Magistratura democratica

Il diritto penale non è un diritto per le donne: il caso della legittima difesa[1]

di Paola Di Nicola Travaglini

Il diritto penale moderno, così come le istituzioni giudiziarie deputate alla sua applicazione, sono stati sino a tempi recentissimi monopoli del dominio maschile. Le donne ne sono state deliberatamente e violentemente escluse per mantenere saldo e indiscusso un assetto gerarchico che le vede in posizione subalterna, mascherato sotto lo schermo dell’apparente neutralità sessuale del diritto, utilizzata come formula per renderle invisibili. Partendo da questa premessa storico-filosofica, il contributo analizza gli istituti fondamentali posti dal diritto penale a tutela dell’incolumità individuale e della libertà personale, in primis le norme esimenti che permettono, in condizioni eccezionali, l’autotutela del singolo. Per coglierne, anche in questo, l’immaginario esclusivamente maschile e la programmata inaccessibilità alle donne, che si trovano a subire situazioni di abusi ricorrenti all’interno di relazioni strette.

1. L’estraneità femminile al diritto penale perché luogo del potere maschile: le parole delle donne (cenni) / 2. Le radici storico-giuridiche che disapplicano la legittima difesa solo alle donne vittime di violenza / 3. La falsa neutralità nell’interpretazione della legittima difesa applicabile alle donne vittime di violenza / 4. L’interpretazione dell’attualità del pericolo nel ciclo della violenza domestica / 5. L’articolo 52 del codice penale non viene applicato alle donne vittime di violenza / 6. La legittima difesa come legittima offesa contro le donne vittime di violenza e l’attualità del pericolo nei reati abituali / 7. L’articolo 52 del codice penale depurato dagli stereotipi di genere in un’interpretazione convenzionalmente orientata / 8. La legittima difesa con le lenti di genere

 

1. L’estraneità femminile al diritto penale perché luogo del potere maschile: le parole delle donne (cenni)

È l’evidenza che non si vede[2]. Le donne sono strane, straniere, estranee, esterne al mondo del diritto penale. La radice latina di queste parole è la stessa: “extra-”, cioè “fuori”. 

Nel nostro attuale codice penale la donna non è nominata se non quando incinta, vale perché madre. L’uomo invece è nominato nel delitto per eccellenza, quello che scardina gli assetti di convivenza: l’omicidio. Si poteva utilizzare la parola persona, ma si decise, con approfondita valutazione (rigorosamente tra soli uomini), di non farlo perché, secondo la «Relazione al Re» sul codice penale, la parola “uomo” si capiva meglio[3]. Eppure, solo le donne sono uccise in quanto donne e per il solo pretendere di essere libere da un uomo. Si chiama femminicidio[4], ma noi non lo nominiamo perché la nostra modalità interpretativa, specialmente in Italia, non conosce e non riconosce la “prospettiva di genere” neanche nei reati determinati solo da questo movente[5]. La Corte suprema messicana distribuisce ai suoi giudici un volume di 283 pagine dal titolo: «Protocolo para juzgar con perspectiva de género»[6], perché un uomo uccide, stupra, maltratta, azzittisce, umilia, picchia una donna proprio perché lui è un uomo e lei è una donna e così impone la sua gerarchia di potere. Ma noi giudici, specialmente in Italia, non lo vediamo, anzi non lo vogliamo vedere, assorbiti dalla nostra formazione occidentale che nasconde discriminazioni e assetti consolidati da mantenere saldi e che, al contrario, ha consentito l’indisturbata presenza nel codice penale e nelle sentenze, nonostante la Costituzione: a) dello ius corrigendi del marito se moglie e figli violavano le sue regole, tanto da rendere la violenza domestica un diritto; b) del delitto per causa d’onore; c) del matrimonio riparatore, fino all’altro ieri. Per non parlare della patria potestà, nel codice civile fino al 1975, e della trasmissione del solo cognome paterno definito dalla Corte costituzionale un inammissibile retaggio patriarcale. 

Ma ancora oggi usiamo nei provvedimenti giudiziari, nei libri, nelle lezioni, negli articoli, nei servizi giornalistici, le parole sbagliate, tutte figlie di quella medesima cultura nata nel 18 a.C. con le leggi di Augusto: gelosia, raptus, liti familiari, impulso sessuale. Sono parole il cui fine è solo quello di giustificare la violenza maschile verso una donna, attribuendola alla natura incontenibile degli uomini e non ad una deliberata e rivendicata volontà di dominio. 

Ancora oggi le donne hanno paura delle istituzioni giudiziarie. Hanno ragione. Quando entrano in un’aula di giustizia sono certe di non essere credute e di essere colpevolizzate per avere violato una regola di ruolo; l’indagine e il giudizio si concentrano non sul delitto che hanno subìto, ma, con un’inversione logico-giuridica che riguarda solo le donne e solo i reati di cui sono vittime, sulla verifica di avere correttamente ricoperto il loro ruolo di genere di buona madre, buona moglie e buona figlia, e di avere rispettato le regole sociali del riserbo e dell’umiltà femminile (non bere, non uscire, non gridare, non eccedere, non fidarsi, non drogarsi, non difendersi, non essere sessualmente disinibita, non mostrarsi, non truccarsi… NON). Quando questi obblighi non risultano tutti contestualmente rispettati, le donne sono giudicate squilibrate, pazze, esagerate, isteriche, inadeguate, simbiotiche, fragili, frustrate. Non credibili. Vittime imperfette. Le donne che denunciano violenza sono sempre “imperfette” perché la loro identità e la loro dignità sono state annientate per mesi, per anni, ma per la giustizia questo è irrilevante.

L’imperfezione è imperdonabile, è sintomo di strumentalità, di falsità, di spirito vendicativo. In una sentenza, per dimostrare che la donna, picchiata e umiliata davanti alla propria bambina per anni, fosse credibile, è stata valorizzata: «la modalità pacata di raccontare i fatti, senza calcare i toni, l’equilibrio nell’indicare il numero di episodi, dimostrando di essere priva di acredine nei confronti dell’imputato…». Perché chiediamo questo standard da martire che da nessuna persona normale possiamo esigere? I processi – civili, minorili e penali – ruotano intorno all’accertamento del “ritegno femminile”, non alla violenza maschile.

La nostra cultura giuridica occidentale è fondata su falsi miti che, prima o poi, dovremmo avere il coraggio di mettere in radicale discussione: la legge è generale e astratta, i diritti sono universali, le istituzioni giudiziarie sono terze ed imparziali. Nulla di tutto questo è vero, tanto che abbiamo avuto bisogno di due Convenzioni internazionali (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne - CEDAW[7] - e Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica - cd. “Convenzione di Istanbul”[8]), entrambe ratificate dall’Italia e, non per caso, scarsamente conosciute quanto scarsamente applicate, affinché si desse visibilità al fatto che i diritti inviolabili fossero stati da sempre declinati e riconosciuti soltanto per il genere maschile. Così come abbiamo avuto bisogno di raccomandazioni internazionali[9] per sapere che le donne non hanno accesso alla giustizia perché l’intero assetto, a partire da quello giudiziario, è pervaso da stereotipi sessisti che glielo impediscono, fino ad essere stati condannati per ben due volte – unico Paese d’Europa con questo primato –, sia dalla Corte Edu[10] che dal Comitato CEDAW[11], per il loro utilizzo da parte della magistratura italiana[12]

Legge, diritti e istituzioni giudiziarie sono state da millenni monopolio maschile, hanno deliberatamente e violentemente escluso le donne perché extra, sono servite a mantenere saldo e indiscusso, ancora oggi, questo assetto gerarchico con il geniale trucco dell’invisibilità, della normalità, della naturalità, dei sentimenti. 

Le donne introiettano dal giorno della loro nascita il senso di impotenza e di incompetenza, gli uomini invece quello di potenza e competenza. Si chiama “potere simbolico”. Basta assistere a una cena, a una camera di consiglio, a un webinar, a una conferenza, a una trasmissione televisiva. Nessuno di noi ne è estraneo perché vi contribuisce con la propria appartenenza di genere: gli uomini si rivolgono agli uomini e cercano il loro assenso, chiedono solo il loro parere e si riconoscono a vicenda, se non hanno nulla da dire lo dicono lo stesso perché sanno che il potere si manifesta e si mantiene con l’affermazione della propria presenza, interrompono o sovrastano le donne quando accennano ad intervenire (diversi studi hanno attestato che gli uomini interrompono dal 33 al 55% in più le donne rispetto a quando parlano con gli uomini)[13]; le donne, per questo, restano spesso silenti, ritenendo che i loro pensieri siano meno intelligenti e profondi di quelli degli uomini parlanti. E così, alla fine di quella conversazione, gli uomini ottengono un duplice risultato: comprovare il loro dominio indiscusso e confermare alle donne di essere portatrici di “impotenza e incompetenza”. È storia millenaria: Penelope è zittita da Telemaco, la ninfa Eco è costretta a ripetere solo le parole altrui, alla principessa Filomena è tagliata la lingua affinché non riferisca le violenze sessuali subìte. Nella Prima lettera a Timoteo, attribuita dalla tradizione all’autorità dell’apostolo Paolo, è scritto: «La donna impari in silenzio, con perfetta sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia essa si salverà mediante la generazione dei figli, a condizione però di perseverare nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia» (I, Timoteo, 1, 11-15). 

Il monito è che le donne, colpevoli del peccato originale e della dispersione dei mali nel mondo (Pandora), non possono e non devono prendere parola pubblica. E il luogo di massima rappresentazione del potere trasformativo e performativo della parola è proprio l’aula di giustizia dove avviene il “peso delle parole” con la valutazione di credibilità e attendibilità da parte del giudice. 

Questa sovrastruttura, volta a depotenziare la denuncia di una donna vittima di violenza maschile, perché responsabile di avere violato la regola di ruolo (buona madre, buona moglie, buona figlia) e a giustificare culturalmente l’uomo che ne è autore (a cui non è chiesto mai di essere buon padre, buon marito, buon figlio), è frutto di stereotipi e pregiudizi socio-culturali che costituiscono la nostra base conoscitiva e che nessuno mette in discussione, innanzitutto nel giudizio, perché l’ipocrisia occidentale dell’universalità dei diritti e dell’imparzialità dei giudici nasconde tutto ciò che sostiene e nasconde la disuguaglianza di genere. 

Infatti, la più grande intolleranza tollerata è il sentimento di odio e disprezzo nei confronti delle donne: la misoginia, da alcuni rivendicata orgogliosamente, persino sorridendo. È interessante notare che misogino, dal greco “μισόγυνος”, composto da μῖσος e γυνή (miso- che significa “odio” e -gino, “donna”), come aggettivo che indica la persona che prova patologica avversione nei confronti delle donne, ha una storia antica. Migliaia (forse milioni) di volumi, anche molto eruditi, sono stati capaci di dimostrare la fondatezza scientifica del sentimento di disprezzo generalizzato verso le donne, così come lunghe colonne di dizionari richiamano praticamente tutta la letteratura italiana a conforto. Quanti conoscono l’aggettivo che indica l’avversione patologica per il genere maschile? È un termine che non si utilizza, perché questo è un sentimento che non può essere espresso e la lingua, potentissimo strumento di rappresentazione della realtà, non può diffonderlo. Nel Vocabolario della lingua parlata Rigutini-Fanfani, del 1893, il sostantivo “misandria”, composto da μῖσος e ανήρ (miso-, “odio”, e -aner, “uomo”), non c’è, infatti l’Accademia della Crusca spiega che questa voce esiste da soli quattro decenni ed è usata soprattutto nell’ambito della psicologia[14].

 

2. Le radici storico-giuridiche che disapplicano la legittima difesa solo alle donne vittime di violenza[15] 

In base a questi brevi cenni sull’impalcatura su cui è costruita e normalizzata la discriminazione nei confronti delle donne per consentire, da oltre 4.000 anni, il dominio incontrastato maschile a livello planetario, è possibile comprendere perché in Italia, e non solo, la legittima difesa non si applichi soltanto alle donne vittime di crudele e reiterata violenza dei loro uomini. È un sistema rimasto coerente e inattaccabile dal diritto romano ad oggi, grazie alla nostra giurisprudenza e, prima ancora, alla dottrina[16], che ha strutturato questa causa di giustificazione in modo tale che le donne non solo non possano e non debbano difendersi dagli uomini violenti, ma che, quando lo fanno, vengano severamente punite. È la stessa radice culturale di misoginia sì e misandria no. 

Eppure la violenza maschile contro le donne vede numeri drammaticamente estesi, perché, come risulta dai dati raccolti da organismi indipendenti o istituzionali, questa violenza, commessa dall’80% da uomini (quella sessuale da oltre il 90% di uomini), colpisce almeno una donna su tre in qualsiasi latitudine del pianeta e solo il 10% denuncia (in Italia e in Europa). Secondo i dati Istat, l’autore degli omicidi in famiglia appartiene, nell’88,1% dei casi, al genere maschile e di solito uccide a mani nude (strangolamento) anche quando la donna tenta di difendersi, spesso con coltelli trovati nel momento dell’aggressione. Vittime nel 91,3% dei casi sono donne e, dei soli 31 figlicidi censiti, autori in 20 casi sono stati i padri[17].

Così inquadrata la questione, ritorniamo al diritto romano. Cicerone nel Pro Milone[18] scriveva che questa scriminante, per operare, richiede uno scontro tra pari: un agguato che proviene «da un brigante da strada» o «da un avversario politico» che, per ciò solo, rende lecito «ogni mezzo per salvare la nostra vita». 

Dunque i requisiti della legittima difesa erano (e, in parte, sono ancora) costituiti da:

- un’aggressione attuale e ingiusta

- contro beni essenziali della persona o contro il patrimonio;

- a cui fa seguito una reazione immediata della vittima.

Il tutto riassunto nel brocardo vim vi repellere licet in cui è la forza il nucleo intorno a cui tutto ruota. Se non sei forte non puoi difenderti.

La stessa Chiesa riconosceva la facoltà di inculpata tutela contro il violento aggressore, in base al diritto di natura o per effetto dell’universale riconoscimento, con un limite fondato su un preciso rapporto di potere: che la reazione difensiva del figlio o dello schiavo non fosse contro il padre o contro il padrone.

L’art. 52 del nostro codice penale[19], risalente al 1930 e fondato sull’attualità del pericolo, sull’ingiustizia dell’offesa e sulla proporzione tra difesa e offesa, affonda le sue radici in un millenario modello patriarcale in cui si confrontano:

- forze di uomini;

- di pari rango, come nel duello, massima espressione di virilità; 

- in campo aperto; 

- per tutelare la vita, il denaro o l’onore/pudore della propria moglie dagli attacchi dei nemici.

In questa struttura la donna non esiste e non può esistere: a) perché la violenza che patisce da un uomo (specie se di famiglia) non consente reazione, ma è una condizione di ordinaria normalità; b) perché storicamente non ha mai avuto uno statuto giuridico, non è mai stata titolare di diritti propri, ha dovuto subire, per il solo appartenere al genere femminile, l’obbligo al silenzio, la subordinazione e la subalternità rispetto all’uomo di famiglia, che su di lei aveva potere di vita e di morte. 

Questa è la causa culturale per la quale non vi è legittimità giuridica per la reazione femminile: una donna non può difendersi, deve subire. 

Le donne, da millenni, sono state educate a non reagire. Se lo fanno, peraltro uccidendo un uomo, rompono un assetto gerarchico fondato sulla loro sudditanza[20], e questo non rientra nella ragionevolezza che contraddistingue il ragionamento giuridico e regole del gioco stabilite dagli uomini e sugli uomini, il cui parametro, non a caso, è l’homo eiusdem condicionis et professionis, cioè l’agente modello. Questo è innanzitutto un uomo: adulto, alto, forte, armato, sano, sempre in allerta, che non si fida di nessuno, reagisce alla violenza, attendibile e credibile, sa quello che è giusto e quello che non lo è, se chiede aiuto tutti accorrono, ma, prima ancora, è il parametro di tutto ciò che lo circonda.

La legittima difesa è ancora fondata su un sistema arcaico di forza ritorsiva estraneo alle donne che, da un lato, vanno protette dagli uomini e, dall’altro, non devono proteggersi dagli uomini e reagire. Se lo fanno, il contesto sociale le ritiene vendicative e stabilisce come avrebbero potuto e dovuto comportarsi, sempre altrimenti rispetto all’accaduto. È innaturale che facciano del male, al più lo devono ricevere senza opporsi. Peraltro, un uomo, pur violento, non si aspetta di essere picchiato o ucciso da una donna; se ciò avvenisse, sarebbe persino ridicolo e ne perderebbe in termini di virilità. 

È questo retroterra culturale che trasforma l’atto omicidiario, volto a salvarsi, in una vendetta

La radice della distorsione interpretativa è data dal pregiudizio diffuso, riguardante uomini e donne, per cui il naturale ruolo maschile è quello di aggredire, mentre il naturale ruolo femminile è quello di sottomettersi. E così, per mantenere fermo questo assetto, unico conosciuto e riconosciuto, la disciplina della legittima difesa viene interpretata imponendo parametri irraggiungibili per una donna che subisce violenza, costringendola a restarvi sottoposta. 

Perché ciò sia accettabile, anche logicamente e moralmente, è necessario depotenziare i maltrattamenti, gli stupri o le minacce che precedono la reazione della vittima come poco rilevanti, non traumatiche, inidonee a raggiungere più gravi risultati come il femminicidio: in una parola normali, perché tuttora è radicata la convinzione che il dominio aggressivo maschile sulle donne costituisca una sorta di diritto naturale e sia incontenibile, appartenendo all’identità stessa di essere uomo. 

Come scriveva Manzini nel suo Trattato di diritto penale del 1950: «Non può dirsi ingiusta la violenza fatta dal marito alla moglie, quando non vada oltre le percosse e sia determinata da un intento correttivo o disciplinare», al più è ammessa la difesa «del proprio pudore e del proprio corpo» con riferimento a relazioni sessuali riprovevoli come la sodomia oppure nei confronti del marito ubriaco, per evitare una fecondazione pericolosa, o in caso di avanzata gravidanza, per difendere il nascituro[21]

La vita delle donne libera dalla violenza non è stata mai ritenuta un diritto autonomo, tutelato e da “difendere”, perché al più la donna è un oggetto da proteggere. Da qui l’interpretazione giuridica corrente per cui, in questi casi, manca sempre la proporzione tra gli interessi in conflitto prevalendo, sempre e solo, quello all’integrità fisica dell’uomo e risultando recessivo quello della donna che, al più, ha reagito a un irrilevante schiaffo.

 

3. La falsa neutralità nell’interpretazione della legittima difesa applicabile alle donne vittime di violenza[22]

La forte resistenza interpretativa della magistratura, in Italia e nel mondo, in relazione al tema della legittima difesa delle donne nei reati di violenza di genere, ha una radice esclusivamente culturale perché frutto di precise scelte valoriali volte ad adeguarsi ad altrettanto precisi assetti gerarchici fondati sulla discriminazione di genere, descritti dalla Convenzione di Istanbul.

Il riconoscimento del diritto umano delle donne di vivere libere dalla violenza[23], quella stessa violenza che invece ha costituito per millenni la normalità delle relazioni tra i generi, tanto da avere assunto il rango di un vero e proprio diritto dell’uomo (ius corrigendi) fino agli anni sessanta, impone oggi di rivedere le vecchie categorie giuridiche, abbandonando l’idea della loro immutabilità. 

Le prassi politiche e giuridiche non sono neutre perché plasmate su ben precise visioni del mondo, di cui è necessario acquisire gli strumenti per disvelarle e metterne in discussione, in chiave evolutiva, le dinamiche di potere che ne sono sottese[24]

Gli uomini che uccidono le loro compagne, le loro figlie o le loro sorelle lo fanno perché queste hanno violato i loro ordini così non riconoscendo il loro potere maschile; la loro è una strategia di appropriazione. Per ridurre la loro pena, si mette in discussione la loro salute mentale.

Invece, le donne che uccidono i partner lo fanno, in quasi tutti i casi, per difendersi dalla loro inaudita violenza. Ciononostante, sono rarissimi i casi in cui viene applicata, in Italia e nel mondo, la scriminante in esame; la loro è una strategia di protezione[25]. Qui, invece, la sanzione deve essere “esemplare”.

Quando il giudice non conosce come si sviluppa e quali traumi determina il maltrattamento nell’ambito della famiglia, l’uccisione del marito violento da parte della sua vittima viene valutata alla stregua di qualsiasi altro omicidio, e inteso come un atto episodico, scollegato dall’intero contesto. 

L’art. 52 del codice penale e i suoi standard valutativi (con particolare riferimento ad attualità del pericolo e proporzione della difesa) vengono applicati in termini particolarmente rigorosi, tanto da renderli non invocabili esclusivamente per queste donne a cui, così, è impedito un accesso alla giustizia su un piano di parità, in violazione dei principi costituzionali e delle fonti sovranazionali di contrasto alla discriminazione delle donne e alla violenza di genere (CEDAW e Convenzione di Istanbul).

La principale ragione per cui questo accade è che, in Italia, le norme continuano ad essere interpretate in termini falsamente neutri, cioè come se il genere della vittima e dell’autore, per determinati reati, fossero irrilevanti, sebbene in realtà fondati sul modello maschile dell’homo eiusdem professionis et condicionis e, dunque, discriminatori rispetto alle donne.

In Canada, invece, già nel 1990, proprio grazie alla conoscenza puntuale della violenza maschile e ad una lettura dell’ordinamento giuridico fondata sul genere dei protagonisti, oltre che all’uso del principio di ragionevolezza in forza della sindrome della donna maltrattata (cd. “Battered Woman Syndrome”), l’Alta corte aveva assolto una donna che, dopo essere stata picchiata per l’ennesima volta dal marito, gli aveva sparato un colpo di pistola alla nuca mentre lui usciva disarmato dalla stanza[26]

Questa sindrome, non espressamente riconosciuta nel DSM IV tra le malattie mentali, ma fatta rientrare nello stato da stress post traumatico, è una condizione patologica di dipendenza-impotenza sviluppata dalla vittima di violenza domestica per la legittima paura di essere uccisa dal maltrattante da un momento all’altro[27].

Non è un caso che nessuna delle sentenze, di merito e di Cassazione, che escludono la scriminante di cui all’art. 52 cp per le imputate vittime di violenza domestica che uccidono il partner maltrattante, citi la Convenzione di Istanbul e la CEDAW, cioè Convenzioni sovranazionali che qualificano la violenza contro le donne non come un accidente di carattere individuale, ma come «manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione»[28].

 

4. L’interpretazione dell’attualità del pericolo nel ciclo della violenza domestica

L’autorità giudiziaria continua a ragionare secondo strutture logico-giuridiche fondate sull’homo eiusdem professionis et condicionis, per cui la donna vittima di violenza domestica, per ottenere il riconoscimento della scriminante, deve comportarsi come il gioielliere che, davanti al rapinatore che gli punta la pistola contro in un rapporto tra pari, spara temendo di essere preceduto. 

Nulla di più errato perché nulla di più estraneo alla realtà di questi delitti, in cui un elemento decisivo assume la relazione tra autore e vittima.

Solo la donna che subisce continuativi maltrattamenti conosce il pericolo che corre, e la sua successiva crescita esponenziale, rispetto a un uomo di cui ha già sperimentato la carica di violenza e che, per di più, ha tutti gli strumenti per accedere alla sua intimità e alla sua vita, a partire dalle chiavi di casa. Imporre a questa donna standard di giudizio identici a quelli relativi a una persona aggredita da un estraneo per giustificarne giuridicamente la reazione, non tiene in alcun conto: della differenza di statura, di muscolatura, di rapporti di forza di carattere sociale ed economico, di cultura, di educazione, di soggezione, di terrore pietrificante, di certezza di non avere vie di fuga e di non essere creduta, di temere la sottrazione dei figli da parte di un sistema rivittimizzante fondato sulla sindrome da alienazione parentale, che la qualifica come “madre malevola”[29]

La donna vittima di violenza, infatti, si sente (è) del tutto impotente perché nel tempo le sono state distrutte o infiacchite l’autostima, la forza di denunciare e affrontare un processo, la salute, la capacità reattiva, il coraggio di andare via e ricominciare, il sostegno familiare, le potenzialità lavorative, i guadagni. I maltrattamenti prolungati, specialmente psicologici, l’hanno convinta di non potersi sottrarre in alcun modo a quella violenza, facendola arrivare al punto di giustificarla, accettarla, sperare che possa cessare. Non per fragilità o incapacità, ma per condizione di totale isolamento e sfiducia. In sostanza, la donna vittima di violenza domestica non può comportarsi secondo i parametri arcaici che le si impongono nelle aule di giustizia dell’ homo eiusdem professionis et condicionis, perché vive come l’ ostaggio che il sequestratore minaccia di morte; non ha alternativa tra uccidere ed essere uccisa. La mancanza di parità, sotto tutti i profili, le impone di approfittare della prima occasione in cui il maltrattatore abbassa le difese, senza aspettare che la morte spetti a lei.

Nei reati commessi in occasione della perpetrazione di crimini di genere, l’attualità del pericolo impone innanzitutto di conoscere in quale momento del ciclo della violenza l’omicidio viene commesso e cosa impedisce alla donna di reagire in modo diverso da quello che ci si aspetterebbe, cioè secondo i canoni della ragionevolezza ordinari, rispetto al partner violento. 

La violenza domestica, infatti, oltre ad essere un fenomeno che si sviluppa in modo dinamico, è in grado di modificare fortemente l’identità della vittima tanto da paralizzarne qualsiasi capacità reattiva, da soggiogarla psicologicamente e da renderne non intellegibili i comportamenti proprio secondo i criteri dell’homo eiusdem professionis et condicionis, che altro non è che il soggettivo punto di vista del giudice che presume di conoscere a fondo “la natura umana” a cui applica, invece, il suo stereotipato modo di essere sganciato da una realtà che non conosce, cioè la brutalizzazione quotidiana di una donna da parte di un uomo violento. 

Ma qui non c’è un homo, c’è una mulier la cui condizione, peraltro, non ha mai costituito un modello per nessuno; al contrario, è ritenuta irrilevante. 

Tutto è a misura di uomo da millenni – il “buon padre di famiglia”, l’“uomo comune”, “a passo d’uomo”, etc. –, ma noi non lo vediamo, tanto da discriminare perché lo abbiamo interiorizzato, considerandolo naturale. 

La violenza domestica si inscrive in una precisa cornice, studiata a livello scientifico da Walker sin dal 1979[30] e con unanime riconoscimento internazionale, senza la cui conoscenza l’interprete non è in grado di spiegare i ricorrenti comportamenti della vittima:

- la volontà di resistere all’interno della relazione maltrattante nonostante il persistente timore per la propria incolumità personale; 

- la difficoltà, se non l’impossibilità, di sottrarsi all’uomo violento;

- il rientro nella relazione dopo esserne uscita.

Questi i motivi da cui originano ritrattazioni o ridimensionamenti dei maltrattamenti denunciati. 

La donna che uccide l’uomo violento lo fa quasi sempre senza una piena rappresentazione e volizione dell’evento perché agisce sotto l’impulso di una reazione difensiva imprevista, che non ritiene di avere la forza di porre in essere. 

 

5. L’articolo 52 del codice penale non viene applicato alle donne vittime di violenza 

La rigida interpretazione di tutti i requisiti prescritti dalla norma sulla legittima difesa, al di fuori della conoscenza del fenomeno ciclico della violenza e degli effetti devastanti che produce sulla vittima, impedisce di fatto a questa di accedere a una scriminante concepita per una relazione paritaria, spesso tra sconosciuti, e non sulla fisiologica e psicologica disparità tra i protagonisti, ulteriormente fiaccata dal pregresso rapporto affettivo.

Nella violenza domestica, diversamente dagli altri contesti in cui si applica la legittima difesa, la resistenza avviene:

a) in un luogo di comune convivenza, quasi sempre la casa in cui si coabita;

b) tra persone che hanno avuto una relazione sentimentale segnata da una disparità strutturale perché: 

- l’uomo esercita potere economico o di ricatto psicologico, con minacce spesso rispetto ai figli;

- l’uomo è abituato all’aggressione e la donna a subirla per ragioni culturali (tacchi, abiti, muscoli, altezza, sport - le donne fanno danza, gli uomini pugilato -, etc.).

Quando le sentenze escludono la legittima difesa, per assenza dell’attualità del pericolo o ritenendo la sproporzione tra i beni in conflitto allorché una donna reagisce contro un uomo violento in contesto domestico, emerge con chiarezza sia il mancato doveroso inquadramento del fatto in un preesistente rapporto di soggezione, da sempre presente in quella coppia ma non valorizzato; sia l’assenza di formazione delle istituzioni sulla complessità del fenomeno della violenza di genere[31].

Infatti, l’autorità giudiziaria e gli altri operatori di cui questa si avvale (polizia giudiziaria, consulenti tecnici psicologi, assistenti dei servizi sociali, etc.) non sempre hanno la consapevolezza che:

a) le denunce alle autorità o la confidenza delle violenze riportate a familiari e conoscenti, di solito, non sortiscono alcun effetto se non quello di aumentare ancor di più la violenza dell’uomo e il pericolo di vita per la vittima; 

b) esiste una diffusa omertà e copertura di questi crimini;

c) la donna è paralizzata in una relazione di cui non intravede via di fuga per sé e per i figli, spesso anche per la sua totale dipendenza economica, per il terrore di subire una più grave violenza dall’uomo maltrattante, per l’isolamento sociale cui è stata costretta. 

La donna aggredita, a differenza di quello che è scritto con modalità stereotipate e formule di rito nelle sentenze che escludono l’applicazione della legittima difesa, non può evitare quasi mai ciò che accade rivolgendosi alle forze dell’ordine o all’autorità giudiziaria che, infatti, ridimensionano la violenza e di rado applicano misure pre-cautelari (arresto, fermo e allontanamento d’urgenza dalla casa familiare) o cautelari, proprio perché, se non adeguatamente formate, non sono in grado di distinguere tra violenza e conflitto, e dunque utilizzano la prassi di “portare pace” nella coppia[32], così ponendo in più grave pericolo la vittima. 

Inoltre, con riferimento all’ipotetica alternativa che si presenta alla donna maltrattata tra uccidere e fuggire, chi la propone non sa che la vittima non reagisce al momento dell’atto violento perché non ha la forza sufficiente per contrastarlo, ne resta immobilizzata o sopraffatta in virtù della soggezione derivante da quanto accaduto prima. 

È lo stesso ragionamento che opera la magistratura quando esclude la violenza sessuale perché la donna non è fuggita o non ha urlato restando paralizzata, ragionamento fondato sul mito dello stupro che, per rendere detto delitto impunito, omette di rappresentare la tanatosi come l’ordinaria modalità reattiva di tutti i mammiferi davanti alla violenza[33].

 

6. La legittima difesa come legittima offesa contro le donne vittime di violenza e l’attualità del pericolo nei reati abituali 

La legittima difesa è interpretata quasi sempre contro le donne che si difendono da un uomo violento attraverso parametri persino diversi e più rigidi da quelli che si usano per la rapina al gioielliere o in casa, per le quali, al fine di evitare letture restrittive, è stata concepita una norma ad hoc. Infatti, il nostro codice penale ha meritato una riforma legislativa nel 2006[34] solo con riferimento alla cd. “legittima difesa domiciliare”, presumendo il rapporto di proporzione per difendere se stessi o i propri beni dentro l’abitazione o i luoghi di lavoro. Quindi, oggi riceve più tutela dall’ordinamento la reazione di un uomo che si trova in casa un ladro che vuole soltanto rubare oggetti, rispetto alla reazione di una donna picchiata e stuprata giornalmente dal proprio marito che la minaccia di morte e che ha le chiavi di casa. 

L’articolo 52 del codice penale stabilisce che, per applicare questa scriminante, è necessario accertare che la persona si stia difendendo da «un pericolo attuale», ma nell’interpretazione giudiziaria la continuativa violenza maschile contro le donne non integra MAI un «pericolo attuale».

Infatti, nonostante la diffusione epidemica della violenza di genere che troppo spesso sfocia nei femminicidi, ancora oggi il requisito dell’attualità del pericolo nelle aule di giustizia di tutto il mondo evoca un coltello sollevato pronto a colpire, tale da imporre che la forza difensiva della vittima sia non solo contestuale, ma anche uguale e contraria a quella dell’aggressore perché l’aggredito, per salvarsi, crede di non avere altra soluzione che uccidere. 

Si tratta di uno schema inapplicabile a una donna vittima di violenza di genere, che non ha, innanzitutto simbolicamente, ma non solo, armi pari. Se intercorre un tempo tra il momento iniziale dell’aggressione e la reazione, come avviene quando la vittima di violenza aspetta di colpire nel sonno o alle spalle, oppure i comportamenti minacciosi sono interrotti da intervalli innocui, secondo la lettura univoca della giurisprudenza non solo non si configura la legittima difesa, ma questa si trasforma addirittura in vendetta se la donna ammazza il maltrattante. 

Questa interpretazione, priva di qualsiasi collegamento con il fatto concreto da giudicare, non è affatto imposta dall’articolo 52 cp, ma potrebbe essere agevolmente superata da un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, come autorevole dottrina da decenni propone[35], perché, anche partendo da pionieristiche sentenze emesse in altri Paesi[36], bisogna dubitare, una volta per tutte, dell’assioma secondo cui l’aggressione della vittima di violenza di genere non è attuale nel caso in cui l’uomo violento venga ucciso quando si allontana o si addormenta. 

Il caso tipico è quello della donna maltrattata che, per evidenti ragioni, quali la non paritaria forza fisica e la totale sottomissione psicologica, non sia in grado di reagire, nell’immediato, alla violenza che subisce, certa di rischiare la propria vita nel successivo attacco dell’uomo; così da condurla ad ammazzarlo solo nel momento in cui sarà in grado di farlo e cioè quando questi, certo della sua mancata reazione, abbasserà le sue difese.

Deve ritenersi che il requisito dell’attualità, richiesto dalla norma penale, sia configurabile anche nell’intervallo tra le violenze, quando il pericolo per l’integrità fisio-psichica della donna è certo ed imminente, proprio alla luce di una valutazione globale della situazione in cui i singoli episodi criminosi si collocano[37]

L’aggressora – si noti che, anche linguisticamente, il termine viene declinato sempre al maschile, proprio per l’atavico pregiudizio che le donne non possano aggredire –, a seguito dell’ennesima violenza, infatti, si trova dinnanzi alla decisione di agire nel momento in cui l’uomo sarà più vulnerabile, per evitare la certezza di patirne altre e più gravi, sapendo che, se non anticipa il partner, la sua reazione sarà inefficace a fronte di un danno probabilmente letale. 

Uno degli equivoci di fondo su cui si basano le sentenze che escludono la legittima difesa, emesse negli omicidi consumati dalle donne ai danni di partner violenti, è quello di ritenere che le imputate fossero libere di scegliere una strada alternativa rispetto al delitto.

Si tratta di una lettura che dimostra la mancata conoscenza del fenomeno della violenza di genere e assume contorni meramente formalistici, in quanto confonde il piano normativo, in cui tutte le persone devono godere di autonomia e capacità di agire, con quello descrittivo della realtà in cui non si accerta e, dunque, non si prende atto, che non per tutte le donne vittime di violenza sia così.

La ragione non è giuridica, ma culturale perché le leggi e la loro interpretazione sono storicamente costruite sulla tolleranza (se non addirittura sull’impunità) della violenza contro le donne, dando voce a un contesto sociale di cui l’ordine giudiziario è solo una delle espressioni.

Per non applicare la legittima difesa alle donne vittime di violenza è necessario anche qualificare il delitto che subiscono come “abituale”, categoria giuridica di costruzione dottrinale in cui il fatto tipico è costituito da una serie di condotte omogenee ripetute nel tempo, cosicché la difesa rispetto a detto reato potrà dirsi legittima – sotto il profilo dell’attualità del pericolo – solo se esercitata in occasione di una delle condotte offensive e non anche durante i periodi di intervallo fra esse. 

I maltrattamenti in famiglia sono un reato abituale, secondo una qualificazione rispetto alla quale non ci interroghiamo più, dandola sostanzialmente per scontata. Eppure la Convenzione di Istanbul e, da ultimo, il rapporto del GREVIO[38] sulla sua attuazione in Italia, pubblicato il 13 gennaio 2020, ha posto in risalto il rischio che l’interpretazione del reato di violenza domestica come abituale ridimensioni fortemente l’applicazione della norma e, dunque, la sua punizione[39], in violazione appunto dei principi sanciti dalla fonte sovranazionale da noi ratificata. 

La Corte di cassazione, proprio con riferimento alla vittima di gravi maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori, è pacificamente orientata a escludere la configurabilità della legittima difesa con riferimento all’uccisione dell’autore del delitto abituale avvenuto durante il sonno[40], cioè nelle pause tra un episodio e l’altro. 

Se dunque sommiamo, da un lato, l’orientamento tradizionale sulla legittima difesa riguardante il requisito dell’attualità del pericolo e, dall’altro lato, la connotazione abituale dei reati di violenza maschile contro le donne in forza della quale, ovviamente, la valutazione della proporzione tra gli interessi contrapposti attinge soltanto il singolo e parcellizzato comportamento (e non l’intera condotta)[41], si perviene alla palese discriminazione per cui proprio reati che violano un diritto umano, quali appunto i maltrattamenti in famiglia e gli atti persecutori, non consentono l’applicazione della scriminante in esame con riferimento a più fronti.

A ulteriore conferma che l’esclusione finora esposta riguardi esclusivamente i reati di violenza di genere, qualificati tradizionalmente come abituali, vi è la diversa soluzione adottata con riferimento ai reati permanenti, come il sequestro di persona, in cui invece l’offesa rimane costante fino a quando non cessi la condotta tipica, cosicché la reazione difensiva della vittima è pacificamente ammessa in qualsiasi momento in quanto il pericolo attuale permane per tutto il tempo[42].

Quindi, mentre la donna vittima da anni di gravi violenze da parte del proprio partner, a fronte della sua reazione omicidiaria, non può mai invocare la legittima difesa in quanto la sua condotta, per le ragioni sopra indicate, è ritenuta mossa da vendetta e ritorsione anche quando non abbia alcun’altra concreta alternativa, anzi sia certa di continuare a essere violata e violentata, l’ostaggio sequestrato può legittimamente uccidere i suoi carcerieri per guadagnare la libertà. 

 

7. L’articolo 52 del codice penale depurato dagli stereotipi di genere in un’interpretazione convenzionalmente orientata

La rigidità con cui sono interpretati i parametri fissati dall’articolo 52 del codice penale è in evidente contrasto con i principi delle citate Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, oltre che con la “direttiva vittime”, 2012/29/UE[43], secondo cui lo Stato deve contrastare la violenza di genere e non essere causa della vittimizzazione secondaria di chi la subisce. 

Perché ciò avvenga è necessario che il giudice, chiamato a valutare l’uccisione del partner violento da parte di una donna che ne è stata vittima, accerti non soltanto la situazione che precede nell’immediato l’azione letale, ma l’intero contesto in cui questa è maturata: l’assetto di potere e subordinazione nella relazione di coppia; i ripetuti episodi di violenza, sia fisica che psicologica; gli indici di rischio per la donna che reagisce e per i figli; il contesto familiare-economico-sociale; la condizione di isolamento e dipendenza pregressa della donna. 

Solo un esame complessivo dei fatti consente di reinterpretare il requisito della proporzione tra i diritti in conflitto che, in modo del tutto errato, la giurisprudenza italiana (e non solo) calibra sull’ultimo atto cui la vittima di violenza si oppone, appunto in una visione miope e parcellizzata della violenza domestica.

Il fatto che il marito maltrattante sia stato ucciso dalla sua vittima nel sonno o al momento del suo allontanamento non inficia il ragionamento circa l’esistenza di un pericolo imminente, posto che nelle pause tra una condotta di violenza e l’altra, aldilà di accertare un’offesa diretta, resta fermo il pericolo per il diritto umano della donna di vivere libera dalla violenza, come previsto e sancito dall’art. 3, lett. a della Convenzione di Istanbul: ai fini del requisito della proporzione tra i diritti confliggenti, costituendo un diritto umano, ha lo stesso identico grado di tutela del diritto alla vita dell’uomo maltrattante che venga attinto in forma difensiva per garantire il primo. 

Solo l’applicazione di CEDAW, Convenzione di Istanbul e Cedu consente un’interpretazione non discriminatoria della legittima difesa nel reato di omicidio commesso dalle vittime di violenza di genere, purché, ancor prima, si scardinino anche i pregiudizi e gli stereotipi che precludono l’accesso alla giustizia delle donne[44], di cui, infatti, le medesime fonti si occupano espressamente.

La violenza maschile contro le donne è un fenomeno radicato nella cultura e nel rapporto tra i generi. Per contrastarla è necessario estirpare i modelli stereotipati, legati ai ruoli delle donne e degli uomini, che costituiscono la chiave di lettura per comprendere il contesto in cui le relazioni violente crescono e si alimentano. 

È ovvio che se la struttura culturale è fondata sulla supremazia del genere maschile rispetto a quello femminile, anche gli stereotipi e i pregiudizi relativi agli istituti giuridici, inclusa la legittima difesa, si costruiranno in base a detta gerarchia per cui al comportamento di donne e uomini sono imposte aspettative differenti, «non limitandosi a definire come le persone effettivamente sono ma anche come dovrebbero essere»[45]. Da ciò consegue che se una donna supera questo confine diventa innanzitutto diversa, trasgredisce una regola non scritta posta a fondamento di una struttura di potere, e per questo è passibile di processi sanzionatori sotto il profilo familiare, sociale e istituzionale che le rendono difficile il compito di decidere. 

Gli stereotipi di genere sono uno strumento che: crea la disuguaglianza, giustifica la discriminazione, rafforza ulteriormente la disparità tra uomini e donne a favore dei primi.

Ne consegue che l’interpretazione del giudice deve necessariamente avere un approccio anti-stereotipato al fine di garantire un’uguaglianza sostanziale anche in applicazione dell’art. 3, secondo comma della Costituzione. Diversamente, l’interpretazione di un fatto e di un istituto giuridico rischia di giungere a conclusioni che deformano la realtà in forza degli inconsapevoli stereotipi che applica. È il caso di una donna che uccide il partner all’ennesima minaccia di morte e violenza gravissima subita, e alla quale non si applica aprioristicamente la scriminante della legittima difesa per gli stereotipi secondo cui alla violenza una donna non deve e non può reagire, sia per la sua posizione naturalmente passiva, sia perché costituisce una modalità normale nel rapporto tra i generi a cui la donna deve sottomettersi, come è sempre accaduto nella storia dell’umanità. 

Poiché gli stereotipi rafforzano la discriminazione e la disuguaglianza e impediscono alle donne di esercitare i loro diritti, i tribunali devono assumere un approccio che li riconosca per escluderli dal ragionamento giuridico, al fine di garantire un processo equo[46].

 

8. La legittima difesa con le lenti di genere 

L’istituto della legittima difesa è un istituto classico del diritto penale, con una precisa dimensione storica, che ne impone la reinterpretazione alla luce dei principi fondanti della Costituzione italiana e delle Convenzioni sovranazionali, a partire, appunto, dal diritto umano delle donne di vivere libere dalla violenza. 

La legittima difesa nella violenza maschile contro le donne, dietro a una falsa neutralità, è interpretata, in Italia e nel mondo, in una visione discriminatoria ai danni delle donne, perché sia il soggetto che agisce che quello che re-agisce non sono mai valutati nella loro dimensione sessuale, ma come entità falsamente universali costruite sul modello maschile. L’uguaglianza formale è un alibi giuridico per non vedere che la donna, nella quasi totalità dei casi in cui subisce violenza, è privata della libertà di scegliere e dunque non sempre ha – o non ritiene di avere – alternative alla reazione criminale. 

Il diritto dovrebbe costituire lo strumento per rendere possibili relazioni paritarie, non dandole per presupposte, e impedire il sorgere e/o il permanere di rapporti di dominio unilaterali. Altrimenti si trasforma in mezzo per l’esercizio legittimo della violenza[47] e non della difesa dei diritti. 

Dobbiamo riconoscere, quindi, indossando le lenti interpretative di genere, che quando questa scriminante è invocata per fatti commessi, in chiave reattiva e difensiva, dalle vittime di reati di violenza di genere, non può più essere interpretata adottando ancora i parametri del diritto romano, parcellizzando il contesto generale in cui il fatto criminoso si consuma, e al limite diminuendo la pena in forza della pietà umana suscitata dall’imputata a cui, al più, viene attribuita una patologia momentanea. 

Il pericolo attuale ed imminente, la proporzione tra i diritti lesi, la ragionevolezza, la necessità della reazione della donna che uccide in un contesto di violenza certa di non avere alternative, vanno interpretati innanzitutto in base alle Convenzioni sovranazionali di contrasto alla violenza di genere e, poi, sulla base dei fatti, delle circostanze e della specificità del sesso e della relazione delle persone coinvolte nel caso concreto, abbandonando modelli arcaici, come quello dell’homo eiusdem professionis et condicionis, ampiamente superati dalla nuova cornice normativa.

Ogni operatore del diritto è oggi tenuto a scardinare convinzioni – fondate su un sistema patriarcale millenario – mai messe in discussione. La produzione giuridica, al pari di quella filosofica e religiosa, è innanzitutto una produzione culturale e stabilisce i valori su cui poggia la struttura della convivenza civile. Una sentenza non fissa solo la regola del caso concreto, ma stabilisce anche l’ordine sociale, ritenuto legittimo in nome dello Stato. E quello fondato sulla discriminazione delle donne non lo è. 

 

 

1. Il primo testo che affronta questo difficile e trascurato argomento in modo completo e partendo dallo studio delle uniche 8 pronunce giudiziarie in Italia in relazione a donne (o figli/e) che uccidono uomini maltrattanti (sentenze e archiviazioni) è di C. Pecorella (a cura di), La legittima difesa delle donne. Una lettura del diritto penale oltre pregiudizi e stereotipi, Mimesis, Milano, 2022. Per una lettura organica e sintetica del fenomeno, vds. Ead., Conoscere il passato per poter giudicare il presente: quando la violenza reiterata è all’origine dell’uccisione del partner, ivi, p. 235.

2. F. Héritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari, 2010.

3. P. Di Nicola, La giudice. Una donna in magistratura, Edizioni 881, Roma, 2012, pp. 124-125. 

4. Sulla definizione di “femminicidio”, oltre che sulle radici del fenomeno, vds. Aa.Vv., La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-28, approvata all’unanimità dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e su ogni altra forma di violenza il 18 novembre 2021 (www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/366054.pdf).

5. F. Filice, Femminicidi di Bologna e Genova: perché quelle sentenze potrebbero sbagliare, in Questione giustizia online, 15 aprile 2019 (www.questionegiustizia.it/articolo/femminicidi-di-bologna-e-genova-perche-quelle-sentenze-potrebbero-sbagliare_15-04-2019.php), in cui si afferma: «Con ciò si svela la falsa neutralità della professione di indifferenza assiologica del diritto penale: posto che sentenze che in qualche modo abdichino alla missione di espungere dall’area del socialmente accettabile lo stereotipo di genere maschilista, di fatto si risolvono in un attacco, per nulla neutrale, al bene giuridico che dovrebbero invece proteggere: bene giuridico che, nei reati di genere, si identifica non solo con la sopravvivenza e l’incolumità della vittima, ma anche con la sua identità di genere e con la connessa libertà di autodeterminarsi rispetto al genere: la quale, come abbiamo visto, è ormai immanente al nucleo di protezione costituzionale degli articoli 2, 3, 29 e 32 della Costituzione e costituisce certamente un bene giuridico di derivazione costituzionale ed europea». Vds. anche M. Dova, La tempesta emotiva e il giudice cartesiano, in Sistema penale, 25 maggio 2020 (https://boa.unimib.it/retrieve/handle/10281/276043/404287/Cass.%202962_20%20–%20Gelosia%2C%20tempesta%20emotiva%20e%20concessione%20delle%20attenuanti%20generiche%20_%20Sistema%20Penale%20_%20SP.pdf). 

6. Suprema Corte de la Justicia de la Naciόn, Ciudad de Mexico, novembre 2020.

7. Convenzione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979 e ratificata da 187 Paesi. L’Italia ha ratificato con la legge n. 132 del 1985 (consultabile, insieme alle raccomandazioni, su https://cidu.esteri.it/resource/2016/09/48434_f_CEDAWmaterialetraduzione2011.pdf). Sul rapporto tra CEDAW (e sue raccomandazioni) e sistema giudiziario italiano, cfr. P. Di Nicola Travaglini e F. Menditto, Codice rosso. Il contrasto alla violenza di genere: dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi, Giuffrè, Milano, 2020, pp. 29 ss.

8. Convenzione adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014, a seguito del raggiungimento del prescritto numero di dieci ratifiche. Ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77.

9. Raccomandazioni generali del Comitato CEDAW, in particolare quelle nn. 19, 28, 33 e 35 e la raccomandazione del Consiglio d’Europa «Sulla prevenzione e la lotta contro il sessismo», che dedica un intero paragrafo a detto tema (II.F. Settore della giustizia), del 27 marzo 2019. 

10. Corte Edu, sez. I, J.L. c. Italia, ric. n. 5671/16, 27 maggio 2021 (www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?contentId=SDU339116&previsiousPage=mg_1_20).

11. P. Di Nicola Travaglini, I pregiudizi giudiziari contro le donne all’esame di organismi internazionali: il caso A.F. contro Italia, in Sistema penale, 29 luglio 2022 (www.sistemapenale.it/it/scheda/osservatorio-violenza-contro-le-donne-2022-3-caso-af-contro-italia-comitato-cedaw).  

12. Si vedano i commenti su questa sentenza di R. Sanlorenzo, La vittima ed il suo Giudice, in Questione giustizia online, 2 giugno 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-vittima-ed-il-suo-giudice); L. D’Ancona, Vittimizzazione secondaria: la pronuncia della CEDU, ivi, 17 giugno 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/vittimizzazione-secondaria-la-pronuncia-della-cedu); P. Di Nicola Travaglini, La Corte EDU alla ricerca dell’imparzialità del giudice davanti alla vittima “imperfetta”, ivi, 20 luglio 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-corte-edu-alla-ricerca-dell-imparzialita-dei-giudici-davanti-alla-vittima-imperfetta); T. Manente, Violenza sulle donne: perché i giudici italiani vengono condannati a livello internazionale?, in DonneXdiritti, 1° giugno 2021 (https://donnexdiritti.com/2021/06/01/violenza-sulle-donne-perche-i-giudici-italiani-vengono-condannati-a-livello-internazionale/); M. Bouchard, La vittimizzazione secondaria all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo. Come le parole dei giudici possono arrecare una seconda offesa alla vittima: il caso J.L. c. Italia - 27 maggio 2021, in Diritto penale e uomo, 9 giugno 2021 (https://dirittopenaleuomo.org/wp-content/uploads/2021/06/Vittimizzazione-secondaria.pdf). 

13. A.B. Hancock e B.A. Rubin, Influence of Communication Partner’s Gender on Language, in Journal of Language and Social Psychology, vol. 34, n. 1/2015, pp. 46-64 (https://journals.sagepub.com/doi/10.1177/0261927X14533197?papetoc=).
La questione è assurta agli onori delle cronache quando Sonia Sotomayor, giudice della Corte suprema degli Stati Uniti d’America, ha tenuto una lectio magistralis alla New York University School of Law raccontando un suo triste primato: essere la più interrotta, da colleghi e avvocati, dall’inizio del suo mandato nel 2019.
Vds., inoltre, R. Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschile, Ponte alle Grazie, Milano, 2017.

14. P. Di Nicola, La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio, Harper Collins, Milano, 2018, pp. 68-69. 

15. I paragrafi a seguire sono una rivisitazione del capitolo di P. Di Nicola Travaglini, La legittima difesa delle donne nell’omicidio conseguente a reati di violenza di genere, in C. Pecorella (a cura di), La legittima difesa delle donne, op. cit., p. 151.

16. Per una puntuale lettura dello stato dell’arte di questa materia, ampiamente trascurata, nella dottrina italiana si legga M. Dova, Giustizia umana e giustizia dei codici. Giudicare l’omicidio del tiranno domestico, in C. Pecorella (a cura di), op. ult. cit., p. 194 e, per la dottrina statunitense, L. Goisis, La legittima difesa delle donne negli Stati Uniti d’America. Una questione di “genere”, ivi, p. 75.

17. www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/omicidi-di-donne.

18. Cicerone, Pro Milone, cap. IV, 10: «Ma come si può chiamare ingiusta la morte inferta a chi ci prende insidie e ruba le nostre sostanze? (...) Esiste, dunque, giudici, questa legge non scritta, ma insita in noi, che non abbiamo letto o imparato sui banchi di scuola né ereditato dai padri: al contrario, l’abbiamo desunta dalla natura, assimilata completamente e fatta nostra: non ce l’hanno insegnata, ce la siamo presa ed è ormai connaturata in noi. Così, se dovessimo subire un agguato, una violenza, magari anche armata, per opera di un brigante da strada o di un avversario politico, ogni mezzo per salvare la nostra vita sarebbe lecito», Marsilio, Venezia, 1990, pp. 41 ss.

19. Art. 52, comma 1, cp: «Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa».

20. T. Groppi, Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale, Laterza, Bari-Roma, 2021.

21. V. Manzini, Diritto penale, vol. II, UTET, Torino, 1950, pp. 349-351. 

22. C. Pecorella (a cura di), La criminalità femminile. Un’indagine empirica e interdisciplinare, Mimesis, Milano, 2020. Il saggio esamina gli esiti di un’approfondita indagine sulle motivazioni delle sentenze emesse dal Tribunale di Milano negli anni 2015-2017, diretta da Claudia Pecorella, dell’Università di Milano-Bicocca, avente ad oggetto la criminalità femminile. Vds., in particolare, il contributo di N.M. Cardinale, Omicidi al femminile: dalla violenza subita alla violenza agita, in cui vengono esaminate le motivazioni delle sentenze sugli omicidi commessi dalle donne all’esito di violenze (ivi, pp. 171-181). 

23. Art. 3 della Convenzione di Istanbul.

24. F. Bilotta e F. Raimondi, Prefazione, in Iid. (a cura di), Il soggetto di diritto. Storia ed evoluzione di un concetto nel diritto privato, Jovene, Napoli, 2020, p. XVII.

25. S. Frigon e L. Viau, Les femmes condamnées pour homicide et l’Examen de la légitime défense (Rapport Ratushny) : portée juridique et sociale, in Criminologie (Università di Montréal), vol. 33, n. 1/2000, pp. 97-119 (www.jstor.org/stable/42745217).

26. Vds. la sentenza della Corte suprema, redatta dalla giudice B. Wilson, nel caso R. v. Lavallee, [1990] 1 S.C.R. 852 (https://scc-csc.lexum.com/scc-csc/scc-csc/en/item/599/index.do), che, per la prima volta nella storia giudiziaria, assolve una donna vittima di violenza domestica. 
Le parole dell’imputata ai giudici erano state: «Se non lo avessi ucciso, mi avrebbe ucciso lui, mi ha detto che mi avrebbe uccisa quando gli ospiti se ne sarebbero andati». Proprio a seguito di questa sentenza, il Canada aveva avviato un iter legislativo volto a modificare la norma. Da ultimo, nel libro Defending Battered Women on Trial, Elisabeth Sheehy ha dimostrato che nella maggioranza dei novanta casi di violenza coniugale da lei studiati in otto anni, le donne accusate di aver ucciso il loro congiunto violento in Canada avevano deciso, durante il processo, di non invocare la legittima difesa, nella certezza che questa non venisse riconosciuta dai giudici.

27. S. Frigon e L. Viau, Les femmes condamnées, op. cit.; A.-M. Boisvert, Légitime défense et le «syndrôme de la femme battue» : R. c. Lavallée, in Revue de droit de McGill, vol. 36, n. 1/1991, p. 191 (www.canlii.org/fr/doctrine/doc/1991CanLIIDocs79); A. Delépine, La légitime défense différée et le syndrôme de la femme battue feront-ils reculer la violence conjugale?, per Collectif contre les violences familiales et l’exclusion (CVFE asbl), marzo 2017 (www.cvfe.be/publications/analyses/93-la-legitime-defense-differee-et-le-syndrome-de-la-femme-battue-feront-ils-reculer-la-violence-conjugale). 
In Italia, G. Colombo - E. Marchiori - L. Rossi, La sindrome della donna malmenata in Italia: uno studio in prospettiva psicopatologica, in Minerva psychiatry, vol. 45, n. 1/2004, pp. 43 ss., cit. da N. Cardinale, Omicidi al femminile, op. cit., nota 13.

28. In questi termini il Preambolo della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

29. Sul fenomeno della vittimizzazione secondaria da parte dei giudici civili e minorili delle donne che denunciano violenza, vds. la relazione su La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale, approvata all’unanimità dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e su ogni altra forma di violenza il 20 aprile 2022 (www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/372013.pdf).

30. L.E. Walker, The battered women, New York, Harper & Row, 1979. Lenore E. Walker, psicologa americana fondatrice del «Domestic Violence Istitute», elaborò il ciclo della violenza nel 1979 grazie a un’indagine condotta su 435 donne maltrattate, basata sulla “Social Learning Theory”; E. Reale, La violenza invisibile sulle donne. Il referto psicologico: linee guida e strumenti clinici, Franco Angeli, Milano, 2020; Ead., Maltrattamento e violenza sulle donne. Criteri, metodi e strumenti dell’intervento clinico (vol. II), Franco Angeli, Milano, 2016 [2011]; P. Romito, La violenza di genere su donne e minori. Un’introduzione, Franco Angeli, Milano, 2016 [2011]. 

31. Sul tema della formazione della magistratura in questo settore, vds. il «Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria», approvato il 17 giugno 2021 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere (www.sistemapenale.it/it/documenti/commissione-parlamentare-inchiesta-violenza-di-genere-realta-giudiziaria) e, da ultimo, C. De Robbio, La risposta giudiziaria all’emergenza della violenza di genere e la sfida della formazione, in Giustizia insieme, 25 novembre 2022 (www.giustiziainsieme.it/en/news/137-main/violenza-di-genere/2546-la-risposta-giudiziaria-all-emergenza-della-violenza-di-genere-e-la-sfida-della-formazione).

32. Vds., da ultimo, la circolare della Direzione anticrimine della Polizia di Stato del 26 febbraio 2021: «È, in ogni caso, improprio ricondurre tali vicende nell’alveo della composizione dei vari dissidi. Il ricorso al componimento appare controproducente a causa dei meccanismi psicologici sottesi ai contesti di violenza domestica, laddove la posizione delle parti non può essere paritaria, soprattutto per la naturale inclinazione a tutelare il benessere, anche erroneamente percepito da una delle parti, dei figli minori».

33. P. Di Nicola Travaglini, La Corte EDU alla ricerca dell’imparzialità, op. cit.

34. Legge 26 aprile 2019, n. 36, che ha introdotto nel nostro ordinamento la legittima difesa domiciliare.

35. T. Padovani, voce Difesa legittima, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. III, UTET, Torino, 1989, § 3: «nelle offese abituali il pericolo è attuale ogni qual volta si presentino le condizioni che solitamente determinano la condotta di reiterazione: l’energumeno che rientrando la sera ubriaco maltratta i famigliari, realizza il pericolo attuale di un‘offesa ingiusta per il solo fatto di varcare l’uscio di casa in pieno stato di ebbrezza».

36. Vds. la citata sentenza della Corte suprema del Canada.

37. Oltre a C. Pecorella (cfr. supra, nota 1), vds. G. Marinucci ed E. Dolcini (a cura di), Codice penale commentato, Ipsoa (Wolters Kluwer), Milano, 1999 (I ed.), che parlano addirittura di ipotesi emblematica: «qui un pericolo “attuale” nel senso tradizionale certamente non sussiste; e tuttavia, da un lato l’intervento preventivo della forza pubblica appare spesso inefficace se non addirittura controproducente (il soggetto violento, ammonito o arrestato dalla polizia, tenderà a sfogare la propria rabbia contro i familiari non appena rientrato a casa), e dall’altro un’efficace autodifesa nel momento dell’effettiva aggressione risulta impraticabile, stante la superiorità fisica posseduta di regola dal familiare violento» (p. 783); vds., altresì, G. Marinucci - E. Dolcini - G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 2018, pp. 303 ss., in cui viene sostenuta un’interpretazione estensiva del presupposto dell’attualità del pericolo nel caso della donna che commette il reato a seguito di un prolungato stato di terrore e violenza di genere. Infine F. Viganò, Commento all’art. 52, in E. Dolcini e G.L. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, Ipsoa, Milano, 2021 (V ed.), secondo cui «qui un pericolo attuale del senso tradizionale certamente non sussiste; e tuttavia, da un lato l’intervento preventivo della forza pubblica appare spesso inefficace se non addirittura controproducente (…) e dall’altro un’efficace autodifesa nel momento dell’effettiva aggressione risulta impraticabile, nonostante la superiorità fisica posseduta, dal familiare violento» (p. 890).

38. Il “GREVIO” è il «Gruppo di esperte indipendenti del Consiglio d’Europa incaricato di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul». 

39. C. Pecorella e P. Farina, La risposta penale alla violenza domestica: un’indagine sulla prassi del Tribunale di Milano in materia di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), in Diritto penale contemporaneo, 10 aprile 2018 (https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/2026-pecorellafarina2018a.pdf).

40. Cass. pen., sez. I, sentt. nn. 48291 del 21 giugno 2018 e 24736 del 1° marzo 2016. Inoltre, Cass. pen., sez. I, sent. n. 6591 del 18 febbraio 2010: «La rappresentazione, meramente congetturale e astratta, della generica possibilità (nel futuro) della perpetrazione di atti di violenza da parte della vittima (in atteggiamento assolutamente non offensivo - e neppure minaccioso - al momento del fatto, come espressamente riconosciuto dallo stesso ricorrente) non integra l’ipotesi, contemplata dall’articolo 52 c.p., del pericolo effettivo, concreto, attuale e specifico di veruna offesa, né dà adito alcuno alla supposizione erronea del ridetto pericolo, sì da comportare la necessità della difesa». Si noti che tutte le sentenze riguardanti la mancata applicazione della legittima difesa alle donne vittime di violenza domestica non risultano massimate e, comunque, sono emesse dalla prima sezione della Corte di cassazione, che non si occupa di reati di volenza di genere. 

41. E. Biaggioni, Brevi considerazioni sulla rappresentazione della violenza domestica e delle sue conseguenze nel giudizio su una donna che ha ucciso per difendersi, in C. Pecorella (a cura di),  La legittima difesa delle donne, op. cit., pp. 107 ss. 

42. E. Altavilla, voce Difesa legittima, in Novissimo Digesto italiano, vol. V, 1960, pp. 619 ss., fa riferimento al caso del soggetto sequestrato che reagisce contro i propri carcerieri. In base a quanto detto, dunque, il sequestrato potrà reagire legittimamente in legittima difesa in qualsiasi momento, anche sfruttando un momento di distrazione dei sequestratori.

43. Per la direttiva 2012/29/UE, si può richiamare il considerando 18, secondo cui «la violenza nelle relazioni strette è un problema sociale serio e spesso nascosto, in grado di causare un trauma fisico e psicologico sistematico dalle gravi conseguenze in quanto l’autore del reato è una persona di cui la vittima dovrebbe potersi fidare», sicché «le vittime di violenza nell’ambito di relazioni strette possono pertanto aver bisogno di speciali misure di protezione. Le donne sono colpite in modo sproporzionato da questo tipo di violenza e la loro situazione può essere peggiore in caso di dipendenza dall’autore del reato sotto il profilo economico, sociale o del diritto di soggiorno». 

44. T. Manente e I. Boiano, La violenza nei confronti delle donne nel codice penale, in T. Manente (a cura di), La violenza nei confronti delle donne dalla Convenzione di Istanbul al “Codice Rosso”, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 111 ss.

45. B. Gelli, Psicologia della differenza di genere. Soggettività femminili tra vecchi pregiudizi e nuova cultura, Franco Angeli, Milano, 2009, p. 67. 

46. P. Di Nicola Travaglini, Pregiudizi giudiziari nei reati di violenza di genere: un caso tipico, in Sistema penale, 11 gennaio 2022 (www.sistemapenale.it/it/opinioni/tribunale-roma-2021-pregiudizi-giudiziari-violenza-di-genere); E. Biaggioni, La difficile posizione delle vittime di violenza sessuale: l’insostenibile confronto con il pregiudizio sulla scarsa attendibilità della persona offesa lo stereotipo dello stupratore modello, ivi, 22 luglio 2022 (www.sistemapenale.it/it/scheda/vittima-violenza-sessuale-pregiudizio-scarsa-attendibilita-persona-offesa). 

47. F. Bilotta e F. Raimondi, Il soggetto di diritto, op. cit.