Magistratura democratica

L’inverno di Kiev e noi, donne e uomini del diritto*

di Enrico Scoditti

Cosa dice ai giuristi che guardano all’Europa la strenua difesa da parte del popolo ucraino della propria sovranità?

Una guerra mondiale riclassifica le forme del pensiero e le caratteristiche di una civiltà. Le guerre mondiali del ventesimo secolo – soprattutto la Seconda, per la capacità di riscrivere culture e assetti geo-politici – hanno avuto questo esito. La guerra di Kiev, in quanto condotta nel cuore geografico dell’Europa da una delle tre superpotenze mondiali, ha questa portata. L’invasione russa alle porte dell’Unione europea non è il conflitto bellico che afflisse i Paesi balcanici, è qualcosa di più. È un evento che riscrive la storia, in un tempo già peraltro di riscrittura per effetto dell’inedita unificazione del genere cui ha provveduto la pandemia. Cosa dice a noi, donne e uomini del diritto, la battaglia di Kiev contro la straordinaria potenza di fuoco russa per la difesa dell’identità di un popolo? Kiev non accetterà mai l’invito alla pace che si alza dal cuore dell’Europa: per gli ucraini, fermare la resistenza militare vuol dire accettare l’occupazione del loro territorio e perdere definitivamente il potere di determinazione del loro destino. Deporranno le armi, solo se le deporranno i russi. E allora, morire per Kiev cosa comporta per la nostra visione di giuristi sull’Europa?

In un’importante discussione a metà degli anni novanta del secolo scorso sull’European Law Journal, nel fermento della discussione su una costituzione per l’Europa, Joseph H.H. Weiler richiamò l’importanza della categoria di “nazione”. Il diritto ha il compito di civilizzare i rapporti, e il sovranazionalismo in particolare quello di mitigare gli eccessi e gli abusi del concetto di nazione, ma il radicamento culturale che la nazione offre, scrisse Weiler, risolve il problema ineludibile dell’identità. La nazione risponde alle domande «chi sono?» e «perché sono qui?». Nella storia della statualità europea la nozione di confine ha assolto un ruolo centrale, perché ha permesso agli individui di collocare se stessi nel mondo. L’unione sempre più stretta fra i popoli che l’Europa vuole stabilire non può mettere da parte la mediazione etnico-culturale. La proposta di Weiler era di non emarginare gli animal spirits, ma di collocarli in un orizzonte di ragionevolezza e addomesticamento grazie alla saldatura con i civic spirits. Sulla base della tesi di Weiler, si poteva desumere un interrogativo ancora attuale: l’unificazione politico-costituzionale dell’Europa non fa venir meno l’originalità di un esperimento istituzionale che, mantenendo la dialettica di nazionale e sovranazionale, previene le degenerazioni del concetto di nazione? Un’Europa politica non rischia di ripercorrere le vicende del nazionalismo senza un polo alternativo che le moderi?

In quella discussione, dall’altra parte, vi era il patriottismo costituzionale di Jürgen Habermas: non c’è un’identità europea di tipo culturale che preceda il diritto e la procedura democratica; l’Europa non è dunque un legame etnico, ma è l’esuberanza democratica delle sue istituzioni. È la passione per la democrazia che può unificare l’Europa, non le emozioni comunitarie.

L’ultimo Habermas ha restituito peso ai legami costitutivi e identitari. È invece cresciuta nel mondo dei giuristi europei, sull’onda del fatto indiscutibile che l’integrazione europea è avvenuta attraverso il diritto, la convinzione che siano democrazia e diritti fondamentali gli strumenti su cui basare forme di unificazione sempre più avanzate. In fondo, è nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo che sarebbe scritta l’identità dell’Europa. Un tale punto di vista, se spinto alle sue estreme conseguenze, conduce alla svalorizzazione della sovranità quale fenomeno identitario, facendo coincidere l’autodeterminazione di un popolo non con la preservazione del suo destino culturale, ma con il diritto (tutto giuridico) all’autodeterminazione.

È inutile rammentare quanto decisiva per frenare gli abusi e le derive irragionevoli dell’ideologia della sovranità sia la civilizzazione giuridica. Il fenomeno epocale delle immigrazioni sul suolo europeo ne è la dimostrazione più evidente. Proprio la funzione di addomesticamento degli animal spirits, che il diritto assolve, evidenzia però la natura astratta del diritto medesimo a fronte del modo di essere delle donne e degli uomini di una comunità.

Il diritto moderno è un grande artificio, che si ispira tuttavia agli ideali suggellati dalla Rivoluzione del 1789. La modernità europea si è costruita grazie allo svolgersi della dialettica fra il dover essere, rappresentato dagli ideali normativi del diritto, e l’essere delle comunità, costituito da mediazioni culturali e appartenenze identitarie. Non è possibile guardare all’Europa separando queste due dimensioni, quasi che da una parte vi sia il progresso garantito dal diritto e dall’altra il regresso del nazionalismo identitario. L’Europa non è solo l’ideale che il diritto enuncia, ma anche l’identità di donne e uomini che deriva dall’effettività della loro esistenza.

I giuristi non hanno, perciò, il monopolio dell’Europa. Essi sono i sacerdoti del dover essere, ma c’è un mondo là fuori, che è l’essere concreto degli individui, il quale contribuisce, certo con il concorso del dover essere, a definire cosa è Europa. E che il diritto non abbia il monopolio della realtà lo dimostra proprio il frangente di una guerra, dove, quando gli strumenti giuridici nulla possono, e l’appello alla pace rimane inascoltato per il popolo invaso che non può che difendere il proprio territorio, è il linguaggio della politica-politica che entra in campo, quel linguaggio che il diritto non può giuridificare. Se Europa sarà, in senso politico-costituzionale, lo sarà non solo per merito del diritto, ma anche e soprattutto per un’esistenza concreta che a un certo punto, per rispondere alle domande “chi sono?” e “perché sono qui?”, guarderà all’Europa.

La resistenza nelle strade di Kiev è il frutto di un’esistenza concreta. La strenua difesa, fino al sacrificio personale, del proprio territorio, che la dignità e fierezza di un popolo sta mostrando al mondo, dice, a noi donne e uomini del diritto, che se vogliamo l’Europa dobbiamo saper guardare (anche) oltre i confini di quell’universo ideale cui diamo il nome di “diritto”. 

 

 

*  Il presente contributo è stato pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 1° marzo 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/l-inverno-di-kiev-e-noi-donne-e-uomini-del-diritto).