Magistratura democratica

Le molestie nei confronti delle lavoratrici

di Marta Giaconi

Il saggio delinea rapidamente il quadro normativo in materia di molestie di genere e sessuali sui luoghi di lavoro. Attraverso i richiami normativi, dall’art. 2087 cc all’art. 26 d.lgs n. 198/2006, il tema viene declinato da un lato nel contesto della protezione di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, dall’altro lato in quello delle norme antidiscriminatorie. In conclusione, il contributo dà conto delle più rilevanti previsioni contenute nella Convenzione ILO n. 190 del 2019 e del loro possibile impatto a seguito della ratifica del 2021.

1. Premessa / 2. Alle radici della tutela. Le tante potenzialità dell’art. 2087 cc / 3. Molestie sul lavoro. L’utilità della normativizzazione / 4. L’importanza della prevenzione / 4.1. Dai codici di condotta… / 4.2. … alla valutazione dei rischi dopo la Convenzione ILO n. 190 / 5. Punire la molestia per tutelare la vittima o il potere disciplinare come strumento di tutela della salute delle lavoratrici / 6. Solo un cenno alla tutela risarcitoria / 7. Conclusioni

 

1. Premessa

I dati sulla ricorrenza di violenza e molestie[1] subite, nel corso della prestazione lavorativa (o comunque dalla stessa occasionati), prevalentemente da donne impongono di tornare ciclicamente ad approfondire tali fenomeni, alla ricerca – ciascuno nel proprio ambito – di strumenti in grado di prevenirli e contrastarli. Come noto, l’odiosità di tali condotte risiede nella loro capacità di pregiudicare non solo la sfera individuale della vittima (dignità, autostima, percezione di sé, intimità, attività lavorativa e carriera), ma anche la vita relazionale, quindi, in un pericoloso “effetto domino”, l’intera collettività. Quanto ai luoghi di lavoro, si anticipa sin d’ora che violenza e molestie sono perpetrate non solo dal datore ma, sempre più frequentemente, da un collega. A quest’ultimo riguardo, si incontreranno le maggiori difficoltà tecniche poiché dovrà gestirsi il delicato equilibrio tra la legittima rivendicazione della lavoratrice di essere tutelata dal contraente per legge tenuto a proteggerne l’integrità fisica e personalità morale, ossia il datore, e la pretesa di quest’ultimo di non vedersi addebitati gli effetti civilistici derivanti da condotte altrui. 

La complessità del fenomeno trattato, tra l’altro, non deriva solo dalla plurioffensività della condotta ascrivibile a violenza o molestie[2] (per quel che riguarda i profili penalistici, si rinvia, in questo numero, al contributo di Claudia Pecorella e Massimiliano Dova), ma anche dalla matrice “culturale” e profondamente radicata di queste ultime, espressione di ben noti stereotipi che a loro volta, nel contesto lavorativo, rischieranno di acuirsi in ragione dell’esistenza dei delicati rapporti di forza che si vengono a creare non solo tra datore e dipendente ma anche tra tutor e apprendista, tra sovraordinato e sottoposto, e così via. Da qui la necessità che, accanto alla predisposizione di strumenti preventivi e rimediali, siano incentivate – in linea con gli artt. 13 e 14 della Convenzione di Istanbul[3] – costanti e capillari campagne di sensibilizzazione nelle scuole[4] prima ancora che nelle aziende, educando i giovani cittadini a essere futuri lavoratori consapevoli e rispettosi, innanzitutto, della dignità di quante e quanti ci circondano. Solo intervenendo con costanza a ogni livello, dalla fase della formazione a quella successiva all’inserimento nel mercato del lavoro, gli obiettivi di eguaglianza e autodeterminazione di donne e ragazze (cfr. l’obiettivo n. 5.3 dell’Agenda Onu 2030 per uno sviluppo sostenibile) potranno smettere di essere descritti come traguardi – vaghi e lontani – per diventare ciò che sono: non un obiettivo, ma un punto di partenza. 

Ciò detto, la crucialità della prevenzione e del contrasto alle molestie sul lavoro nella più ampia cornice del superamento delle diseguaglianze emerge, da un lato, dal crescente contenzioso sorto dalle richieste risarcitorie delle vittime; da un altro lato, dalla proliferazione di iniziative, tra cui i numerosi disegni di legge ancora recentemente discussi in Parlamento (in particolare ddl nn. 655, 1597, 1628 e 2358), che mirano a introdurre «Disposizioni per la tutela della dignità e della libertà della persona contro le molestie e le molestie sessuali, con particolare riferimento ai luoghi di lavoro. Delega al Governo per il contrasto delle molestie sul lavoro e per il riordino degli organismi e dei comitati di parità e pari opportunità»[5].

 

2. Alle radici della tutela. Le tante potenzialità dell’art. 2087 cc

Da tempo si sottolineano i pregi della norma codicistica, in grado di adeguare l’obbligo di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore subordinato non solo all’evoluzione della tecnica e dell’esperienza, ma anche della nozione stessa di “salute” e “benessere psicofisico” di lavoratrici e lavoratori[6]. La disposizione, tornata al centro del dibattito nel corso dell’emergenza sanitaria[7], si è infatti nutrita degli studi che hanno progressivamente ampliato la nozione di salute sul lavoro, comprendendovi anche gli aspetti emotivi e relazionali[8] sino a farla coincidere con lo «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità» (art. 2 d.lgs n. 81/2008), al di là della mera integrità fisica, attraverso «l’interiorizzazione nel contratto di posizioni costituzionali»[9]

Certo, è condivisibile la critica secondo la quale, a lungo, le ricche potenzialità in chiave preventiva della clausola codicistica siano state trascurate da lavoratori e parti sociali a beneficio di una concezione tutta risarcitoria del precetto[10]. Non vi è dubbio, infatti, che ancora oggi il contenzioso, in particolar modo relativo alle condotte di cui ci si occupa nel presente contributo, sia pressoché esclusivamente sorto da richieste risarcitorie dovute all’avvenuta violazione dell’integrità psicofisica della lavoratrice, ossia a danno già subito, anziché dal rifiuto di rendere la prestazione in caso di mancata adozione di misure preventive, o ancora dal recesso della lavoratrice per giusta causa integrata da tali omissioni. Si è, però, dell’idea che la mancata valorizzazione dell’anima prevenzionistica dell’art. 2087 cc, nell’ambito che occupa, sia non tanto il risultato di un limite operativo della norma quanto piuttosto espressione di un atteggiamento culturale che, seppur lentamente, mostra segni di cedimento. Benché l’approccio preventivo non trovi ancora adeguato riscontro nel contenzioso, esso si è palesato con chiarezza a partire dal 2017, quando il legislatore, arricchendo direttamente la norma sulle molestie contenuta nel d.lgs n. 198/2006 (di cui infra) ha previsto che i datori siano tenuti, ex art. 2087 cc, a garantire l’integrità psicofisica «anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro». Contestualmente, il legislatore ha sancito che le imprese, i sindacati, i datori, i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza[11]. La finalità preventiva è stata quindi perseguita attraverso le molteplici iniziative aziendali (dai contratti collettivi ai codici di condotta[12]), sino al momento in cui – proprio grazie alla ratifica della Convenzione ILO 2019, n. 190 – le molestie sul lavoro sono state attratte nella fase ontologicamente preventiva dell’intero sistema di sicurezza sul lavoro: la valutazione dei rischi. 

Nel rinviare al prosieguo del testo il vaglio delle più interessanti iniziative di prevenzione, è doveroso soffermarsi, seppur rapidamente, sulla natura dell’obbligazione di cui il datore è gravato in virtù della disposizione del codice civile. 

Si è detto che la tesi prevalente individua nell’art. 2087 cc una fonte di responsabilità contrattuale al pari dell’obbligazione retributiva. Ciononostante, l’espansione applicativa di cui è stata protagonista la clausola di cd. “massima sicurezza possibile” enucleata dagli interpreti proprio a margine dell’art. 2087 cc, ha – come si è criticamente e condivisibilmente osservato – spinto la fattispecie codicistica «in una sorta di surrettizio slittamento verso i lidi della responsabilità oggettiva»[13]. Ebbene, il terreno delle molestie costituisce uno dei possibili terreni di tale slittamento. Ora, i giudici insistono ovviamente nel ribadire che l’art. 2087 cc «non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento»[14] e non impone al datore di garantire «un ambiente di lavoro a “rischio zero”»[15]. Nonostante la recisa affermazione, tuttavia, i giudici, in particolare quando hanno interpretato restrittivamente gli elementi utili a interrompere o, quantomeno, ad attenuare il nesso di imputabilità dell’evento dannoso al datore (si pensi alle applicazioni giurisprudenziali del rischio elettivo), hanno effettivamente alimentato l’“anima oggettiva” della responsabilità datoriale.

Come si anticipava, peraltro, le maggiori complicazioni in termini di accertamento della violazione dell’obbligo di sicurezza non sorgono tanto qualora l’autore della molestia sia il datore, quanto piuttosto nel caso in cui la condotta sia materialmente tenuta da un collega, spesso gerarchicamente sovraordinato alla vittima. In proposito sia consentito, seppur semplificando le possibili posizioni, individuare almeno due letture. La prima tende a negare che al datore possa essere addebitata la responsabilità civile per fatto del terzo qualora il comportamento del dipendente «non sia riferibile sia pure marginalmente o indirettamente alle mansioni in concreto esercitate ed affidategli dal datore di lavoro, ma sia frutto di una iniziativa estemporanea e personale del tutto incoerente rispetto alle mansioni svolte (oltre che affidate), poiché manca in tal caso quel nesso di occasionalità necessaria che solo può giustificare una attribuzione di responsabilità in capo al datore di lavoro, né ai fini della sussistenza di tale responsabilità è sufficiente il mero dato della coincidenza temporo-spaziale con una attività occasionale o favorita dallo svolgimento delle mansioni»[16]. D’altro canto, del nesso di occasionalità è stata offerta anche una lettura meno rigida, che ha rilevato la responsabilità datoriale ex art. 2087 cc nell’ipotesi in cui i compiti affidati all’autore della molestia siano tali da generare una situazione che renda «anche solo possibile o semplicemente più agevole» la produzione dell’evento danno[17], non restando al datore altra strada se non la dimostrazione dell’abnormità ed esorbitanza del comportamento del proprio dipendente. Nei casi di violenza o molestia, il nesso di occasionalità necessaria non sarà, però, l’unico elemento fattuale da valutare ai fini dell’accertamento della responsabilità indiretta. Al di là dello stretto nesso con l’attività lavorativa svolta dal molestatore[18], laddove la molestia sia, infatti, avvenuta in un contesto di – dimostrate – omissioni o negligenze da parte del datore, la dipendente dovrà poter indirizzare le proprie pretese risarcitorie nei confronti del soggetto che – attraverso misure di prevenzione e protezione – avrebbe dovuto contribuire alla realizzazione di un ambiente sicuro per tutto il personale. A tal fine, occorrerà procedere a un’attenta valutazione caso per caso del contesto e delle circostanze di cui il datore fosse già venuto a conoscenza direttamente o de relato, della sua tempestiva reazione disciplinare e organizzativa, dell’adozione delle misure preventive tipiche o atipiche a livello aziendale (tra cui la valutazione dei rischi da molestia, l’adozione di scelte organizzative parametrate al rischio da violenza e molestia, l’erogazione di attività di formazione). Qualora, invece, fermo l’adempimento di tutte le prescrizioni evincibili dal rinnovato contesto in materia di prevenzione di cui sarà dato conto nel prosieguo, la condotta tenuta dall’autore della molestia non fosse minimamente prevedibile né prevenibile, acquisendo i caratteri della “abnormità”, il datore potrà rivendicare l’esonero dalla responsabilità diretta e indiretta ex art. 2087 cc.

 

3. Molestie sul lavoro. L’utilità della normativizzazione

Su stimolo europeo[19], nei primi anni duemila il legislatore nazionale ha proceduto a una codificazione tutta lavoristica della molestia di genere e sessuale, seppure attraverso una nozione in cui «il messaggio politico tende a prevalere sulla tenuta giuridica»[20], attraendo siffatte condotte nell’ambito della più ampia categoria delle discriminazioni[21]. Nel rinviare ai ricchi studi che da tempo approfondiscono il tema delle molestie di genere e sessuali ricostruendone le origini nel diritto antidiscriminatorio, ci si limita qui a qualche rapida considerazione sull’attualità e utilità dell’equiparazione tra discriminazioni e molestie di genere/sessuali avvenuta, per la prima volta, con la direttiva 2002/73[22], a sua volta tradotta nell’ordinamento nazionale con il d.lgs n. 145/2005, oggi riprodotto nell’articolo 26 del “Codice delle Pari Opportunità” (d.lgs n. 198/2006).

L’art. 26 d.lgs n. 198/2006 prevede che sono «considerate come discriminazioni», (da ciò dovendosi dedurre che non lo sono, ma che devono essere trattate alla medesima stregua[23]), anche le molestie, ossia quei «comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo». Parimenti, godono dello stesso trattamento le molestie sessuali consistenti in comportamenti indesiderati sessualmente connotati, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, nuovamente aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. 

Semanticamente più vicini al concetto di discriminazione sono, poi, i comportamenti descritti ai successivi commi dell’art. 26, che ascrivono alla categoria delle discriminazioni anche i trattamenti meno favorevoli dovuti o comunque conseguenti al rifiuto o alla sottomissione di molestie (2-bis e 3), così come le reazioni a reclami o azioni volte a ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento e, per quanto di interesse in questa sede, le reazioni datoriali all’eventuale segnalazione o richiesta di cessazione del comportamento molesto (3)[24]. In una sorta di tutela del whistleblower, il comma 3-bis poi esplicita quanto già si sarebbe potuto evincere sistematicamente (art. 1345 cc), sancendo la natura ritorsiva e, quindi, la nullità di ogni reazione datoriale in grado di punire la vittima denunciante[25].

Come insegna la giurisprudenza in tema di ritorsione, quest’ultima si può concretizzare in sanzioni, demansionamento, licenziamento, trasferimento[26], misure organizzative che impattino negativamente sulle condizioni di lavoro, mutamento di mansioni. La ridondanza di tale previsione si ritrova nel periodo conclusivo del comma 3-bis, che inibisce le tutele sin qui descritte nel caso in cui sia accertata la responsabilità del denunciante per calunnia o diffamazione o, comunque, l’infondatezza della denuncia. 

Ebbene, si è dell’idea che l’operazione normativa che ha forzato la riconduzione delle molestie alla famiglia delle discriminazioni, rectius l’equiparazione, da alcuni criticata da altri condivisa[27], nasca non tanto dall’esistenza di un nesso di coerenza ontologica tra le due fattispecie, quanto dall’obiettivo di riservare a queste ultime le tecniche rimediali e di distribuzione dell’onere probatorio alleggerito tipiche del microsistema antidiscriminatorio, in un’ottica di favor per la vittima[28]. E questo al di là del fatto che, come si è detto, la molestia sia un comportamento statisticamente tenuto in misura prevalente nei confronti delle donne e che, conseguentemente, si traduca in un pregiudizio principalmente per il genere femminile. Tale circostanza non corrobora la somiglianza tra le due fattispecie, principalmente per una ragione: la molestia, che è lesiva della dignità prima ancora che dell’uguaglianza, è priva di qualsivoglia componente relazionale. Essa rivela immediatamente la propria illiceità, non richiedendo a tal fine l’esistenza di un tertium comparationis attuale, passato o ipotetico, che non sia stato/a vittima di molestia[29]

L’acceso dibattito sulla correttezza dell’opzione normativa sopra descritta può, poi, essere superato per concentrarsi sull’utilità pratica della stessa, che consente alla vittima di una molestia di assolvere l’onere probatorio attraverso la mera allegazione e dimostrazione di indizi precisi e concordanti[30], anche ricorrendo alla prova statistica[31] tipica del diritto antidiscriminatorio[32]. Alla presunta vittima si richiede infatti «la verosimiglianza dei fatti che si offrono a dimostrazione», quindi non una prova presuntiva ex art. 2727 cc né una presunzione semplice ex art. 2729 cc, bensì la mera precisione e concordanza, ma «non la gravità della presunzione»[33]. Al convenuto spetterà, conseguentemente, l’onere di dimostrare l’insussistenza della molestia stessa[34] o, meglio, la liceità del proprio comportamento[35].

È dunque pacifico in primis che, nonostante l’esplicitazione sia avvenuta solo in relazione a comportamenti sessualmente connotati, in entrambi i casi – molestie e molestie sessuali – si può trattare di condotte anche verbali: dalle intimidazioni, in grado di influire negativamente sul processo mentale[36] e di libera determinazione della vittima – ad esempio, inducendo la stessa a cambiare abitudini – «senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase esecutiva»[37], alle telefonate e ai messaggi assillanti[38], alle reiterate allusioni di carattere sessuale, ai continui, improvvisi e non richiesti abbracci, ai tentativi di approcci fisici, a frasi ammiccanti e riferimenti sessuali non graditi[39], ai più variegati atteggiamenti in grado di alimentare il disagio dell’interlocutrice[40] per finire, nei casi più gravi, con i più intensi approcci di carattere fisico. Utile a tale fine è la catalogazione, comunque non esaustiva, diffusa dall’ILO, secondo la quale «although a single incident can suffice, sexual harassment often consists of repeated unwelcome, unreciprocated and imposed action which may have a very severe effect on the person. Sexual harassment may include touching, remarks, looks, attitudes, jokes or the use of sexually-oriented language, allusions to a person’s private life, references to sexual orientation, innuendos with a sexual connotation, remarks about dress or figure, or the persistent leering at a person or a part of her/his body»[41].

Ciò che pare dirimente in tutti i casi di molestia (al di là della connotazione sessuale) è che la condotta sia accompagnata da due elementi: il primo, per ordine di importanza, è l’“indesideratezza”. Il riferimento a quest’ultima[42] implica l’adozione della prospettiva della vittima. Si tratta, per l’appunto, di una scelta azzeccata poiché in grado di tradurre in negativo (non desiderio, assenza di voglia e quindi di consenso) il concetto ontologicamente relativo di dignità. Il riferimento alla visione della vittima, cioè, consente di attrarre nella condotta vietata tutto ciò che la vittima stessa ritiene o percepisce (anche inconsciamente) come non rispettoso della propria dignità e della propria sfera personale e sessuale sulla base, ad esempio, della propria sensibilità, estrazione culturale o età. Per contro, dovranno essere esclusi quegli «atteggiamenti (che) non sembrano aggressivi e non graditi (in assenza di) tensione, timore, paura, esasperazione»[43]. Inutile precisare, quindi, che condotte percepite come moleste da una lavoratrice potrebbero non essere considerate tali da un’altra. Da qui l’importanza che il giudice valuti la totalità delle circostanze di fatto che accompagnano la condotta, comprendendovi anche la natura del rapporto esistente tra le parti[44], se confidenziale o amicale, o l’eventuale reiterazione degli episodi[45].

Benché la scelta del legislatore di optare per la prospettiva della vittima vada condivisa, la determinazione a monte delle condotte illecite risulta, quindi, difficile e necessita di essere declinata a livello aziendale. Sarà, cioè, opportuno che la genericità della nozione normativa e, in particolare, del concetto di “indesideratezza” venga temperata attraverso la pubblicizzazione di uno standard comportamentale di riferimento. Quest’ultimo potrà essere delineato servendosi dei principi di correttezza e buona fede, oltre che del parametro della diligenza richiesta nell’esecuzione della prestazione lavorativa. Gli esempi di tali regolamenti e codici di condotta non mancano, ma è fondato il timore, già manifestato da autorevole dottrina, che questi stessi codici – ovviamente a seconda dei casi – possano esprimere atteggiamenti paternalistici da parte del datore ancor più “soffocanti” o ancor più «offensivi della dignità»[46] dei dipendenti o, se non altro, fortemente limitativi del libero esplicarsi delle relazioni personali sui luoghi di lavoro.

Il secondo tratto, comune alle molestie di genere e sessuali ma anche alla totalità delle discriminazioni, attiene alla ferma irrilevanza dell’intenzionalità. Si tratta di una scelta necessaria al fine di conferire effettività alla tutela, soprattutto se si considera che le molestie sono spesso espressione di stereotipi e modelli talvolta inconsapevolmente recepiti nell’ordinario e quotidiano atteggiarsi dell’autore. L’eventuale valorizzazione dell’elemento soggettivo e, quindi, del grado di coscienza sarebbe di ostacolo alla tutela. Viene così esteso l’ambito applicativo della protezione, comprendendovi quei comportamenti che siano in grado di violare la dignità o creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. A quest’ultimo riguardo, è pur vero che il riferimento al “clima” costituisce un innesto di oggettivizzazione nella visuale tutta personale della vittima, «per ancorare l’indesiderabilità» della condotta «ad una dimensione in qualche modo oggettiva»[47]. Si è, tuttavia, dell’avviso che ciò non determini la configurazione, quale elemento costitutivo dell’illecito, della necessaria pubblicità e condivisione di tali condotte nell’ambiente di lavoro. La conoscenza del fatto nell’ambiente di lavoro, spesso unita alla reiterazione delle molestie, infatti, potranno incidere sulla gravità della condotta, per via dell’ulteriore umiliazione cui la vittima verrebbe esposta. Non può non segnalarsi, tuttavia, che ben più frequentemente il molestatore scelga di limitare le proprie azioni offensive a momenti di isolamento con la vittima, per evitare testimoni e contestualmente esercitare maggior pressione. Da qui l’opportunità per la lavoratrice di segnalare con tempestività l’accaduto al proprio preposto, al datore e – ove presente – al canale informale istituito in azienda.

 

4. L’importanza della prevenzione

 

4.1. Dai codici di condotta…

Benché il contrasto alle molestie sui luoghi di lavoro sia tornato a essere oggetto di dibattito a seguito della ratifica, da parte dell’Italia, della Convenzione ILO n. 190 del 2019[48],  avvenuta con la l. 15 gennaio 2021, n. 4, da tempo le parti sociali si sono mostrate consapevoli di avere un ruolo di rilievo nel miglioramento delle condizioni di lavoro delle donne. Risale, infatti, al 2007 l’Accordo quadro europeo, i cui contenuti sono poi stati recepiti a livello nazionale, in primis attraverso l’Accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro – firmato nel 2016 tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil –, ma successivamente sottoscritto in altri settori (a titolo esemplificativo, si richiamano l’Accordo sottoscritto da Legacoop e Confcooperative, e, per le piccole industrie, quello firmato dalla Triplice e Apindustria/Confimi). 

L’Accordo quadro europeo del 2007 e i suoi “accordi satellite nazionali, oltre a costituire una cornice di principi in grado di offrire ulteriore nobilitazione a tutte le iniziative successivamente adottate in sede decentrata, si segnala per il peculiare richiamo a una dichiarazione, allegata allo stesso Accordo, di «non tollerabilità di certi comportamenti (molestia e/o violenza) che potrà essere direttamente adottata in azienda» e che, tuttavia, recepisce una nozione di “molestia” incongruente rispetto a quella offerta dalla fonte normativa[49], comunque prevalente.

Al di là del valore principalmente simbolico della dichiarazione datoriale che le Parti sociali europee e quelle nazionali suggeriscono di adottare in azienda, ciò che si ritiene utile è il riferimento – già contenuto nello stesso Accordo quadro del 2007 – al rispetto della dignità reciproca, all’obbligo di protezione gravante sul datore e al necessario coinvolgimento di tutti i lavoratori. A quest’ultimo proposito, le parti sociali suggeriscono l’istituzione di un canale informale di segnalazione della molestia mediante un iter che garantisca discrezione (quindi, rispetto della privacy come strumento di tutela della dignità), tempestività dell’attivazione (e quindi dell’audizione di tutti i soggetti coinvolti) e predisposizione di sanzioni a carico del molestatore. Pertanto la fase preventiva è, seppur timidamente, accennata laddove si prevede che «i datori (...) consultati lavoratori e lavoratrici e loro rappresentanti elaborano, attuano e verificano l’efficacia di queste procedure per prevenire e affrontare i problemi che si dovessero presentare». La dichiarazione di non tollerabilità, invece, contiene l’espresso impegno alla sola adozione di «misure adeguate nei confronti di colui o coloro» che hanno posto in essere le molestie, ricalcando quindi il consueto approccio rimediale/sanzionatorio nei confronti di violenza e molestie. 

Sono, invece, più chiaramente riconducibili alla volontà prevenzionistica i codici di condotta adottati a livello aziendale benché, come si è già avuto modo di affermare supra, tali codici tecnicamente non costituiscano altro se non l’esplicitazione di principi civilistici di correttezza e buona fede nell’esecuzione della prestazione o, per dirla ancora diversamente, del cd. minimo etico che dovrebbe ispirare la civile convivenza fuori e dentro ai luoghi di lavoro. Al di là delle perplessità di quanti potrebbero leggere, in tali codici, un’intrusione in chiave etico-paternalistica nelle relazioni umane, si tratta di fonti particolarmente utili per informare e descrivere, inevitabilmente a titolo solo esemplificativo, i comportamenti ascrivibili a molestia/molestia sessuale oltre che per individuare procedure e soggetti coinvolti nelle stesse. Strumentale all’effettività di tali codici è poi la loro diffusione sul luogo di lavoro, accompagnata da un’adeguata formazione del personale[50]. Sul punto, il nesso tra iniziative concordate con le parti sociali ed efficacia della prevenzione è emerso con il rinvio – contenuto nel già menzionato comma 3-ter dell’art. 26 d.lgs n. 198/2006 – a iniziative concordate di informazione e formazione volte a prevenire i fenomeni in esame. Le parti sociali potrebbero optare per l’inserimento nel CCNL di specifiche clausole dedicate al tema[51] o all’istituzione di apposite commissioni di parità[52], oppure ritenere preferibile, in aggiunta all’eventuale disciplina collettiva, una regolazione condivisa ma a livello decentrato[53], aziendale, di gruppo o territoriale. Benché non fosse necessario, va detto che la contrattazione collettiva ha ricevuto altresì la formale benedizione normativa attraverso l’art. 50-bis del d.lgs n. 198/2006, secondo il quale i «contratti collettivi possono prevedere misure specifiche, ivi compresi codici di condotta, linee guida e buone prassi, per prevenire tutte le forme di discriminazione sessuale e, in particolare, le molestie e le molestie sessuali nel luogo del lavoro, nelle condizioni di lavoro, nonché nella formazione e crescita professionale»[54].

 

4.2. ... alla valutazione dei rischi dopo la Convenzione ILO n. 190

L’importanza della prevenzione emerge, invece, con maggior chiarezza dalla Convenzione ILO n. 190 del 2019 e dalla raccomandazione di accompagnamento, divenute giuridicamente vincolanti a seguito della ratifica avvenuta nel 2021. La Convenzione si compone di una parte dedicata, come di consueto, a definizioni e principi generali, ed un’altra invece connotata da un potenziale maggiore in termini di impatto pratico, destinata a normare – ovviamente a livello generale – le misure che dovranno essere implementate tra gli Stati aderenti e le tecniche rimediali e risarcitorie in caso di violazione delle prescrizioni. 

Procedendo con ordine alla rapida disamina, possiamo notare che la definizione di “molestia e violenza”[55] (trattate unitariamente) contenuta nell’atto di diritto internazionale sia più ampia (e non per questo più precisa) di quella recepita a livello normativo dal legislatore europeo e nazionale. È quindi, forse, in grado, per la sua maggior ricchezza semantica, di integrare e supportare l’interpretazione delle definizioni di molestia contenute nella legislazione vigente. Anche per quel che riguarda l’ambito soggettivo, la descrizione di “lavoratore” e “lavoratrice” non individua nuovi spazi applicativi poiché già potevano ritenersi attratte nella tutela figure di tirocinanti o apprendisti, soggetti in formazione, o volontari sulla scia di una nozione ampia di lavoratore, al pari di quella contemplata dal d.lgs n. 81/2008. L’esclusione di tali figure dalla garanzia approntata a beneficio delle vittime di molestie sarebbe stata irragionevole e, quindi, da escludere. 

Parimenti, la circoscrizione spazio-temporale inserita nella Convenzione avvalora la tesi per cui la molestia, così come la violenza, ben possano essere perpetrate in ogni fase del rapporto di lavoro. L’attrazione delle condotte illecite subite negli spostamenti tra domicilio e luogo di lavoro e tra luoghi di lavoro differenti non stupisce, infine, poiché si tratta di una impostazione coerente con un’evoluzione estensiva dei confini applicativi dell’intera disciplina in materia di protezione della salute cui ci si è già confrontati con la nascita e progressiva istituzionalizzazione del cd. infortunio in itinere[56].

Al di là dei toni inevitabilmente enfatici nell’individuazione dell’obiettivo della Convenzione, ossia «un mondo del lavoro libero dalla violenza e dalle molestie», la parte più rilevante, che dovrebbe ispirare l’operato del legislatore come delle aziende, è costituita non solo dall’elenco dei principi fondamentali – sintetizzabili nella necessità di predisporre tecniche di tutela, strumenti di controllo e di effettività, campagne di sensibilizzazione –, quanto piuttosto dall’individuazione delle misure di prevenzione[57]

Il merito di questa parte della Convenzione – e ci si riferisce, segnatamente, alla sez. IV, artt. 7 ss. –, sta in primis nell’aver correttamente collocato le politiche di prevenzione e contrasto alle molestie nel quadro della tutela di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, anziché contenerla nell’ambito delle discriminazioni. Questa scelta, oltre a essere la sola coerente con l’oggetto della protezione, ossia la “salute” intesa in senso ampio (inutile ricordare che la molestia può determinare un danno fisico, psicologico, sessuale che può anche tradursi in un danno patrimoniale e non patrimoniale, laddove è in grado di incidere sulla progressione di carriera e sulla professionalità), è anche in grado di garantire l’effettività della tutela stessa. A seguito della ratifica si rende, infatti, necessaria l’integrazione delle molestie nell’articolata rete di norme su salute e sicurezza, e in particolare nella valutazione dei rischi di subire molestie, anche in ragione del tipo di mansione e della modalità con cui si rende la stessa[58]. Più precisamente, l’art. 9 prevede che violenza e molestie, come pure i rischi psicosociali correlati, siano incluse nella gestione della salute e della sicurezza sul lavoro (b) e che, conseguentemente, vengano identificati i pericoli e siano valutati i rischi relativi alla violenza e alle molestie (c), al fine di adottare misure per prevenirli e tenerli sotto controllo. I rischi e i pericoli, unitamente alle misure di prevenzione e protezione, dovranno poi essere oggetto di formazione e informazione ai lavoratori (d). Perché la valutazione dei rischi sia completa, inoltre, dovranno essere considerati i fattori che aumentano la probabilità di violenza e molestie, compresi i pericoli e i rischi psicosociali, tra cui le peculiari condizioni e modalità di lavoro, l’organizzazione del lavoro e la gestione delle risorse umane, ma anche i rischi e pericoli che riguardino soggetti terzi, quali clienti, fornitori di servizi, utenti, pazienti e il pubblico o, ancora, quelli conseguenti alla discriminazione, all’abuso dei rapporti di potere, alle norme culturali, sociali e a quelle relative al genere che favoriscono la violenza e le molestie (art. 8 della raccomandazione di accompagnamento)[59]. Trova, così, ulteriore conforto la matrice contrattuale della responsabilità datoriale.

L’obbligo di valutare i rischi da violenza e molestie e la conseguente adozione di idonee misure di prevenzione[60] sono, infine, coerenti con le linee guida della ISO («International Organization for Standardization») n. 45003 in materia di gestione dei rischi psicosociali e promozione del benessere sul lavoro (che menziona espressamente violenza e molestie)[61]; con la prassi di riferimento sui sistemi di gestione delle organizzazioni per la parità di genere[62]; con la ISO n. 30415 su diversità e inclusione (che sottolinea la necessità per le aziende di adottare politiche, processi, azioni per ridurre discriminazioni e a vantaggio dell’inclusione)[63]; nonché, da ultimo, con quanto già evincibile dal d.lgs n. 81/2008. Ai sensi degli artt. 17 e 28, comma 1 del d.lgs n. 81/2008, infatti, il documento di valutazione (Dvr) deve già contenere tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori «ivi compresi (...) quelli collegati allo stress lavoro-correlato[64] secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004 e (...) quelli connessi alle differenze di genere». Le molestie sessuali così come mobbing e discriminazioni[65], quindi, ben possono essere attratte nell’ambito dei rischi psicosociali e organizzativi[66] intesi come aspetti di «progettazione del lavoro e di organizzazione e gestione del lavoro» e «dei rispettivi contesti ambientali e sociali», potenzialmente in grado di «arrecare danni fisici o psicologici»[67]

Ebbene, ciò che quindi poteva già essere evinto da una lettura sistematica delle fonti normative e delle prassi settoriali già diffuse, ha trovato la sua pacifica affermazione con l’entrata in vigore della Convenzione, a seguito della quale il rischio da molestia e violenza dovrà essere espressamente inserito in apposito capitolo del Dvr, come previsto per ogni altro fattore di rischio[68]. Una volta valutato il rischio e tradotto nel Dvr, anche valorizzando il dato esperienziale[69], il datore dovrà individuare con il supporto di RSPP, RLS e dell’intero personale, le misure preventive anche di natura organizzativa. A questo fine possono essere utili le buone prassi condivise in più sedi[70] e che, ad esempio, potrebbero individuare tra le misure di prevenzione: l’adozione di un codice aziendale dal tenore simile a quanto immaginato con il sopramenzionato Accordo quadro europeo del 2007, la predisposizione di procedure di emergenza, di formazione, di misure organizzative (tra cui l’incoraggiamento del lavoro in squadra, la garanzia di una comunicazione trasparente, la definizione chiara di requisiti individuali, responsabilità e carico di lavoro[71]), ma anche l’introduzione di meccanismi di supporto (legale e psicologico), come la creazione di punti di ascolto ad hoc (diversi dagli uffici delle risorse umane) cui poter segnalare in forma anonima molestie subite o di cui si è avuta conoscenza[72].

A quest’ultimo proposito, e in particolare in relazione alla necessaria professionalizzazione del personale presente in azienda, occorre richiamare la recente proposta di direttiva del Parlamento e del Consiglio sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (Com (2022)105 final). Sono, in particolare, due gli articoli che meritano di essere menzionati. L’art. 30, in primis, grava gli Stati dell’obbligo di predisporre servizi di consulenza esterna per vittime e datori in caso di molestie sessuali sul lavoro. Nella consapevolezza che tali condotte possano incidere sull’intero ambiente di lavoro, l’art. 30 menziona espressamente tra i possibili servizi «la consulenza su come affrontare adeguatamente tali situazioni sul luogo di lavoro, sui mezzi di ricorso a disposizione del datore di lavoro per allontanare l’autore». Il successivo art. 37, collocato nel capo 5 sulla «prevenzione», al par. 3 prevede che «il personale con funzioni di vigilanza sul luogo di lavoro, nel settore pubblico come in quello privato, segu[a] una formazione per imparare a riconoscere, prevenire e affrontare le molestie sessuali sul lavoro, anche in relazione alla valutazione del rischio per la salute e la sicurezza sul lavoro, onde prestare assistenza alle vittime e reagire in modo adeguato»[73].

 

5. Punire la molestia per tutelare la vittima o il potere disciplinare come strumento di tutela della salute delle lavoratrici 

Come si è anticipato, le maggiori problematiche si pongono qualora la condotta sia posta in essere da un collega. Si è dell’avviso che in tal caso il datore, non appena sia stato messo a conoscenza della condotta o ne abbia appreso direttamente, debba reagire tempestivamente, avviando un procedimento disciplinare a carico del presunto molestatore[74]. Un pronto avvio dell’iter disciplinare, da cui discenderà la sanzione ove l’istruttoria confermi l’addebito, si rivela così uno strumento di adempimento dell’obbligo ex art. 2087 cc. Al contrario, il datore rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo sarà chiamato a rispondere ex art. 2087 cc nei confronti della vittima. In questo caso, lo stesso datore potrà eventualmente agire nei confronti dell’autore stesso «per la percentuale attribuibile alla responsabilità del medesimo» in quanto questi, nel porre in essere la molestia, è comunque venuto meno ai propri obblighi contrattuali[75].

Indipendentemente dalla circostanza che la presunta molestia sia avvenuta senza testimoni, l’avvio del procedimento attraverso una contestazione disciplinare il più possibile specifica, a tutela del diritto di difesa del presunto molestatore[76], ma contestualmente rispettosa della privacy della vittima[77], preferibilmente accompagnata dalla sospensione cautelare del presunto molestatore, rappresenta la decisione che meglio tutela tutte le parti coinvolte. Ciò consente al datore di raccogliere ulteriori informazioni nel corso della pendenza del procedimento, alla presunta vittima di trarre conforto dalla percezione dell’iniziativa datoriale, al presunto autore della molestia di potersi difendere nell’ambito delle giustificazioni e, in caso di adozione del provvedimento, di contestare la fondatezza della sanzione nel rispetto dell’ordinario paradigma di distribuzione dell’onere della prova[78]. Trattandosi di condotte disciplinarmente rilevanti, un ruolo prioritario parrebbe assumere il regolamento disciplinare e, prima ancora, il CCNL. Si è, tuttavia, convinti che al di là del contenuto più o meno preciso della clausola negoziale, che tra l’altro sarà oggetto di interpretazione del giudice[79], tali condotte rientrino nel cd. minimo etico di matrice giurisprudenziale. E infatti, per via dell’indiretta strumentalità del potere disciplinare alla compiuta tutela di salute e sicurezza[80], è stato ritenuto legittimo il licenziamento irrogato a dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare e senza che, in senso contrario, possa dedursi che «il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi»[81]

 

6. Solo un cenno alla tutela risarcitoria

Vi è chi ha sottolineato l’attenzione riservata dalla Convenzione, ma anche dalla raccomandazione n. 206/2019, che ne ha accompagnato l’adozione, agli strumenti che garantiscano l’effettività della tutela[82]. In particolare, oltre al diritto di recedere in tronco e di veder accertata (ovviamente se fondata) la nullità del licenziamento ritorsivo (conseguente cioè alla denuncia della condotta), la vittima di molestie ha diritto a una sanzione effettiva[83]. Indipendentemente dall’autore materiale della molestia, sia esso il collega o il datore, quest’ultimo – in presenza di una violazione dell’art. 2087 cc – sarà chiamato a rispondere dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla lavoratrice. A questo proposito, è utile segnalare come le molestie sessuali abbiano consentito di sperimentare in alcune occasioni il ricorso alla categoria dei cd. “danni punitivi” o, quantomeno, di sollecitare il dibattito al riguardo. In particolare, in alcuni casi si è giunti ad affermare che il giudice nazionale, in conformità al principio di cui all’art. 18 della direttiva 2006/54 CE – a norma del quale, in presenza di una discriminazione fondata sul sesso, il conseguente indennizzo deve non solo riparare gli effetti reali subiti, ma anche avere una valenza dissuasiva[84] – «una volta raggiunta la prova dell’esistenza dell’an del pregiudizio risarcibile, deve riconoscere alla vittima di tale discriminazione un risarcimento proporzionato al danno subito ed idoneo a soddisfare altresì la funzione sanzionatoria del rimedio, ossia una funzione di prevenzione analoga alla sanzione penale»[85]. In dottrina si è, tuttavia, osservato come tali danni debbano preferibilmente essere qualificati come dissuasivi e deterrenti anziché punitivi. Ciò non toglie che la giurisprudenza su discriminazioni e molestie sessuali costituisca un laboratorio privilegiato, se non per l’ingresso della categoria di danno punitivo nell’ordinamento lavoristico, quantomeno per la valorizzazione della “polifunzionalità”[86] della responsabilità civile, in particolare nell’ambito della quantificazione del danno non patrimoniale[87] derivante dalla lesione della dignità della vittima, sia essa conseguenza della responsabilità diretta del datore o della responsabilità per comportamenti altrui. In particolare, nel misurare il danno non patrimoniale subito dalla lavoratrice, il giudice ben potrà assegnare un consistente peso economico a fattori eterogenei tra cui l’odiosità della condotta, aggravata dalla soggezione contrattuale o economica nei confronti dell’autore, il clima creato in azienda e il peggioramento della vita familiare[88] o, ancora, l’impatto sulle scelte lavorative e personali della vittima (dal mero cambiamento di atteggiamenti e abiti sino alle dimissioni). La liquidazione del danno non patrimoniale, espressione di una valutazione equitativa del giudice, sarà, così, capace di ottenere il medesimo risultato di disincentivare tali condotte, proprio come previsto dall’art. 18 della direttiva 2006/54; norma che, per contro, non parrebbe invocabile per «giustificare un inasprimento dell’ammontare del danno allo scopo di attribuire a tale rimedio una finalità sanzionatoria»[89].

 

7. Conclusioni

Le fonti normative, stratificatesi nel tempo in maniera non sempre coordinata, costituiscono oggi una base sulla quale aziende, parti sociali, lavoratori e soggetti pubblici possono agire per prevenire violenza e molestie. 

Quanto alle tecniche, pur a fronte dei limiti già evidenziati in dottrina (da un approccio ancora fortemente risarcitorio alla scarsa valorizzazione degli strumenti processuali offerti dal diritto antidiscriminatorio[90]), si è comunque convinti che la strada verso l’abbattimento di stereotipi e condotte sintomatiche di questi ultimi nel mondo del lavoro sia stata imboccata, se non altro sul fronte della regolazione (normativa o contrattuale che sia). Ciò è avvenuto attingendo a quanto di buono (dall’irrilevanza dell’elemento soggettivo, al regime di distribuzione dell’onere della prova, alla quantificazione del danno non patrimoniale) può arrivare dalla ricca elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sulle discriminazioni, nella crescente consapevolezza che violenza e molestie sul lavoro costituiscano innanzitutto fattori di rischio per la salute delle lavoratrici e che, come tali, debbano essere prevenuti e regolati. 

Differente potrebbe, invece, essere il giudizio sull’incisività delle soprarichiamate tecniche. Il contenzioso, purtroppo, non è ancora in grado di consentire una valutazione completa anche in ragione del campione abbastanza contenuto, seppure in crescita, di contenzioso. La speranza è che la pacifica attrazione di violenza e molestie nell’ambito della valutazione dei rischi – e, conseguentemente, del denso reticolo di soggetti, funzioni, formazione, monitoraggio e sanzioni del d.lgs n. 81/2008 – possa contribuire a conferire maggiore effettività agli strumenti già offerti dal diritto antidiscriminatorio. 

 

 

1. Ci si riferisce agli ultimi dati Istat pubblicati nel 2018 e relativi al periodo 2015-2016, secondo i quali sarebbero 8.816.000 (43,6 %) le donne fra i 14 e i 65 anni che, nel corso della vita, hanno subito qualche forma di molestia sessuale e 3.118.000 (15,4%) quelle che le hanno subite negli ultimi tre anni (www.istat.it/it/archivio/209107). Per una ricognizione delle nozioni, cfr. C. Pagano e F. De Riu, Analisi preliminare sulle molestie e la violenza di genere nel mondo del lavoro in Italia, Ufficio OIL (ILO) per l’Italia e San Marino, aprile 2018; A. Ninci (a cura di), Ri-conoscere per prevenire i fenomeni di molestia e violenza sul luogo di lavoro, Inail, 2021.

2. Tra questi, ad esempio, la fattispecie dei maltrattamenti prevista dall’art. 572 cp, qualora il rapporto interpersonale sia caratterizzato dal requisito della para-familiarità, avuto riguardo non semplicemente al numero dei dipendenti dell’azienda, alla durata del rapporto di lavoro, alla reiterazione del condotte discriminatorie nei confronti dei soggetti e alla reazione delle vittime, bensì alle dinamiche relazionali intercorrenti fra i lavoratori e il datore di lavoro, nonché all’esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternità delle vittime suddette – Cass. pen., sez. VI, 20 marzo 2018, n. 36802; tra i precedenti, ex multis, Cass. pen., sez. III, 7 luglio 2008, n. 27469.

3. Ci si riferisce alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, dell’11 maggio 2011.

4. Sul punto, si rimanda alle condivisibili riflessioni di R. Santucci, Le tutele contro le molestie nel lavoro: ancora troppe incertezze e disarmonie, in Dirittifondamentali.it, n. 1/2020, pp. 1210-1257, e agli studi di genere dallo stesso Autore citati a sostegno della necessità di «condurre percorsi educativi di decostruzione delle diseguaglianze e di promozione del rispetto delle differenze» – vds. R. Ghigi, Fare la differenza. Educazione di genere dalla prima infanzia all’età adulta, Il Mulino, Bologna, 2019.

5. Per una sintesi, vds. S. Bissaro, Molestie sessuali sul luogo di lavoro. Il Parlamento discute l’introduzione di una disciplina ad hoc, Osservatorio violenza sulle donne, Università degli Studi di Milano, 21 novembre 2021 (https://ovd.unimi.it/commento/molestie-sessuali-sul-luogo-di-lavoro-il-parlamento-discute-lintroduzione-di-una-disciplina-ad-hoc/).

6. P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, art. 2087, in F.D. Busnelli (a cura di), Il Codice civile. Commentario Schlesinger, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 52 ss.; Id., La sicurezza sul lavoro e la cultura giuridica italiana fra vecchio e nuovo diritto, in Dir. sic. lav., n. 1/2016, pp. 83 ss.; R. Del Punta, Danno non patrimoniale e rapporto di lavoro (a un anno dalle Sezioni Unite), in A. Perulli e V. Brino (a cura di), Sicurezza sul lavoro: il ruolo dell’impresa e la partecipazione attiva del lavoratore, CEDAM, Padova, 2012, pp. 115 ss.; S. Giubboni, La crisi della regola dell’esonero, in WPOlympus (Università di Urbino), n. 3/2011 (https://journals.uniurb.it/index.php/WP-olympus/article/view/20/18); Id., Infortuni sul lavoro e responsabilità civile: vecchie e nuove questioni in tema di danno differenziale, Centre for the Study of European Labour Law (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 397/2019; R. Guariniello, Il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, in Igiene e sicurezza del lavoro, 1997, p. 339; M. Lai, Il diritto della sicurezza sul lavoro tra conferme e sviluppi, Giappichelli, Torino, 2017; F. Malzani, Obbligo di sicurezza e risarcimento del danno. Quali spazi per una funzione general preventiva della responsabilità civile? (commento a Corte appello Torino, 11 maggio 2015), Nuova giurisprudenza civile commentata, n. 11/2015, I, p. 1047-1053; L. Montuschi, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1986, pp. 68 ss.; P. Natullo, Il quadro normativo dal Codice civile al Codice della sicurezza sul lavoro. Dalla Massima sicurezza (astrattamente) possibile alla Massima sicurezza ragionevolmente (concretamente) applicata?, in WPOlympus, n. 39/2014; P. Tullini, Tutela civile e penale della sicurezza del lavoro: principi, categorie e regole probatorie a confronto, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 3/2011, pp. 727-753; Id., Il danno differenziale: conferme e sviluppi d’una categoria in movimento, in Riv. it. dir. lav., n. 4/2015, pp. 485-508.

7. Si vedano le riflessioni di C. Lazzari, Per un (più) moderno diritto della salute e della sicurezza sul lavoro: primi spunti di riflessione a partire dall’emergenza da Covid-19, in Dir. sic. lav., n. 1/2020, pp. 136-149.

8. Sul punto, basti pensare alle più recenti istanze di employee happiness e alla loro combinazione con le misure di welfare aziendale. Cfr. E. Gragnoli, Esiste un diritto alla felicità in azienda?, in Variazioni su temi di diritto del lavoro, n. 1/2022, pp. 9 ss.; per quel che riguarda la pubblica amministrazione, F. Nicosia, La ricerca della felicità: aspettativa o diritto al benessere nel lavoro pubblico?, CSDLE “Massimo D’Antona”, working paper n. 453/2022.

9. M. Pedrazzoli, Introduzione, in Id. (a cura di), I danni alla persona del lavoratore nella giurisprudenza, CEDAM, Padova, 2004, p. XLVIII.

10. Cfr. le considerazioni critiche e la bibliografia richiamate da A. Pizzoferrato, Molestie sessuali sul lavoro. Fattispecie giuridica e tecniche di tutela, CEDAM, Padova, 2000, pp. 345 ss.

11. Ci si riferisce alla l. 27 dicembre 2017, n. 205 (legge di bilancio 2018), in modifica all’art. 26, comma 3-ter, d.lgs n. 198/2006.

12. Cfr. anche, nel pubblico, i regolamenti di disciplina adottati dalle amministrazioni. A titolo esemplificativo, vds. il regolamento di disciplina Inps che prevede l’obbligo del dipendente di «mantenere, nei rapporti interpersonali, con gli altri dipendenti e con gli utenti, una condotta corretta, astenendosi da comportamenti lesivi della dignità della persona», sanzionando «comportamenti o molestie, anche di carattere sessuale, di particolare gravità che siano lesivi della dignità della persona» con la sospensione.

13. S. Giubboni e A. Rossi, Infortuni sul lavoro e responsabilità civile, Giuffrè, Milano, 2022, p. 25.

14. Da ultimo, Cass. civ., sez. lav., 20 ottobre 2022, n. 31049.

15. Cass. civ., sez. lav., 11 febbraio 2020, n. 3282.

16. Così Cass. pen., sez. III, 6 dicembre 2011, n. 27706. In linea con Cass. pen., sez. III, 6 dicembre 2011, n. 27706; Trib. Venezia, 15 gennaio 2002; Pret. Modena, 29 luglio 1998, che tendono a escludere la configurabilità della responsabilità datoriale in casi di molestie sessuali poste in essere dai dipendenti, sul presupposto dell’impossibilità di considerare il comportamento del molestatore come riferibile alle incombenze assegnate al dipendente. In altri casi, i giudici hanno riconosciuto la responsabilità del datore in caso di abusi sessuali commessi dai dipendenti (ad esempio, Cass. pen., 7 novembre 2019, n. 8968 relativa ad atti sessuali posti in essere dal conducente di autobus nei confronti dei passeggeri presenti a bordo durante la sosta al capolinea, sussistendo il nesso di occasionalità necessaria nello svolgimento dell’attività lavorativa, in quanto questa non comprende solo la guida, ma anche la vigilanza del mezzo di trasporto; Cass. civ., sez. lav., 22 settembre 2017, n. 22058, in cui è stata ritenuta responsabile l’azienda ospedaliera per i danni provocati da un medico autore di violenza sessuale in danno di una paziente, perpetrata in ospedale e in orario di lavoro, nell’adempimento di mansioni di anestesista, narcotizzando la vittima in vista di un intervento chirurgico; in linea con la più risalente Pret. Milano, 31 gennaio 1997). A ciò si aggiunga che, in alcuni casi – ma meno frequentemente –, la responsabilità del datore è riconosciuta ai sensi degli artt. 2087 e 2049 cc (è il caso di. Trib. Milano, 24 gennaio 2020, per un caso di molestie basate sulla razza). Sul punto cfr., per un aggiornamento giurisprudenziale, G. Cassano, La responsabilità del datore di lavoro per fatti dei lavoratori, in Lav. giur., n. 1/2021, p. 98.

17. Cfr. Trib. Milano, 3 marzo 2015, n. 455; A. Salvati, La responsabilità datoriale per le molestie sessuali sul luogo di lavoro, in Ridare.it, 2 febbraio 2016.

18. Cfr. G. Cassano, La responsabilità, op. cit.

19. La definizione è contenuta nella raccomandazione della Commissione europea del 27 novembre 1991 sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini sul lavoro (92/131/CEE), ove si legge: «per molestia sessuale s’intende ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altro tipo di comportamento basato sul sesso che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro, ivi inclusi atteggiamenti malaccetti di tipo fisico, verbale o non verbale». Successivamente, la direttiva 2002/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa ha integrato la nozione con il riferimento a «un ambiente intimidante, ostile, degradante, umiliante od offensivo». Come ricordato da S. Scarponi, Molestie sessuali sul lavoro: elementi di convergenza e nodi da sciogliere connessi alla ratifica della Convenzione OIL 190/2019, in Giudice donna, n. 3-4/2020 (www.giudicedonna.it/2020/numero-tre-quattro/Articoli/Molestie_sessuali_sul_lavoro.pdf). A Louise Fitzgerald (1990) si deve l’individuazione di tre principali categorie di molestia: «le molestie di genere, che possono includere: commenti offensivi sulle donne, osservazioni inappropriate sull’aspetto fisico, allusioni sessuali, esposizione di immagini pornografiche; l’attenzione sessuale indesiderata, come proposte insistenti di appuntamenti, contatti fisici indesiderati e che provocano disagio; la coercizione sessuale, per esempio minacce e ricatti sessuali o aggressioni sessuali» – L.F. Fitzgerald, Sexual Harassment: The Definition and Measurement of a Construct, in M.A. Paludi (a cura di), Ivory Power: Sexual harassment on Campus, State University of New York Press, Albany, 1990, pp. 21-44.

20. Cfr. R. Del Punta, Danno non patrimoniale, op. cit., p. 235.

21. Ricorda S. Scarponi, Molestie sessuali sul lavoro, op. cit., p. 3, come l’applicazione del diritto antidiscriminatorio alle molestie sessuali dipenda dal recepimento in sede europea (raccomandazione della Commissione 92/131/CEE, del 27 novembre 1991, sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini sul lavoro) della prospettiva femminista nordamericana, secondo cui «le molestie sono espressione di una situazione più generale di oppressione della donna nel mercato del lavoro che impone di contrastare il fenomeno di esclusione delle lavoratrici da condizioni di eguaglianza sostanziale mediante una strategia complessiva di valorizzazione e promozione a loro vantaggio». 

22. A essere definite e vietate per prime, infatti, sono state le molestie dovute ad altri fattori. La direttiva 2000/43 ha, infatti, vietato le molestie fondate su razza e origine etnica, la direttiva 2000/78 quelle fondate su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali. Le direttive sono state recepite con i decreti legislativi nn. 215 e 216 del 2003. 

23. Dello stesso avviso sono anche R. Santucci, Le tutele, op. cit., p. 1220, e F. Di Noia, Le molestie sessuali tra inversione e alleggerimento dell’onus probandi, in Lav. giur., n. 2/2017, p. 133. Cfr. le considerazioni di R. Del Punta, Diritti della persona e contratto di lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., vol. 28, n. 110, 2006, pp. 233 ss.; contra: M. Barbera, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio comunitario, ivi, vol. 25, n. 99-100, 2003, p. 399. 

24. Commi aggiunti dalla legge 27 dicembre 2017, n. 205 (bilancio del 2018). 

25. Sul licenziamento ritorsivo vds., recentemente, S. Varva, Novità in tema di ripartizione dell’onere della prova del licenziamento ritorsivo nel “Decreto trasparenza”, in Giustizia civile, 10 ottobre 2022. 

26. Cfr. Trib. Torino, 7 maggio 2020, con nota di C. Mazzanti, Molestie sessuali e trasferimento discriminatorio della lavoratrice, in Lav. giur., n. 4/2021, p. 406. Nel caso di specie, occasionato da un trasferimento disposto dal datore nei confronti della vittima delle molestie (al dichiarato fine di tutelarla), il giudice ha ritenuto corretto l’incardinamento del rito nelle forme del procedimento speciale di cui all’art. 38 d.lgs n. 198/2006.

27. A sostenere l’equiparazione è, ad esempio, G. De Simone, Le molestie di genere e le molestie sessuali dopo la direttiva CE 2002/73, in Riv. it. dir. lav., n. 3/2004, p. 403. Più ampiamente sul tema, sulle fonti e sugli elementi costitutivi di molestie di genere e sessuali, si vedano, senza pretesa di esaustività: R. Santucci, Le tutele, op. cit.; L. Calafà, La violenza e le molestie nei luoghi di lavoro: il poliedrico approccio del diritto del lavoro gender oriented, in G. Gosetti (a cura di), Violenza e molestie nei luoghi di lavoro, Franco Angeli, Milano, 2019, p. 36; L. Venditti, Le molestie sul lavoro in Italia: fattispecie e rimedi giuridici, in Dir. merc. lav., n. 3/2014, p. 261; S. Giubboni e S. Borelli, Discriminazioni, molestie, mobbing, in Trattato di Diritto del lavoro (dirr.: M. Persiani e F. Carinci), vol. 4, t. 2, Contratto di lavoro e organizzazione, a cura di M. Martone e M. Marazza, CEDAM, Padova, 2011, p. 1887; L. Lazzeroni, Molestie e molestie sessuali: nozioni, regole, confini, in M. Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 379 ss.; L. Curcio, Le azioni in giudizio e l’onere della prova, ivi, pp. 529 ss.; M. Barbera, Eguaglianza e differenza, op. cit., p. 399; D. Izzi, Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro. Il diritto antidiscriminatorio tra genere e fattori di rischio emergenti, Jovene, Napoli, 2005; P. Ichino, Il Contratto di lavoro, vol. II, in P. Schlesinger (dir.), Trattato di diritto civile e commerciale, Giuffrè, Milano, 2003, p. 80; A. Pizzoferrato, Molestie sessuali sul lavoro, op. cit.; D. Izzi, Molestie sessuali e rapporti di lavoro, in Lav. dir., 1995, p. 285. 

28. In senso contrario a quanto riferito nel testo, R. Del Punta, Diritti della persona, op. cit., part. p. 234, ove afferma che «il nodo teoricamente più interessante è la configurazione legislativa della molestia come discriminazione» che «certo sembra alludere (…) ad un’integrazione della fattispecie e non ad una mera equiparazione di effetti». Integrazione che, ad avviso dello stesso Autore, presenta costi maggiori rispetto ai benefici ottenuti, se si considera che la molestia sessuale costituisce un’offesa «diretta ai beni della dignità e libertà sessuale piuttosto che un peccato contro l’eguaglianza come avviene nelle discriminazioni». Cfr. le considerazioni di D. Izzi, Eguaglianza e differenze, op. cit., p. 57. Sulla distribuzione dell’onere probatorio nell’ambito delle discriminazioni, per una valutazione comparata, R. Santagata De Castro e R. Santucci, Discriminazioni e onere della prova: una panoramica comparata su effettività e proporzionalità della disciplina (Parte I), in Arg. dir. lav., n. 3/2015, p. 534.

29. Contra: Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2016, n. 23286, secondo la quale la valutazione comparativa legherebbe il trattamento differenziale negativo rispetto ai lavoratori del diverso genere, che non patiscono le medesime condotte.

30. In senso contrario M.T. Carinci, Il bossing fra inadempimento dell’obbligo di sicurezza, divieti di discriminazione e abuso del diritto, in Riv. it. dir. lav., n. 2/2007, p. 133, secondo la quale «l’inversione parziale dell’onere della prova, che si accompagna ai divieti di discriminazione (…) con tutta evidenza risulta inapplicabile alle “molestie” intese come condotte materiali», ragion per cui «le molestie, come fatti storici, dovranno essere oggetto di prova diretta con i mezzi consueti, a cominciare da quello testimoniale». 

31. Cfr. Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2016, n. 23286. Nel caso di specie, la prova statistica prodotta dalla consigliera di parità consisteva nella dimostrazione del serrato turn over delle giovani dipendenti del datore autore delle molestie. Sul punto, sempre S. Scarponi, La parità di genere nel lavoro e le nuove frontiere dell’antidiscriminazione, in Ead. (a cura di), Diritto e genere. Temi e questioni, Quaderni della Facoltà di Giurisprudenza - Università di Trento, n. 45, 2020, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020, p. 50.

32. Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2016, n. 23286, in Lav. giur., n. 2/2017, pp. 133 ss., con nota di F. Di Noia, Le molestie sessuali tra inversione e alleggerimento dell’onus probandi. Sempre sullo stesso tema, V.A. Poso, L’equiparazione delle molestie sessuali alle discriminazioni di genere anche in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio, in Labor, 9 dicembre 2016.

33. Trib. Torino, sez. lav., 19 dicembre 2011, n. 3270.

34. Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2016, n. 23286.

35. Va da sé che, nel caso in cui si tratti di condotta tenuta dal dipendente, il datore sarà invece chiamato a dimostrare, come si è detto sopra, la correttezza del proprio operato: dall’avvio del procedimento disciplinare al rispetto delle misure preventive, etc.

36. Cass. pen., sez. III, 6 dicembre 2011, n. 27706.

37. Cass. pen., sez. IV, 9 dicembre 2020, n. 7279.

38. Cass. civ., sez. lav., 13 ottobre 2020, n. 22075.

39. Corte appello Bari, sez. lav., sent. 29 giugno 2022.

40. Cfr. Cass., 13 giugno 2022, n. 18992, in Lav. giur., n. 10/2022, p. 976, con nota di C.A. Giovanardi, in cui le condotte subite dalla stagista e tenute dal tutor andavano dalla richiesta di amicizia su Facebook e frequente osservazione delle foto sul social network, sino all’invito a presentarsi truccata in ufficio; richiesta di informazioni sui rapporti con il fidanzato; allusioni varie...

41. D. Chappel e V. Di Martino, Violence at Work, International Labour Office, Ginevra, 2006; vds. anche il successivo M. Milczarek, Workplace Violence and Harassment: a European Picture, Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA), Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, Lussemburgo, 2010.

42. Su cui vds. le considerazioni di G. De Simone, Le molestie, op. cit., p. 405.

43. Trib. Bologna, sez. lav., 21 febbraio 2018, n. 150; cfr. anche Cass. pen., sez. III, 6 dicembre 2011, n. 27706.

44. Se si tratti, cioè, di rapporto confidenziale cfr., ad esempio, Trib. Torino, 23 novembre 2022, su un licenziamento disciplinare in parte fondato su molestie ai danni di una collega.

45. Sul punto, vds. le considerazioni di L. Imberti, Molestie sessuali e riprovevoli comportamenti scherzosi tra dipendenti: cosa deve fare il datore di lavoro (secondo la giurisprudenza), nota a Cass. civ., 8 marzo 2005, n. 4959; Cass., 2 maggio 2005, n. 9068.

46. Ci si riferisce alle condivisibili riflessioni di R. Del Punta, Diritti della persona, op. cit., p. 236.

47. Al contrario, servirebbe ad «ancorare l’indesiderabilità di tale condotta ad una dimensione in qualche modo oggettiva»: così S. Giubboni e S. Borelli, Discriminazioni, op. cit., p. 1887; cfr. anche D. Izzi, Molestie, op. cit., pp. 298 ss.; A. Pizzoferrato, Molestie sessuali sul lavoro, op. cit., pp. 71 ss. Sul punto e, quindi, sull’innesto di oggettivizzazione nella prospettiva della vittima, anche L. Corazza, Mobbing e discriminazioni, in M. Pedrazzoli (a cura di), Vessazioni e angherie sul lavoro. Tutele, responsabilità e danni nel mobbing, Zanichelli, Bologna, 2007, pp. 91 ss.

48. S. Scarponi, La convenzione Oil n. 190/2019 su violenza e molestie nel lavoro e i riflessi sul diritto interno, in Riv. giur. lav., n. 1/2021, p. 23.

49. La dichiarazione allegata all’accordo, infatti, fa espressa menzione dell’intenzionalità della violenza. Si legge nel testo, che in realtà riporta una citazione estrapolata dallo stesso accordo quadro, che: «le molestie si verificano quando uno o più individui subiscono ripetutamente e deliberatamente abusi, minacce e/o umiliazioni in contesto di lavoro».

50. Cfr., ad esempio, l’ art. 38 CCNL Commercio, che prevede l’inserimento, nei programmi generali di formazione, di nozioni generali sugli orientamenti in materia di prevenzione delle molestie e procedure da seguire.

51. Art. 38 CCNL Commercio con cui le parti sociali recepiscono i principi a cui si ispira il «Codice di condotta relativo ai provvedimenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali» allegato alla raccomandazione della Commissione europea del 27 novembre 1991, come modificato dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini sul lavoro. Le parti individuano, poi, in una apposita commissione paritetica con sede presso l’ente bilaterale territoriale, il compito di ricevere notizie, segnalazioni o denunce di molestie sessuali. Tale commissione, in caso di necessità, può avvalersi di professionalità esterne e offrire assistenza e consulenza. Nello stesso senso si è mosso il CCNL Metalmeccanici, che all’art. 7 prevede proprio l’istituzione di una commissione paritetica a livello nazionale dedita, tra le altre attività, alla prevenzione di forme di molestie sessuali nei luoghi di lavoro anche attraverso ricerche sulla diffusione e le caratteristiche del fenomeno. A tal fine essa promuoverà, inoltre, iniziative di sensibilizzazione finalizzate allo sviluppo della cultura del rispetto della dignità della donna.

52. Cfr. CCSL 2019-2022, p. 7, che assegna alla commissione l’elaborazione di misure di prevenzione, ma anche una funzione “consulenziale” e di supporto nell’adozione di tali misure da parte dell’azienda (art. 19) – https://aqcf.it/download/ccsl/CCSL-2019-2022.pdf.

53. Cfr., ad esempio: CCNL Gruppo Marriott, Accordo del 28 giugno 2019 dedicato espressamente al tema delle molestie; Dichiarazione congiunta in materia di molestie e violenze di genere sui luoghi di lavoro, Abi, 12 febbraio 2019; il CCNL del legno (FederlegnoArredo), del 4 febbraio 2015, recante un modello di codice di comportamento da adottare nella lotta contro le molestie sessuali e il mobbing; l’art. 12 CCNL Imprese di pulizia; art. 7-bis, ipotesi di CCNL per i dipendenti da imprese di pulizia, di disinfestazione e servizi integrati/ multiservizi, che richiama espressamente la ratifica della Convenzione ILO n. 190 e allude a una successiva adozione di un modello di codice di condotta tra le aziende di settore, 26 novembre 2021.

54. Su cui A. Occhino, La questione dell’eguaglianza nel diritto del lavoro, in Riv. it. dir. lav., n. 1/2011, p. 95.

55. L’espressione “violenza e molestie”, nel mondo del lavoro, indica un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere. L’espressione “violenza e molestie di genere” indica la violenza e le molestie nei confronti di persone in ragione del loro sesso o genere, o che colpiscano in modo sproporzionato persone di un sesso o genere specifico, ivi comprese le molestie sessuali.

56. Si vedano, comunque, le perplessità di S. Scarponi, Molestie sessuali sul lavoro, op. cit., circa il riferimento all’effetto dannoso, potenziale o attuale, quale elemento costitutivo della molestia. La scelta, criticabile, non può comunque incidere sulla portata della previsione nazionale, che all’art. 26, comma 2, d.lgs n. 198/2006, non contiene invece alcun riferimento al danno, «dato che la disposizione nazionale vigente rispetta comunque il contenuto sostanziale della definizione propria del diritto internazionale, estendendo anzi il campo della tutela nei confronti della vittima» (ivi, pp. 9-10).

57. A. Rosiello, Molestie sessuali nei luoghi di lavoro: prevenzione e tutela, in Igiene e sicurezza del lavoro (ISL), n. 2/2020, pp. 69-70. 

58. Su valutazione del rischio e lavoro su piattaforma, si vedano le recenti iniziative dell’Agenzia europea EU-OSHA nell’ambito della campagna intitolata “Safe and healthy work in the digital age”, commentate da M. Grandi, EU-OSHA. “Salute e sicurezza sul lavoro nell’era digitale”, in ISL, n. 11/2022, p. 3. Dal report emerge, ad esempio, come nell’ambito della piattaforma le molestie possano coinvolgere sia coloro che prestano la loro attività da remoto sia conducenti e autisti. Si tratterà, come ovvio, di molestie realizzate in modo differente. I lavoratori delle piattaforme in loco, che lavorano come conducenti, tassisti o addetti alle consegne potranno essere vittime di violenze, molestie e abusi ed essere esposti alla criminalità, mentre gli addetti alle piattaforme online potranno subire invece cyberbullismo e molestie. Interessante è il rischio cui sono esposti, nell’ambito delle piattaforme, i revisori dei contenuti online adibiti a controllare i «forum, le foto, i video o i social media, ecc., per filtrare immagini pornografiche o violente, l’incitamento all’odio, al razzismo, alla xenofobia, ecc.». Questi ultimi, infatti, «potrebbero non avere la formazione o il supporto necessari, tanto da subire danni psicologici». In proposito, vengono utilizzati sistemi di controllo sempre più raffinati, in grado di monitorare la salute mentale dei lavoratori anche attraverso l’analisi delle loro conversazioni, arrivando così a identificare e rilevare casi di bullismo o molestie sessuali. Certo, ci si limita ad osservare come sistemi siffatti (primo tra questi, AIWM) debbano nel nostro ordinamento essere valutati alla luce dell’art. 4 Stat. lav. e della disciplina in materia di privacy.

59. H. Ege e D. Tambasco, La “tolleranza zero” contro violenza e molestie lavorative: una rivoluzione in arrivo?, Il Giuslavorista, 1° ottobre 2021.

60. Aa.Vv., La sicurezza sul lavoro in una prospettiva di genere, in ISL, n. 10/2018, p. XX.

61. ISO, Occupational health and safety management – Psychological health and safety at work – Guidelines for managing psychosocial risks, giugno 2021 (www.iso.org/standard/64283.html). Le linee guida menzionano violenza e molestie sia laddove individuano gli esempi di «social factors at work», definendole come, rispettivamente (la prima): «incidents involving an explicit or implicit challenge to health, safety or well-being at work; violence can be internal, external or client initiated, e.g.: abuse, threats, assault (physical, verbal or sexual), gender-based violence»; (le seconde): «unwanted, offensive, intimidating behaviors (sexual or non-sexual in nature) which relate to one or more specific characteristic of the targeted individual, e.g.: race, gender identity, religion or belief, sexual orientation, disability, age)».

62. Ci si riferisce alle linee guida UNI/PDR 125: 2022, sul sistema di gestione per la parità di genere, che prevede l’adozione di specifici KPI (indicatori chiave di prestazione) in materia di politiche di parità di genere nelle organizzazioni aziendali, che al punto 6.3.2.6, dedicato alle attività di prevenzione di ogni forma di abuso fisico, verbale, digitale (molestia) sui luoghi di lavoro, prevede che l’organizzazione debba attuare le previsioni normative e contrattuali in materia di contrasto alle molestie sui luoghi di lavoro. In particolare, si legge nelle linee guida, l’organizzazione dovrà: «a) individuare il rischio di ogni forma di abuso fisico, verbale, digitale (molestia) alla luce della Salute e Sicurezza sul Luogo di Lavoro; b) preparare un Piano per la prevenzione e gestione delle molestie sul lavoro; c) prevedere una specifica formazione a tutti i livelli, con frequenza definita, sulla “tolleranza zero” rispetto ad ogni forma di violenza nei confronti dei/delle dipendenti, incluse le molestie sessuali (sexual harassment) in ogni forma; d) prevedere una metodologia di segnalazione anonima di questa tipologia di accadimenti a tutela dei/delle dipendenti che segnalano; e) pianificare e attuare delle verifiche (survey) presso i/le dipendenti, indagando se hanno vissuto personalmente esperienze di atteggiamenti di questo tipo, che hanno provocato disagio o turbamento, all’interno o nello svolgimento del proprio lavoro all’esterno (atteggiamenti sessisti, comportamenti o situazioni di mancanza di rispetto); f) valutare gli ambienti di lavoro anche da questo punto di vista; g) prevedere una valutazione dei rischi e analisi eventi avversi segnalati; h) assicurare una costante attenzione al linguaggio utilizzato, sensibilizzando una comunicazione il più possibile gentile e neutrale».

63. ISO 30415:2021, Human resource management – Diversity and inclusion, maggio 2021 (www.iso.org/standard/71164.html).

64. Cfr. F. Grasso, Lo stress derivante dall’organizzazione del lavoro. Gli obblighi di prevenzione e la responsabilità del datore di lavoro, in Lav. giur., n. 8-9/2021, p. 836; G. Ludovico, Lo stress lavoro correlato tra tutela prevenzionistica, risarcitoria e previdenziale, in Riv. dir. sic. soc., n. 2/2011, pp. 403-404.

65. R. Nunin, La prevenzione dello stress lavoro-correlato. Profili normativi e responsabilità del datore di lavoro, EUT, Trieste, 2012, p. 14.

66. Su cui, ad esempio, si vedano i contributi del numero monografico n. 2/2012 della Rivista Lavoro e diritto.

67. T. Cox e A.J. Griffith, The assessment of psychosocial hazards at work, in J. Schabracq - J.A.M. Winnubst - C.L. Cooper (a cura di), The Handbook of Work and Health Psychology, Wiley, Chichester (UK), 1996, p. 127.

68. M. Pellerino e I. Tolio, Violenza e molestie sui luoghi di lavoro diventano rischi da valutare e prevenire nel sistema di salute e sicurezza sul lavoro, in Rivista 231, febbraio 2021. 

69. C. Bisio, Valutazione del rischio di violenze sul luogo di lavoro, in Safety & security magazine, 21 gennaio 2020.

70. Strumentali alla diffusione di buone prassi potrebbero essere iniziative come quella immaginata all’art. 38 del CCNL Commercio, che prevede la raccolta, nel rispetto della privacy dei soggetti coinvolti, dei dati quantitativi e qualitativi formali raccolti da organismi paritetici costituiti in azienda e relativi alle procedure formali o informali avviate, nonché alle soluzioni individuate, e la comunicazione degli esiti alla commissione per le pari opportunità costituita a livello nazionale. Fermo restando il diritto alla privacy, gli organismi paritetici aziendali, ove concordati e costituiti, e territoriali invieranno i dati quantitativi e qualitativi delle procedure informali e/o denunce formali e le soluzioni individuate alla commissione paritetica.

71. Cfr. Cgil Piemonte e Cgil Umbria (a cura di), Appunti e suggerimenti (non esaustivi) per la contrattazione di II livello in materia di prevenzione delle violenze e delle molestie anche sessuali sui luoghi di lavoro, luglio 2022 (www.diario-prevenzione.it/wp-content/uploads/2022/07/molestie-e-contrattaz-II-livello1.pdf).

72. Vds., a titolo esemplificativo, il già ricordato contratto del Gruppo Marriott e i “Business Integrity Line” (punti di ascolto) costituiti presso le società del gruppo.

73. «Tale personale e i datori di lavoro», continua la norma, «ricevono informazioni sugli effetti sul lavoro della violenza contro le donne e della violenza domestica, e sul rischio di violenza da parte di terzi». 

74. Trib. Milano, 30 gennaio 2001, secondo cui il datore va condannato in solido al risarcimento dei danni qualora, pur essendo a conoscenza di apprezzamenti allusivi, battute a sfondo sessuale, inviti a cena tendenziosi, telefonate continue con costanti ricadute sul piano sessuale, approcci tramite un bacio o proposte di approccio, «non abbia agito secondo gli obblighi a lui imposti dall’ art. 2087 c.c.».

75. Cass. civ., sez. lav., 22 marzo 2018, n. 7097.

76. Vds. l’esempio emblematico di un licenziamento di un dipendente per reiterate molestie sessuali a carico di colleghe, dichiarato illegittimo in ragione della genericità della contestazione, priva di alcuna identificazione delle vittime – Cass. civ., sez. lav., 5 agosto 2010, n. 18279. Si legge nella pronuncia che, nelle controversie in cui si configura una contrapposizione tra due diritti aventi entrambi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il cd. criterio di “gerarchia mobile”, dovendo il giudice procedere di volta in volta, e in considerazione dello specifico thema decidendum, all’individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di un’equilibrata comparazione tra diritti in gioco, volta a evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico. Ne consegue che il richiamo, ad opera di una parte processuale, al doveroso rispetto del diritto (suo o di un terzo) alla privacy non può legittimare una violazione del diritto di difesa che, essendo inviolabile in ogni stato e grado del procedimento ex art. 24 , comma secondo, Cost., non può incontrare nel suo esercizio ostacoli e impedimenti nell’accertamento della verità materiale a fronte di gravi addebiti suscettibili di determinare ricadute pregiudizievoli alla controparte in termini di un irreparabile vulnus alla sua onorabilità e, talvolta, anche alla perdita di altri diritti fondamentali, come quello al posto di lavoro. 

77. Cass. civ., sez. lav., 20 marzo 2018, n. 6889, in Nuova giur. civ., n. 9/2018, p. 1252, con nota di S. Rizzato. Secondo la Suprema corte, non sarebbe possibile una valutazione aprioristica sulla necessità di indicare puntualmente i nominativi della vittima al fine di integrare il requisito della specificità della contestazione. Occorrerà, invece, valutare caso per caso se l’omessa indicazione dei dati identificativi possa tradursi in una lesione del diritto alla difesa o se, invece, non esistano altri dati in grado di circoscrivere l’addebito dal punto di vista spazio-temporale e garantire, quindi, un’adeguata difesa da parte del presunto molestatore. Più tranchant la posizione della Corte, 5 agosto 2010, n. 18279 di cui alla nota precedente. Tra i precedenti, Cass. civ., sez. lav., 2 maggio 2005, n. 9068.

78. Corte appello Firenze, sez. lav., 14 gennaio 2020, in Fam. dir., n. 4/2021, p. 399, con nota di N. Folla, Molestie sessuali nei luoghi di lavoro: giusta causa di licenziamento del molestatore, a prescindere dalla sua intenzione soggettiva. Quanto alla prova della condotta contestata, e quindi anche della giusta causa di licenziamento, nel caso di specie, essendo le molestie sessuali oggetto di contestazione disciplinare che il datore di lavoro muove al dipendente molestatore, si ritiene applicabile il regime ordinario di onere della prova in materia di licenziamento disciplinare, per legge interamente a carico del datore di lavoro, e, nella vicenda in questione, assolto in modo pieno, secondo i giudici. 

79. Cass. civ., sez. lav., 10 luglio 2020, n. 14811, che tratta l’ipotesi di un licenziamento di dirigente per molestie sessuali convalidato dai giudici perché connotato da particolare gravità (visto l’abuso di qualità), tale da renderne impossibile la sussumibilità nelle previsioni contrattuali, che prevedevano una sanzione conservativa in caso di molestia anche sessuale. 

80. Cfr., ad esempio, Trib. Pisa, 3 ottobre 2001, in Lav. giur., n. 5/2002, p. 456, con nota di R. Nunin (Molestie sessuali e risarcimento del danno esistenziale).

81. Cass. civ., sez. lav., 18 settembre 2009, n. 20272, in Riv. it. dir. lav., n. 2/2010, II, p. 349, con nota di D. Comandè (Prima di tutto l’ambiente di lavoro: giusta causa di licenziamento per i “molestatori”). Per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l’obbligo, a norma dell’art. 2087 cc, di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, tra i quali rientra l’eventuale licenziamento dell’autore delle molestie sessuali. 

82. H. Ege e D. Tambasco, Il processo di codificazione delle disposizioni in materia di “mobbing”, “straining” e molestie sul lavoro: breve viaggio tra dogmi, intuizioni del singolare e nuovi orizzonti internazionali, in Labor, n. 3/2021, p. 277.

83. I meccanismi di ricorso e risarcimento di cui all’art. 10 b della Convenzione potrebbero includere: a) il diritto alle dimissioni con indennità; b) il reintegro nel posto di lavoro; c) un risarcimento dei danni adeguato; d) ordini che prevedano l’adozione di misure immediatamente esecutive al fine di garantire la cessazione di determinati comportamenti o la modifica di politiche o pratiche; e) le spese legali e gli onorari conformemente alla legislazione e alle pratiche nazionali. Le vittime di violenza e molestie nel mondo del lavoro dovrebbero poter accedere a risarcimenti in caso di lesioni o malattie di natura psicosociale o fisica, o di qualsiasi altra natura, che causino inabilità lavorativa.

84. Corte appello Firenze, 11 luglio 2013, in Riv. giur. lav., n. 4/2014, II, p. 624, con nota di D. Izzi, Molestie sessuali e danni non patrimoniali con funzione dissuasiva.

85. Trib. Pistoia, 8 settembre 2012, in Riv. it. dir. lav., n. 1/2013, p. 25, con nota di R. Del Punta, Un caso esemplare di molestie sessuali sul lavoro.

86. In termini di «natura polifunzionale della responsabilità civile», che secondo l’A. sarebbe evincibile da Cass., sez. unite, n. 16601/2017, si esprime M. Biasi, Il caso Ryanair e l’ingresso del “danno punitivo” nel diritto del lavoro italiano, nota a Trib. Bergamo, 30 marzo 2018, in Giur. it., n. 10/2018, p. 2191.

87. Recentemente oltre a M. Biasi, op. ult. cit., vds. I. Alvino, Sulla questione della risarcibilità dei c.d. danni punitivi alla vittima di una discriminazione fondata sul sesso, in Arg. dir. lav., n. 3/2016, p. 573, e le considerazioni di quest’ultimo proprio a margine di due sentenze occasionate da molestie sessuali. Ci si riferisce alla già citata Trib. Pistoia, 8 settembre 2012, e a Trib. Firenze, 20 aprile 2016. Sulla funzione del danno, benché nell’ambito dei contratti a termine, cfr. L. Giasanti, Abuso della successione di contratti a termine nella pubblica amministrazione: l’ambigua funzione del danno risarcibile, in Giustizia civile, 1° aprile 2014.

88. Cass. civ., sez. lav., 19 maggio 2010, n. 12318, in Riv. critica dir. lav., n. 3/2010, p. 801, con nota di I. Mazzurana.

89. Così I. Alvino, Sulla questione, op. cit., secondo il quale l’impossibilità di individuare nella direttiva 2006/54 il grimaldello attraverso il quale consentire la traduzione a livello nazionale dei danni punitivi, troverebbe conforto nell’interpretazione della Corte di giustizia e, in particolare, in Cgue, 17 dicembre 2015, n. 407.

90. Ci si riferisce alle considerazioni conclusive di L. Imberti, Molestie sessuali, op. cit., 2005, che si domandava se il consolidato riferimento all’art. 2087 cc sarebbe stato abbandonato a beneficio degli strumenti protettivi e sanzionatori tipici della disciplina antidiscriminatoria, o se «la normativa antidiscriminatoria si affiancherà semplicemente all’obbligo di sicurezza nel valutare e sanzionare le condotte sessualmente moleste».