Magistratura democratica

Discrezionalità, responsabilità, legittimazione democratica del pubblico ministero

di Giovanni Salvi

Un tempo l’esigenza della responsabilità del pubblico ministero aveva una risposta circolare: il pubblico ministero risponde a se stesso perché indipendente e vincolato alla obbligatorietà dell’azione. Ma la realtà dimostra che l’obbligatorietà dell’azione penale copre solo una parte dell’agire del pubblico ministero. Di qui l’esigenza di un’attenta riflessione sugli spazi di discrezionalità del pubblico ministero e sui meccanismi istituzionali attraverso cui questi assume la responsabilità sociale, professionale e istituzionale delle scelte che l’ordinamento gli chiede di compiere. 

1. Il più debole dei poteri? / 2. Il tema della legittimazione democratica dell’azione del pubblico ministero / 3. Discrezionalità e responsabilità / 4. Certezza del diritto e prevedibilità delle decisioni riguardano anche il pubblico ministero / 5. Il banco di prova della pandemia 

 

1. Il più debole dei poteri?

Il più debole dei poteri? Così nel 1788 Publius (Alexander Hamilton) definiva il potere giudiziario rispetto all’esecutivo, nel famoso n. 78 dei Federalist Papers. Hamilton aveva dinanzi il sistema giudiziario di origine anglosassone e dunque non considerava nella definizione il pubblico ministero, ignoto in quell’ordinamento. I poteri oggi esercitati dal pubblico ministero erano allora attribuiti all’esecutivo. Si spiega bene, dunque, come Hamilton-Publius potesse dire che il giudiziario era privo di forza (the Sword) e di autonoma capacità a determinarsi (the Will), rispettivamente dell’esecutivo e del Parlamento. 

In questi stessi anni in Francia emergeva, dal tentativo di limitare gli abusi di un potere giudiziario radicato nelle strutture sociali feudali, il corpo professionale intermediario tra esecutivo e giudiziario e che poi sarebbe divenuto il magistrato del parquet, in piedi dinanzi al giudice, che siede.

Per più di due secoli questa contrapposizione ha dominato la scena. Alla fine del secondo millennio, tuttavia, essa appariva ormai inadeguata a comprendere appieno la complessità delle relazioni tra i due sistemi. Nel 2009 un influente saggio di David Alan Sklansky, Anti-Inquisitorialism[1], descriveva le profonde trasformazioni parallelamente avvenute negli Stati Uniti e in Europa nei sistemi giudiziari, riconducendole a diversi fattori, tra cui il ruolo delle corti sovranazionali e il loro indiretto riflesso anche nella giurisprudenza delle corti superiori statunitensi[2].

È ormai impossibile definire un modello puro, che ripercorra le linee della contrapposizione storica. Anche elementi un tempo definibili come caratterizzanti (ad esempio, in Italia, l’obbligatorietà dell’azione penale, o in Inghilterra e Galles il peculiare ruolo svolto dall’avvocato nella presentazione del caso al giudice) sono ormai contaminati nella loro purezza, quando non del tutto obliterati, e trasversalmente comuni a esperienze diverse. Nella direzione della omogeneizzazione si vanno sempre più dirigendo i Paesi europei, ancora una volta sotto la spinta potente della giurisprudenza della Corte Edu. Così, la ricerca dell’indipendenza del pubblico ministero colora il rapporto con l’esecutivo, anche laddove non muta la dipendenza funzionale; penso alla Francia e alla riforma del 2013 sulle istruzioni del Ministro. Queste tendenze aprono spazi un tempo impensabili all’indipendenza interna e fanno riflettere sugli effetti positivi della unicità delle carriere. La costituzione del Crown Prosecution Service in Inghilterra e Galles si sposa con l’indicazione di guidelines pubbliche e raggiunte a seguito del coinvolgimento della collettività nella loro deliberazione, limitandone la discrezionalità. 

Ogni Paese adatta il modello di pubblico ministero, ereditato dallo Stato nazionale, alle esigenze di omogeneità e di rispetto della rule of law, derivante dall’adesione a strumenti convenzionali e dalle necessità di dialogo tra sistemi, imposte dalla transnazionalità dei crimini e dei processi. Così, pubblici ministeri di Paesi di lunga tradizione democratica si vedono preclusa dalla Corte Edu la qualità di autorità giudiziaria, a causa del rapporto di dipendenza dall’esecutivo o di direttive vincolanti, mentre per vero, anche in quelle realtà, prassi costanti e vincoli deontologici congiurano verso l’acquisizione di indipendenza di fatto.

Il modello di pubblico ministero si porrà in termini di non facile soluzione quando entrerà in funzione il procuratore europeo. La frizione tra esperienze diverse entrerà di forza nei singoli ordinamenti, creando potenziali conflitti di non facile soluzione.

 

2. Il tema della legittimazione democratica dell’azione del pubblico ministero 

Il più interessante sviluppo di questo lento processo è a mio avviso costituito dal tema della responsabilità, della legittimazione democratica dell’azione del pubblico ministero. Mi riferisco alla accountability di derivazione anglosassone; non è un caso che il nostro vocabolario renda incerta la traduzione, costringendoci a chiarire a quale “responsabilità” ci riferiamo. Mi occuperò degli aspetti più prossimi alla gestione dell’ufficio del concetto di responsabilità, affrontando solo indirettamente quelli più generali, attinenti alla legittimazione di una funzione pubblica nel contesto di una democrazia procedurale. 

Un tempo l’esigenza della responsabilità del pubblico ministero aveva una risposta circolare: il pubblico ministero risponde a se stesso perché indipendente e vincolato alla obbligatorietà dell’azione. L’elaborazione del Csm aveva cercato di rompere questo circolo, ponendosi quale chiusura del circuito di responsabilità, nell’ambito del governo autonomo. Il pregiudizio anticonsiliare portò il legislatore del 2006 ad affermare la titolarità esclusiva dell’azione nel capo dell’ufficio di procura, prefigurando un ordinamento interno gerarchico, anche se in maniera incompleta e parzialmente corretta da interventi normativi successivi. Restava però in tutta la sua evidenza il dilemma semantico: il procuratore era responsabile nel senso di essere titolare dell’azione, ma non responsabile nel senso di rispondere a qualcuno del suo agire. Un grande potere senza responsabilità, nel senso di accountability

L’obbligatorietà dell’azione penale copre, in realtà, solo una parte dell’agire del pubblico ministero e non necessariamente la più rilevante. Occorre intendersi. Il principio di obbligatorietà si sostanzia nell’individuazione dell’organo che decide sul non esercizio dell’azione; è dunque un tema di distribuzione dei poteri. Esso ha molte implicazioni, sia di carattere processuale che istituzionale e ordinamentale. La Corte costituzionale ne ha tratte in ogni campo, rendendoci consapevoli della sua importanza come principio, anche al di là degli effetti procedimentali. Esso si lega strettamente all’indipendenza dell’organo e dei magistrati che lo compongono; ha dunque effetti anche sulla struttura interna dell’ufficio del pubblico ministero e vale ad attenuarne il carattere gerarchico.

Un riflesso fondamentale di quel principio per la discussione odierna è costituito dalla estensione anche al pubblico ministero della costruzione di quello giudiziario come potere diffuso. Ogni procuratore della Repubblica (e, in alcune esasperazioni, ogni magistrato del pubblico ministero) è di conseguenza autonomo nell’interpretazione della legge e financo nelle scelte di attuazione organizzativa della legge. 

Il rispetto della obbligatorietà dell’azione implica che le scelte sulla non azione siano sottoposte al controllo giudiziario (e non di altri organi) e in applicazione della legge. La legge può prevedere anche casi di non azione (o di abbandono dell’azione) che si basino su ragioni di opportunità (ad esempio, la non necessità di perseguire fatti di minore rilevo, quando il danno è risarcito o vi è un ravvedimento operoso, etc.), che siano però formalizzate e dunque sottoponibili a controllo sulla base di parametri stabiliti ex ante.

 

3. Discrezionalità e responsabilità 

La discrezionalità non è il mondo dell’abuso e dell’arbitrio; essa sostanzialmente è sottoposta a non minori possibilità di controllo. A cambiare sono i parametri e la dislocazione del potere e dunque della responsabilità.

A una prima approssimazione possiamo dunque accontentarci di questa prima risposta. In un modello che si basi sull’obbligatorietà dell’azione, il pubblico ministero risponde al giudice.

In realtà, già questa prima, elementare risposta appare subito del tutto inadeguata.

Il controllo del giudice riguarda il caso concreto a lui sottoposto e non potrebbe essere diversamente. Ma quel singolo caso arriva al giudice a seguito di scelte dell’ufficio e del delegato che hanno aspetti di grande discrezionalità, non sottoponibili a controllo ma – semmai – a integrazione (con l’ordine del giudice di procedere a nuove indagini in sede di archiviazione, o con la diretta integrazione in udienza): dalla distribuzione delle risorse alle scelte di carattere generale sull’organizzazione delle indagini fino alle scelte del magistrato designato.

Già le scelte di investigazione nel singolo procedimento sono cariche di opzioni discrezionali. Ancora di più lo sono quelle (ci si augura non inconsapevoli) che incidono indirettamente sulla funzionalità dell’ufficio e dunque sulla effettività delle scelte investigative. 

Si pensi alle implicazioni delle opzioni sulla iscrizione della notizia di reato, recentemente ben evidenziate dalla circolare del procuratore della Repubblica di Roma. 

L’organizzazione dell’ufficio per dipartimenti o gruppi specializzati ha poi un effetto indiretto ma decisivo sull’efficacia delle indagini. Scelte di attribuzione degli affari a seconda di criteri diversi (anzianità, disponibilità, specializzazione, competenza, etc.) non sono certo neutre negli effetti che ne derivano.

Si potrebbero fare molti esempi. Oggi quello più chiaro è costituito dai criteri di priorità. Essi non sono, a mio parere, in contrasto con il principio di obbligatorietà (almeno quando si tratti di postergazione e non di dismissione), ma pongono certamente il problema della responsabilità. Sono scelte rilevantissime e solo in parte disciplinate dal legislatore. Esse comportano vere e proprie scelte di politica criminale. Quali reati perseguire e con quali mezzi. Non punire sistematicamente alcune tipologie di illeciti che più direttamente colpiscono fasce deboli della popolazione, come le truffe o le percosse e le minacce, ad esempio, corrisponde a scelte non irrilevanti e può contribuire ad abbassare la percezione della illegalità.

L’efficacia dell’azione del pubblico ministero è, poi, altro tema sensibile. Nella relazione introduttiva dell’anno giudiziario 2020, il mio ufficio ha cercato di riportare a realtà i fantasiosi numeri che circolavano sugli esiti dibattimentali dell’azione, dando la sensazione che in più del 50 per cento dei processi l’ipotesi accusatoria fosse smentita. I dati, depurati dei falsi echi, danno invece una risposta opposta. D’altra parte, se si scendesse oltre un certo livello (diciamo il 20 per cento) di reali assoluzioni, la critica sarebbe quella – tante volte sentita – dell’appiattimento del giudice sul pubblico ministero…

Dunque, non si tratta della logica del vincere o perdere. Tuttavia, una eventuale sistematica smentita del lavoro del pubblico ministero, significativamente oltre il limite che ho indicato, porrebbe la questione delle scelte operate: eccesso di criminalizzazione? Indagini mal gestite? Cattiva preparazione dell’udienza? Oppure giudice inadeguato (alternativa pure possibile)?

Queste scelte non possono restare prive di valutazione e, se del caso, di responsabilità.

La consapevolezza della necessità di rispondere delle opzioni fatte si va ormai diffondendo e ne è esempio la proliferazione dei “bilanci sociali”. Tuttavia, dalla lettura di molti di questi elaborati collettivi emerge – a parte l’irritante citazione delle “missioni” – la scarsità degli strumenti di conoscenza su cui basare il proprio bilancio, che rischia perciò di essere autoreferenziale; per questa ragione ho preferito definire quelli del mio ufficio di procura, a Catania, come consuntivi, termine nel quale mi sembra più evidente la impossibilità di valutare l’effettivo impatto esterno.

Non bisogna avere paura dei meccanismi di controllo ai fini della responsabilità e anche di quelli sostitutivi che ne possono derivare. 

Il Csm ha meritoriamente ripreso gli spazi di controllo sull’ufficio del pubblico ministero con passi lenti e timorosi, visto che essi possono apparire in contrasto con la voluntas legis, come con chiarezza affermato dal Presidente della Repubblica nella lettera indirizzata al Consiglio su questo tema nel 2007.

Si è così passati dalla puntigliosa (e a mio parere controproducente) disciplina di singoli aspetti, soprattutto a tutela dei magistrati dell’ufficio (in materia di applicazioni, sostituzioni, etc.) alla visione complessiva del progetto organizzativo.

Questo diviene finalmente centrale. Esso fonda le successive scelte ed è a sua volta fondato sull’analisi dei flussi procedimentali, sulla conoscenza delle caratteristiche specifiche della criminalità del territorio; viene formato nella condivisione interna e all’esterno, e attraverso una procedura che prevede le interlocuzioni opportune. 

La strada da perseguire non è – a mio parere – la diminuzione dei poteri della dirigenza, ma la regolamentazione della discrezionalità, facente perno su alcune, poche previsioni e sull’obbligo di motivazione delle scelte nelle quali si esercitano quei poteri, non stereotipata e dunque controllabile.

Vi sono diffuse preoccupazioni, negli uffici di procura, per l’espansione del controllo consiliare sul progetto organizzativo. In parte esse sono generate dall’esperienza delle tabelle degli uffici giudicanti e dunque dalla minuziosa e defatigante disciplina di ogni aspetto della gestione di un tribunale o di una corte (e non mi pare un caso che le domande per il posto di presidente del Tribunale di Palermo siano solo quattro…).

In effetti, il progetto organizzativo e in genere l’organizzazione di una procura della Repubblica rispondono a logiche molto diverse da quelle di un tribunale. La procura non è solo soggetta al principio di titolarità dell’azione nel procuratore, che ne informa di conseguenza l’azione, e che è speculare rispetto alla diffusione del potere che caratterizza necessariamente il giudice; quest’ultimo aspetto si lega al principio costituzionale del giudice naturale, irrigidendo il sistema tabellare. Sistemi, quello tabellare e quello del progetto organizzativo, che rispondono a logiche e necessità diverse.

Nella disciplina che il Csm si appresta a fare dell’organizzazione degli uffici di procura deve dunque restare ben chiara questa differenza di fondo.

Altro settore di grande delicatezza è costituito dai meccanismi di controllo e coordinamento verticali. È ormai acquisita la consapevolezza della necessità che l’azione del pubblico ministero risponda a criteri di uniformità, oltre che di correttezza. Ciò è espressamente previsto dall’art. 2 d.lgs n. 106/2006, che dispone tra l’altro il dovere del procuratore, «titolare esclusivo dell’azione penale», di determinare «i criteri generali ai quali i magistrati addetti all’ufficio devono attenersi nell’impiego della polizia giudiziaria» e definisce «i criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti».

 

4. Certezza del diritto e prevedibilità delle decisioni riguardano anche il pubblico ministero

L’uniformità va però oltre il singolo ufficio e investe l’agire del pubblico ministero come attuatore delle previsioni normative e dunque, sia pure indirettamente, della politica criminale delineata dal legislatore. 

L’esigenza di certezza del diritto, come prevedibilità della decisione e non precedente vincolante, che è alla base della funzione nomofilattica della Corte, si pone anche per il pubblico ministero e addirittura in termini ancora più ampi.

«La prevedibilità investe infatti l’intero agire del pubblico ministero, sin dalla deliberazione dell’iscrizione della notizia di reato. Tema ben compreso da alcune Procure, che hanno inserito nei progetti organizzativi direttive circa le iscrizioni, formando così un quadro chiaro e, appunto, prevedibile.

Ogni passaggio dell’azione del pubblico ministero ha riflessi importanti sulla vita delle persone e degli organismi sociali, a partire dalle imprese. Solo il perseguimento di un quadro di certezza su modalità e limiti dell’esercizio dei poteri del pubblico ministero può consentire uno sviluppo economico ordinato, in un contesto di legalità»[3].

A questo obiettivo dovrebbe concorrere il circuito dei procuratori generali, d’appello e poi di cassazione, come previsto dall’art. 6 d.lgs n. 106/2006 e da altre fonti sparse, relative a settori (ad esempio, quello ambientale) o adempimenti specifici (ad esempio, il controllo sulle modalità di iscrizione delle notizie di reato; la gestione della polizia giudiziaria). Queste attribuzioni costituiscono un aspetto nuovo e molto importante di una effettiva responsabilità (accountability) procedurale. L’equivoco sorto inizialmente le riconduceva al concetto di coordinamento e spingeva verso qualche torsione nel campo del coordinamento investigativo. Nulla di più sbagliato.

L’art. 6 delinea funzioni di stimolo alla uniformità dell’approccio organizzativo e di interpretazione delle procure della Repubblica, e dunque consiste nel coordinamento non gerarchico tra uffici. La nuova funzione può collegarsi anche ai poteri autoritativi dei procuratori generali, dalla risoluzione dei contrasti all’avocazione nei casi di inerzia e all’avocazione per dissenso sull’archiviazione (e negli altri casi analoghi), alle attribuzioni di vigilanza e disciplinari, anche sulla polizia giudiziaria. 

In quanto tale, essa è però priva di strumenti autoritativi di conformazione diretta, dovendo invece basarsi sull’autorevolezza e sulle possibili conseguenze in sede di conferma del dirigente. 

Il terreno non è semplice ma è di fondamentale importanza per equilibrare le opposte esigenze di riconoscimento della responsabilità (nel senso di attribuzione della stessa) del dirigente dell’ufficio e, dunque, della possibilità di scelte organizzative adeguate al territorio, con quelle di tendenziale uniformità e di efficacia della risposta alla domanda di giustizia. 

Le reazioni degli uffici di procura sono inizialmente state molto forti, tanto da premere per la soppressione delle procure generali e, ancor oggi, da porre ostacoli all’accesso alle informazioni necessarie perché gli uffici generali possano svolgere efficacemente il ruolo di vigilanza che la legge attribuisce loro, ad esempio circa le iscrizioni delle notizie di reato. 

Non è un caso che la prima applicazione dell’art. 6, risalente al 2010, riguardò proprio questo tema, esplorando – a partire da una segnalazione disciplinare ma distinguendosi nettamente da questa – l’utilizzo del modello 45 (fatti non costituenti reato) con prassi del tutto divergenti sul territorio nazionale e tali da mettere in dubbio la trasparenza della funzione di iscrizione; funzione delicatissima, sia perché da essa discendono conseguenze processuali, sia per il potere di cestinazione diretta delle “iscrizioni” nel registro 45, con la conseguente vanificazione del controllo del giudice.

Fortunatamente queste reazioni sono ormai cosa del passato, mentre le procure generali hanno maturato la consapevolezza dei limiti delle proprie attribuzioni, così delineandosi ora un clima collaborativo che ha dato risultati molto positivi.

La creazione della rete dei procuratori generali per l’esercizio delle funzioni loro attribuite nel coordinamento delle attività sui reati ambientali è stata un passo importante; essa ha consentito, da un lato, di affrontare temi organizzativi (ad esempio, nel rapporto con gli organi dell’amministrazione regionale) e, dall’altro, di adottare approcci investigativi comuni sul piano metodologico.

 

5. Il banco di prova della pandemia

L’emergenza della pandemia è stata un banco di prova straordinario. La necessità di uniformità di approccio a un’emergenza del tutto nuova ha portato alla realizzazione di un modulo collaborativo che ha coinvolto le procure della Repubblica, anche per il tramite di quelle generali.

La Procura generale della Cassazione ha raccolto le sollecitazioni provenienti dagli uffici di merito e ha quindi avviato una costante interlocuzione, attraverso gli strumenti resi disponibili sul web, formalizzata e destinata al raggiungimento di “dispositivi” e cioè di indicazioni precise, frutto della condivisione, emanate attraverso circolari. Gli esiti di questa interlocuzione non sono “direttive” in senso stretto, perché non vincolanti; i provvedimenti emessi sono ciò nonostante di grande importanza conformativa, basati sulla autorevolezza derivante dalla fonte e soprattutto dal metodo seguito per la loro definitiva redazione.

Il lavoro preparatorio e le circolari sono ora disponibili sul sito della Procura generale della Cassazione. I principali settori sono i seguenti:

Azioni volte a ridurre la popolazione carceraria per consentire il distanziamento interno e per limitare gli spostamenti extramurari. Le iniziative assunte in attuazione di queste linee-guida hanno consentito risultati efficaci; al tempo stesso, la loro esistenza ha fornito una base di legittimazione per il posponimento di attività altrimenti considerate doverose, come l’emissione di provvedimenti in sede esecutiva. Le linee-guida sono state oggetto di esame anche all’estero e costituiscono uno dei documenti in discussione nel congresso annuale dei presidenti delle Corti supreme. Esse hanno avuto ulteriori sviluppi, in collaborazione anche con le strutture ministeriali, per avviare a soluzione l’annoso problema delle persone ai margini della società, prive di alloggio nel quale poter essere ammessi a misure alternative. Questa doppia punizione, basata sull’emarginazione sociale, è di per sé assai grave, ma in periodo di pandemia lo è ancora di più, in quanto l’impossibilità di realizzare il distanziamento attraverso le misure non carcerarie per tali soggetti determina la necessità di scarcerare detenuti certamente di maggiore pericolosità.

Azioni finalizzate a valutare gli effetti della pandemia sul concetto di colpa medica, sia in relazione alle linee-guida per le strutture sanitarie, sia più in generale circa i profili di responsabilità nella gestione della risposta alla pandemia. Obiettivo del lavoro è costituito dall’approccio uniforme, adeguato alla straordinaria novità della pandemia.

Azioni finalizzate a considerare gli effetti della pandemia sulla crisi di impresa, sia sotto il profilo delle caratteristiche dell’insolvenza, sia sotto quello dei meccanismi di allerta e di risoluzione. Il lavoro, con la collaborazione delle principali istituzioni e di alcuni dei maggiori studiosi delle materie interessate, e dunque assicurando interdisciplinarietà, ha elaborato importanti linee-guida per consentire sia un approccio uniforme delle procure, sia la piena comprensione da parte di queste delle modificazioni nelle modalità di lavoro, conseguenti alle caratteristiche specifiche dell’insolvenza. Il lavoro prosegue ora per i profili concernenti i meccanismi di allerta e di risoluzione, oltre che per la preparazione degli uffici all’entrata in vigore del codice della crisi di impresa, il cui rinvio è stato chiesto dal mio ufficio come uno degli esiti della interlocuzione con gli uffici di merito.

Questi interventi originati dall’emergenza si sono affiancati ad altri, di ordinaria amministrazione, come quelli volti a contribuire alla omogenea risoluzione dei problemi emergenti nella prima applicazione della disciplina sulle intercettazioni, o di quelli attinenti ai rapporti tra le procure della Repubblica e la Procura nazionale antimafia nel campo delle “sos” (“segnalazioni per operazioni sospette”).

La Procura generale della Corte contribuisce così a porre le basi del controllo a fini di responsabilità dell’azione delle procure, predisponendo una base condivisa, utile per rapportarvi le scelte operate dagli uffici di merito e per valutarne gli effetti. 

Questo contributo potrebbe valere a rendere più efficace il controllo operato dal circuito del governo autonomo sugli indicatori che la legge ha già definito in termini generali per le procure: oltre a quelli dell’efficienza rispetto ai flussi procedimentali e alla dislocazione delle risorse, la correttezza nella gestione dell’ufficio, a partire dall’iscrizione della notizia di reato, la puntualità e l’uniformità nell’esercizio dell’azione penale (e, più in generale, nell’agire dell’ufficio).

Resta da lavorare su alcuni aspetti, che qui mi limito ad accennare.

Oltre all’efficienza in senso statistico, occorrerebbe valutare anche l’efficacia dell’azione, sia in termini di risultati (nei limiti sopra indicati), sia in termini di impatto sull’illegalità. Entriamo qui nel campo minato della prevenzione generale e delle politiche criminali; che il campo sia minato implica non che non ci si debba entrare, ma che sia necessario essere consapevole dei suoi rischi. 

Una reale conoscenza di questi aspetti implica la disponibilità di strumenti adeguati alla bisogna, innanzitutto sul piano statistico[4]. Si pone quindi il tema dell’accesso ai registri, garantendosi la tutela della riservatezza dei dati sensibili.

I meccanismi di valutazione del Csm sono ancora inadeguati, basati come sono sulla riconferma al quadriennio e sugli effetti indiretti per nomine successive del giudizio non positivo. 

Il percorso per la costruzione di una responsabilità (accountability) della dirigenza, fondata su di una rete normativa primaria e secondaria e sull’esistenza di una base conoscitiva adeguata dell’azione della dirigenza, è ormai ben avviato. Si tratta di una responsabilità procedurale, che sfocia nella valutazione del circuito del governo autonomo, del quale costituiscono pietre di fondazione i singoli magistrati, che vi partecipano sin dal progetto organizzativo. Di questo circuito fanno parte sia i procuratori generali di appello, che vi contribuiscono anche nella partecipazione ai consigli giudiziari, sia il procuratore generale della Cassazione. 

 

 

1. D.A. Sklansky, Anti-Inquisitorialism, in Harvard Law Review, vol. 122, n. 6/2009, pp. 1634 ss.

2. Segnale di questo avvicinamento fu, infatti, anche la citazione di decisioni di corti europee in sentenze della Corte suprema, peraltro in casi divisivi, come la pena di morte, la legittimità della criminalizzazione dell’omosessualità o le affirmative actions. Ammissibilità e scopo di tali riferimenti furono oggetto di una celebre discussione tra i giudici della Corte suprema Scalia e Breyer, aperta dalla domanda del costituzionalista Dorsen: «When we talk about the use of foreign court decisions in U.S. law, do we mean them to be authority or persuasive, or merely rhetorical?». Cfr. N. Dorsen, The Relevance of Foreign Legal Materials in U.S. Constitutional Cases: A Conversation Between Justice Antonin Scalia and Justice Stephen Breyer, in International Journal of Constitutional Law, vol. 3, n. 4/2005, p. 519.

3. Vds. l’Intervento del procuratore generale della Corte cassazione (inaugurazione dell’Anno giudiziario 2020), Roma, 31 gennaio 2020, pp. 7-8, www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/RELAZIONE_PROCURATORE_GENERALE_2020.pdf.

4. A questo proposito, nel citato Intervento inaugurale per il 2020 si scriveva: «Il presupposto di ogni intervento è la conoscenza accurata della situazione nella quale si opera. Il decisore pubblico, Legislatore, Governo, Consiglio superiore della magistratura e insieme anche i dirigenti degli uffici giudiziari, quando operano attraverso gli strumenti organizzativi loro attribuiti, devono disporre di informazioni accurate e corrette.
Tra queste, ineliminabile, il dato statistico. Da alcuni anni vi è finalmente un significativo impegno del Ministero della Giustizia tramite la sua Direzione generale di statistica e analisi organizzativa (da qui in avanti indicata con l’acronimo “DG-Stat”). La cultura della conoscenza del dato si è diffusa solo recentemente negli uffici giudiziari. In passato guardata con sospetto, perché ritenuta parte di un approccio ai temi della giurisdizione aziendalista, produttivistico. La comprensione dell’utilità della conoscenza approfondita del proprio lavoro e del flusso procedimentale, del loro inserirsi nel contesto istituzionale e sociale del territorio, è ormai patrimonio acquisito, anche grazie allo sforzo del Consiglio superiore della magistratura in questa direzione, attraverso il ruolo attribuito alla commissione flussi ed ai programmi di gestione, solo di recente estesi anche al settore penale. 
I sistemi di iscrizione delle notizie di reato e di registrazione degli eventi procedimentali sono stati infatti concepiti secondo logiche che non prevedevano l’esame e la comunicazione del dato; essi inoltre scontano gravemente i ritardi nelle assunzioni del personale amministrativo e dunque anche di personale che, per età e preparazione, sia in grado di affrontare la quotidianità del lavoro digitale. Non vi è dubbio che abbiano pesato anche gelosie istituzionali sulla proprietà del dato, correlate alla particolare conformazione dei rapporti tra responsabili dell’amministrazione, devoluta al Ministero, e giurisdizione strutturata in potere diffuso. Gelosie non irragionevoli e volte a tutelare la reale indipendenza della magistratura requirente. Non hanno agevolato la soluzione del problema iniziative quali quella del Legislatore del 2016, ritenuta in violazione delle attribuzioni del pubblico ministero dalla Corte costituzionale.
Tale complessiva situazione rende molto difficile il lavoro della DG-Stat e dei suoi ottimi statistici, soprattutto nel settore penale. È dunque urgente il completamento del riordino tra la DG-Stat e la Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati (“DGSIA”) volto ad adeguare i registri informatici e a far sì che essi diano effettivamente conto, in maniera certa, di tutte le informazioni per le quali non vi siano ragioni di riservatezza procedimentale» (ivi, pp. 14-15).