Magistratura democratica

Ripudio della guerra, diritto alla difesa, ricerca di una soluzione mediata del conflitto*

di Gianni Cuperlo

Una guerra è brutalità, morte, sopraffazione, e nessuna aggettivazione potrà mai giustificarne l’abominio. Il diritto alla difesa è un principio scolpito nell’ordinamento internazionale e non lo si può piegare alla contingenza delle opportunità. Perseguire una soluzione mediata dei conflitti è la sola strategia che la nostra civiltà e cultura ci consente di legittimare.

1. Lasciamo stare l’Anpi e i partigiani, la Storia non si tira di qua e di là come una coperta, ha le sue radici e matrici, combina gli eventi coi sentimenti, nutre passioni e, quando benevola, stempera gli odi. Lasciamo stare anche i pacifisti, anzi il pacifismo, che interpreta i conflitti assumendo il peso di una sempre difficile composizione allo scopo di preservare vite, destini di popolazioni oppresse da mattatoi dove le guerre da tempo non sanno né vogliono distinguere tra chi indossa un’uniforme e chi spinge una carrozzina. Quel pacifismo, con le sue declinazioni, ha svolto molte volte il ruolo di supplente per una politica sorda alle grida di soccorso. Non ha solo riempito strade e piazze di folle convinte, perché consapevoli, della devastazione che portano bombe, missili, assedi o rastrellamenti, rimedi peggiore del male. Ha anche percorso sentieri di pace come i fiumi carsici, fuori dalla vista, costruendo azioni di solidarietà e mediazione dentro luoghi accantonati dalle cronache e su cui i riflettori si erano spenti. Premessa per dire che, in questo dibattito sull’invio di armi e sostegno militare alla resistenza ucraina, forse è bene che ciascuno argomenti senza lo scudo di vicende collettive verso le quali si può solamente portare rispetto. Ascolto e rispetto. Diamo anche per scontato ciò che scontato dovrebbe essere. C’è l’aggressore, la Russia di Vladimir Putin, e l’aggredito, l’Ucraina di Volodymyr Zelensky. 

 

2. La Russia di Putin ha un pedigree risaputo. Rinomato no, ma risaputo sì. Anna Politkovskaja è stata assassinata a Mosca il 7 ottobre del 2006, stesso giorno del compleanno del Presidente, sorta di macabro cadeau. Dopo di lei, altri giornalisti, oppositori, intellettuali hanno conosciuto una fine analoga mentre Aleksej Naval’nyj, sopravvissuto al veleno, rimane in carcere. Putin, il Presidente Putin, ha piegato la Cecenia (un milione e mezzo di persone per metà filorusse) con eccidi e una repressione che ha riprodotto in Siria. Nel mezzo, l’occupazione della Georgia nel 2008 e della Crimea nel 2014. Quale sia il disegno neo-imperiale del Cremlino è materia discussa, ma per quanto discussa pare difficile negare la realtà: quella strategia coltiva la memoria di Pietro il Grande e trae ispirazione da Alexander Dugin e il suo “Continente Russia”. 

Di Kiev noi europei e occidentali, prima di questa tragedia, sapevamo meno, spesso molto meno. Sulla parabola del Presidente in carica molti non avrebbero scommesso, e una minoranza aveva seguito con particolare interesse la rivolta di Piazza Majdan e il ribaltamento del vecchio regime di Victor Janukovyč. Era il febbraio del 2014. Spiegava Freedom House, nel suo report annale (datato 2021), che il Paese si collocava attorno alla sessantesima posizione, inserito tra le nazioni “parzialmente libere”, mentre sul versante della corruzione la lancetta scendeva al 122° posto, giusto tra il Niger e l’Angola. Quanto a dimensioni, non parliamo della Cecenia: l’Ucraina si estende per 600 mila chilometri quadrati e conta (contava) oltre 40 milioni di abitanti. Terra contesa da sempre e da tutti, il nome stesso si può intendere come “sui confini”, a conferma di un ruolo strategico di “porta” d’ingresso (o di uscita) dall’Europa. 

 

3. Terza e ultima istantanea, le “colpe” o i limiti dell’Occidente dopo il 1991 e l’implosione dell’Unione Sovietica. Di prassi, quando un impero crolla si contano i morti, e possono essere molti, moltissimi. Fu così con l’Impero Ottomano e il genocidio armeno. Dopo, quello britannico e le conseguenze del divorzio tra India e Pakistan. Per non dire degli imperi centrali sul continente europeo e due guerre mondiali consumate qui. L’impero sovietico, invece, cade praticamente senza vittime – un miracolo, parve allora, con l’Occidente fiero di autoassegnarsi la medaglia del vincitore laddove il “nemico” si era in qualche modo suicidato. Peccato che, come ha scritto Lucio Caracciolo, abbiamo scambiato la fine della pace con la fine della guerra e, anziché agire con lo spirito illuminato dell’America del Piano Marshall, siamo incorsi nella logica di Versailles, 1919. Con minore brutalità e spirito di vendetta, si capisce. Semplicemente, qualcuno ha ritenuto lecito, e soprattutto possibile, piegare quell’ex-impero fallito a mercato da cui attingere risorse energetiche e beni della terra in cambio di una paterna benevolenza. Più che un crimine, un errore appunto, di quelli da evitare, magari rammentando il monito di Marc Bloch: «L’incomprensione del presente cresce fatalmente dall’ignoranza del passato».

 

4. Bene, ma fissate queste categorie di riferimento si deve arrivare al punto o snodo, e quello sta in un fatto. Che nulla di tutto ciò, comprese molte altre analisi e vicissitudini che potremmo indagare, nulla dicevo del pregresso, dritto o storto che sia (e spesso assai storto è stato), può giustificare e neppure ridurre la portata dell’evento avviato il 24 febbraio del 2022: un Paese sovrano e retto da un governo legittimo è stato militarmente invaso da un esercito straniero con l’obiettivo dichiarato di sostituire il Governo in carica, demilitarizzare la nazione (e «denazificarla», nella formula ufficiale), risolvendo l’anomalia ucraina (una nazione «inesistente» e artificialmente fondata) in una ricomposizione dell’unico popolo esistente (la comunità russa, bielorussa, ucraina). Per conseguire l’obiettivo, lo Stato invasore ha impiegato uomini, mezzi, armamenti, bombardando per settimane centri abitati e determinando un numero imprecisato di morti, molte donne, bambini, con fosse comuni testimoniate da giornalisti e media in una presa diretta della guerra che non ha risparmiato il corredo dell’orrore, stupri, torture, crudeltà. 

 

5. Dinanzi a una tragedia simile, non la comunità internazionale tutta, ma l’Europa e l’Occidente hanno reagito nell’immediato condannando l’invasione, inviando aiuti e assistenza umanitaria alla popolazione aggredita, aprendo le proprie frontiere all’esodo di almeno 4 milioni di profughi (mentre oltre 11 milioni sarebbero gli sfollati), varando cinque pacchetti di sanzioni alla Russia e accogliendo la richiesta del Governo ucraino per un sostegno anche militare (mezzi e armi) alla resistenza in essere nel Paese. Da subito sono emerse almeno due tesi da parte di quanti, con argomenti legittimi, hanno dichiarato la propria contrarietà a quella decisione. La posizione più netta è venuta da una cultura che rifiuta (citando la nostra Costituzione: «ripudia») la guerra in via di principio e l’uso delle armi in qualunque contesto, perché origine inevitabile di un numero maggiore di vittime. Diversa – direi, radicalmente diversa – la spiegazione di quella minoranza che, avendo piena certezza della vittoria finale della Russia, ha invitato gli ucraini alla resa nel nome della salvezza di una parte di popolazione altrimenti destinata a sicuro massacro. 

 

6. Per quanto può valere, ho condiviso la decisione di sostenere la resistenza ucraina anche tramite l’invio di armi. Con quali interrogativi non solo di ordine politico, ma etico e morale, non può importare a nessuno se non alla coscienza con la quale ciascuno di noi è chiamato a misurarsi. Due cose, invece, voglio dire sul senso e le ricadute di quella scelta. La prima ha a che vedere con lo scopo che un supporto militare avrebbe dovuto avere. Quello scopo non poteva e non può essere l’intenzione di vincere questa guerra sul campo di battaglia (o con le bombe dal cielo) perché si tratta di uno scenario che avrebbe come esito una carneficina umana come mai più vista e vissuta dopo il secondo conflitto mondiale. Quel sostegno aveva e ha la funzione di aiutare nell’immediato la difesa di una nazione e un popolo aggrediti, premendo su Putin affinché receda dal sentiero sciagurato che ha imboccato. Ascolto l’obiezione: “ma se questo si voleva ottenere, allora bisognava agire sul versante del dialogo, della trattativa; se inviamo armi non facciamo altro che esasperare il clima e spingere Mosca a irrigidire la sua posizione, prolungando la guerra”. Osservazione seria, ma la domanda (non la replica, la domanda che mi pongo in onestà di pensiero) è se, in assenza di quella prima capacità di difesa, noi non avremmo assistito a una rapida decapitazione del Governo legittimo e un’altrettanto veloce acquisizione del Paese, in una riproduzione della vicenda di Georgia e Crimea. Me lo chiedo perché, come qualcuno ha detto, nelle condizioni date dopo quel 24 febbraio, se la Russia smette di combattere finisce la guerra, ma se l’Ucraina smette di difendersi finisce l’Ucraina. 

 

7. La seconda osservazione pesa, invece, sulla chiave politica di un conflitto che si prolunga da oltre sei settimane. Qual è l’alternativa a una soluzione della guerra sul campo? Ho letto le parole dell’Alto Commissario per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea, Josep Borrell, e quel suo richiamo al fatto che Kiev questa guerra «la vincerà in battaglia» e, già l’ho detto, trovo siano profondamente sbagliate (al pari, del resto, delle dichiarazioni del Presidente Biden sul «macellaio» o sul «regime change» a Mosca, sino all’utilizzo del termine «genocidio»). Qui vedo tutti i limiti di una troppo debole iniziativa politica, anche dell’Europa, per favorire una tregua, magari temporanea, ma finalizzata a riaprire uno spiraglio per quel dialogo che pareva poter iniziare già a poche ore dall’invasione (i colloqui in Bielorussia) e che si è rapidamente arenato. Circoscrivere il conflitto, evitare che nel Donbass possa consumarsi la strage che da più parti si annuncia, impedire che una guerra civile che si sta combattendo nel cuore del Continente europeo possa trasformarsi in una devastante guerra civile estesa a tutta l’Europa, questi debbono essere concretamente i traguardi che le élites occidentali, e non solo, hanno il compito di perseguire. Dare per scontata l’escalation di questo conflitto, da scortare con un incremento di spese militari gestite da ogni Paese in autonomia, nella logica che il “dopo” non sarà mai più una nuova Helsinki ma solo una guerra fredda 2.0, è una strada che fa retrocedere l’Europa e la sua civiltà di pace e cooperazione di un secolo pieno. Penso che tutto ciò non si possa né si debba compiere. Credo in un’Europa che, di fronte alla violenza inaccettabile di una nazione su un’altra, abbia il dovere di difendere i principi di libertà, indipendenza e sovranità di ogni Stato libero di decidere del proprio destino. Con la stessa volontà, penso si debba costruire da ora per il dopo un nuovo processo di distensione, dialogo e disarmo (sì, disarmo, anche se dirlo oggi pare straniante), che metta al centro una trattativa sulle testate nucleari tattiche, almeno se non vogliamo ipotecare il tempo storico dei nostri figli e nipoti. 

 

8. Una guerra è brutalità, morte, sopraffazione, e nessuna aggettivazione potrà mai giustificarne l’abominio. Il diritto alla difesa è un principio scolpito nell’ordinamento internazionale e non lo si può piegare alla contingenza delle opportunità. Perseguire una soluzione mediata dei conflitti è la sola strategia che la nostra civiltà e cultura ci consente di legittimare. L’incrocio di queste tre dimensioni non è stato mai semplice, oggi può apparire persino più complesso. Ma una alternativa a tentare, quella semplicemente non esiste. E allora, ancora una volta, non si può che ripartire da qui.

 

 

*  Il presente contributo è stato pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 20 aprile 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/ripudio-della-guerra-diritto-alla-difesa-ricerca-di-una-soluzione-mediata-del-conflitto).