Magistratura democratica

Stato di diritto e funzione requirente in Italia: un unicum europeo?

di Giovanni Tarli Barbieri

Il contributo si propone, in primo luogo, di evidenziare i caratteri essenziali del pubblico ministero codificati nella Costituzione repubblicana, all’interno del quadro più generale del “modello italiano di ordinamento giudiziario”. In particolare, si sostiene che le lamentate contraddittorietà insite nel disegno costituzionale sono più apparenti che reali, anche grazie all’opera di attuazione e razionalizzazione dello stesso compiuta dal legislatore, dalla Corte costituzionale e dal Csm. In secondo luogo, viene data una valutazione delle più recenti proposte di riforma che interessano quest’organo, sia sul piano costituzionale che legislativo, con particolare riferimento alla cd. “separazione delle carriere” e, soprattutto, alla prospettata introduzione di “criteri di priorità” nell’esercizio dell’azione penale.

1. Il pubblico ministero nell’esperienza italiana: una figura complessa / 2. Il pubblico ministero in una prospettiva storica / 3. Il pubblico ministero quale elemento qualificante del modello italiano di ordinamento giudiziario / 4. Esiste un modello di pubblico ministero previsto dalla Costituzione? / 5. Le prospettive di riforma: in particolare, la proposta di legge costituzionale promossa dall’Unione delle Camere penali / 6. Le altre proposte di riforma a livello legislativo

 

1. Il pubblico ministero nell’esperienza italiana: una figura complessa

«Fra tutti gli uffici giudiziari, il più arduo mi sembra quello del pubblico accusatore: il quale, come il sostenitore dell’accusa, dovrebb’essere parziale al pari di un avvocato; e, come custode della legge, dovrebb’essere imparziale al pari di un giudice. Avvocato senza passione, giudice senza imparzialità: questo è l’assurdo psicologico nel quale il pubblico ministero, se non ha uno squisito senso di equilibrio, rischia ad ogni istante di perdere per amor di serenità la generosa combattività del difensore, o per amore di polemica la spassionata oggettività del magistrato».

Questa nota citazione[1] mette efficacemente in evidenza la centralità ma insieme tutta la problematicità dell’inquadramento costituzionale del pubblico ministero nell’ordinamento italiano[2], non a caso in passato, ma ancora oggi, oggetto in dottrina di ricostruzioni diverse, ma in un certo senso accomunate dalla constatazione di una sorta di ambiguità del disegno costituzionale stesso[3] che apparirebbe «non pienamente lineare ed anzi in certo modo ibrido»[4]; non a caso, una più recente monografia sul sistema costituzionale della magistratura parla dell’istituto del pubblico ministero come «tra i più controversi quanto a natura giuridica, organizzazione interna, ruolo nei diversi tipi di processo e collocazione nell’ambito più generale dell’ordinamento costituzionale»[5].

Proprio questa diffusa tesi ha contribuito ad alimentare dibattiti e anche proposte di riforma più o meno meditate, ancor più a partire dall’inizio degli anni novanta, allorché i rapporti tra la politica e la giurisdizione hanno assunto connotati polemici e spesso conflittuali, culminati nella stagione di “Mani pulite”; in questo periodo le procure, secondo i critici, «si sono atteggiate a rappresentanti delle opinioni e dei valori dominanti nella società, capaci di instaurare un rapporto diretto con l’opinione pubblica, e pertanto legittimate ad incidere sullo stesso processo di formazione dell’indirizzo politico»[6], il pubblico ministero ha assunto «un risalto straordinario» e le sue funzioni sono state percepite dall’opinione pubblica in tutta la loro rilevanza sociale e istituzionale, radicandosi «nel cuore stesso dei meccanismi che fondano la democrazia»[7].

In questa stagione nel dibattito sull’interpretazione dei precetti costituzionali relativi al pubblico ministero, come giustamente è stato osservato, «si sono intrecciate argomentazioni squisitamente giuridiche ed esegetiche e prese di posizione politiche ed ideologiche» e «spesso le seconde sono state sorrette (e talvolta mascherate) dalle prime»[8]; non solo, ma si sono radicate anche equivoche e paradossali ricostruzioni nei rapporti tra responsabilità politica e responsabilità penale: le stesse parti politiche che hanno denunciato a più riprese il protagonismo dei pubblici ministeri e l’uso politico della giustizia, hanno avallato la tesi secondo la quale ciò che non costituisce reato è irrilevante anche sul piano politico, così favorendo di fatto proprio un’obiettiva “supplenza” giudiziaria.

 

2. Il pubblico ministero in una prospettiva storica

Ai fini dell’inquadramento del pubblico ministero è di grande utilità un approccio di tipo storico, che consente anche di comprendere talune delle apparenti incertezze che il quadro costituzionale vigente presenta[9].

È noto che l’ordinamento italiano in epoca liberale è stato profondamente debitore del modello francese, che aveva visto una singolare continuità tra l’Ancien régime e l’esperienza liberale[10]: emblematico il fatto che lo Statuto albertino non si riferisse ai magistrati del pubblico ministero (fatta eccezione per una fugace menzione, nell’art. 70, alla conservazione dei magistrati e dei giudici esistenti all’entrata in vigore dello Statuto stesso).

In questa sede non è possibile ricostruire analiticamente la disciplina legislativa in epoca liberale, salvo evidenziare come essa fosse connotata, nell’ambito di una concezione statocentrica, dal primato del Governo sulle istituzioni giudiziarie[11]. In questo ambito, la figura del pubblico ministero si rivelò «uno strumento particolare dell’ingerenza dell’esecutivo sui giudici». In quanto rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, era posto sotto la direzione del Ministro della giustizia, che attraverso circolari impartiva veri e propri ordini che dai procuratori generali rifluivano su quelli inferiori, influenzando anche i giudici (art. 129 rd n. 2626/1865)[12]; erano pertanto ampie le prerogative ministeriali relative allo status dei procuratori (nomine, promozioni, trasferimenti, dispense dal servizio). Né, da questo punto di vista, le riforme successive alla crisi di fine secolo scalfirono in profondità detta dipendenza.

In definitiva, quindi, il pubblico ministero era in questo periodo «l’anello di una catena che legava l’intero ordine giudiziario all’esecutivo»[13], come si è accennato «traghettando all’interno dello Stato liberale una delle istanze più arcaiche dell’assolutismo»[14].

D’altra parte, la dipendenza dei pubblici ministeri dal potere esecutivo costituiva in epoca liberale un tassello di una più profonda caratteristica dell’ordinamento italiano pre-repubblicano, ovvero il mancato sviluppo e consolidamento delle garanzie del potere giudiziario[15].

In questo contesto, come peraltro anche in altre materie, il fascismo non ebbe necessità di introdurre riforme radicali, essendo la soggezione dei pubblici ministeri all’Esecutivo pienamente coerente con le aspettative del regime. Il punto di arrivo è costituito dal regio decreto n. 12/1941, recante la normativa in materia di ordinamento giudiziario, il quale riconduceva sì il pubblico ministero all’interno dell’ordine giudiziario (art. 4, comma 1), ma lo poneva «sotto la direzione del Ministro di grazia e giustizia» (art. 69), inquadrandolo in un modello organizzativo fortemente gerarchizzato (art. 70, comma 3)[16].

Non stupisce, quindi, che il codice di procedura penale del 1931 valorizzasse all’estremo le prerogative del pubblico ministero a partire dalla conduzione dell’istruzione sommaria e dalla possibilità per questi di adottare provvedimenti limitativi della libertà personale: si è perciò parlato del pubblico ministero come di una sorta di “paragiudice”[17].

Ciò detto, per comprendere adeguatamente le scelte operate dalla Carta fondamentale, è necessario precisare che nel periodo costituzionale provvisorio furono operate scelte importanti e, in qualche misura, condizionanti il dibattito in seno alla Costituente: fu attenuato il vincolo di dipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo, ripristinando il controllo giurisdizionale sulle richieste di archiviazione (art. 6 d.lgs lgt. n. 288/1944) ed estendendo a esso la prerogativa dell’inamovibilità, con l’eliminazione del vincolo di dipendenza gerarchica dal Ministro della giustizia (artt. 13 e 39 rd.lgs n. 511/1946)[18]. Si è pertanto affermato che «l’art. 112 della Costituzione probabilmente esiste, nella sua attuale formulazione, in ragione di tali riforme che ne hanno tracciato la strada e che esigevano rafforzamento ed asseverazione democratica mediante un “ancoraggio” nella Carta fondamentale»[19].

All’interno della Costituente non mancarono, come è noto, divisioni anche profonde relativamente alle previsioni da inserire nella Carta fondamentale sul pubblico ministero, emblematicamente sintetizzabili, da una parte, nella posizione di Calamandrei, favorevole a una piena indipendenza del pubblico ministero dal potere politico, e, dall’altra, in quella di Leone, favorevole a un collegamento tra questi e il potere esecutivo, in un’ottica secondo la quale questo legame avrebbe dovuto rispondere all’esigenza di «non correre il rischio di dare al Paese un potere giudiziario che o non sia sufficientemente indipendente, come è invece da tutti auspicato, o lo sia a tal punto da restare avulso dalla vita della Nazione»[20].

L’art. 107, comma 4, Cost. infine approvato («Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario») traduce quindi, sul piano normativo, l’ordine del giorno Targetti che, sul presupposto dell’accantonamento di un comma che avrebbe equiparato il pubblico ministero ai giudici sul piano delle garanzie, riaffermava la necessità dell’indipendenza di tutti i magistrati; tuttavia, l’approvazione di tale disposizione non determinò alcun ripensamento sia con riguardo all’attrazione del pubblico ministero nella magistratura e all’estensione delle garanzie di status riconosciute ai giudici, sia, correlativamente, all’affermazione della competenza del Consiglio superiore della magistratura anche sui magistrati del pubblico ministero.

Si può quindi concludere nel senso che «nell’ordinamento italiano il pubblico ministero è stato configurato fin dall’Assemblea costituente come un magistrato con garanzie di indipendenza simili a quelle dei giudici. La soluzione è apparsa adeguata al nostro sistema, nel quale non è completa la separazione tra potere legislativo e potere esecutivo e, quindi, manca un efficace controllo del primo sul secondo. Inoltre, la soluzione è parsa coerente con il lacerante ed irrimediabile contrasto ideologico che divide la società italiana»[21]. Ed è alla luce di tale considerazione che è possibile dare dell’art. 107, comma 4, Cost. un’interpretazione che lo renda coerente con le altre contenute nel Titolo IV riferite al pubblico ministero, tenendo conto del fatto che il riferimento nell’art. 108, comma 2, Cost. all’indipendenza del pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali rende evidente che il Costituente non ha lasciato del tutto impregiudicato il problema[22].

 

3. Il pubblico ministero quale elemento qualificante del modello italiano di ordinamento giudiziario

La posizione costituzionale del pubblico ministero è, come autorevolmente sostenuto, «uno degli elementi qualificanti il modello italiano di ordinamento giudiziario» (con un evidente richiamo a un’espressione di Pizzorusso[23]), con riguardo sia ai principi fondamentali espressi nel titolo IV della Costituzione o attuati a livello legislativo, sia, ancora di più, «alla luce di come si è venuto realmente a realizzare nella esperienza pratica» dopo oltre settant’anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale[24].

I cardini del modello italiano di ordinamento giudiziario, connotato dalla ratio di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura ai livelli più alti in Europa, possono essere riassunti come segue:

A) il potere giudiziario è configurato come autonomo e indipendente da ogni altro potere (art. 104, comma 1). In questa sede non è certo possibile ricostruire la querelle, alimentata in termini talvolta del tutto strumentali a livello politico, tra la magistratura come “ordine” e magistratura come “potere”, se non per evidenziare che la sua riconduzione a un “potere” è agevole non solo per ragioni storiche ma anche perché, alla luce della giurisprudenza costituzionale, i poteri dello Stato sono riconducibili «alle istituzioni aventi rilevanza costituzionale, che si concretano in strutture organizzative plurifunzionali, in grado di porre in essere, di volta in volta, attività riconducibili alle diverse funzioni dello Stato»[25]. Si tratta di un punto da ribadire pur tenendo conto delle peculiarità della magistratura, riconducibile a unità quanto alla disciplina dello status dei propri membri, ma circondata da un apparato amministrativo dipendente dal Ministro della giustizia ex art. 110 Cost.

I giudici sono perciò stati considerati dalla Corte costituzionale, fino dalle prime pronunce relative ai conflitti interorganici, come organi abilitati a essere parti in conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato (ordd. nn. 228 e 229/1975; 231/1975), in quanto il potere giudiziario è considerato potere diffuso e quindi acefalo;

B) come già accennato, e come sottolineato tra gli altri da Mortati[26], tutta la disciplina costituzionale della giurisdizione è incentrata sulla tutela dello status dei giudici, e in questo senso il Csm è la chiave di volta della garanzia di tale status.

In definitiva, il Costituente si pose negli artt. 104 ss. Cost. il problema di conciliare l’indipendenza piena del singolo giudice con una garanzia complessiva dell’ordine giudiziario, in una prospettiva che vuole preservare l’indipendenza individuale del giudice con quella della magistratura come ordine, nella duplice prospettiva di una tutela dell’indipendenza esterna (art. 104) e di quella interna della magistratura (art. 107, comma 3, Cost.).

C) accanto all’indipendenza esterna, la Costituzione garantisce anche l’indipendenza interna che protegge i giudici da condizionamenti e interferenze provenienti dall’interno del potere giudiziario[27]: i due profili, da tenere concettualmente distinti, sono accomunati da un’identica ratio, ovvero quella «di rendere il giudice libero, al momento in cui è chiamato ad esercitare la sua funzione giurisdizionale, da illecite influenze ed ingerenze che gli potrebbero derivare appunto dall’esterno come dall’interno della stessa magistratura ed il concetto di imparzialità del giudice, come unanimemente riconosciuto, si riferisce appunto al momento “funzionale” in cui il giudice è chiamato concretamente ad applicare la legge ad un singolo caso»[28].

Così, l’art. 107, comma 3, Cost., laddove afferma che i magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzioni, condanna un modello di organizzazione gerarchica della magistratura che pure si era affermato fin dall’epoca statutaria, e per questo è apparso «più radicalmente (...) in contrasto con la disciplina anteriore»[29].

Da tale disposizione emerge un favor verso un già richiamato modello diffuso, che spiega la legittimazione di ogni giudice a sollevare questioni di legittimità costituzionale nel corso del processo (art. 1, l. cost. n. 1/1948), in una prospettiva di cooperazione tra giudici e Corte che, nell’esperienza italiana, si è rivelata feconda nell’ottica di un loro coinvolgimento nella concretizzazione dei precetti costituzionali, e nell’essenziale opera di bilanciamento dei diritti.

In questo contesto l’eguale diversità dei giudici lumeggia altresì il principio di precostituzione del giudice, che giustamente Paolo Barile ha messo in correlazione anche con la tutela stessa del diritto di difesa e, quindi, nell’ottica dei diritti fondamentali dei cittadini[30]; esso è altresì alla base di un fondamentale diritto dei cittadini a tutela dell’imparzialità della funzione giurisdizionale prima ancora dello svolgimento del processo (Corte cost., sentt. nn. 127/1979 e 460/1994);

D) autonomia e indipendenza della magistratura non collidono con il principio democratico: l’amministrazione della giustizia in nome del popolo e la soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101) esprimono l’idea che la democrazia resta pur sempre il fondamento ultimo della funzione giudiziaria, ma tale funzione «non è soggetta, né direttamente né indirettamente, alle regole costituzionali che caratterizzano il circuito democratico e che prevedono la legittimazione popolare di ogni funzione politicamente rilevante»[31]. L’art. 101 Cost., nei suoi due commi, esprime l’idea che il giudice e la giurisdizione non sono e non debbono essere avulsi dal principio democratico e dalla sovranità popolare, ma non sono collegati al circuito rappresentanza-responsabilità politica[32], e quindi al dominio della maggioranza politica in danno delle minoranze.

In effetti, la soggezione del giudice alla legge, come è stato esattamente osservato, esprime la massima risorsa di legittimazione del giudice (per tutti, Dogliani, 1997; Ferraioli, 2016): l’avverbio “soltanto” «comporta l’esclusione dell’eventualità che il giudice possa essere vincolato all’osservanza di norme e ordini di qualsiasi genere, da chiunque provenienti, che non siano riconducibili al sistema delle fonti del diritto proprio dell’ordinamento giuridico dello Stato», secondo la regola per cui non exemplis sed legibus iudicandum est[33].

Pur non potendosi più parlare di una aprioristica supremazia del potere legislativo su quello giudiziario, essendo le due funzioni «l’una a fianco dell’altra, entrambe di fronte alla Costituzione»[34], la soggezione del giudice alla legge esprime l’idea per cui «non si può parlare di vera giurisdizionalità laddove non si realizza in pieno il principio di legalità»[35].

 

4. Esiste un modello di pubblico ministero previsto dalla Costituzione?

Come accennato, un tassello fondamentale del modello italiano di ordinamento giudiziario è costituito dalle disposizioni costituzionali sul pubblico ministero, e in particolare da quelle sulla sua appartenenza al potere giudiziario, sulle garanzie di indipendenza e, collegate a esse, sull’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.). Si tratta di previsioni fondamentali e per molti versi decisive perché, come è stato affermato, «l’importanza del ruolo del p.m. risulta d’altronde di estrema evidenza allorché si rifletta sul fatto che esiste in Italia in materia penale il principio secondo cui il giudice non può agire d’ufficio, spettando l’esercizio dell’azione penale solamente al p.m. (ne procedat iudex ex officio), per questo sarebbe poca cosa riconoscere l’indipendenza del giudice se questo potesse agire solo dietro richiesta di un p.m. non indipendente o dipendente dal potere esecutivo»[36].

Si può quindi affermare che esiste un modello di pubblico ministero previsto dalla Costituzione.

Anche se il principio di separazione dei poteri non implica un solo modo di organizzare e collocare l’ufficio del pubblico ministero, la scelta fatta propria dal Costituente italiano è innanzitutto quella che il pubblico ministero sia parte interna dell’ordine giudiziario[37].

Si tratta di un primo punto da rimarcare nella misura in cui parte della dottrina[38] ha proposto un’interpretazione dell’art. 107, comma 4, Cost. per cui la Costituzione imporrebbe la previsione di garanzie per l’indipendenza del pubblico ministero ma ne demanderebbe la determinazione al legislatore, così da rendere possibile il tenerlo separato dall’organizzazione dei giudici (con riferimento ai concorsi, all’addestramento, alle carriere, all’organizzazione interna, ai controlli, ai passaggi da una carriera all’altra).

Tale tesi, però, non appare convincente poiché un’interpretazione sistematica induce a ritenere che, da una parte, le garanzie costituzionali spettanti alla “magistratura” (artt. 104, commi 1 e 4, 105 e 107, commi 1 e 3) si riferiscano a tutti i magistrati; dall’altra, le specifiche attribuzioni del pubblico ministero, in particolare l’obbligatorietà dell’azione penale è «elemento che concorre a garantire anche l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione (Corte cost., sent. n. 84/1979) e anzi ne è la «fonte essenziale» (sent. n. 420/1995). Pertanto, «realizzare la legalità nell’eguaglianza non è (…) concretamente possibile se l’organo cui l’azione è demandata dipende da altri poteri: sicché di tali principi è imprescindibile requisito l’indipendenza del pubblico ministero. Questi è infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.) e si qualifica come «un magistrato appartenente all’ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere», che «non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge» (sent. nn. 190/1970 e 96/1975)» (sent. n. 88/1991).

Si è quindi formato un “diritto costituzionale vivente” in relazione all’art. 107, comma 4, quantomeno con riferimento all’indipendenza esterna, corroborato dalla giurisprudenza costituzionale, dal legislatore ordinario, da numerosi atti del Csm.

Si può allora concludere nel senso che l’art. 107, comma 4, Cost., che non a caso si pone immediatamente dopo il comma 3, relativo all’indipendenza interna dei magistrati, è quello di consentire al legislatore di prevedere garanzie di indipendenza specifiche in relazione alle peculiarità delle funzioni esercitate dallo stesso[39], tenendo conto che il quadro costituzionale, come si dirà in seguito, non impedisce la previsione di strumenti di coordinamento, resi necessari sul piano fattuale anche perché «il raggio geografico delle investigazioni, quando non è addirittura nazionale, o ultranazionale, è in generale abbastanza ampio da sconsigliare una eccessiva frammentazione degli uffici del pubblico ministero e comunque una rigida separazione di competenze tra ufficio e ufficio»[40].

Come accennato, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che «la garanzia costituzionale dell’indipendenza del pubblico ministero ha la sua sede propria nell’art. 112» (sent. n. 420/1995) evidenziando come essa sia incorporata nell’obbligatorietà dell’azione penale, per la cui completa attuazione l’organo che la esercita deve godere delle stesse guarentigie dei giudici in senso stretto[41].

In questo senso, a partire dal 1993 (sentt. 462, 463, 464) la Corte costituzionale ha qualificato il pubblico ministero come potere dello Stato ai fini dell’instaurazione di un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato «in quanto – ai sensi dell’art. 112 della Costituzione – è il titolare diretto ed esclusivo dell’attività d’indagine finalizzata all’esercizio (obbligatorio) dell’azione penale» (sent. n. 420/1995).

La perdurante attualità e cogenza di questo principio è stata evidenziata, tra gli altri, da Chiavario, il quale ha evidenziato come «l’articolo 112 abbia fornito, e fornisca, uno scudo efficace a tutela della legalità nel nostro Paese, specialmente contro le pressioni di potentati politici ed economici, tese a sollecitare chiusure d’occhio su fenomeni di delinquenza anche gravi, e ad evitare processi “scomodi”»[42], ovvero ancora a fondare fattispecie di immunità o ad ampliare quelle previste dalla Costituzione (Corte cost., sent. n. 262/2009). In questo senso, non si può non ricordare quanto scriveva Mortati nel 1976: «L’opinione (…) della piena assimilazione al giudice del p.m., come lui sottoposto solo alla legge, non trova rispondenza nella prassi che vede troppo spesso violato da numerosi titolari dell’organo il principio consacrato nell’art. 112 Cost. dell’obbligatorietà dell’azione penale, per effetto di fattori vari di pavidità, indifferentismo, di compiacenza al potere pubblico, che si risolvono in connivenza con chi delinque», arrivando a prefigurare l’introduzione di una forma di azione penale popolare[43].

La Corte costituzionale ha giustamente evidenziato che il principio di obbligatorietà dell’azione penale è il «punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale»; infatti, «il principio di legalità (art. 25, secondo comma), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale» (sent. n. 88/1991)[44].

Pertanto, l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero deve rispondere a quattro imperativi costituzionali diversi, il cui bilanciamento è complesso da realizzare, come si deduce dai ripetuti interventi legislativi attuativi, ovvero: a) la tutela dei cittadini contro i reati (art. 24, comma 1, Cost.); b) l’indipendenza dei magistrati del pubblico ministero (art. 107, comma 4); c) il principio di eguaglianza formale e sostanziale (art. 3, commi 1 e 2); d) il principio di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97, comma 1). Come è stato affermato, «la lesione di uno di questi quattro principi basilari implica una ricaduta diretta o indiretta sull’effettività dell’obbligo di cui all’art. 112 Cost., così come l’omessa o insufficiente osservanza di tale obbligo determina, direttamente o indirettamente, la lesione di uno o più dei suddetti principi»[45].

Certo, il precetto costituzionale non presuppone un modello di pubblico ministero “poliziotto-accusatore”: anche se, almeno secondo alcuni, può sembrare ingenuo affermarlo, il precetto dell’art. 358 cpp («Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’articolo 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini») costituisce parte integrante della configurazione del pubblico ministero come parte pubblica distinta dalle parti private (non a caso il suo contenuto è richiamato anche nel codice etico dell’Anm) e come tale non si presta a preordinazioni delle indagini solo a ipotesi accusatorie né ancor meno a divenire strumento per la bonifica morale della società, né, infine, a ricercare reati. Come è stato giustamente evidenziato, «siccome (…) il pubblico ministero, in quanto magistrato, deve essere tanto imparziale quanto lo è il giudice (…) notizia di reato significa notizia intorno a specifici comportamenti sufficientemente delimitati nel tempo e nello spazio, e non generica informazione che forse vi è stato un qualche reato»[46].

Correlata all’obbligatorietà dell’azione penale è la previsione contenuta nell’art. 109 Cost., ai sensi del quale «l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria» (Corte cost., sentt. nn. 94/1963, 420/1995, 87 e 88/2012, 1/2013).

Si tratta di una previsione che ha conosciuto un’attuazione assai faticosa[47], ma la cui rilevanza è attestata, da ultimo, dalla sent. n. 229/2018, nella quale la Corte costituzionale, in sede di risoluzione di un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato promosso dal procuratore di Bari, ha annullato l’art. 18, comma 5, d.lgs n. 177/2016, nella parte in cui prevedeva che «al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale». Ad avviso della Corte, «l’art. 109 Cost., prevedendo che l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, ha il preciso e univoco significato di istituire un rapporto di dipendenza funzionale della seconda nei confronti della prima, escludendo interferenze di altri poteri nella conduzione delle indagini, in modo che la direzione di queste ultime ne risulti effettivamente riservata all’autonoma iniziativa e determinazione dell’autorità giudiziaria medesima. Tale rapporto di subordinazione funzionale, se non collide con l’organico rapporto di dipendenza burocratica e disciplinare della polizia giudiziaria nei confronti del potere esecutivo (secondo la logica della duplice soggezione, che lo stesso art. 109 Cost. delinea: sentenza n. 394 del 1998), non ammette invece che si sviluppino, foss’anche per legittime esigenze informative ed organizzative, forme di coordinamento investigativo alternative a quello condotto dal pubblico ministero competente», cui spetta «il potere di stabilire il quando, il quomodo e il quantum delle notizie riferibili». In tal modo, la Corte sembra avere posto, in ultima istanza, un argine ai tentativi di immaginare forme di interferenza dell’Esecutivo sulle attività di indagine: per questo si è parlato di una pronuncia nella quale la Corte «ristabilisce un principio cardine dello Stato costituzionale che, da sempre, il potere politico tenta di indebolire»[48].

La valorizzazione dei contenuti dell’art. 112 Cost. nella giurisprudenza costituzionale non significa però che dalla stessa possa evincersi una nozione, per così dire, “onnicomprensiva”.

Così, in particolare, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che l’impugnazione delle sentenze da parte del pubblico ministero non si fonda sull’art. 112 Cost. come sua proiezione necessaria. Il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero – afferma il giudice delle leggi nella sent. n. 34/2020 – presenta margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato. Pertanto, conclude la pronuncia in commento, «in un sistema ad azione penale obbligatoria, non può ritenersi, infatti, precluso al legislatore introdurre limiti all’esercizio della funzione giurisdizionale intesi ad assicurare la ragionevole durata dei processi e l’efficienza del sistema punitivo. In quest’ottica, non può considerarsi irragionevole che, di fronte al soddisfacimento, comunque sia, della pretesa punitiva, lo Stato decida di rinunciare a un controllo di merito sul quantum della sanzione irrogata. Che poi il “peso” della rinuncia venga a gravare solo sul pubblico ministero, senza che sia prefigurata una contrapposta limitazione, di analogo spessore, dal lato dell’imputato, rientra nella logica della diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’art. 112 Cost. – e, dunque, più “malleabile”, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti – quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’art. 24 Cost. – e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi – quello dell’imputato».

Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato infondate le censure di costituzionalità relative all’art. 593, comma 1, cpp, come modificato dal d.lgs n. 11/2018, il quale prevede che l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna è ammesso solo quando queste «modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato».

È interessante come la pronuncia in esame richiami, da un lato, l’art. 14, par. 5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici e l’art. 2 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che prevedono il diritto a far riesaminare la decisione da una giurisdizione superiore, o di seconda istanza, solo a favore della persona dichiarata colpevole o condannata per un reato, senza richiamarsi al pubblico ministero; dall’altro, il fatto che la riforma del 2018 si atteggia anche come una sorta di “contrappeso” rispetto alla disciplina di altre fasi del procedimento, in cui «è il pubblico ministero a fruire di una posizione di indubbio vantaggio: come nella fase delle indagini preliminari, ove la ricchezza degli strumenti investigativi a disposizione dell’organo dell’accusa, anche sul piano del carattere “invasivo” e “coercitivo” di determinati atti di indagine, non trova un riscontro paragonabile dal lato della difesa».

Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ravvisa l’incostituzionalità, per violazione dell’art. 111, comma 2, Cost. (e quindi non dell’art. 112), di disposizioni legislative che escludano radicalmente la possibilità di impugnazione del pubblico ministero di sentenze che lo vedano totalmente soccombente (sent. n. 26/2007; cfr. anche sentt. nn. 320/2007, 85/2008 e 274/2009).

Anche tale giurisprudenza conferma una poliedricità del pubblico ministero, potendosi parlare di un pubblico ministero nel processo (disciplinato in primo luogo dal codice di rito), di un pubblico ministero nell’ufficio (disciplinato dalle norme dell’ordinamento giudiziario), di un pubblico ministero nel sistema istituzionale generale (disciplinato dalle disposizioni costituzionali[49].

Questa poliedricità è alla base di ricostruzioni diverse con riguardo all’applicabilità al pubblico ministero di alcuni presidi costituzionali, a cominciare da quelli della precostituzione del giudice (in senso contrario, Corte cost., sent. n. 70/1996) e della soggezione del giudice soltanto alla legge, sul quale la Corte costituzionale ha un orientamento oscillante. Come è stato giustamente osservato, si tratta di un problema delicato: «Poiché infatti l’art. 101, comma 2, Cost. (…) costituisce uno dei fondamenti dell’indipendenza sia esterna che interna dei singoli giudici, prospettare la sua riferibilità anche ai pubblici ministeri determina conseguenze dirette sull’organizzazione interna degli uffici requirenti, impedendo, in linea di principio, ogni forma di subordinazione dei pubblici ministeri nei confronti dei dirigenti degli uffici»[50].

La questione si connette a quella dell’indipendenza interna, oggetto di dispute accese a livello politico e di una serie di interventi legislativi, in particolare della discutibile riforma del 2005 (cd. “riforma Castelli”), all’insegna della gerarchizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, con l’accentramento in capo al procuratore della Repubblica dell’azione penale, con il rafforzamento dei legami gerarchici all’interno dell’ufficio e, infine, con il ridimensionamento del ruolo del Csm nei procedimenti di definizione degli assetti organizzativi, che invece era stato in qualche misura valorizzato dal d.lgs n. 51/1998.

Senza poter entrare in questa riforma, parzialmente superata dalle leggi Mastella (nn. 269/2006 e 111/2007), è il caso di osservare che alcuni dei caratteri più dubbi sul piano della legittimità costituzionale sono stati attenuati, o in alcuni aspetti superati, in forza di atti paranormativi del Csm i quali, in nome di un’interpretazione costituzionalmente orientata della legislazione, hanno finito per correggerne sostanzialmente alcuni contenuti, allo scopo di garantire l’autonomia e la professionalità dei singoli magistrati del pubblico ministero[51].

Sul punto, pare difficilmente riconducibile al testo costituzionale un eventuale assetto fondato su una gerarchia forte; è, invece, sicuramente percorribile un modello che attribuisca al capo dell’ufficio poteri di coordinamento, che richiamano «non la posizione del superiore gerarchico, ma del primus inter pares», posto che «il coordinamento, seppur presuppone una certa sovraordinazione, per ricondurre ad unità una struttura con mezzi non puramente consensuali, tende a garantire contemporaneamente l’autonomia dei soggetti coordinati e l’indirizzo unitario a fini comuni»[52].

Da questo punto di vista, la riforma del 2006, come corretta dalle leggi Mastella e, soprattutto, dalla “radicalità” dell’attività paranormativa del Csm, ha dato luogo a un assetto nel quale la gerarchia iniziale «ha cessato di essere gerarchia ciecamente tesa solo all’uniformità (o, peggio, fine a se stessa) ed è divenuta gerarchia funzionale: direzione (ancora verticale, ma) finalizzata ad intenti condivisi dal singolo ufficio e ispirati da un preciso quadro di valori di riferimento, dunque funzionalmente orientata: soprattutto, con intenti ed esecuzione di essi perfettamente controllabili, attraverso precisi passaggi procedimentali»[53].

Se quindi è stato merito del Csm arginare alcuni degli aspetti più discutibili della riforma del 2005, rimane però l’impressione preoccupante di un’instabilità normativa che ha finito per determinare una almeno parziale abdicazione del legislatore, che pure dovrebbe porre le disposizioni attuative dell’art. 107, comma 4, e 108, comma 1, Cost.[54].

Le considerazioni che precedono non ostano ovviamente alla valorizzazione di strumenti di coordinamento tra i diversi uffici del pubblico ministero, in qualche modo prefigurati dall’art. 6 d.lgs n. 106/2006. In questo senso, la Procura generale presso la Corte di cassazione, in attuazione di tale disposizione, ha attivato recentemente forme di collaborazione con le Procure generali presso le Corti d’appello su aspetti di particolare rilevanza, «quali il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale, il rispetto delle norme sul giusto processo, la puntualità nell’esercizio dei poteri di direzione, controllo e organizzazione da parte dei capi degli uffici requirenti, nonché, a seguito della legge n. 103 del 2017, l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato». Pertanto, l’art. 6 in questione è stato ritenuto «uno strumento di fondamentale importanza per realizzare trasparenza e responsabilità (anche nel senso di “render conto”) del sistema giustizia» e tale da legittimare la ricerca di strumenti atti ad affermare omogeneità di prassi tra gli organi requirenti[55].

 

5. Le prospettive di riforma: in particolare, la proposta di legge costituzionale promossa dall’Unione delle Camere penali

Come accennato, da circa un trentennio il modello italiano di ordinamento giudiziario, con specifico riferimento allo statuto costituzionale del pubblico ministero, è oggetto di dibattito e di polemiche che riguardano principalmente due aspetti distinti ma connessi, ovvero la separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale. Si tratta di due aspetti dei quali la recente proposta di legge costituzionale – A.C. n. 14 di iniziativa popolare – promossa dall’Unione delle Camere penali, propone alcune discusse linee di riforma[56].

Si tratta di un testo che, sebbene non sembra possa contare su sufficienti consensi in sede parlamentare (esso è attualmente all’esame della 1a Commissione permanente della Camera, a seguito del rinvio deciso dall’assemblea nella seduta del 31 luglio 2020), presenta soluzioni discutibili, ancorché sostenute da alcune parti politiche almeno dalla metà degli anni novanta.

A) In premessa, nel dibattito politico l’espressione “separazione delle carriere” si è caricata di una pluralità di significati che, secondo alcuni, attengono alla necessità di una distinzione delle funzioni (senza un impatto sugli aspetti organizzativi); secondo altri, a una distinzione delle carriere (con l’introduzione o l’inasprimento di limiti al passaggio da una funzione all’altra, come nella riforma Castelli del 2005); secondo altri ancora, a una vera e propria separazione delle carriere (una summa divisio[57]), che presuppone quantomeno diversi canali di accesso e percorsi professionali differenziati[58].

Così, ad esempio, fu qualificato come avente ad oggetto la «separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti» il referendum abrogativo promosso dal partito radicale su quattro disposizioni del rd n. 12/1941, aventi ad oggetto il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti e viceversa (art. 190, comma 2), la disciplina dell’anzianità in caso di cambio di funzioni (art. 191), l’assegnazione delle sedi per tramutamento (art. 192), il ricollocamento dei magistrati già assegnati al Ministero della giustizia (art. 198, secondo periodo)[59].

È da ricordare che la nota sent. n. 37/2000 della Corte costituzionale, con la quale fu ammesso il referendum, e da alcuni forse sopravvalutata nelle sue implicazioni, ha comunque precisato che «la Costituzione, infatti, pur considerando la magistratura come un unico “ordine”, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni».

Si tratta di una facoltà che il legislatore, con soluzioni anche discutibili, ha perseguito, anche se de Consitutione condita, è da condividere la tesi secondo la quale «non è ammissibile costituzionalmente una regola che stabilisca la definitiva impossibilità, o subito dopo la prima assegnazione, o nel corso della vita professionale di magistrato, di passare dalla funzione giudicante a quella requirente, o viceversa»[60].

Da molti una separazione delle carriere in senso forte sarebbe giustificata dall’art. 111 Cost., come risultante dalla l. cost. n. 2/1999 che, come è noto, ha introdotto nella Carta fondamentale i principi del “giusto processo”. Ma a tale proposito si è obiettato che, anche a seguito di tale disposizione, la posizione del pubblico ministero, in quanto parte della magistratura, nel processo non può essere confusa né con quella del giudice né con quella delle altre parti, dovendo agire esclusivamente a tutela dell’interesse pubblico all’osservanza della legge, trattandosi di organo preposto alla difesa dell’ordinamento. Con riferimento al pubblico ministero si è così distinto tra parte in senso sostanziale e parte in senso processuale, a marcare la differenza di esso dalle altre parti del processo che agiscono per fini, per così dire, propri, perché, come giustamente è stato affermato, dall’ordito costituzionale «non esiste un interesse pubblico ad accusare, ma solo alla giusta applicazione di sanzioni ai responsabili di violazioni della legge penale»[61]. E giustamente si è evidenziato come i rapporti tra i soggetti del processo penale, anche a seguito della revisione dell’art. 111 Cost., non debbano essere concepiti in termini di meccanica simmetria, non essendovi «nulla di più fuorviante dell’immagine del processo come gioco sportivo»[62], poiché giudici e pubblici ministeri sono e debbono essere legati da un fine di giustizia che sarebbe intollerabile imporre alla difesa.

Da parte sua, la richiamata sent. n. 34/2020 della Corte costituzionale ha ribadito con chiarezza che «il processo penale è caratterizzato, infatti, da una asimmetria “strutturale” tra i due antagonisti principali»; infatti, le differenze che connotano le rispettive posizioni sono «correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici – essendo l’una un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l’altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali» (cfr. anche sent. n. 26/2007).

Nello stesso senso, è da ricordare che un orientamento consolidato della Corte costituzionale esclude che il pubblico ministero sia legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale, perché esso non rientrerebbe nella nozione di “giudice” e avrebbe una distinta fisionomia istituzionale, non potendo comunque adottare provvedimenti decisori propri. Né il pubblico ministero può, come le parti del processo a quo, costituirsi dinanzi alla Corte, proprio per la peculiare configurazione dello stesso nel processo penale. Come è stato affermato, «il pubblico ministero risulta essere troppo vicino al giudice per essere considerato parte e troppo vicino alle parti per essere considerato giudice, con la conclusione che esso finisce appunto per essere “né carne, né pesce”»[63].

Come è stato persuasivamente osservato, la definizione della figura del pubblico ministero dipende in egual misura dalle norme costituzionali relative sua attività e alla sua distinzione dagli organi giudicanti e dalle norme sull’attività contenute nelle disposizioni del codice di rito e in leggi ordinarie[64].

In questo senso, debbono essere apprezzate con grande cautela alcune innovazioni introdotte nella proposta n. 14, quali quelle che prevedono un reclutamento separato per l’accesso alla magistratura giudicante e requirente e dispongono la separazione del Csm in due organi separati che, tra l’altro, vedrebbero un considerevole e discutibile aumento dei componenti eletti dal Parlamento.

Per inciso, si tratta di una soluzione diversa da quella fatta propria dalla Commissione D’Alema del 1997, che invece proponeva l’istituzione di due sezioni all’interno di un unico Csm e devolveva la competenza in ordine alla responsabilità disciplinare a un nuovo organo comune per giudici e pubblici ministeri; eppure, anche su tale progetto non erano mancate le perplessità di chi aveva rinvenuto il rischio di un isolamento e, in definitiva, della autoreferenzialità di questi ultimi[65].

In effetti, a tacer d’altro, tali innovazioni, sostenute da chi denuncia rischi di strapotere di pubblico ministero, finirebbero per esaltarne la natura di «organo teleologicamente orientato al risultato, la condanna dell’imputato, il cui raggiungimento diventerebbe l’essenza della funzione»: così Silvestri[66], che in altro scritto è arrivato a sostenere: «Spero vivamente di non dover ricordare tra qualche anno agli entusiastici sostenitori di questa separazione che hanno volutamente rinunciato ad una parte delle loro garanzie, favorendo la formazione di una categoria di accusatori di professione, sempre più avulsi dalla giurisdizione in senso stretto e sempre più animati dall’ansia del risultato»[67].

Peraltro, una ulteriore perplessità di fondo attiene al fatto che la separazione delle carriere si accompagnerebbe all’inserimento di alcune previsioni che finirebbero per limitare l’indipendenza dell’intera magistratura. Tra queste: 1) il novellato art. 104, comma 1, per cui l’ordine giudiziario «è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere», sul presupposto quindi che esso non sia di per sé un potere (si rinvia a quanto già detto); 2) la modifica dell’art. 105 che renderebbe tassative le competenze del Csm (essendo incrementabili solo con legge costituzionale), al fine di arginare un vero o presunto attivismo dell’organo ma che finirebbe per condannare, ad esempio, le determinazioni sul sistema tabellare, attuative dell’art. 25, comma 1, Cost. (senza considerare poi che interventi attuativi del Csm sono previsti da specifiche disposizioni legislative); 3) l’abrogazione dell’art. 107, comma 3, Cost., che costituisce un presidio fondamentale non solo a tutela dei pubblici ministeri (con le precisazioni già viste), ma dell’intera magistratura (si è parlato in questo senso, e non infondatamente, di una disposizione espressiva di un principio supremo).

In definitiva, e per concludere, dal testo in esame non sembra affatto scongiurato il timore che un pubblico ministero indipendente, gerarchizzato (in forza dell’abrogazione dell’art. 107, comma 3), con la polizia ai suoi ordini «costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)»[68].

E d’altra parte, chi immagina, attraverso idonei correttivi normativi, il collegamento dei pubblici ministeri con organi politici dovrebbe seriamente confrontarsi, oltre che con i rischi sistemici di una tale riforma nel caso italiano, anche con l’assenza di una cultura politica che sola avrebbe potuto supportarla[69].

Anche sull’obbligatorietà dell’azione penale, la proposta di revisione costituzionale, ben al di là di quanto avviene nella prassi, prevede una revisione drastica dell’art. 112 Cost. del seguente tenore: «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale» ma «nei casi e nei modi previsti dalla legge».

Tale previsione costituisce ben più della costituzionalizzazione di criteri di priorità affermatisi nella prassi e auspicati da una parte della dottrina (cfr. infra), in quanto la nuova formulazione potrebbe ben essere interpretata nel senso di rendere praticamente discrezionale l’esercizio dell’azione penale o quantomeno un’eccezione rispetto alla regola. In ogni caso, il novellato art. 112 Cost. lascerebbe al legislatore ordinario (e, per inciso, anche al Governo con decreto-legge?) una discrezionalità massima, tale da depotenziare radicalmente la capacità prescrittiva del dettato costituzionale. Sul punto, non si può non ricordare quanto affermato dalla Corte costituzionale nella richiamata sent. n. 88/1991, ovvero che «il principio di obbligatorietà è, dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venir meno ne altererebbe l’assetto complessivo».

Se è lecita una provocazione, che però non pare del tutto priva di qualche pregio, la formulazione del novellato art. 112 Cost. risulterebbe lessicalmente simile all’art. 52, comma 2, Cost. («Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge»), che non ha impedito, come è noto, una sospensione generalizzata e a tempo indeterminato della leva.

Si tratterebbe, in altre parole, di un rovesciamento della ratio del vigente art. 112 Cost., con tutte le conseguenze che si sono già dette: in effetti, anche ad ammettere che la fissazione di priorità non sia incompatibile con la disposizione costituzionale[70], quest’ultima non può che essere inquadrata nel senso di precludere interferenze politiche sulle singole determinazioni del pubblico ministero inerenti l’esercizio dell’azione penale. Occorre chiedersi se tale conclusione sarebbe sempre sostenibile nella vigenza della nuova formulazione della disposizione costituzionale.

A ciò si aggiunga che, con tale generica formulazione, sarebbe possibile la previsione di direttive teoricamente anche ministeriali, a tutto danno dell’indipendenza del pubblico ministero che il testo di revisione costituzionale formalmente ripropone.

Al di là di questa proposta, però, da anni si discute nel nostro Paese dell’ammissibilità dell’introduzione di criteri prioritari a fronte di una prassi che sembra già procedere su questa strada, anche se in carenza di disposizioni legislative.

Sebbene in linea di principio sia vera la suggestione secondo la quale «un Paese serio e coerente con se stesso, dopo aver affermato che “l’azione penale è obbligatoria” dovrebbe porsi seriamente il problema di come si garantisce la effettività di questo principio fondamentale»[71], non appare convincente la tesi secondo la quale la fissazione di criteri collida di per sé con l’art. 112 Cost., la cui ratio sembra quella di impedire valutazioni discrezionali in ordine alla singola notizia di reato. E d’altra parte la tesi più rigorosa, che parte dal rischio che in tal modo il principio di cui all’art. 112 sia eluso nella sostanza, deve fare i conti con una prassi, come quella attuale, che appare ancor meno in linea con la ratio di tale disposizione costituzionale.

Semmai, sarebbe importante riflettere sulla finalità di tali criteri: come è stato evidenziato, «ben diverso (…) è che sia valorizzato il profilo organizzativo dell’ufficio o quello strumentale delle risorse, quello verticale (tra i diversi uffici del p.m.), quello disciplinare o altro ancora. Profilo che si connette, a sua volta, al possibile fondamento costituzionale e ai principi che potrebbero esserne, più o meno direttamente, coinvolti»[72].

Un recente disegno di legge governativo (cd. “Bonafede”, A.C. n. 2681) immagina che criteri di priorità siano definiti dalle procure nel loro progetto organizzativo, adottato con una periodicità non inferiore ai quattro anni, sulla base di principi generali fissati dal Csm.

Come è stato esattamente osservato, si tratta di una novità rilevante, stante il suo impatto sull’art. 112 Cost., ma non sconvolgente, in quanto eleverebbe a obbligo una disciplina che una circolare del Csm del 16 novembre 2017 qualifica in termini di mera facoltà per i titolari degli organi direttivi delle procure[73]. E per inviso la circolare è stata valutata in termini ampiamente positivi nel Rapporto del quarto ciclo di valutazione del Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO)[74].

Si tratta di una soluzione da valutare in termini non negativi, tenendo conto della possibilità di un’interpretazione “aperta” dell’art. 112 Cost., che coniughi i valori posti a base dell’obbligatorietà dell’azione penale con esigenze di economicità e trasparenza dell’amministrazione della giustizia[75] e anche con la ragionevole durata del processo[76]: in questo senso, la fissazione di priorità di carattere generale per la trattazione di notizie di reato, sulla base di un procedimento che chiami in causa il Csm, appare una strada in qualche misura praticabile, non esprimendo una discrezionalità (invece sicuramente vietata) che si traduca in valutazioni di opportunità in ordine a una singola notizia di reato[77].

Previsioni analoghe sono contenute in un altro disegno di legge del Governo, il n. 2435, che prevede un’ampia delega al Governo finalizzata a una (ennesima) riforma del codice di rito. Si tratta di un testo la cui rilevanza è attestata dal fatto che esso è richiamato anche nella bozza di Piano nazionale di ripresa e resilienza (A.S., n. XXVII, n. 18), ma la cui sorte appare quantomeno incerta a seguito della crisi del Governo Conte II.

In esso (art. 3) si prevede che, nella fase delle indagini preliminari, nella trattazione degli affari penali da parte degli uffici del pubblico ministero si imponga la salvaguardia, tra gli altri, dei princìpi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione pubblica. Pertanto è imposta, quale dovere istituzionale del procuratore della Repubblica, la redazione di criteri di priorità per ciascun ufficio, previa interlocuzione con il procuratore generale presso la Corte d’appello e con il presidente del tribunale. I criteri, confluendo nei progetti organizzativi, dovranno tenere conto dei princìpi elaborati in materia dal Consiglio superiore della magistratura nonché delle specificità proprie delle realtà territoriali e delle risorse, personali e reali, disponibili (lett. h).

Non è chiaro da queste disposizioni se possa dirsi scongiurato il rischio di una perseguibilità dei reati “a macchia di leopardo”, che si rivelerebbe un esito palesemente incostituzionale per violazione dell’art. 3 Cost.

Si tratta di una previsione che fa seguito a iniziative assunte nella prassi da singoli uffici giudiziari, che però non è condivisa da quanti ritengono indispensabile che la fissazione delle priorità spetti agli organi politici, in quanto responsabili delle scelte di politica criminale[78].

De iure condendo, proposte del genere dovrebbero fare i conti con rilevanti problemi attuativi che attengono sia alla dimensione istituzionale che al contesto politico in cui esse sarebbero destinate a inserirsi.

Escluso per ragioni intuitive che possano essere il Governo o il Ministro della giustizia a definire le priorità, si potrebbe pensare, soprattutto per ragioni legate in primo luogo alla sua legittimazione, al Parlamento[79].

Occorre però chiedersi con quale strumento dovrebbero essere fissate le priorità: ad avviso di una parte della dottrina, la legge dovrebbe essere lo strumento più indicato, «tenuto conto del fatto che al Parlamento compete, ai sensi dell’art. 25 Cost., il compito di effettuare le scelte generali in campo penale»[80].

La determinazione delle priorità dovrebbe, in ogni caso, risultare da una procedura interistituzionale che dovrebbe giovarsi quantomeno di un intervento del Csm (“a monte” o “a valle” della legge), visto che «il parlamento non ha l’attitudine esaustiva a stabilire criteri di priorità con la concretezza necessaria a fronteggiare (…) la “specifica realtà criminale e territoriale”»[81].

Occorre poi non sottovalutare nodi problematici derivanti dal procedimento di approvazione di una legge in tale materia.

Infatti, in forza dell’art. 64, comma 3, Cost., una tale legge, presumibilmente periodica, dovrebbe essere approvata a maggioranza semplice (l’approvazione a maggioranza qualificata richiedendo una legge costituzionale) e perciò non si sottrarrebbe a rischi di scelte strumentali o fortemente discutibili. A ciò si aggiunga che, nel procedimento di approvazione di una tale legge, è facile immaginare una vasta attività emendativa, dal momento che – per così dire – se un reato è previsto dall’ordinamento, una buona ragione per sostenerne la priorità sicuramente non mancherebbe[82]. Evidentemente, se la legge in questione comprendesse un numero troppo alto di reati qualificati come prioritari, l’utilità della legge stessa sarebbe limitata e la discrezionalità di fatto non si atteggerebbe in modo diverso da oggi.

Vi è poi da chiedersi se il Governo potrebbe porre la questione di fiducia sull’approvazione di una tale legge, magari a seguito della presentazione di un maxi-emendamento.

Inoltre, poiché i procedimenti relativi ai reati non prioritari sarebbero destinati a finire nelle forche caudine della prescrizione, sorgerebbero problemi di coerenza con l’art. 79 Cost., che impone la maggioranza dei due terzi dei componenti in entrambe le camere in ogni articolo e nella votazione finale per l’approvazione delle leggi sulla concessione dell’amnistia e dell’indulto.

Occorre allora essere consapevoli delle difficoltà che un tale strumento porrebbe. In questo senso, un coinvolgimento delle Camere nella definizione delle priorità attraverso un’attività di indirizzo, ove inserita in una procedura interistituzionale, fissata dalla legge, potrebbe risultare una via percorribile e forse più realistica.

Anche al di là dello strumento da utilizzare, occorre essere consapevoli dei nodi problematici relativi alla declinazione stessa della nozione di “priorità”.

Da questo punto di vista, forse, sembrano preferibili soluzioni che valorizzino i profili di razionalizzazione della trattazione delle notizie di reato piuttosto che quelli di selezione delle stesse, in un’ottica per cui gli effetti dei criteri di scelta dovrebbero esaurirsi in «deviazioni, per quanto attiene ai tempi dell’agire del pubblico ministero, dal parametro della sopravvenienza delle notizie di reato»[83], dovendosi impedire che l’individuazione di priorità comportasse sempre la posticipazione dell’esame degli altri reati e dovendosi garantire quantomeno tecniche per scongiurare pericoli di reale compromissione nella formazione delle prove[84].

Alla luce di queste difficoltà vi è da chiedersi se, logicamente, prima della tematica delle priorità non si debba esplorare la via di interventi normativi che valorizzino strumenti di depenalizzazione ulteriori rispetto a quelli già varati, e rafforzino, nel rispetto dei precetti costituzionali, cause di non punibilità peraltro da ancorare «ad interessi, scopi, obiettivi, ulteriori al mero obiettivo deflativo»[85], tenendo conto che quelle recentemente introdotte (non punibilità per speciale tenuità del fatto: art. 131-bis cp; estinzione del reato a seguito di sospensione del procedimento con messa alla prova: art. 168-bis cp), non pongono problemi di compatibilità con l’art. 112 Cost. Con riferimento alla particolare tenuità del fatto, si è sostenuto che «i criteri di valutazione della speciale tenuità sono analiticamente indicati dalla legge, ma soprattutto che si tratta di criteri tutti relativi alle caratteristiche del fatto criminoso e del suo autore: e dunque che niente hanno a che fare con ragioni di opportunità politica più o meno generale ma comunque esterni alla vicenda criminosa. E solo queste sono le valutazioni che l’art. 112 Cost. intende escludere dalle determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale»[86].

Semmai, allora, il problema che queste misure pongono attiene alla loro idoneità a determinare un alleggerimento del carico di lavoro giudiziario[87].

 

6. Le altre proposte di riforma a livello legislativo

Come si è accennato, le possibilità di approvazione della proposta di legge 14 sono invero assai scarse.

Tuttavia, è da ritenere auspicabile che alcuni nodi irrisolti relativi all’ufficio del pubblico ministero siano affrontati e risolti, con soluzioni prudenti e pienamente rispettose del dettato costituzionale.

In primo luogo, le non commendevoli vicende che hanno visto impropriamente protagonisti anche componenti del Csm hanno fatto emergere la necessità di riconsiderare la disciplina del conferimento delle funzioni direttive, che il disegno di legge Bonafede (A.C. n. 2435) affronta con l’attribuzione di un’ampia delega al Governo e una serie di complesse previsioni (sulla cui efficacia non è possibile in questa sede soffermarsi) tra le quali un generico e ambiguo richiamo all’applicazione «dei principi e delle disposizioni» della l. n. 241/1990.

Si tratta di un insieme di previsioni nel complesso ragionevoli, perché animate da una ratio di valorizzazione del principio di trasparenza[88]; esse mirano, almeno in parte, a legificare, per alcuni profili in termini più stringenti, indicazioni contenute in atti paranormativi del Csm e mirano ad arginare pratiche discutibili, che sono risultate dominanti nella prassi[89].

Tale legificazione riguarda altresì, come accennato, l’organizzazione delle procure, sulla quale il testo fa largamente proprie soluzioni contenute in una circolare del Csm del 2017[90].

Un secondo punto attiene al passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa. Si tratta di un punto che interseca il tema più generale della separazione/distinzione delle carriere: in concreto, si prevede la riduzione da quattro a due del numero massimo di passaggi dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti (e viceversa) effettuabili nel corso della carriera (art. 10). È una soluzione in qualche modo intermedia tra quella fatta propria dalla l. n. 150/2005 e quella desumibile dalla l. n. 111/2007, i cui effetti, come è stato notato, «non sono facilmente prevedibili, ancorché si debba tenere conto che il fenomeno dei passaggi di funzione registra oggi numeri piuttosto limitati»[91].

Un secondo ambito di riforma riguarda modifiche al codice di rito, allo scopo di correggere alcuni istituti o alcune prassi che evidenziano uno squilibrio tra accusa e difesa soprattutto nella fase delle indagini preliminari[92].

Si tratta di un aspetto importante nella misura in cui proposte come la separazione delle carriere e il ripensamento del canone dell’obbligatorietà dell’azione penale sembrano impropriamente motivate anche da questo fattore.

Sul punto, nel già richiamato ddl recante «delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti d’appello» (A.C. n. 2435), oltre alla definizione dei criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale, è modificata la disciplina dei termini massimi di durata delle indagini preliminari, con un abbreviamento di quelli relativi ai reati meno gravi. È delineata, inoltre, una procedura di deposito degli atti di indagine, nel caso in cui il pubblico ministero non abbia notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari o non abbia avanzato richiesta di archiviazione entro stringenti termini decorrenti dalla scadenza della durata massima delle indagini preliminari (lett. e). Tale previsione, come si legge nella relazione al ddl, consente agli interessati di prendere visione degli atti dell’indagine preliminare dopo la scadenza dei relativi termini, anche prima che il pubblico ministero abbia assunto le proprie determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale. Si impone quindi al pubblico ministero di mettere a disposizione gli atti, a meno che non sia stato notificato l’avviso della conclusione delle indagini previsto dall’art. 415-bis cpp ovvero non sia stata richiesta l’archiviazione. Si rimedia in tal modo a eventuali ritardi o stasi nelle indagini: assicurando l’effettiva conoscenza di tutti gli atti alle persone interessate, queste saranno in grado di attivarsi per eventuali indagini difensive e per sollecitare iniziative nel loro interesse (archiviazione o esercizio dell’azione penale). È infine introdotta la responsabilità disciplinare del pubblico ministero che per negligenza inescusabile violi le prescrizioni di cui alla lett. e o, dopo la notificazione dell’avviso di deposito, ometta di formulare la richiesta di archiviazione o di esercitare l’azione penale entro il termine di trenta giorni dalla presentazione della richiesta del difensore della persona sottoposta alle indagini o della parte offesa, fatte salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato (lett. f e g).

Ciò detto, accanto a riforme progettate vi è poi un contesto fattuale che finisce, anche al di là delle intenzioni, per sovraesporre il pubblico ministero: si pensi al cd. processo mediatico[93], che finisce per assecondare una sorta di ferocia punitiva amplificata dai mezzi di comunicazione di massa o addirittura da esponenti politici (che, in non pochi casi, si spingono a invocare pene severe o esemplari a ridosso del compimento di fatti di reato particolarmente eclatanti).

Si pensi ancora alla recente tendenza a riforme o a tentativi di riforma nel settore penale e processualpenalistico ispirate a populismo e demagogia: si sta espandendo una legislazione “a furor di popolo”, incompatibile con i tratti caratterizzanti dello Stato costituzionale, che vede l’espansione della punibilità con nuove fattispecie penali assai poco connotate dal principio di tassatività-determinatezza, l’inasprimento delle pene edittali, il ricorso ad automatismi legislativi sanzionatori: tutti aspetti che, non a caso, nel più recente periodo hanno costretto la Corte costituzionale a intervenire ripetutamente[94].

A tutto ciò si aggiunga il caos normativo che rende ardua l’amministrazione stessa della giustizia, con ripercussioni che non possono non riguardare anche l’obbligatorietà dell’azione penale: non pare esserci una volontà politica di porre rimedio a questa tendenza, che certo non può essere arginata con riforme-manifesto prive di ogni reale incidenza (si pensi alla recente introduzione, a opera del d.lgs n. 21/2018, dell’art. 3-bis cp, relativo alla “riserva di codice” introdotta senza una revisione costituzionale che, sola, potrebbe renderla effettiva). 

 

 

1. P. Calamandrei, L’elogio dei giudici scritto da un avvocato, Le Monnier, Firenze, 1949, p. 40. 

2. Per questo, di figura «assai complessa» parlava C. Mortati nelle Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, Cedam, Padova, 1976, p. 1263.

3. Per tutti, A. Pizzorusso, Per un collegamento tra organi costituzionali politici e pubblico ministero, in G. Conso (a cura di), Pubblico ministero e accusa penale, Zanichelli, Bologna, 1979, pp. 30 ss.; N. Zanon, Pubblico ministero e Costituzione, Cedam, Padova, 1996; P. Gaeta, L’organizzazione degli uffici di procura: note sull’evoluzione dell’indipendenza “interna” del pubblico ministero, in N. Zanon e F. Biondi (a cura di), L’indipendenza della magistratura oggi, Giuffrè, Milano, 2020. 

4. C. Mortati, Istituzioni, op. cit., p. 1265, nota 1.

5. N. Zanon e F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Zanichelli, Bologna, 2019, p. 249.

6. G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 77-78.

7. R. Rordorf, Editoriale, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2018, p. 3.

8. G. Silvestri, L’organizzazione del pubblico ministero: rapporti nell’ufficio e tra gli uffici, in Associazione tra gli studiosi del processo penale, Pubblico ministero e riforma dell’ordinamento giudiziario, Giuffrè, Milano, 2006, pp. 218-219.

9. Per tutti, M. Nobili, Accusa e burocrazia. Profilo storico-costituzionale, in G. Conso (a cura di), Pubblico ministero, op. cit., pp. 89 ss.

10. Per tutti, M. Nobili, op. ult. cit., p. 113; M. Scarparone, Pubblico ministero (dir. proc. pen.), in Enciclopedia del diritto, vol. XXXVII, Giuffrè, Milano, 1988, pp. 1094 ss.; G. Scarselli, Ordinamento giudiziario e forense, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 159 ss.

11. Per tutti, U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e assolutismo nello Stato liberale, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 490. 

12. U. Allegretti, op. ult. cit., pp. 491-492.

13. G. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Giuffrè, Milano, 1967, p. 387.

14. M. Manetti, Funzioni e statuto del pubblico ministero, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2004. Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale, atti del XIX Convegno annuale, Padova, 22-23 ottobre 2004, Cedam, Padova, 2008, p. 178.

15. Per tutti, G. Maranini, Storia del potere in Italia 1848-1967, Nuova Guaraldi, Firenze, 1983, pp. 250 ss. 

16. Per tutti, M. Vellani, Il pubblico ministero nel processo, Zanichelli, Bologna, 1965; A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Einaudi, Torino, 1990, p. 168.

17. M. Chiavario, Processo e garanzie della persona – I. Profili istituzionali di diritto processuale, Giuffrè, Milano, 1982, p. 105.

18. Per tutti, G. Neppi Modona, La magistratura dalla Liberazione agli anni Cinquanta. Il difficile cammino verso l’indipendenza, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, tomo 2, Einaudi, Torino, 1997, p. 90.

19. P. Gaeta, L’organizzazione, op. cit., pp. 179-180.

20. G. Monaco, Pubblico ministero ed obbligatorietà dell’azione penale, Giuffrè, Milano, 2003, pp. 277 ss.; G. Neppi Modona, Art. 112, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1987, pp. 39 ss.

21. P. Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2020, p. 105.

22. V. Onida, La posizione costituzionale del C.S.M. e i rapporti con gli altri poteri, in B. Caravita (a cura di), Magistratura, C.S.M. e principi costituzionali, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 30.

23. Vds. A. Pizzorusso, Les fondements constitutionnels de l’“autogouvernement” de la magistrature, in T.S. Renoux (a cura di), Les Conseils supérieurs de la magistrature en Europe, La Documentation Française, Parigi, 2000, pp. 235 ss.

24. R. Romboli, Il pubblico ministero nell’ordinamento costituzionale e l’esercizio dell’azione penale, in S. Panizza - A. Pizzorusso - R. Romboli (a cura di), Ordinamento giudiziario e forense. I. Antologia di scritti, Pisa University Press, Pisa, 2002, p. 307.

25. G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 63.

26. C. Mortati, Istituzioni, op. cit., pp. 1248 ss.

27. Sulla quale, per tutti, S. Bartole, Indipendenza del giudice (teoria generale), in Enciclopedia giuridica Treccani, Treccani, Roma, 1989.

28. R. Romboli, Giudice naturale, in Enciclopedia del diritto (agg. II), Giuffrè, Milano, 2000, p. 368.

29. A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia, op. cit., p. 45.

30. P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 313 ss.

31. N. Zanon, La responsabilità dei giudici, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2004, op. cit., pp. 251-252.

32. A. Di Giovine, Potere giudiziario e democrazia costituzionale, in S. Sicardi (a cura di), Magistratura e democrazia italiana: problemi e prospettive, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2010, p. 45. 

33. A. Pizzorusso, La Costituzione ferita, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 139, nota 13.

34. M. Fioravanti, Il legislatore e i giudici di fronte alla Costituzione, in Quaderni costituzionali, n. 1/2016, p. 8.

35. L. Elia, Libertà personale e misure di prevenzione [1962], in Id., Studi di diritto costituzionale (1958-1966), Giuffrè, Milano, 2005, p. 479. 

36. R. Romboli, Il pubblico ministero, op. cit., p. 207; similmente A. Pizzorusso, La Costituzione ferita, op. cit., p. 144.

37. Per tutti, G.U. Rescigno, L’esercizio dell’azione pubblica ed il pubblico ministero, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2004, op. cit., pp. 129 ss.

38. N. Zanon, Pubblico ministero e Costituzione, op. cit.; G. Corso, Il pubblico ministero nel sistema costituzionale, in Diritto pubblico, n. 3/1997, pp. 885 ss.; N. Zanon e F. Biondi , Il sistema, op. cit., pp. 249 ss.; O. Dominioni, L’ufficio del pubblico ministero. Obbligatorietà dell’azione penale e efficienza giudiziaria, in N. Zanon e F. Biondi (a cura di), L’indipendenza, op. cit., pp. 143 ss.; P. Gaeta, L’organizzazione, op. cit., pp. 165 ss.

39. Per tutti, F. Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, Giappichelli, Torino, 2020, pp. 197 ss.; R. Romboli, Il pubblico ministero, op. cit., pp. 308-309.

40. G.U. Rescigno, L’esercizio, op. cit., p. 147.

41. G. Silvestri, L’organizzazione del pubblico ministero, op. cit., p. 224.

42. M. Chiavario, La fisionomia del titolare dell’azione penale, tema essenziale di dibattito per la cultura del processo, in Associazione tra gli studiosi del processo penale, Pubblico ministero e riforma, op. cit., p. 17.

43. C. Mortati, Istituzioni, op. cit., p. 1265, nota 1.

44. Sul punto, P. Barile, L’obbligatorietà dell’azione penale, in Scritti in memoria di Aldo Bozzi, Cedam, Padova, 1992, pp. 33 ss.

45. G. Silvestri, L’organizzazione del pubblico ministero, op. cit., p. 227.

46. G.U. Rescigno, L’esercizio, op. cit., p. 148.

47. Per tutti, V. Zagrebelsky, Articolo 109, in G. Branca (a cura di), Commentario, op. cit., pp. 32 ss.; G. D’Elia, Magistratura, polizia giudiziaria e Costituzione. Contributo allo studio dell’art. 109 Cost., Giuffrè, Milano, 2002.

48. L. Carlassare, L’esercizio indipendente della giurisdizione nello Stato costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale, n. 6/2018, p. 2649.

49. G. Silvestri, L’organizzazione del pubblico ministero, op. cit., p. 227.

50. F. Dal Canto, Lezioni, op. cit., p. 199.

51. Per tutti, F. Dal Canto, op. ult. cit., pp. 207 ss.; C. Salazar, L’organizzazione interna delle Procure e la separazione delle carriere, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Problemi attuali della giustizia in Italia, atti del Seminario di studio tenuto a Roma l’8 giugno 2009, Jovene, Napoli, 2010, pp. 179 ss.

52. G. Silvestri, L’organizzazione del pubblico ministero, op. cit., p. 235; F. Rigano, Il pubblico ministero e la funzione di giustizia: appunti sulla relazione di Giuseppe Ugo Rescigno, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2004, op. cit., p. 208; diversamente, si è parlato di un assetto a “gerarchia debole”.

53. P. Gaeta, L’organizzazione, op. cit., p. 199.

54. P. Gaeta, op. ult. cit., pp. 189 ss.

55. Vds. G. Salvi, Intervento del Procuratore generale della Corte suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, Roma, 31 gennaio 2020, pp. 74-75 (www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/RELAZIONE_PROCURATORE_GENERALE_2020.pdf).

56. Su tale proposta, da ultimo, G. Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale, Laterza, Bari-Roma, 2020; F. Vecchio, Pericolo populista e riforme della giustizia. A proposito di alcune insoddisfacenti proposte di riforma dell’obbligatorietà dell’azione penale, in Rivista AIC, n. 1/2021, pp. 65 ss.

57. Vds. G. Silvestri, Giustizia e giudici, op. cit., p. 109. 

58. Per tutti, S. Sicardi, Ordine giudiziario e separazione delle carriere: pareggiamento o differenziazione delle garanzie di indipendenza?, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Problemi attuali, op. cit., pp. 49 ss.; C. Salazar, L’organizzazione interna, op. cit., pp. 235 ss.; F. Dal Canto, Lezioni, op. cit., pp. 202 ss.

59. Un quesito simile sarà prossimamente depositato per iniziativa del Partito Radicale (l’iniziativa incontra il consenso della Lega).

60. G.U. Rescigno, L’esercizio, op. cit., p. 170.

61. G. Silvestri, Giustizia e giudici, op. cit., p. 108.

62. P. Ferrua, Il “giusto processo”, Zanichelli, Bologna, 2012, p. 105.

63. R. Romboli, Introduzione al tema: l’azione penale e il ruolo del pubblico ministero, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Problemi attuali, op. cit., p. 114.

64. S. Bartole, La revisione della Costituzione: riflessioni in tema di magistratura, in Diritto pubblico, n. 3/1997, pp. 830-831.

65. L. Elia, Intervento, in Associazione italiana dei costituzionalisti, La riforma costituzionale, atti del Convegno, Roma, 6-7 novembre 1998, Cedam, Padova, 1999, p. 466.

66. G. Silvestri, Giustizia e giudici, op. cit., p. 110.

67. G. Silvestri, La riforma dell’ordinamento giudiziario, in S. Gambino (a cura di), La magistratura nello Stato costituzionale. Teoria ed esperienze a confronto, Giuffrè, Milano, 2004, p. 8.

68. A. Pizzorusso, La Costituzione ferita, op. cit., p. 149. 

69. A. Pizzorusso, op. ult. cit., p. 147, nota 35.

70. G. Corso, Il pubblico ministero, op. cit., p. 888.

71. G.U. Rescigno, L’esercizio, op. cit., p. 141.

72. S. Panizza, Fondamento e attualità del principio di obbligatorietà per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Problemi attuali della giustizia in Italia, op. cit., pp. 173-174. 

73. F. Dal Canto, Lezioni, op. cit., p. 175.

74. Vds. www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_10_4.page#.

75. M. Chiavario, L’azione penale tra diritto e politica, Cedam, Padova, 1995, pp. 135 ss.

76. O. Dominioni, L’ufficio del pubblico ministero, op. cit.

77. V. Zagrebelsky, L’obbligatorietà dell’azione penale. Un punto fermo, una discussione mancata, un problema attuale, in Cassazione penale, n. 12/1992, I, p. 3186.

78. Da ultimo, N. Rossi, Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, in questo fascicolo.

79. Vds. S. Catalano, Rimedi peggiori dei mali: sui criteri di priorità nell’azione penale, in Quaderni costituzionali, n. 1/2008, pp. 96 ss. e i riferimenti bibliografici ivi riportati.

80. Sul punto, per tutti, B. Caravita, Tra crisi e riforme. Riflessioni sul sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1993, p. 158; G. Monaco, Pubblico ministero ed obbligatorietà, op. cit., pp. 265 ss. 

81. O. Dominioni, L’ufficio del pubblico ministero, op. cit., p. 164.

82. Così, con riferimento alla prassi dell’ordinamento francese, E. Bruti Liberati, Lo statuto del pubblico ministero nel progetto di legge costituzionale n. 14. Non solo separazione delle carriere, in Sistema penale, 9 marzo 2020, pp. 9-10 (www.sistemapenale.it/it/opinioni/bruti-liberati-statuto-pm-progetto-legge-costituzionale-14).

83. D. Vicoli, Scelte del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato e art. 112 Cost.: un tentativo di razionalizzazione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, n. 1-2/2003, p. 276.

84. E. Marzaduri, Considerazioni sui profili di rilevanza processuale del principio di obbligatorietà dell’azione penale a vent’anni dalla riforma del codice di procedura penale, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Problemi attuali della giustizia in Italia, op. cit., p. 144.

85. F. Palazzo, La non-punibilità: una buona carta da giocare oculatamente, in Sistema penale, 19 dicembre 2019, p. 12 (www.sistemapenale.it/it/opinioni/palazzo-la-non-punibilita-buona-carta-da-giocare-oculatamente).

86. F. Palazzo, op. ult. cit., pp. 4-5. 

87. Sul punto, da ultimo, O. Dominioni, L’ufficio del pubblico ministero, op. cit., pp. 155 ss.

88. F. Dal Canto, Lezioni, op. cit., pp. 169 ss.

89. Così le cd. “nomine a pacchetto”, sulle quali, per tutti, G. Silvestri, Notte e nebbia sulla magistratura italiana, in questa Rivista online, 12 giugno 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/notte-e-nebbia-sulla-magistratura-italiana_12-06-2020.php.

90. F. Dal Canto, Lezioni, op. cit., p. 174.

91. F. Dal Canto, op. ult. cit., pp. 167-168.

92. Da ultimo, A.U. Palma, L’obbligo di esercizio dell’azione penale, carico giudiziario ed efficientamento di sistema: una prospettiva rispettosa del vincolo costituzionale, in Archivio penale, n. 1/ 2021, (https://archiviopenale.it/File/DownloadArticolo?codice=364c1df0-fc99-410a-9692-8aaf62a22031&idarticolo=27065). 

93. Per tutti, G. Giostra, Processo mediatico, in Enciclopedia del diritto – Annali, vol. X, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 646 ss.

94. Sul punto, in particolare, E. Amodio, A furor di popolo. La giustizia vendicativa giallo-verde, Donzelli, Roma, 2019.