia oggettivamente impossibile solo nel caso in cui ci sia un solo candidato per il posto in palio. Il problema principale del metodo di selezione del prosecutor in esame viene quindi inquadrato come un “problema di offerta” (supply problem) elettorale, risolvibile con interventi relativamente limitati e concentrati sul vincolo di residenza (che spesso ostacola le possibili candidature di persone che non abitano in loco) e sul disegno delle circoscrizioni (molte circoscrizioni sono rurali e quindi poco popolate). Viene poi sottolineato come, di recente, candidati di esplicito orientamento progressista siano riusciti a vincere delle tornate elettorali importanti e a dimostrare così che il pubblico ministero e le sue politiche possono davvero essere orientati con il voto[62].

Tuttavia, a chi scrive non sembra che studi come questo siano in grado di superare del tutto le obiezioni contro tale strumento di selezione di prosecutors. In generale, non sembra superabile quella per cui l’oggetto che si chiede agli elettori di valutare è pur sempre un’attività giudiziaria, caratterizzata da un grado di tecnicità difficilmente apprezzabile da parte del cittadino comune e alla quale, comunque, il non addetto ai lavori di rado presta la sua attenzione: egli rischierebbe dunque di formare il proprio giudizio sulla sola base del clamore suscitato da pochi casi di maggiore risonanza mediatica – il che significa, fra l’altro, su informazioni filtrate dai media e non apprese per esperienza diretta; oppure sulla base di indicatori fuorvianti, come il tasso di condanne riportato dalla procura sotto la direzione di un certo chief prosecutor (il famigerato conviction rate)[63]. Inoltre, c’è da dubitare della qualità di un’azione inquirente-requirente che si trovi a dover rispondere alle dinamiche tipiche dei cicli elettorali, per esempio mutando di indirizzo quando si avvicina il voto: si può davvero definire più responsabile nei confronti della comunità un procuratore che, imminente la scadenza del suo mandato, intensifica repentinamente (per quanto di sua competenza) l’attività repressiva contro reati di micro-criminalità come il furto e lo spaccio soltanto per poter comunicare senza troppo sforzo alla cittadinanza l’immagine di un implacabile applicatore della legge[64]? Per non parlare dell’annoso problema del finanziamento delle campagne elettorali, su cui non è qui possibile dilungarsi. Con riguardo, poi, al successo dei cd. progressive prosecutors, montato sull’onda del movimento Black Lives Matter e della diffusa attenzione per il tema della discriminazione razziale suscitata dal medesimo, va osservato che esso potrebbe ben avere un carattere eccezionale, e non essere dunque replicabile in altre circostanze. Pertanto, a parer di chi scrive, i pregi del pubblico ministero elettivo come garante di accountability democratica sembrano lungi dall’essere confermati, e i suoi difetti non ancora smentiti.

 

2.2.2.2. Il livello federale e il controllo governativo

Quanto detto è riferibile alla grande maggioranza delle realtà statali. A livello federale, invece, il diverso assetto istituzionale impone altre considerazioni.

Come detto supra, gli U.S. Attorneys vengono nominati dal Presidente degli Stati Uniti previo advice and consent del Senato e rimangono in carica «at President’s pleasure»[65]; a livello locale, invece, gli AUSAs sono sostanzialmente nominati e rimossi dagli U.S. Attorneys (nonostante tali scelte siano formalmente di competenza dell’Attorney General). Inoltre, a ogni procura è de facto riconosciuta una grande autonomia nel definire le proprie policies – compresi, chiaramente, i criteri di esercizio dell’azione penale –, pur all’interno delle linee-guida diramate dall’Attorney General[66]. In questa cornice istituzionale, ci si può chiedere se si possa parlare non solo e non tanto di una responsabilità politica del prosecutor in senso stretto (sicuramente non paragonabile a quella elettorale che, almeno formalmente, è tanto diffusa a livello statale) quanto della possibilità di assicurare la conformità del suo operato a indirizzi di politica criminale pur sempre corrispondenti alla volontà dei cittadini, senza quindi che la broad discretion degradi in arbitrio incontrollato.

Anni fa, Antonin Scalia scrisse in una sua dissenting opinion:

«Under our system of government, the primary check against prosecutorial abuse is a political one. The prosecutors who exercise this awesome discretion are selected and can be removed by a President, whom the people have trusted enough to elect. Moreover, when crimes are not investigated and prosecuted fairly, nonselectively, with a reasonable sense of proportion, the President pays the cost in political damage to his administration. If federal prosecutors “pick people that [they] thin[k] [they] should get, rather than cases that need to be prosecuted,” if they amass many more resources against a particular prominent individual, or against a particular class of political protesters, or against members of a particular political party, than the gravity of the alleged offenses or the record of successful prosecutions seems to warrant, the unfairness will come home to roost in the Oval Office» (enfasi aggiunta)[67].

Si tratta di una posizione estremamente ottimistica[68], che affida allo stesso Presidente il ruolo di garante dell’accountability degli organi della pubblica accusa nei confronti della cittadinanza: il rapporto fra il capo dell’esecutivo e gli elettori americani sarebbe infatti così forte da impedire (o, comunque, reprimere) il cattivo utilizzo del grande potere discrezionale che l’ordinamento attribuisce ai prosecutors federali. In verità, e senza pretendere di dare in questa sede valutazioni definitive, a chi scrive sembra di poter suggerire che il quadro è forse meno incoraggiante di quanto rappresentato dal Justice Scalia. Già dal punto di vista del disegno istituzionale, e salvo casi di particolare rilievo, sembra infatti difficile che le scelte di 93 U.S. Attorneys possano considerarsi soggette a scrutinio democratico sol perché i loro autori sono in astratto revocabili dal Presidente. In particolare, anche ammesso che sia davvero realizzabile un controllo sistematico “a tappeto” sull’attività degli uffici distrettuali, strumentale all’esercizio della revoca suddetta ogniqualvolta si verifica una prosecutorial misconduct, c’è da dubitare che un Presidente possa perdere la fiducia degli elettori proprio a causa del comportamento (da intendersi, ai nostri fini, come mancato esercizio dell’azione penale ovvero come “abuso del processo”) di un procuratore. Ancora, ci si potrebbe domandare cosa ne sia del supposto legame “indiretto” di un prosecutor con i cittadini quando il Presidente che lo ha nominato è già al secondo mandato, quindi non è più candidabile in ragione del XXII emendamento della Costituzione federale: quali sono gli effetti sul pubblico ministero dell’assenza di un controllo elettorale sull’organo che lo nomina[69]? Tuttalpiù, si potrebbe forse ricordare che il potere disciplinare del capo dell’esecutivo nei confronti dei prosecutors che deviano dalle linee-guida ministeriali può rappresentare una strada percorribile al fine di mantenere unità nell’indirizzo di politica criminale: ma anche a questa osservazione si potrebbe ribattere, almeno con riguardo al sistema in esame, ricordando ancora una volta che ogni procura federale degli Stati Uniti gode storicamente di una larga autonomia nello specificare i contenuti delle guidelines diramate dal Dipartimento della giustizia.

In conclusione, sembra che né l’elezione diretta del pubblico ministero né il suo inserimento nel circuito democratico in forme come quelle adottate a livello federale riescano a compensare la lamentata insufficienza delle responsabilità “giuridiche” tradizionali del prosecutor. Il risultato è un organo investito, sia in relazione all’esercizio dell’azione penale che al resto della sua attività processuale, di una discrezionalità amplissima e non adeguatamente bilanciata. Pertanto, se l’obiettivo è quello di compensare la generalizzata adozione del principio di opportunità dell’azione penale con la sottoposizione del soggetto che la esercita a un meccanismo di indirizzo e controllo di tipo politico (elettorale o non), proprio l’esperienza statunitense non sembra particolarmente incoraggiante.

 

2.3. Il controllo politico sul prosecutor: sintesi

Abbiamo dunque visto come negli Stati Uniti coesistano, in via di approssimazione, due modelli di pubblico ministero entrambi caratterizzati dall’adozione del principio di discrezionalità (o opportunità) nell’esercizio dell’azione penale. Nel primo, quello più diffuso a livello statale, il potere di selezionare le notizie di reato da perseguire (salvi i controlli giurisdizionali e “disciplinari”, che sono poco significativi) viene in teoria bilanciato da due fattori: a) per quanto riguarda l’Attorney General dello Stato e gli stessi District Attorneys, dalla responsabilità politica degli stessi in quanto capi degli uffici requirenti, i quali dovrebbero rendere conto delle loro scelte direttamente agli elettori; b) per quanto riguarda gli altri prosecutors addetti alla procura, dai vincoli gerarchici che legano tali funzionari al capo – e così, seppur indirettamente, agli elettori stessi. Nell’altro modello, quello adottato a livello federale, la prosecutorial discretion dovrebbe essere invece compensata, essenzialmente, dalla sola gerarchia. Infatti, i singoli procuratori degli Stati Uniti sono subordinati: a) se capi dell’ufficio, al Presidente, che li nomina e li può revocare; b) se AUSAs, all’Attorney General degli Stati Uniti, cui spettano simmetricamente poteri di nomina e di revoca (sostanzialmente esercitati, tuttavia, direttamente dal capo dell’ufficio distrettuale). È così che, in teoria, si assicura la rispondenza dell’esercizio concreto dell’azione penale alle «aspettative della comunità»[70] nazionale.

Si può dire, dunque, che negli Usa esistano due forme principali di “controllo politico” sul pubblico ministero:

a) un controllo diretto di tipo elettorale, svolto chiamando periodicamente i cittadini alla scelta dei chief prosecutors e alla valutazione, fra le varie opzioni disponibili, di men and measures; tra queste ultime dovrebbero rientrare anche le policies relative all’esercizio dell’azione penale, cosicché gli elettori avrebbero ad un tempo sia la possibilità di esprimere un giudizio su quelle messe in atto in passato, che quella di dare un indirizzo per il futuro; tale forma di controllo elettorale si rifletterebbe, indirettamente, sugli altri prosecutors addetti alla procura;

b) un controllo indiretto, svolto tramite la subordinazione formale dell’intero apparato inquirente-requirente al capo dell’esecutivo, il Presidente degli Stati Uniti, e all’Attorney General. Quest’ultimo, in linea con l’indirizzo presidenziale, dirama periodicamente delle linee-guida relative alla prosecutorial activity; entrambi, ognuno per quanto di sua competenza, sono in grado di nominare, revocare e sanzionare in via disciplinare i prosecutors federali. L’inserimento del pubblico ministero in tale circuito dovrebbe garantire un sufficiente grado di controllo democratico sullo stesso e compensare l’ampiezza della sua discretion.

D’altronde, come visto, l’efficacia di tali strumenti sembra essere in realtà minore di quanto potrebbe apparire prima facie.

 

3. Usa e Italia: un (limitato) spunto comparatistico 

Come detto in apertura del presente lavoro, da tempo in Italia alcuni propongono di “temperare” l’obbligatorietà dell’azione penale con l’istituzione di un “collegamento” fra essa e gli organi di indirizzo politico dello Stato, in alcuni casi anche a mezzo di un intervento sul testo dell’art. 112 Cost.

Questa misura potrebbe essere realizzata, in teoria, tramite uno dei seguenti moduli:

a) attribuzione al Parlamento della potestà di individuare, con legge o con atto non legislativo, dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione che privilegino il perseguimento di determinati reati, con conseguente postergazione della stessa (che rimarrebbe, comunque, obbligatoria) negli altri casi; si tratta della soluzione proposta nei progetti di legge (costituzionale o non) attualmente all’esame del Parlamento;

b) attribuzione della medesima della facoltà sub a) al Governo (nel suo insieme o, specificamente, al Ministro della giustizia)[71].

In ogni caso, la ratio rimarrebbe quella di ricondurre l’azione penale, almeno parzialmente, nel dominio di organi politici in modo che il suo esercizio sia coperto, quanto agli indirizzi fondamentali, da una responsabilità politica – di tipo elettorale o (nel caso a definirli sia il potere esecutivo) parlamentare – e che essa risulti così più “democratica”. Può dire qualcosa un’esperienza come quella americana all’osservatore italiano?

 

3.1. Difficoltà della comparazione fra pubblico ministero e prosecutor

La comparazione fra i due sistemi di pubblica accusa, de iure condito, è ardua: a livello ordinamentale, infatti, sono evidenti le differenze fra il prosecutor statunitense (in tutte le sue varianti) e il magistrato del pubblico ministero italiano.

È ovvio che, in primo luogo, spicca come il primo segua un principio di opportunità dell’azione penale mentre il secondo resta soggetto a un principio di obbligatorietà sancito addirittura a livello costituzionale.

Poi, mentre il membro del pubblico ministero italiano è un magistrato a tutti gli effetti, l’altro non può fregiarsi di tale qualifica né in quanto parte dello stesso corpo dei giudici (come avviene in Italia, o in Francia) né in quanto parte di un ordine separato ma comunque “magistratuale” (come in Portogallo; o come diventerebbe anche nel nostro Paese, se venissero approvate certe proposte di revisione costituzionale)[72]. L’organo della pubblica accusa, negli Stati Uniti, è a ogni livello parte integrante del potere esecutivo.

Inoltre, almeno in linea generale, le forze di polizia non conoscono una subordinazione funzionale ad esso che sia paragonabile a quella prevista in Italia in base all’art. 109 Cost.[73].

D’altra parte, è appena il caso di notare che nessuno risulta aver mai proposto di “trapiantare” in Italia il modello del prosecutor statunitense: né per quanto riguarda la variante più diffusa negli Stati federati, caratterizzata dall’elettività del capo della procura[74], né per quanto riguarda quella adottata a livello federale, per cui il pubblico ministero diventerebbe un avvocato nominato pro tempore a una carica pubblica dal Capo dello Stato. Tuttalpiù, l’apertura dello spazio di discrezionalità che abbiamo chiamato “governo dell’obbligatorietà” porterebbe con sé una parziale dipendenza funzionale esterna del magistrato requirente, per ciò che concerne l’avvio dell’azione penale[75], da scelte operate in seno al Parlamento o al Governo – ossia, gli organi espressivi dell’indirizzo politico; non ne verrebbero comunque intaccati gli altri aspetti della sua indipendenza funzionale (per giurisprudenza costituzionale costante notoriamente discendente dallo stesso art. 112 Cost.)[76], né tantomeno quella istituzionale fondata sugli artt. 104, 105, 107, commi 1 e 4, 108 Cost.

Quindi, anche laddove venissero approvate modifiche come quelle prospettate supra, l’ordinamento italiano del pubblico ministero resterebbe comunque significativamente lontano dall’esperienza d’oltreoceano, se non altro perché esso continuerebbe in ogni caso ad aderire al “modello burocratico” europeo sotto l’aspetto dello status dell’organo inquirente-requirente[77]. Per ciò che concerne poi l’esercizio dell’azione penale, non si tratterebbe certo di investire il magistrato requirente italiano di una discrezionalità paragonabile a quella del suo omologo americano, poiché (come già detto) il potere e la responsabilità di definire le “linee-guida” del suo operato ricadrebbero pur sempre su di un altro soggetto – il Parlamento o un organo del potere esecutivo, soggetti alle rispettive responsabilità politiche. Non sembra quindi che, quantomeno dal punto di vista formale, si possa parlare di un avvicinamento dei due modelli[78]: de iure condito, ma nemmeno de iure condendo. Ciò, ritiene chi scrive, nonostante l’accennato fenomeno dell’adozione di criteri di priorità da parte dei capi delle singole procure, il quale già oggi potrebbe ricordare il tipo di discrezionalità di cui gode il chief prosecutor statunitense e che, in qualche misura, potrebbe anche sopravvivere alle riforme in esame[79]: la conservazione in Italia di un principio di obbligatorietà, infatti, contribuirebbe a mantenere la distanza tra i due modelli[80].

 

3.2. … ma con uno spunto sul controllo politico

Tuttavia, agli occhi di chi scrive, rimane almeno un importante punto di contatto fra il prosecutor statunitense e le proposte di riforma in esame: l’idea, su cui si è tornati più volte, di sottoporre l’attività inquirente-requirente all’indirizzo (a monte) e al controllo (a valle) dei cittadini almeno per quanto riguarda la definizione degli indirizzi, delle priorità da seguire nel suo svolgimento. In questo senso, questi progetti non sembrano considerare che la lezione americana insegna quanto tale obiettivo sia difficile da conseguire, anche ricorrendo a soluzioni radicali come l’elezione diretta dell’organo della pubblica accusa.

Si pensi all’ipotesi di attribuire al Parlamento la definizione dei criteri di priorità in esame: ebbene, sembra di poter riferire anche al caso italiano (per come potrebbe diventare) alcune delle conclusioni tratte dagli studi riportati supra: questi lavori suggeriscono infatti come gli elettori, in generale, non riescano a guidare e valutare la definizione dei suddetti indirizzi e priorità, da intendersi in primis come discernimento fra le categorie di reati alla cui persecuzione dedicare più tempo, mezzi ed energie e i procedimenti da considerare, viceversa, secondari. Si tratterebbe, infatti, di una materia in cui rimane pur sempre particolarmente forte la componente tecnica, e che mal si presta al loro giudizio o anche solo a suscitarne l’interesse. Nella gran moltitudine di tematiche affrontate nella campagna elettorale per il rinnovo di un’assemblea legislativa, un argomento simile potrebbe tranquillamente sfuggire all’attenzione dei più – a differenza, magari, di altri aspetti della politica criminale come l’introduzione o l’eliminazione di certi reati (già di competenza del Parlamento) oppure le condizioni generali del sistema carcerario (già di competenza del Governo). In secondo luogo, può destare preoccupazione il fatto che non solo la legislazione penale (che ovviamente non può che essere di competenza dell’assemblea dei rappresentanti del popolo) ma anche le modalità attuative della stessa in parte qua siano rimesse alla discrezionalità di un organo elettivo e ai suoi umori variabili (dovuti al susseguirsi delle scadenze elettorali, alle cangianti strategie di partiti politici, alla crescente o declinante influenza dei gruppi di interesse…)[81]. Ne conseguirebbe il rischio di una instabilità permanente delle norme penali, una parte delle quali (pur rimanendo formalmente vigenti) verrebbe sistematicamente disapplicata non perché vengono commessi meno reati, ma perché muta l’interesse del Parlamento in ordine alla loro repressione[82]. Poi, andrebbe sottolineato che il controllo democratico così realizzato interesserebbe non tanto gli organi direttamente preposti allo svolgimento dell’attività pubblica che si vuol sottoporre al giudizio dei cittadini (come invece è, in prospettiva comparata, nella maggior parte degli Stati Uniti) bensì solamente quello che esercita la funzione di indirizzo: tale controllo avrebbe cioè una natura indiretta, e per ciò stesso potrebbe ben risultare meno efficace del già (così pare) poco efficace controllo elettorale diretto rinvenibile negli Usa.

Nel caso in cui, invece, le priorità in esame dovessero essere fissate in seno al potere esecutivo (collegialmente o dal Ministro della giustizia), è chiaro che di ciò esso dovrebbe rispondere al Parlamento. Tuttavia, non si può non notare che in questa ipotesi si verrebbe a creare un diaframma fra la cittadinanza e l’organo titolare del potere di indirizzo, tale da rendere meno agevole proprio il controllo sulle decisioni di quest’ultimo; e, rispetto a quello titolare dell’azione penale, la distanza si allargherebbe ancora di più che nell’ipotesi precedente.

Infine, nella prospettiva del “render conto” dell’esercizio di funzioni pubbliche, si intende evidenziare il rischio che all’attribuzione di un nuovo potere, al legislatore come all’esecutivo, non corrisponda alcuna responsabilità effettiva degli stessi nei confronti di cittadini distratti o disinteressati, con il risultato che si verrebbe a creare una forma di (par) dipendenza funzionale del pubblico ministero dagli organi di indirizzo politico dello Stato (nelle forme già spiegate), ma senza che ciò comporti un vero controllo democratico sull’esercizio dell’azione penale. Si tratta ovviamente solo di considerazioni teoriche sugli effetti di possibili scelte di politica del diritto, non verificate (e non potrebbe essere altrimenti) da alcun riscontro empirico. Però, specie alla luce dell’esperienza statunitense di cui si è detto supra, un sano scetticismo non sembra fuori luogo.

Sorgono dunque spontanei, pur al netto delle evidenti differenze nel disegno istituzionale fra Usa e Italia, alcuni dubbi sull’efficacia in senso democratico dell’attribuzione de iure condendo al Parlamento (o al Governo, o al solo Ministro della giustizia) italiano del compito di indicare le priorità per l’esercizio dell’azione penale. 

Si noti che queste perplessità discendono dal confronto col modello statale di prosecutor (rectius, con quello più diffuso a livello statale). Meno utile sembra, invece, la comparazione con il livello federale: il tipo di controllo politico indiretto sul pubblico ministero fatto proprio da esso, infatti, potrebbe essere addirittura più debole di quello che alcuni auspicano sia realizzato in Italia per “governare l’obbligatorietà”. Infatti, la subordinazione del prosecutor all’organo elettivo che indirizza in termini generali l’azione penale risulta comunque molto attenuata dalla persistenza, in capo al primo, di un’ampia discretion per quanto riguarda tutto il complesso delle sue funzioni. E, se è vero che l’autorità centrale (che comunque sarebbe l’Attorney General, e non il Presidente) può sempre dare istruzioni specifiche sul singolo caso, lo è anche che essa generalmente si astiene da questa sua facoltà così come da ogni intrusione negli affari delle procure distrettuali (sul punto, si rimanda a quanto detto supra). In Italia, invece (e pur con il limite or ora esposto), il Parlamento o il Governo godrebbero almeno della sicurezza che i loro indirizzi andrebbero a integrare un obbligo costituzionale, senza che residui alcuna apprezzabile discrezionalità in capo ai destinatari degli stessi.

 

 

1. Fra le principali trattazioni organiche del tema, si ricordano: G. Neppi Modona, Art. 112 [e 107, 4° comma], in V. Denti - G. Neppi Modona - G. Berti - P. Corso, La Magistratura, tomo IV, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1987, pp. 39 ss.; G. Monaco, Pubblico Ministero e obbligatorietà dell’azione penale, Giuffrè, Milano, 2003; G. D’Elia, Art. 112, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Utet Giuridica, Milano, 2006, pp. 2125 ss.; M. Gialuz, 112, in S. Bartole e R. Bin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Cedam, Padova, 2008 (II ed.), pp. 1011 ss.; S. Catalano, Articolo 112, in F. Clementi - L. Cuocolo - F. Rosa - G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, vol. II, Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 308-310. Della mai tramontata centralità dell’argomento si trova traccia negli atti dei convegni dedicati al pm negli ultimi cinquant’anni, fra i quali si segnalano: G. Conso (a cura di), Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, Zanichelli, Bologna, 1979; A. Gaito (a cura di), Accusa penale e ruolo del Pubblico Ministero, Jovene, Napoli, 1991; Aa. Vv., Il pubblico ministero oggi, Giuffrè, Milano, 1994; nonché negli approfondimenti dedicati alla problematica del pubblico ministero da Questione giustizia, fra cui (solo negli ultimi dieci anni): Doveri e responsabilità del pubblico ministero “organo di giustizia, promotore di diritti” in questa Rivista trimestrale, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 4/2014, pp. 37-180; e Il pubblico ministero nella giurisdizione, ivi (edizione digitale), n. 1/2018, pp. 6-87. Cfr. anche la raccolta di scritti di M. Chiavario, L’azione penale tra diritto e politica, Cedam, Padova, 1995.

2. Come notoriamente sottolineò già V. Zagrebelsky, Stabilire le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, in Aa. Vv., Il pubblico ministero oggi, op. cit., pp. 101-108 (che, si badi, non mette però in discussione il mantenimento del principio di obbligatorietà dell’azione penale). Lamenta una «cronica incapacità della nostra giustizia penale a fornire una soddisfacente risposta alle aspettative del cittadino» E. Marzaduri, Azione: IV) Diritto processuale penale, in Enciclopedia Giuridica, vol. V, Treccani, Roma, 1996, p. 20; di «crescente conflitto tra il pur laconico principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale e l’opprimente realtà di un carico giudiziario in costante aumento» parla S. Quattrocolo, Azione penale, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, vol. I, Giuffrè, Milano, 2006, p. 633. Riconoscono in genere l’impossibilità di un’attuazione “rigida” dell’art. 112 Cost., seppur con accenti diversi, ex multis, M. Gialuz, 112, op. cit., p. 1028; G. Melillo, L’organizzazione delle procure della Repubblica, in D. Carcano (a cura di), Ordinamento giudiziario: organizzazione e profili processuali, Giuffrè, Milano, 2009 (II ed.), pp. 212-213; S. Bartole, Il potere giudiziario, Il Mulino, Bologna, 2012 (II ed.), pp. 58-59; F. Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, Giappichelli, Torino, 2018, p. 199; N. Zanon e F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Zanichelli, Bologna, 2019 (V ed.), p. 268.
Profondamente critico sull’obbligatorietà dell’azione penale e favorevole a un suo radicale superamento, G. Di Federico, Obbligatorietà dell’azione penale, coordinamento delle attività del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità, in A. Gaito (a cura di), Accusa penale, op. cit., pp. 172-176; cfr. anche A. Gaito, Natura, caratteristiche e funzioni del pubblico ministero. Premesse per una discussione, ivi, pp. 24-25; parlava di una «ineliminabile discrezionalità» già C. Guarnieri, Pubblico ministero e sistema politico, Cedam, Padova, 1984, pp. 143-152.
Contra, nel senso che i difetti di attuazione del principio in esame costituiscono un problema essenzialmente economico e organizzativo, R. Romboli, Il pubblico ministero nell’ordinamento costituzionale e l’esercizio dell’azione penale, relazione tenuta a Parigi presso l’École nationale de la magistrature l’11 ottobre 2000, poi in S. Panizza - A. Pizzorusso - R. Romboli, Ordinamento giudiziario e forense, vol. I, Edizioni Plus (Università di Pisa), Pisa, 2002, pp. 313-314; nello stesso senso, insistendo in particolare sulla soluzione rappresentata dalla depenalizzazione, G. D’Elia, Art. 112, op. cit., pp. 2128-2129.

3. Il riferimento è alla nota coppia di articoli di R. Sacco, Legal Formants: A Dynamic Approach To Comparative Law, in American Journal of Comparative Law, vol. 32, n. 1/1991, pp. 1-34 e n. 2/1991, pp. 343-401. 

4. Nella XVIII legislatura risultano all’esame almeno tre progetti di revisione dell’art. 112 Cost., che vanno tutti in questo senso: A.C. n. 14 (art. 10), A.C. n. 2710 (art. 1), A.S. n. 284 (art. 7). Una menzione a parte merita il ddl costituzionale A.S. n. 388, d’iniziativa del Sen. Vitali, con cui si propone l’adozione di una vera e propria legge costituzionale che procedimentalizza la definizione delle priorità coinvolgendo in un complesso iter i procuratori generali presso le corti di appello, il procuratore generale presso la Corte di cassazione, il Ministro dell’interno, il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro della giustizia e, per l’approvazione dell’atto, le due Camere (art. 1). Tutti i documenti citati sono accessibili al sito www.senato.it (consultato da ultimo il 17 marzo 2021).
È appena il caso di osservare che il mero riferimento a una «riserva di legge» in materia di azione penale obbligatoria, effettuato da alcuni dei progetti presi in considerazione (A.S. n. 284, art. 8; A.C. n. 14, art. 10), in teoria potrebbe essere inteso nel senso che il principio di obbligatorietà opererebbe nei soli casi previsti dal legislatore, per venire sostituito in via generale da quello di opportunità (o discrezionalità). Tuttavia, questa interpretazione non sembra confortata dalle relazioni introduttive alle proposte in esame (cfr. quella ad A.C. n. 14, p. 7, che fa riferimento a «forme e priorità dell’esercizio dell’azione penale» e specifica che l’obbligatorietà è «un valore da salvaguardare»; invece, quella ad A.S. n. 284 rimane silente sul punto).
Va, però, ricordato che c’è chi sostiene che la fissazione di criteri di priorità in sé, la quale implica l’accettazione del rischio che non tutti i reati siano concretamente perseguiti, equivale in sostanza a un’introduzione “mascherata” del principio di opportunità (R. Romboli, Il pubblico ministero, op. cit., p. 313).

5. Cfr. V. Zagrebelsky, Stabilire le priorità, op. cit., pp. 114-116; la stessa posizione è stata fatta propria da M. Chiavario, Obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, in Aa. Vv., Il pubblico ministero oggi, op. cit., pp. 95-97 e, sempre nello stesso volume, da G. Neppi Modona, Principio di legalità e nuovo processo penale, pp. 123-124, nonché – seppur come “ripiego” – da G. Di Federico, Dilemmi del ruolo del Pubblico Ministero: indipendenza e responsabilità, ivi, pp. 255-258. Per questi Autori, a definire i criteri di priorità per l’esercizio dell’azione basterebbe un atto del Parlamento (legislativo o anche non legislativo). Nello stesso senso, A. Gaito, Natura, op. cit., p. 19; nonché, parrebbe, N. Zanon e F. Biondi, Il sistema, op. cit., pp. 267-274.
Sembra invece propenso ad attribuire tale funzione al potere esecutivo N. Zanon, Pubblico Ministero e Costituzione, Cedam, Padova, 1996, pp. 211-213, nell’ambito di una più generale riconduzione del pm al potere esecutivo; in senso analogo, già O. Dominioni, Per un collegamento fra ministro della giustizia e pubblico ministero, in G. Conso (a cura di), Pubblico ministero e accusa penale, op. cit., pp. 75 ss.; G. Di Federico, Obbligatorietà dell’azione penale, op. cit., p. 172. Si vedano, inoltre, con riguardo ai lavori parlamentari in corso, A.S. n. 370 e A.C. n. 268.
Contra, poiché «in un contesto dominato dal principio di obbligatorietà dell’azione, i criteri di priorità presentano aspetti assai scivolosi e sembrano destinati a creare più problemi di quanti possano risolverne» (e senza, comunque, auspicare una revisione costituzionale), R.E. Kostoris, Per un’obbligatorietà temperata dell’azione penale, in Riv. dir. proc., n. 4/2007, pp. 875 ss. La tesi dell’A. è che il “temperamento” dovrebbe avvenire con altro genere di interventi che incidano sul tessuto del diritto penale, sia sul piano sostanziale che processuale. Contra, perché sarebbe necessario (ma comunque non opportuno) intervenire sulla Costituzione, S. Catalano, Rimedi peggiori dei mali: sui criteri di priorità nell’azione penale, in Quad. cost., n. 1/2008, pp. 82-85 e 92 ss.; sul punto, cfr. anche G. Monaco, Pubblico Ministero e obbligatorietà, op. cit., pp. 256-266, nonché già, parrebbe, M. Scaparone nelle Conclusioni a Il pubblico ministero oggi, op. cit., pp. 274-275.

6. La previsione di “criteri di priorità” nell’esercizio dell’azione è già da anni una realtà in molte procure italiane, dove essi sono definiti dal capo dell’ufficio con uno strumento generalmente definito “circolare”. Ne sono esempi (cfr. S. Catalano, Rimedi, op. cit., pp. 67-69) la circolare del presidente della Corte di appello e del procuratore generale presso la Corte di appello di Torino dell’8 marzo 1989; la circolare del procuratore della Repubblica presso la Pretura circondariale di Torino del 16 novembre 1990; la circolare del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo del 7 novembre 2006 (emessa in occasione dell’indulto disposto con l. n. 241/2006); la circolare del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio del 17 gennaio 2007 (sempre in occasione dell’indulto disposto con l. n. 241/2006). Alcune di esse, proprio in ragione del loro rapporto problematico con l’art. 112 Cost., hanno anche suscitato un certo clamore pubblico: si pensi al caso della cd. “circolare Maddalena”, emessa il 7 gennaio 2007 dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino (Marcello Maddalena) per disciplinare la trattazione dei procedimenti ancora in corso dopo l’entrata in vigore della l. n. 241/2006. Infatti, dal momento che quest’ultima disponeva un indulto, si poneva il problema di gestire i carichi pendenti alla luce di tale specifica sopravvenienza. Il caso fu portato all’attenzione del Csm, che però ne accertò la legittimità (per la vicenda, cfr. Questione giustizia, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 3/2007). In tempi recenti, lo stesso Consiglio superiore della magistratura sembra aver dato il proprio avallo a questa modalità di “governo dell’azione penale”, prima ammettendo esplicitamente la possibilità che i capi delle procure introducano i criteri in esame (almeno a partire dalla risoluzione consiliare del 21 luglio 2009, «Risoluzione in materia di organizzazione degli uffici del Pubblico Ministero»), poi tramite l’esplicita menzione degli stessi (pur sempre qualificati come “eventuali”) all’interno delle circolari “generali” sull’organizzazione delle procure (art. 3, commi 2 e 3, circolare sulla organizzazione degli Uffici di procura, di cui alla delibera consiliare del 16 novembre 2017). Per una ricostruzione recente di questa evoluzione, cfr. N. Zanon e F. Biondi, Il sistema, op. cit., pp. 267-274. Cfr. anche A. Peri, Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità. La modellistica delle fonti tra esperienze recenti e prospettive de iure condendo: un quadro ricognitivo, in Forum di Quad. cost., settembre 2010, pp. 1-8 (https://iris.unipa.it/retrieve/handle/10447/72677/70240/0225_peri%20copia.pdf); N. Galantini, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale tra interesse alla persecuzione e penale e interesse all’efficienza giudiziario, in Dir. pen. cont., 23 settembre 2019, pp. 1-16 (www.penalecontemporaneo.it/upload/3900-galantini2019b.pdf).
Tale soluzione, in astratto, avrebbe il grande pregio di non porsi in diretto contrasto con il principio consacrato all’art. 112 Cost. giacché non escluderebbe a priori la necessità di perseguire tutti i reati di cui si ha notizia; essa si limiterebbe piuttosto a permettere di individuare un ordine nella trattazione degli affari penali da parte degli organi inquirenti-requirenti – ordine che, comunque, risulta inevitabile stabilire a meno di non voler procedere esclusivamente sulla base, se non del caso, di un criterio “cronologico” che fa riferimento al tempo in cui le varie notitiae criminis sono pervenute all’ufficio. Sull’insufficienza di quest’ultimo, peraltro, è opportuno ricordare una risalente decisione disciplinare del Csm, in cui l’organo di governo autonomo riconobbe al magistrato requirente il potere-dovere di selezionare i casi da trattare in via prioritaria laddove mancassero indicazioni in tal senso da parte del capo dell’ufficio. Il Consiglio superiore, infatti, specificò che «l’impossibilità di tempestivamente esaurire la trattazione di tutte le notizie di reato (…) implica che non ci si può sottrarre al compito di elaborare criteri di priorità (…) che, una volta scontato come irragionevole il criterio che facesse mero riferimento al caso e alla successione cronologica della sopravvenienza, non possono non essere derivati, in ossequio alla soggezione anche dei pubblici ministeri alla legge, dalla gravità e/o offensività sociale delle singole specie di reati» (enfasi aggiunta – decisione del 20 giugno 1997, parzialmente pubblicata in Giur. cost., n. 3/1998, pp. 1878-1879, con nota di G. D’Elia, I princìpi costituzionali di stretta legalità, obbligatorietà dell’azione penale ed eguaglianza a proposito dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, pp. 1878-1890). Negli anni successivi, questo indirizzo sembra essere stato in parte confermato e in parte contraddetto (cfr. G. Grasso, Sul rilievo dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali nelle delibere del Csm e nelle pronunce della sezione disciplinare, in Foro it., 2015, III, cc. 259-264).
L’adozione di tali criteri costituisce un esempio di auto-regolazione dell’esercizio dell’azione penale da parte degli uffici giudiziari: tale pratica va, pertanto, incontro a ricorrenti rilievi sia dal punto di vista della (mancanza di) legittimità democratica che delle lacune nel sistema dei controlli esperibili su di essa (ex multis, N. Zanon, Pubblico Ministero e Costituzione, op. cit., pp. 181-182; S. Catalano, Rimedi, op. cit., pp. 71 ss.; F. Vecchio, Pericolo populista e riforme della giustizia. A proposito di alcune insoddisfacenti proposte di riforma dell’obbligatorietà dell’azione penale, in Rivista AIC, n. 1/2021, pp. 85-87), non essendo affatto pacifico che si tratti di attività di mera estrinsecazione di priorità già immanenti nelle previsioni legislative (per questa tesi, per tutti, E. Marzaduri, Azione, op. cit., p. 21) e pertanto estranea alla definizione dell’indirizzo di politica criminale. Inoltre, essa va a influire su quella particolare declinazione dell’indipendenza magistratuale che è l’indipendenza interna funzionale del pubblico ministero (su cui già G. Neppi Modona, Art. 112 [e 107, 4° comma], op. cit., pp. 71-85).
Dal punto di vista della base normativa, si annota che mira a colmare la lacuna il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario A.C. n. 2681 (art. 2, comma 2, part. lett. b, n. 3), attualmente pendente in Parlamento. Su di esso si rimanda al commento generale di F. Dal Canto, Note minime sul disegno di legge Bonafede di riforma dell’ordinamento giudiziario, in Rivista AIC, n. 1/2021, pp. 165-187.

7. Si fa qui riferimento alla nozione risalente ad A. Pizzorusso, Organi. III. Organi giudiziari, in Enciclopedia del Diritto, vol. XXXI, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 92-93.

8. Con riguardo ai progetti di legge esaminati, vds. A.C. n. 2710.

9. A proposito del coinvolgimento di questi ultimi, con riguardo ai progetti di legge pendenti, cfr. A.S. n. 370, A.S. n. 388, A.C. n. 268.

10. Di tale ratio dava una rappresentazione plastica già G. Di Federico, Dilemmi, op. cit., pp. 247 ss. (part. pp. 248-251). Oggi, negli stessi termini, si vedano le relazioni introduttive ai suddetti progetti di legge A.C. n. 14 (pp. 6-7) e A.S. n. 388 (p. 2), nonché tutti gli Autori variamente favorevoli a creare un collegamento fra l’organo dell’accusa penale e quelli di indirizzo politico, già citati in nota 5. Contra, F. Vecchio, Pericolo populista, op. cit., pp. 95-97, per cui il compito di definire i criteri di priorità in esame dovrebbe essere affidato direttamente al Consiglio superiore della magistratura: «(…) evitando il coinvolgimento diretto delle istituzioni rappresentative, si darebbe vita ad un sistema in cui pubblici ministeri responsabilizzati risponderebbero in termini disciplinari delle azioni non conformi ai criteri predefiniti e le scelte di politica criminale sarebbero affidate [a figure] che per il loro ruolo istituzionale hanno tutta la legittimazione politica e giuridica necessaria per poterle assumere».

11. Come nell’esperienza comparata (in particolare, si pensi a Regno Unito, Francia, Spagna, Stati Uniti d’America): G. D’Elia, Art. 112, op. cit., p. 2134; M. Volpi, La Magistratura, in G. Cerrina Feroni - G. Morbidelli - M. Volpi, Diritto costituzionale comparato, Giappichelli, Torino, 2020, pp. 406-407.

12. Su cui già V. Vigoriti, Pubblico ministero e discrezionalità dell’azione penale negli Stati Uniti d’America, in G. Conso (a cura di), Pubblico ministero e accusa penale, op. cit., pp. 264-268; L. Marafioti, Limiti costituzionali all’esercizio improprio dell’azione penale negli Stati Uniti d’America: i divieti di selective prosecution e vindictiveness in charging, in A. Gaito (a cura di), Accusa penale, op. cit., pp. 263 ss.; V. Zagrebelsky, Stabilire le priorità, op. cit., pp. 109-110.

13. V. Vigoriti, Pubblico ministero e discrezionalità, op. cit., pp. 259-261; G. Monaco, Pubblico Ministero e obbligatorietà, op. cit., p. 329.

14. V. Vigoriti, Pubblico ministero e discrezionalità, op. cit., pp. 157 ss.; parzialmente contrario V. Zagrebelsky, Stabilire le priorità, op. cit., pp. 110-112, per cui l’unico vero strumento d’indirizzo in mano al capo dell’ufficio (e pur sempre sul piano generale, non relativamente alla trattazione del singolo affare penale) consiste nella decisione sull’impiego delle risorse materiali a disposizione della procura.

15. Anche per il meno ostile nei confronti del modello americano, «non si può fare a meno di guardare all’ordinamento statunitense non per “trapianti” irrealizzabili, ma per trarre da quell’esperienza importanti motivi di riflessione» (enfasi aggiunta – V. Vigoriti, Pubblico ministero e discrezionalità, op. cit., p. 273). Da ultimo, forti riserve nei confronti del modello americano sono state espresse da I.J. Patrone, Il prosecutor negli Stati Uniti: un esempio da seguire?, in questa Rivista online, 11 marzo 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/il-prosecutor-negli-stati-uniti-un-esempio-da-seguire.

16. Una descrizione esaustiva dell’ordinamento del pubblico ministero statunitense è data in H. Gramckow, Prosecutor Organization and Operations in the United States, in Aa. Vv., Promoting Prosecutorial Accountability, Independence and Effectiveness. Comparative Research, Open Society Institute Sofia, Sofia, 2008, pp . 387 ss., www.justiceinitiative.org/uploads/f3b388fc-c2cc-401a-98e5-9423ccee0e0d/promoting_20090217.pdf.

17. Vds. la sez. 35 del Judiciary Act del 1789 (consultato nell’archivio avalon.law.yale.edu), che prevede «in each district» la nomina di una «meet person learned in the law to act as attorney for the United States in such district» e di una «meet person, learned in the law, to act as attorney-general for the United States».

18. Come riportato attualmente in www.justice.gov (consultato da ultimo il 4 marzo 2021). Si annota che, se i distretti sono 94, i procuratori federali sono 93, stante l’attribuzione di Guam e delle Isole Marianne del Nord alla competenza del medesimo funzionario.

19. Se ne riporta, per comodità, il testo (presente su www.archives.gov): «(…) he [il Presidente, ndR] shall nominate, and by and with the Advice and Consent of the Senate, shall appoint Ambassadors, other public Ministers and Consuls, Judges of the supreme Court, and all other Officers of the United States, whose Appointments are not herein otherwise provided for, and which shall be established by Law (…)» (enfasi aggiunta).

20. Lo United States Code (cui si farà qui riferimento in ordine alle leggi federali, e del quale in questa sede interessa in particolare il titolo 28, «Judiciary And Judicial Procedure») è consultato sul sito uscode.house.gov (da ultimo, il 5 marzo 2021).

21. Come è stato evidenziato da tempo anche dagli osservatori italiani: cfr. C. Guarnieri, Pubblico ministero, op. cit., pp. 62-68, il quale sottolinea che un ruolo non secondario è giocato anche da altri attori rappresentativi della comunità di riferimento, come le autorità politiche locali, gli avvocati, i giudici. Il dato è confermato anche nell’organica ricostruzione effettuata da G. Gilliéron, Public Prosecutors in the United States and Europe. A Comparative Analysis with Special Focus on Switzerland, France and Germany, Springer, Cham, 2014, pp. 67-68. Cfr. Anche S. Sun Beale, Rethinking the Identity and Role of United States Attorneys, in Ohio State Journal of Criminal Law, n. 2/2009, pp. 409 ss.

22. S. Sun Beale, op. ult. cit., p. 397.

23. Essi si considerano infatti inferior officers, cui si applica l’ultima parte dell’art. 2, sez. 2, clausola 2 della Costituzione federale: «(…) the Congress may by Law vest the Appointment of such inferior Officers, as they think proper, in the President alone, in the Courts of Law, or in the Heads of Departments» (enfasi aggiunta).

24. Sugli AUSAs, cfr. G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., pp. 65-69.

25. Di norma, il possesso del titolo di studio di Juris Doctor (J.D.) e la pratica attiva della professione forense portata avanti per almeno un biennio (G. Gilliéron, op. ult. cit., p. 68).

26. Su cui già C. Guarnieri, Pubblico ministero, op. cit., pp. 78 ss.; A.J. Davis, Arbitrary Justice. The Power of the American Prosecutor, Oxford University Press, New York, 2007, pp. 97-98; H. Gramckow, Prosecutor Organization, op. cit., p. 396; G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., pp. 66-67. Fra i commentatori italiani, aveva già sottolineato l’importanza del potere di decidere come impiegare le risorse (anche con riferimento al livello statale) V. Zagrebelsky, Stabilire le priorità, op. cit., pp. 110-112.

27. Disponibile in www.justice.gov, consultato da ultimo il 13 marzo 2021.

28. Sul rapporto tra strutture centrali e periferiche del pubblico ministero federale, G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., pp. 143-144, nonché S. Sun Beale, Rethinking the Identity, op. cit., pp. 391 ss.

29. Ad esempio, a Philadelphia (www.phila.gov, consultato da ultimo il 10 marzo 2021) e a Los Angeles (www.lacityattorney.org, consultato da ultimo il 10 marzo 2021).

30. Cfr. l’edizione 2020 di The Book of States, pubblicato da The Council of State Governments e disponibile su www.csg.org (consultato da ultimo il 5 marzo 2021), pp. 157-158. Oltre ai 50 Stati federati, il dato tiene conto del Distretto di Columbia, delle Samoa Americane, di Guam, delle Isole Marianne del Nord, di Puerto Rico e delle Isole Vergini degli Stati Uniti; in tutti questi ordinamenti (tranne a Guam) il procuratore generale non è elettivo. Negli Stati, l’Attorney General viene nominato dal Governatore in Alaska, nelle Hawaii, nel New Jersey, nel New Hampshire e nel Wyoming; viene nominato dai giudici della Corte suprema in Tennessee; viene nominato con un voto congiunto delle due assemblee legislative (Camera dei rappresentanti e Senato) nel Maine.

31. Il dato è riportato in A.J. Davis, Arbitrary Justice, op. cit., p. 166.

32. È il caso dei procuratori generali del Vermont e del Maine (The Book of States, pp. 157 e 163) o di quelli distrettuali del New Hampshire e del Wisconsin (secondo quanto riportato in G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., p. 354).

33. È il caso del procuratore generale del Tennessee (The Book of States, pp. 157 e 163) o di quelli distrettuali del Connecticut (secondo quanto riportato in G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., p. 354).

34. In generale, sul punto, cfr. A.J. Davis, Arbitrary Justice, op. cit., pp. 166-167; H. Gramckow, Prosecutor Organization, op. cit., pp. 392-396; G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., pp. 69-72, nonché già C. Guarnieri, Pubblico ministero, op. cit., pp. 71-73.

35. G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., p. 72. D’altronde, in certi Stati tale requisito non è necessario nemmeno per diventare Attorney General (cfr. The Book of States, pp. 159-160).

36. Nonostante, formalmente, non sia infrequente che all’Attorney General sia riconosciuta la facoltà di esercitare l’azione penale direttamente avanti i giudici locali, o quantomeno di intervenire in giudizio quando la medesima azione è già stata esercitata dai prosecutors distrettuali (cfr. la tabella 4.21 in The Book of States, pp. 161-162). Cfr. anche G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., pp. 144-146.

37. Ne sono esempio V. Vigoriti, Pubblico ministero e discrezionalità, op. cit.; L. Marafioti, Limiti costituzionali, op. cit., pp. 261-263.

38. Illuminanti, in questo senso, le pagine di A.J. Davis, Arbitrary Justice, op. cit., pp. 19 ss., per la quale gli abusi tendono a concentrarsi in particolare nel plea bargaining e nel charging (definizione delle accuse, il quale può trascendere nell’“overcharging”).

39. U.S. Reports: Bordenkircher v. Hayes, 434 U.S. 357 (1978), p. 364. La giurisprudenza della Corte suprema viene qui citata facendo riferimento agli U.S. Reports, disponibili in www.loc.gov.

40. Ivi, p. 365.

41. Non a caso, il titolo del libro di A.J. Davis, che riporta numerosi casi di discriminazione su base razziale e sociale rimasti senza alcuna conseguenza per il loro Autore, è Arbitrary Justice (op. cit.). Cfr., sul punto, M.L. Miller e R.F. Wright, Reporting for Duty: The Universal Prosecutorial Accountability Puzzle and an Experimental Transparency Alternative, in E. Luna e M.L. Wade (a cura di), The Prosecutor in Transnational Perspective, Oxford University Press, New York, 2012, pp. 400-401; B. Green e E. Yaroshefsky, Prosecutorial Accountability 2.0, in Notre Dame Law Review, n. 1/2016, pp. 53-66; A.J. Davis, Prosecutors, Democracy and Race, in M. Langer e D.A. Sklansky (a cura di), Prosecutors and Democracy. A Cross-National Study, Cambridge University Press, Cambridge, 2017, pp. 195-226; J. Simon, Beyond Though on Crime, ivi, pp. 253-254.

42. Nessun dubbio che, al termine del trial, laddove l’accusa non sia suffragata da prove sufficienti, l’imputato possa ragionevolmente aspettarsi l’assoluzione. È stato tuttavia denunciato come spesso il procedimento possa tranquillamente protrarsi per tempi anche lunghi, pur a fronte di un impianto accusatorio complessivamente debole, a causa dell’assenza di meccanismi processuali atti a garantire in modo uniforme (le norme cambiano infatti fra livello statale e federale, nonché fra Stato e Stato) un rapido esame delle contestazioni sollevate unilateralmente dal prosecutor. Sono stati segnalati, in particolare, due problemi: uno riguarda il Grand Jury, ossia il collegio sovente chiamato a deliberare sul “rinvio a giudizio” dell’accusato, del quale si lamenta la scarsa competenza tecnica e la conseguente “dipendenza” dal modo in cui il pubblico ministero presenta i fatti e li inquadra giuridicamente; l’altro il plea bargaining, con cui si conclude la grande maggioranza dei procedimenti penali avviati negli Usa. In quest’ultimo caso, in particolare, il pubblico ministero ha potenzialmente buon gioco nel minacciare l’elevazione di accuse pesantissime (anche se infondate), in modo da intimidire la controparte col rischio di una condanna molto alta ed “estorcerle” così un’ammissione di colpevolezza (anche fasulla!) pur di evitarlo (A.J. Davis, Arbitrary Justice, op. cit., rispettivamente pp. 25-30 e 43 ss.).

43. Si tratta, in particolare, delle ipotesi di selective prosecution (esercizio indebitamente discriminatorio dell’azione penale, su cui la Corte suprema si pronunciò negativamente già nel caso Yick Wo v. Hopkins del 1886) e vindictiveness in charging (illegittima reazione del prosecutor all’esercizio, da parte dell’imputato, dei propri diritti costituzionalmente riconosciuti), già evidenziate anche nella dottrina italiana da L. Marafioti, Limiti costituzionali, op. cit., e V. Vigoriti, Pubblico ministero e discrezionalità, op. cit., pp. 264-268, cui si rimanda anche per gli abbondanti riferimenti giurisprudenziali, espressivi di orientamenti tuttora insuperati.

44. U.S. Reports: Imbler v. Pachtman, 424 U.S. 409 (1976).

45. Abbondante giurisprudenza è citata in G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., p. 154.

46. Si tratta delle Model Rules of Professional Conduct redatte da ABA (la famosa American Bar Association), fra cui si ricorda in particolare la Rule 3.8 sulle Special Responsibilities of a Prosecutor. Esse sono disponibili al sito www.americanbar.org, consultato da ultimo il 15 marzo 2021.

47. G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., pp. 80-88; cfr. anche A.J. Davis, Arbitrary Justice, op. cit., pp. 143 ss.

48. Se ne può trovare una rassegna in JM, 1-4.100; con specifico riferimento agli attorneys for the government, cfr. il titolo 28 («Judicial Administration») del Code of Federal Regulations a 28 C. F. R. 77 (consultabile a www.ecfr.gov; ultima visita il 12 marzo 2021), cui rinvia lo stesso JM.

49. G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., pp. 155-157; E.S. Podgor, Prosecution Guidelines in the United States, in E. Luna e M.L. Wade (a cura di), The Prosecutor, op. cit., pp. 9-19 (part., pp. 18-19).

50. Cfr. B. Green e E. Yaroshefsky, Prosecutorial Accountability 2.0, op. cit., pp.64-66; B. Green, Prosecutorial Ethics As Usual, in University of Illinois Law Review, n. 5/2003, pp. 1573-1604.

51. Pone il problema in questi termini, con riferimento al livello statale, R.F. Wright, How Prosecutor Election Fail Us, in Ohio State Journal of Criminal Law, n. 2/2009, pp. 581-591.

52. Come supra nel testo, si continua a utilizzare questo termine per indicare in modo sintetico i prosecutors sub-statali.

53. R.F. Wright, How Prosecutor Election, op. cit., pp. 589-591; M. Tonry, Prosecutors and Politics in Comparative Perspective, in Crime and Justice: A Review of Research, n. 1/2012, pp. 12-14; A.J. Davis, Arbitrary Justice, op. cit., pp. 166-169.

54. M.J. Ellis, The Origins of the Elected Prosecutor, in Yale Law Journal, n. 6/2012, part. pp. 1547 ss.; osservazioni riprese anche da D. Richman, Accounting for Prosecutors, in M. Langer e D.A. Sklansky (a cura di), Prosecutors and Democracy, op. cit., p. 63. Sulla storia del prosecutor negli Usa, cfr. Anche A.J. Reiss, Public Prosecutors and Criminal Prosecution in the Unites States of America, in D.N. MacCormick (a cura di), Lawyers in their Social Setting, W. Green & Son Ltd., Edimburgo, 1976, pp. 82-84.

55. Si tratta del già ricordato R.F. Wright, How Prosecutor Election, op. cit., pp. 581-610 (il quale, d’altronde, non propone di superare l’elettività del prosecutor ma piuttosto consiglia di abbassare le aspettative nei confronti di essa).

56. Dato calcolato su di un campione di dieci Stati, sulla base dei risultati delle elezioni (comprese le primarie) del decennio 1996-2006.

57. Aspetto sottolineato in Italia già da G. Monaco, Pubblico Ministero e obbligatorietà, op. cit., p. 329.

58. R.F. Wright, How Prosecutor Election, op. cit., pp. 605-606.

59. R.F. Wright, Beyond Prosecutor Elections, in SMU Law Review, n. 3/2014, pp. 593-616. Con riferimento al tasso di conferma dei candidati uscenti, i risultati delle elezioni (comprese le primarie) tenute in quindici Stati in archi di tempo variabili da Stato a Stato, ma complessivamente compresi tra il 1996 e il 2014, la misura risulta essere del 94 per cento (a differenza del 95 per cento calcolato cinque anni prima). Nell’80 per cento dei casi, l’uscente era il solo candidato (lo studio precedente indicava l’84 per cento).

60. R.F. Wright, op. ult. cit., p. 593.

61. C.B. Hessick e M. Morse, Picking Prosecutors, in Iowa Law Review, n. 4/2020, pp. 1537-1590. Lo studio copre le elezioni che si sono svolte tra il 2014 e il 2017 in 45 Stati.

62. Si fa, a questo proposito, l’esempio di Larry Krasner, legato al movimento Black Lives Matter ed eletto nel 2018 District Attorney nella contea di Philadelphia. In generale, sul punto, cfr. C.B. Hessick e M. Morse, Picking, op. cit., pp. 1583-1585. Cfr. anche A.J. Davis, Prosecutors, Democracy and Race, op. cit., pp. 224-226. Sulla cd. progressive prosecution, cfr. da ultimo la sezione monografica ad essa dedicata in Journal of Criminal Law and Criminology, n. 4 /2020, https://scholarlycommons.law.northwestern.edu/jclc/vol110/iss4/.

63. Cfr., su questa obiezione, oltre ai due studi di Ronald Wright già citati, anche G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., pp. 160-162.

64. In fondo, il rischio di questa evenienza è riconosciuto proprio in C.B. Hessick e M. Morse, Picking, op. cit., pp. 1586-1587; sulla connessione emotiva del pubblico ministero americano con i suoi elettori (suggerendo che non necessariamente questo avvenga in senso “progressista”), cfr. M. Tonry, Prosecutors and Politics, op. cit., p. 12.

65. 28 USC 541(c).

66. Da ultimo, il memorandum del 29 gennaio 2021, disponibile su www.justice.gov (consultato da ultimo il 5 marzo 2021).

67. U.S. Reports: Morrison v. Olson, 487 U.S. 654 (1988), pp. 728-9. L’opinione è dissenziente non tanto perché la maggioranza della Corte rifiutasse la specifica tesi riportata nel brano citato, quanto perché essa veniva utilizzata in quel contesto da Scalia per sostenere l’incostituzionalità della legge federale istitutiva dello Special Prosecutor (Ethics in Government Act del 1978).

68. E da certa dottrina anche condivisa: S. Sun Beale, Rethinking the Identity, op. cit., pp. 416 e 429-430.

69. L’osservazione è di A.J. Davis, Arbitrary Justice, op. cit., p. 168.

70. Si riprende qui il titolo del contributo di G. Di Federico, Obbligatorietà dell’azione penale, coordinamento delle attività del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità, op. cit.

71. Come sintetizzato da F. Dal Canto, Lezioni, op. cit., p. 201. Per gli Autori che caldeggiano le due posizioni, cfr. nota 5; cfr., inoltre, i vari progetti di legge più volte citati in nota.

72. Cfr. la proposta revisione dell’art. 104 Cost. in A.C. n. 14 (art. 3, comma 1); o quella dell’art. 102 in A.S. n. 284 (art. 1, comma 1).
Per un quadro comparativo generale tra gli ordinamenti cfr. M. Mazza, Il potere giudiziario, in P. Carrozza - A Di Giovine - G.F. Ferrari (a cura di), Diritto costituzionale comparato, tomo II, Laterza, Roma-Bari, 2014, pp. 1071-1074 e 1077-1079; M. Volpi, La Magistratura, op. cit., pp. 404-408.

73. Sul punto, G. Gilliéron, Public Prosecutors, op. cit., pp. 73-75.

74. Diversa è, chiaramente, la questione dell’elezione del giudice nei termini in cui essa è resa possibile dall’art. 106, comma 2, Cost. (mai attuato sotto questo aspetto).

75. Altra cosa sarebbe assoggettare il pm nella sua interezza a tali forme di subordinazione o controllo da parte del Governo o del Parlamento, sulla scia di risalenti proposte caldeggiate decenni fa da O. Dominioni, Per un collegamento, op. cit., pp. 75 ss., e A. Pizzorusso, Per un collegamento fra organi costituzionali politici e pubblico ministero, in G. Conso (a cura di), Pubblico ministero e accusa penale, op. cit., pp. 41-43. Prospettiva che parrebbe accogliere anche il favore di N. Zanon, Pubblico Ministero e Costituzione, op. cit., pp. 211-213.

76. Ex multis, sent nn. 84/1979, 72/1991, 88/1991, 420/1995 (che sancì l’inapplicabilità dell’art. 101, comma 2 Cost. al pubblico ministero).

77. C. Guarnieri e P. Pederzoli, Il sistema giudiziario. L’espansione del potere giudiziario nelle democrazie contemporanee, Il Mulino, Bologna, 2017, pp. 85-86; cfr. anche M. Mazza, Il potere giudiziario, op. cit., pp. 1069-1074; sulla distinzione, per quanto approssimativa, di un modello “americano” professionale e di un modello “europeo” burocratico cfr. D.A Sklansky, Unpacking the Relationship between Prosecutors and Democracy in the United States, in M. Langer e D.A. Sklansky (a cura di), Prosecutors and Democracy, op. cit., pp. 277 ss.; M. Tonry, Prosecutors and Politics, op. cit., pp. 17-18.

78. In un quadro comparativo più generale, specie in chiave politologica, da tempo si suggerisce che è in corso un avvicinamento dei sistemi ad azione penale obbligatoria con quelli ad azione penale facoltativa: cfr. già C. Guarnieri, Pubblico ministero, op. cit., pp. 143 ss.; Id. e P. Pederzoli, Il sistema giudiziario, op. cit., pp. 81 ss.; G. D’Elia, Art. 112, op. cit., p. 2135; contra: M. Chiavario, Obbligatorietà dell’azione penale, op. cit., pp. 71-72 e 83-84, che sottolinea piuttosto la somiglianza fra il principio dell’art. 112 Cost. e principi “equivalenti” generalmente indicati come “principio di legalità” e molto diffusi in Europa, ma del tutto distinti da quello di opportunità; R.E. Kostoris, Per un’obbligatorietà temperata, op. cit., pp. 875 ss., sottolinea che, fra “legalità” (o obbligatorietà) e “opportunità” dell’azione sussiste comunque una differenza fondamentale e irriducibile, giacché la prima nega all’organo della pubblica accusa la possibilità di svolgere valutazioni di politica criminale, mentre la seconda gliela attribuisce per definizione.

79. Una probabile “resistenza” che intravede anche F. Vecchio, Pericolo populista, op. cit., p. 89.

80. Cfr. la nota 77.

81. Preoccupazioni che, invero, sembrano espresse anche in N. Zanon, Pubblico Ministero e Costituzione, op. cit., pp. 186-187.

82. Sul rischio di una violazione del principio di legalità penale ex art. 25, comma 2, Cost. cfr. B. Caravita, Obbligatorietà dell’azione penale e collocazione del pubblico ministero: profili costituzionali, in A. Gaito (a cura di), Accusa penale, op. cit., pp. 306-307; paventa il rischio di una sistematica disapplicazione della legge penale, ma non nega la possibilità che vengano adottate delle «linee guida», parlamentari o di altro organo, nell’ambito di un bilanciamento mirato a «perseguire con particolare prontezza le condotte che minano i beni fondamentali della convivenza civile», E. Marzaduri, Azione, op. cit., p. 21. Per il collegamento e l’interdipendenza tra le due disposizioni nella giurisprudenza costituzionale, vds. la storica sentenza n. 88/1991, che definì l’obbligatorietà dell’azione penale «punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venir meno ne altererebbe l’assetto complessivo»; ma già sent. n. 84/1979. Le sentenze sono consultabili sul sito della Corte costituzionale (www. cortecostituzionale.it).
Non si ignora che il diritto penale, in Italia, è già molto “instabile” a livello legislativo: si suggerisce però che, nella prospettiva in esame, la situazione potrebbe addirittura peggiorare.