Magistratura democratica

La guerra in Ucraina tra tabù nucleare e oltranzismo politico-mediatico*

di Mario Dogliani

Mentre incombe sul mondo lo spettro del disastro nucleare, la guerra scatenata alle porte orientali dell’Europa  proietta, nelle declinazioni incontrollate della sovranità a livello nazionale, una guerra civile interna all’Occidente. In nome di “prospettive politiche vitali”, e di una superiore missione contro le odierne “democrazie illiberali”, l’orizzonte di un negoziato possibile – perché ricercato subito e con ogni mezzo – sembra sfumare nel deserto intellettuale e morale, cedendo a logiche di dominio mediatizzate fondate sul nemico interno, refrattarie alla politica come processo di costruzione democratica e alle lezioni della storia. In tutto questo, la riflessione dei giuristi si è fermata alla proclamazione del ripudio della guerra e la pretesa di limitare o cancellare, attraverso il diritto, il ius ad bellum si è ridotta ad affermare la competenza delle corti di giustizia.

1. Il rischio rimosso della guerra nucleare / 2. Trattare solo dopo la debellatio del nemico? / 3. La guerra in Ucraina è anche una guerra civile nell’Occidente / 4. Cercare la pace vuol dire cercarla subito, sfruttando ogni spiraglio / 5. Ridateci Westfalia

 

1. Il rischio rimosso della guerra nucleare

Il tempo di guerra che stiamo vivendo è – per l’equilibrio di forza tra gli imperi (o per la loro stessa esistenza o ridefinizione) e per le rispettive culture politiche – un tempo di cambiamenti probabilmente irreversibili e oggi imprevedibili. Tra poche settimane, o tra pochi giorni, in quale condizione sarà la guerra? I tentativi di negoziato saranno ancora in corso o saranno stati ripudiati? Si sarà affermata la strategia della cronicizzazione della guerra? La consapevolezza della sconfitta avrà spinto la Russia a reazioni estreme? Fino a quelle nucleari? Oppure, la guerra a oltranza – essendo sintomo del desiderio di farla finita una volta per tutte non solo e non tanto con la Russia di oggi, ma con la perdurante ombra dell’impero del Male (non più comunista, ma “illiberale-autocratico”) – avrà portato l’Occidente ad adottare misure estreme? Di fronte a queste incertezze radicali, è opportuno non perdersi in congetture e cercare di chiarire quali sono gli effetti che la guerra ha già prodotto nelle nostre società, per iniziare a conoscere il tempo nuovo che sta cominciando. Occorre stabilire innanzitutto un punto fermo, per non perdersi nell’oggi del frastuono bellicista. La guerra in corso si svolge su uno sfondo incombente: quello dell’olocausto nucleare. Un orizzonte che, però, è stato sostanzialmente rimosso. E questa rimozione si sta facendo di giorno in giorno più esplicita, con l’acuirsi dell’oltranzismo politico-massmediatico dell’Occidente.

Entrambe le parti, Nato e Russia, hanno già infranto il tabù ammettendo che la guerra con armi atomiche è un’opzione possibile (o che, comunque, va accettata l’eventualità di una guerra atomica provocata da elementi casuali). Come è possibile che la prospettiva dell’estinzione del genere umano, o di un suo regresso alla più buia preistoria, siano trattate con tanta leggerezza (dai governi e dai formatori dell’opinione pubblica)? Si dice: perché sono in gioco prospettive politiche vitali. Ma tutte le prospettive politiche considerate “vitali” finiscono con l’apparire, in un arco non lungo di tempo, come insensate: episodi dell’eterna e insensata lotta delle élites. Meritano, queste prospettive politiche vitali, di essere difese a costo dell’olocausto nucleare? O non dovrebbero essere sempre valutate all’interno di una visione storica più ampia? Come è possibile che questa sia oggi la posizione dominante? Quale degrado intellettuale e morale ha portato ad accettarla? 

Questo è, dunque, il primissimo fronte di lotta: allontanare in ogni modo l’ipotesi che l’opzione nucleare si possa presentare come concreta, o che l’instabilità del contesto possa rendere possibile l’intervento del caso. Come fare? Per quel che può servire il microscopico apporto delle istituzioni culturali, è necessario non solo ripudiare ogni discorso che finga che l’attuale guerra possa proseguire mantenendosi negli attuali confini “convenzionali”, ma anche ogni discorso che svilisca le trattative in atto, sempre più incerte, con un “non ci fidiamo”, “ci voglio fatti, non parole”, e simili. Quest’ultima è una posizione solo apparentemente banale, di saggezza contadinesca. In realtà è un’opzione chiara per la continuazione della guerra. Ma la posizione da ripudiare con la massima energia è una “variante filosofica” della prima: uno sviluppo della teoria della “guerra giusta” che porta a quella della “pace giusta”, secondo la quale una pace ingiusta è peggiore che continuare a difendersi in una guerra giusta (dove “continuare a difendersi” vuol dire continuare la guerra che c’è). Tradotto: ogni compromesso (in particolare, sulla modifica dei confini) va respinto a priori. Si dice: che diritto abbiamo noi di imporre a un Paese di accettare quel che non vuole? Ma, in un contesto di sostanziale cobelligeranza, siamo proprio sicuri che uno dei Paesi cobelligeranti abbia il diritto di decidere per tutti se intraprendere o no la strada del trattato di pace, o dell’armistizio? Ulteriore sofisma da respingere è quello secondo cui il tabù nucleare sarebbe in realtà un incentivo alle guerre sub-atomiche, perché consentirebbe di scatenare guerre convenzionali confidando che le potenze nucleari alleate dello Stato aggredito non reagiranno, proprio perché provocherebbero una guerra nucleare. L’argomento è capzioso: il tabù nucleare è una convenzione fondata sull’aspettativa di reciprocità relativa a un comportamento specifico (non “alzare” i missili armati di bombe atomiche). Non pretende certo di tabuizzare la guerra, tutte le guerre, in sé, modificando la natura umana con la cancellazione della pulsione di morte (soprattutto nel suo profilo di destrudo – finalizzata all’annientamento – di se stessi). È inaccettabile che il carattere concettualmente delimitato del tabù venga evocato per sostenere il suo ripudio. Contro tutto ciò, si deve ribadire che l’unica posizione moralmente seria non può essere che quella secondo cui le guerre vanno fermate il più presto possibile. Con due conseguenze: la prima è che la geopolitica – come forma di pensiero – non può sostituirsi alla filosofia morale (e alla politica “pura” che da questa potrebbe essere ispirata), ma può solo esserne ancella per delucidare le situazioni di fatto sulle quali solo la filosofia morale può pronunciarsi. Con il che, il discorso si dirotta sulla lotta culturale per chiudere il becco a quei sedicenti filosofi (o meglio, filosofi-giornalisti) che si sono dimostrati in realtà dei sicari. La seconda è che, di fronte all’alternativa “pace o guerra”, il principio fiat iustitia, pereat mundus non ha alcun valore, perché nega il senso stesso dell’alternativa. Alternativa che non è solo un “pensiero” pensato in solitudine da qualcuno, ma una possibilità pratica, culturalmente formulata e da qualcuno politicamente perseguita. Dire fiat iustitia, pereat mundus vuol dire: “non incominciamo neanche a parlarne”.

 

2. Trattare solo dopo la debellatio del nemico?

Gli eventi più recenti hanno fatto emergere in modo che più netto non si può due posizioni assolutamente divaricate: con Putin non si tratta fino al suo crollo; con Putin si deve negoziare subito.

La seconda proposta è evidente, ha in se stessa le sue ragioni. Non è necessario spiegare che cosa voglia dire: “facciamo da subito tutto il possibile”. La prima, invece, è ambigua perché dipende da che cosa si intende per “crollo”. Potrebbe voler alludere a una “frenata” bellica, a un “basta così”, a un ritiro che possa essere interpretato da parte occidentale come una sostanziale resa, ma che salvi la faccia. Ma potrebbe invece alludere agli obiettivi veri e profondi dell’atteggiamento occidentale, che ha sempre detto di essere legittimato da una missione superiore, che ha più volte presentato la guerra come una jihad democratica che, finalmente, chiuda i conti con l’impero del Male. Non a caso, è proprio nell’imminenza dell’attuale negoziato (e nel suo corso) che, oltre alla diffusione delle parole d’ordine “non ci fidiamo”, “ci voglio fatti, non parole”, il fulcro del discorso sulla guerra si è spostato: restano ovviamente in primo piano i profili militari, geopolitici e geo-economici, ma si sta facendo sempre più incombente il profilo (presente fin dall’inizio) dello scontro di civiltà, della difesa dei “valori” occidentali, dell’irriducibile conflitto tra liberal-democrazie e autocrazie (si noti: ora definite come “democrazie illiberali”): in una parola: della “guerra giusta”. Guerra che – si dice – potrà risolversi solo con la sconfitta dei nemici delle società aperte. Dunque: guerra a oltranza. Se non è così, perché caricare di scetticismo, e svilire, il negoziato? Le posizioni espresse da Biden nei recenti vertici Nato, G7 e Ue, a Bruxelles, e le sue “esternazioni” triviali a Varsavia – puntualmente sostenute dai soffietti di Draghi – esprimono perfettamente questa idea. Dire: noi vogliamo la pace, ma le trattative “vere” cominceranno solo dopo che i russi si saranno arresi, è un palese non-senso. È ovvio che cercare la pace è cosa del tutto diversa dallo stipulare un trattato con il nemico dopo la sua debellatio. Sono capaci tutti di fare questo. Cercare la pace vuol dire cercarla subito, qui e ora. Il che significa dichiararsi disposti a un “cessate il fuoco” simultaneo, delle due parti, e formulare provvisorie ipotesi sulle reciproche concessioni. Ma questa scelta è presentata ora come impossibile. Perché? Perché non esistono orizzonti perseguibili? Non sembra che sia così, date le aperture che sembra ci siano state da parte ucraina sulla stessa prospettiva di una sua neutralità, e anche di un riassetto territoriale. Certo, è tutto da definire. Ma bisognerebbe “andare a vedere” e scoprire le carte. Ma non lo si fa. Perché? È proprio sicuro che la Russia non voglia? Che cosa può ottenere di più sostantivo di quel che è trapelato dai 15 punti del Financial Times e che oggi sembra stia emergendo dalla trattativa? Che le posizioni siano ancora lontane non significa che non possano essere fatti passi in avanti sulla strada del negoziato: ma questo è l’esatto contrario di quello che lasciano presagire le volgarità di Biden e le acquiescenze dei governi occidentali.

Si sono così scolpite le due scelte occidentali contrapposte: con Putin non si tratta fino al suo crollo; con Putin si deve negoziare per fermare la guerra subito. Ad oggi, la prima prospettiva ha acquisito ulteriore forza, essendosi caricata di ulteriori indignate considerazioni morali, divampate di fronte alle nefandezze russe, e la prospettiva del negoziato sta velocemente scomparendo. Il clou della propaganda bellicista è: “come si fa a trattare con chi compie crimini del genere?”. La risposta ovviamente è: “mai”.

Questo spostamento dell’asse del discorso – pericoloso, come tutte le volte che si evocano principi o posture morali non negoziabili – potrebbe però, forse, offrire qualche spazio per chi vuole fermare la guerra, impedire l’olocausto nucleare e costruire un nuovo ordine internazionale. Spazio solo argomentativo, ma forse non indifferente per contrastare il pensiero unico bellicista (e fanatico, contro la possibilità stessa di formulare un qualche dubbio) oggi dominante, e coltivare dubbi, sia sullo svolgimento storico degli eventi che sulle questioni morali evocate dagli stessi. Oggi viviamo nel paradosso che un evento tragico e cruciale come la guerra che si sta svolgendo sotto i nostri occhi non può essere studiato storicamente nelle sue cause o concause, perché ogni minima riflessione che si distacchi dal paradigma della guerra prodotta solo dalla pazzia criminale viene bollata come putiniana, traditrice e criminale anch’essa.

 

3. La guerra in Ucraina è anche una guerra civile nell’Occidente

Gli Stati Uniti hanno intimato un altolà a tutti gli Stati occidentali, ribadendo il loro ruolo di rappresentanti (sovrani) del fascio di forze economiche, militari, culturali che oggi dominano non solo nell’(apparentemente) astratto mondo globalizzato, ma dentro ciascuno di quegli Stati. Una sovranità esterna limitante e condizionante si è trasformata in una sovranità interna. E, conseguentemente, le forze economiche, militari, culturali… dominanti vieppiù si stanno affermando nell’immaginario occidentale non solo come invincibili, ma neanche in qualche modo criticabili in seno ai sistemi politici nazionali, e dunque non più, neppur marginalmente, addomesticabili dalla politica. Le opposizioni – con l’accusa di essere forze rossobrune-putiniane traditrici – sono state messe con le spalle al muro, in un angolo senza dignità e senza orizzonti. Il che spiega come il campo che dovrebbe essere dei nemici (pardon, degli avversari) di quel dominio, si sia ridotto a un deserto di opportunismo, di impotenza e di piccineria mentale, oggetto di irrisioni e di insulti.

Questa situazione mette i resti di quello che una volta era il movimento socialista, nelle forme che ha assunto negli ultimi decenni del secolo scorso, in una situazione tragica, nel senso proprio della parola. “Tragica” significa che è una situazione in cui il soggetto è messo di fronte a scelte che gli è impossibile compiere. Che fare? Quanti si sentono parte della storia del socialismo non possono pensare che il “tallone di ferro” c’è sempre stato, e che dunque si devono rassegnare. Non possono farlo perché c’è stato un tempo in cui pensavano di poter reagire, e non possono ammettere di aver seguito soltanto dei fantasmi. Ma non possono nemmeno fingere che dal deserto morale, intellettuale e politico in cui vagano possa venire qualcosa di rilevante, che possa contribuire a fermare il bellicismo e l’incoscienza imperante. Come si può oggi proporre una nuova pace “dall’Atlantico agli Urali” (o da Lisbona a Vladivostok) che pure in un recente passato era stata pensata possibile? E, nel fronte interno, come si può pensare che dal deserto possa nascere un movimento politico, per quanto embrionale? Né la rassegnazione né la speranza che risorga una opposizione politica sono – nell’orizzonte che possiamo scrutare – opzioni possibili. Alla scelta tragica, però, non possiamo sottrarci. Possiamo solo voltarle le spalle; ma anche questo significa scegliere: scegliere di gettare la spugna.

 

4. Cercare la pace vuol dire cercarla subito, sfruttando ogni spiraglio

Gli eventi di questi giorni, come si è detto, hanno fatto emergere l’alternativa secca (trattare o attendere la debellatio) che chiede una “lotta delle idee” (su che cosa sia la “pace giusta”) che si pone su un piano diverso da quello dell’opposizione politica organizzata; e che non richiede di scimmiottare i discorsi geo-politici e geo-economici fingendo di disporre – o di poter indirizzare l’uso – di qualche leva. Il modo più sensato (forse l’unico) per evitare il lancio della spugna è allora cercare di capire – facendo un esame di coscienza – su che cosa possiamo far leva per interpellare altre coscienze e agire sulla cultura profonda del nostro tempo.

Due motivi sembrano essere dominanti. Il primo è il mutamento profondo – veramente spaventoso – che si è manifestato nell’opinione pubblica (sarebbe meglio dire in quella giornalistica, che è l’unica che conosciamo, ma che indubbiamente rispecchia gli atteggiamenti dei governi occidentali e di una consistente parte dell’opinione pubblica stessa). È emerso, dalle viscere della nostra società, un sentimento di rancore, di odio implacabile, di smania di “farla finita” con tutto ciò che minimamente discorda dall’atlantismo più fanatico. Si potrebbe dire che l’immensa maggioranza silenziosa, l’immenso ceto medio che governa l’Occidente, ha “sentito l’odore del sangue”, e vuole azzannare la carne. L’oggetto di tanto odio – è evidente – non è solo la Russia che ha aggredito, che ha stracciato il diritto internazionale, che provoca distruzione e morte. E nemmeno la Russia che si trascina, agli occhi dell’Occidente, la memoria dell’Urss. Ma è il nemico interno: quella parte della società europea (compreso il cristianesimo) che si preoccupa della rottura del tabù nucleare, che avverte che l’olocausto del genere umano è alle porte, che vorrebbe che l’ipotesi della guerra (in primis di quella) nucleare fosse rifiutata a priori, che continua a ribellarsi al doppiopesismo del “mondo libero” (per cui Kiev non ha nulla a che vedere con Damasco)… Sono state scagliate accuse che fino a ieri sembravano impensabili, dentro un impazzimento che, da un lato, irride all’idea dell’Europa come “superpotenza erbivora” (cioè come potenza non cannibale, ma culturale, che si afferma come tale in quanto ricapitola in sé il tormentato percorso dell’Otto e Novecento) e che, dall’altro, sentendosi legittimato da una missione superiore (democrazie contro autocrazie), giustifica la guerra come olocausto morale, imposto da un dovere religioso.

Abbiamo, certo, il dovere di fare “come se” il discorso si rivolgesse a dei governi responsabili, non a degli esaltati. Ma sembra sempre più evidente che sta avvenendo quel che Thomas Mann scriveva alla fine del 1936: «L’ignoranza anacronistica del fatto che la guerra non è più ammissibile apporta naturalmente per un certo tempo dei “successi” nei confronti di coloro che non lo ignorano. Ma guai al popolo che, non sapendo più come cavarsela, finisse col cercare davvero la sua via di scampo nell’orrore della guerra, in odio a Dio e agli uomini!». Questa via di scampo nella guerra l’ha cercata la Russia. Ma l’errore è stato immediatamente duplicato dall’Occidente. Quell’ignoranza anacronistica (tanto più anacronistica e dolosa oggi, che conosciamo l’infinita potenza distruttiva delle armi nucleari) è più viva che mai, come dimostra (per quel che ci riguarda più da vicino) l’oltranzismo politico-mediatico di casa nostra. Chi coltiva dolosamente questa ignoranza e rifiuta il principio per cui, se c’è uno spiraglio di pace, questo va sfruttato subito, non può non essere definito come un “cattivo”, un “malvagio”. Sono aggettivi semplici, ingenui, da bambini. Ma perché rifiutarli? Sono più chiari di altri, o di altri giri di parole, più sofisticati.

Si riaffaccia lo spettro della «inutile strage» di Benedetto XV, di quella incoscienza furiosa, che oggi non riusciamo più nemmeno a capire, che nel 1914 precipitò l’Europa in una guerra le cui cause ideologiche covavano sotto la cenere e che erano state dolosamente (e stupidamente) alimentate. L’interventismo di allora non merita nessuna giustificazione, e illumina i rischi di oggi. 

 

5. Ridateci Westfalia

Una delle cause dell’attuale impasse politico-diplomatica consiste nel fatto che il paradigma amico/nemico, che ispira la formazione dell’opinione pubblica, è costruito su un aut aut morale, in forza del quale il nemico, considerato privo di ogni valenza etico-politica (per quanto detestabile), viene combattuto non per instaurare un equilibrio più solido, ma per onorare un supplemento etico ulteriore. Purtroppo, l’eticizzazione del divieto della guerra – operazione mirabile, che ha rovesciato sia l’eticizzazione fascista della guerra che il mito della “guerra giusta” – ha avuto un risvolto negativo. Le violazioni del divieto non sono state sanzionate con l’intervento di una forza internazionale irresistibile (come vorrebbe la Carta dell’Onu), ma sono continuate e, per di più, al cospetto di un sistema normativo inapplicato ma culturalmente coperto da un “valore” inestimabile e gelosamente custodito, che ha avuto l’effetto di far scomparire le guerre non dal mondo, che è restato sanguinario, ma dalla considerazione intellettuale. Le guerre dovrebbero essere, tutte, scandagliate dal punto di vista delle loro cause storiche ed economiche; culturali e sociologiche, etniche e religiose; dal punto di vista delle ideologie scatenanti e da quello delle tecniche impiegate… Solo così la storia dei momenti di follia dell’umanità può diventare magistra vitae. Posto che la teoria della guerra giusta non ha nessun pregio – perché non indica nulla di oggettivo, ma è solo l’esito di un ordinamento soggettivo di preferenze che si risolve nel principio: “è giusta la guerra che secondo me è giusta” –, il fenomeno “guerra” non ha trovato nell’epoca presente – al di fuori del pacifismo – alcuna sede ove essere considerato un attualissimo problema irrisolto, da affrontare cercando soluzioni più realistiche di quella prevista dalla Carta dell’Onu, rimasta lettera morta. La riflessione dei giuristi si è fermata alla proclamazione del ripudio della guerra da parte di atti di diritto interno o internazionale (fino alla sua assunzione tra le consuetudini internazionali generalmente riconosciute, subito smentita). Potrebbe sicuramente essere efficace nel diritto interno (ad esempio, nella discussione sull’invio di armi all’Ucraina), ma la pretesa di limitare o cancellare, attraverso il diritto, il ius ad bellum è rimasta un sogno e si è melanconicamente ridotta ad affermare la competenza delle corti di giustizia. E la guerra, come fenomeno ricorrente nelle e tra le società umane, è rimasta una sorta di oggetto misterioso (tranne che per i politologi consiglieri dei governi imperiali, i cui consigli pratici si sono ammantati del nome di “teorie” o “dottrine”). Lo sbocco necessario della mancanza di questa riflessione complessiva e politicamente costruttiva è, come si sta vedendo, un fondamentalismo che trasforma il nemico in un male che non può essere oggetto di altra considerazione che non sia quella della punizione, perché la violazione del “diritto” non tollera altro. Se la guerra è essenzialmente negazione della iustitia, allora fiat iustitia, pereat mundus: e infatti si accetta il rischio della distruzione del pianeta. Si potrebbe dire che il divieto giuridico della guerra – con la sua necessaria assolutezza – ha indotto una confusione tra il piano del dover essere e quello dell’essere. Il primo (con il suo corollario della irreversibilità della cooperazione internazionale) è parso come totalmente inverato nel secondo, e quindi le sue violazioni sono apparse come un qualcosa di inconcepibile, di innaturale (nel senso che appartengono a un altro mondo), peccati mortali che vanno solo cancellati, che non possono neanche comparire nel mondo dei giudizi morali e della considerazione politica (perché ovviamente sono sempre commessi da lontani “altri”). E invece le guerre andrebbero considerate nel loro eterno ripetersi, come fenomeni esecrabili ma diffusi e continui, tutti identici perché non esistono guerre giuste e ingiuste, tutti ugualmente ripugnanti il senso morale, tutti da combattere, nessuno da giustificare in nome di principi superiori non negoziabili neanche se proclamati da vaste “alleanze difensive”: principi che creano il paradosso di una morale istituzionalizzata che impedisce di curare – se non con una guerra ad infinitum – il male che essa stessa condanna. 

 

 

* Relazione presentata all’Assemblea triennale del CRS il 9 aprile 2022, destinata alla pubblicazione negli Atti della medesima.
Il presente contributo è apparso, come anticipazione al presente fascicolo, su Questione giustizia online l’11 aprile 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-guerra-in-ucraina-tra-tabu-nucleare-e-oltranzismo-politico-mediatico).