Magistratura democratica

La dismisura della giustizia: ripensare i diritti con Simone Weil

di Iolanda Poma

Il contributo intende trasportare il giurista teorico, ma anche il giurista pratico, dall’usuale contesto del ragionamento tecnico-giuridico alla dimensione universale della riflessione sulla giustizia, sul bene dell’umanità e sulla promessa mai compiutamente realizzata dei diritti umani nati dal Secondo dopoguerra. Una riflessione che ha interamente occupato l’ultima parte della vita di Simone Weil, che si spegne nel 1943 dopo aver contribuito alla resistenza gollista e, soprattutto, dopo aver denunciato, con gli ultimi scritti londinesi, il profondo stato di abbandono in cui versavano l’Europa e le sue istituzioni. Sul finire delle guerra e della sua stessa vita, Weil si interroga incessantemente, in particolare ne L’Enracinement, sulla possibile declinazione dei diritti umani come obblighi eterni che ci legano gli uni agli altri, ricollocando anche il diritto, così come ogni altra espansione delle attività umane, nel contesto di una grande teoria della necessità e del bene universale. 

1. L’obbligo, alla luce del bene / 2. Il bisogno/dovere di radicamento / 3. La critica alla persona / 4. La critica al diritto / 5. «Il carattere infinitesimale del bene» / 6. Operare la giustizia 

 

1. L’obbligo, alla luce del bene

«Vi è una realtà situata fuori del mondo, vale a dire fuori dello spazio e del tempo, fuori dell’universo mentale dell’uomo e di tutto ciò che le facoltà umane possono cogliere. A questa realtà corrisponde, al centro del cuore umano, l’esigenza di un bene assoluto che sempre vi abita e non trova mai alcun oggetto in questo mondo»[1].

Così si esprime Simone Weil nella Professione di fede, in apertura alla sua Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano del 1943 e che, da subito, si presenta come alternativa rispetto a quella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 a cui siamo per tradizione abituati. Immediatamente traspare un nesso tensivo tra un dato sempre particolare e concreto (l’esigenza umana di bene) e un principio sempre universale (la realtà assoluta di un bene trascendente), che opera nel movimento di quella pluralità.

Per affrontare il tema del diritto femminile attraverso il pensiero di Simone Weil, è necessario andare incontro a una serie di provocazioni, che possono però aiutare a restituire autenticità a quelle dinamiche relazionali, sociali e comunitarie che si trovano in un’evidente asimmetria di rapporto, risultante da un’oggettiva differenza di potere tra i soggetti in gioco. La responsabilità senza potere proposta da Weil prefigura una logica che contraddice i rapporti che, anche nell’obiettivo di un’assunzione di responsabilità, continuano a porre nel principio della forza la loro condizione di possibilità. L’esercizio weiliano dell’attenzione, in atto nella lettura del reale, illumina una verità inequivocabile: ai fini della giustizia non si può agire secondo la logica della forza; la giustizia oltrepassa le leggi del peso degli attori e indica che la differenza di forza non è l’unica via percorribile. 

In natura opera la forza, che però è sempre limitata dall’equilibrio complessivo di un ordine necessitato, tanto reale quanto lo è l’esigenza di giustizia su cui s’incardinano le comunità umane e che abita il cuore umano, la cui struttura «è una realtà fra le realtà di questo universo, non diversamente dalla traiettoria di un astro»[2]. Entrando però nella sfera delle relazioni umane, la forza perde il suo naturale equilibrio perché, associandosi all’arbitrio umano, si contamina con un’infondata pretesa d’illimitatezza, facendosi strumento di sopraffazione tra gli uomini. Per un soggetto che si ammanti di questa forza contraffatta, la necessità sarà sempre percepita come una costrizione insopportabile. Solo un soggetto che dismetta ogni legame con questa forza può comprendere che il contrario della libertà non è la necessità, ma il libero arbitrio, il capriccio, la discrezionalità, che sono i mali che producono l’oppressione sociale[3]

Una libertà, che non è l’opposto della necessità, trova nel carattere impersonale dell’ordine naturale e trascendente il modello dell’agire umano: «Agire come farebbe il sole, se sapesse. Esso è senza pietà solo perché non sa. La giustizia. Essere come sarebbe la materia incosciente – se fosse cosciente»[4]. Riconoscere la forza e il saperla disprezzare permette di raggiungere un’equità pari a quella della saggezza divina «che effonde equamente su tutti la pioggia e la luce del sole»[5]. Il modello di necessità dell’universo, in cui si dà un ordine di delicati equilibri tra azioni indipendenti, evoca «la presenza di qualcosa di analogo alla saggezza che vorremmo possedere per appagare il nostro desiderio del bene»[6]. Il male peggiore per l’uomo è nel suo arbitrio, rispetto al quale bene è ciò che ne è privo, ossia la necessità. Sebbene ci sembrino opposti, il bene assoluto parla lo stesso linguaggio della necessità: «Una necessità rigorosa, che esclude ogni arbitrio, ogni caso, regola i fenomeni materiali. Nelle cose spirituali, benché libere, vi è se possibile ancor meno arbitrio e caso»[7]

Nella Dichiarazione, scritta in previsione di una nuova Costituzione per la Francia, Weil riconosce l’indiscussa centralità, entro la convivenza umana, degli obblighi come forma incondizionata del rispetto dovuto a ogni essere umano nei suoi bisogni fisici, morali e spirituali. Questa è la condizione indispensabile per una comunità civile che aspiri alla giustizia. L’obbligo verso gli esseri umani, connesso alla realtà assoluta del bene, è una parola della necessità. Il preambolo richiama alla fedeltà a una comune fonte d’ispirazione: una spiritualità non confessionale, un bene assoluto da cui può discendere «tutto il bene suscettibile di esistere, ogni bellezza, ogni verità, ogni giustizia, ogni legittimità, ogni ordine, ogni subordinazione del comportamento umano a degli obblighi»[8]. Tutto ciò che ha la sua radice nel bene posto fuori da questo mondo ne riflette la natura eccentrica, ossia esorbitante un piano esclusivamente mondano, in un rapporto di radicale asimmetria che fa del mio obbligo, riprendendo le parole di Lévinas, una «pura testimonianza della dismisura che già mi comanda»[9]

L’unica vera motivazione per un rispetto per tutti in una realtà fatta di differenze e di ineguaglianze può riferirsi solo a qualcosa che è uguale in tutti e «tutti gli esseri umani sono assolutamente identici nella misura in cui possono essere concepiti come costituiti da un’esigenza centrale di bene attorno alla quale si dispone un po’ di materia psichica e carnale»[10]. L’orientamento universalistico in grado di proteggere qualsiasi riflessione giuridica, politica, ma anche religiosa dall’esposizione a un continuo parteggiamento e a un dibattito potenzialmente infinito dei pro e dei contro, deriva per Weil dal riconoscimento di un’esperienza universalmente condivisibile che è il bisogno del bene: più concretamente, il bisogno che ci venga fatto del bene e non del male (e che non appartiene solo ai viventi umani). Questo significa anzitutto astenersi dal ricorso agli schemi interpretativi classici, prodotti per salvaguardare la pari dignità degli uomini: la concezione biblica dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio e la concezione di stampo illuminista dell’uomo dotato di ragione. Essi non solo hanno fallito nell’obiettivo di garantire agli esseri umani quell’uguaglianza, ma hanno anche creato un incolmabile iato tra gli umani e tutti gli altri viventi. Rispetto all’idea di una forma sostanziale predeterminata dell’essere umano – in quanto immagine di Dio o in forza della propria ragione – che inevitabilmente finisce per escludere qualcuno, Weil intercetta nell’esigenza di bene la parte sacra in ogni essere a cui portare il dovuto rispetto. Solo questo è in grado di disinnescare la duplice e insana proiezione di una creatura che si crede Dio e di un umano che misura gli altri viventi sul proprio modello razionale, rivendicando su di essi un diritto di predazione. 

 

2. Il bisogno/dovere di radicamento

Il bene, che è fonte del sacro, investe l’insieme delle condizioni della nostra esistenza e risuona nei bisogni fisici e spirituali degli esseri umani[11], per contrasto rispetto a una reale situazione di sradicamento, resa manifesta «dalle assurdità, dalle contraddizioni insanabili, contro le quali urta sempre il pensiero umano quando si muove esclusivamente in questo mondo»[12]. Il primo fra tutti i doveri nei confronti di ciascun essere umano è quindi quello del suo radicamento, che si può raggiungere rispondendo ai suoi bisogni, il cui soddisfacimento si realizza in una diversificata ramificazione nei diversi ambienti da cui l’essere umano riceve il suo nutrimento materiale, morale e spirituale: «La patria, gli ambienti definiti dalla lingua, dalla cultura, da un passato storico comune, la professione, la località, sono degli esempi di ambienti naturali. È criminale tutto ciò che ha come effetto di sradicare un essere umano o d’impedirgli di mettere radici»[13]

Vi è un bisogno essenziale di radicamento, comune a tutti gli esseri viventi, e c’è un sentimento con cui esprimiamo la cura per questa esigenza, che è la compassione: un sentimento universale che «può varcare i confini senza trovare ostacoli, estendersi a tutti i paesi sventurati, a tutte le patrie, senza eccezioni; perché tutte le popolazioni umane sono soggette alle miserie della nostra condizione. Mentre l’orgoglio della grandezza nazionale è per natura esclusivo e non trasferibile, la compassione è per natura universale»[14]. Niente a che vedere con un vago sentimentalismo, che nasconde un insano ritorno a sé del soggetto che lo prova: la compassione si esercita nell’estroflessione al di là di sé piuttosto che nel riferimento a sé. Richiamare la centralità del radicamento nel bene scalza la nostra identità individuale e collettiva da un suo forzato posizionamento centrale e la libera dall’illusione di una sua costruzione autoreferente. Siamo tutti disposti intorno a questa radice primaria, umanamente esperita come esigenza di bene, e nessuno può impossessarsi di quel centro da cui siamo tutti equidistanti. Il tipo di relazione che ne deriva è quindi quella che vede una pluralità d’identità convergente in un punto focale, che esclude rapporti esclusivi o inclusivi. Intorno a questa radice si dispone una pluralità d’identità che sono i frutti diversi, i diversi germogli di quella radice comune che rende possibile e comprende quella ricchezza plurale. 

Che del bene non si dia definizione può lasciare insoddisfatti, in un tempo in cui non si sa più dare un nome alle cose ma, se a un nome non corrisponde una “cosa”, ci si sente persi e disorientati. Simone Weil ne riconosce il valore incondizionato e ne parla come di un postulato: «Ciò che è bene spiritualmente è bene da tutti i punti di vista, sotto tutti gli aspetti, in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni circostanza»[15]. E questo bene, nella pluralità delle singolarità umane, parla il linguaggio concreto del rispetto: ognuno si aspetta sempre di essere amato e trattato con gentilezza, tanto che l’esperienza del male subìto ingiustamente ci coglie sempre impreparati e increduli: «Perché mi viene fatto del male?»[16].

Chi è sradicato sradica e chi è davvero radicato si prodiga a mettere in atto nei confronti altrui pratiche di radicamento: «In qualsiasi innovazione politica, giuridica o tecnica suscettibile di ripercussioni sociali, bisogna anzitutto mettere in programma provvedimenti che consentano agli esseri umani di riavere radici»[17]. Questo deve renderci attenti al fatto che la mancanza di questa predisposizione al radicamento altrui è l’indizio di un anche nostro, forse inavvertito, sradicamento.

Due ambiti sono particolarmente capaci di garantire una protezione concreta di ogni essere umano, favorendo il suo radicamento in un ambiente vitale, capace di nutrire la sua anima: il lavoro e l’istruzione. Questo a partire da un bisogno di uguaglianza, in grado di salvaguardare le diverse specificità, che Weil intende come uguaglianza delle possibilità, che oggi chiameremmo “pari opportunità”: «Se chiunque può arrivare al livello sociale corrispondente alla funzione che è capace di compiere e se l’educazione è abbastanza diffusa perché nessuno, per il solo fatto della sua nascita, venga privato della possibilità di sviluppare qualche capacità, allora la speranza è uguale per tutti i bambini»[18]. L’istruzione risponde al bisogno di verità: tutti devono avere accesso alla cultura dello spirito, perché nessuno si senta estraneo ed escluso dal mondo del pensiero[19], e perché tutti possano scorgere il collegamento essenziale tra i contenuti della conoscenza e le esperienze concrete della vita[20]

Dall’uguaglianza delle possibilità deriva una mobilità sociale che non dev’essere solo ascendente, perché laddove tutti possono salire, chi fallisce raddoppia la sua amarezza e può sviluppare un rancore pericoloso. Per questo, «nella medesima misura in cui è realmente possibile che il figlio di un garzone di stalla sia un giorno ministro dev’essere realmente possibile che il figlio di un ministro sia un giorno garzone di stalla»[21]. Senza che questo implichi un qualche giudizio di valore sul mestiere svolto, perché, pur essendo differenti tra loro, tutti i lavori possono contribuire a realizzare la libertà fondamentale per ogni essere umano, che si dà attraverso il pensiero e l’azione. Per questo allora non ci si deve liberare dal lavoro, ma rendere il lavoro libero dalle catene di oppressione con cui spesso finiamo per associarlo. Lavorare vuol dire riconoscere e obbedire alla necessità, che non rafforza il potere umano, contenendone al contrario la presunta illimitatezza. Poiché, lavorando, l’essere umano può esercitare un alto grado di attenzione, che coinvolge la mente e il corpo e che lo avvicina al bene, Weil non ha dubbi sul posto che il lavoro deve occupare in una vita sociale bene ordinata: «Deve esserne il centro spirituale»[22]. Il punto di equilibrio che il lavoro permette di raggiungere tra l’azione umana e la necessità universale è proporzionato al rapporto che potrebbe stabilire la giustizia tra gli esseri umani[23].

 

3. La critica alla persona 

La giustizia si produce come un fenomeno naturale quando non c’è esercizio di forza di un essere umano sull’altro e dove si esprime un reciproco bisogno di consenso[24]. Ma questa forma di giustizia, per così dire neutra, per Weil non è ancora sufficiente: vi è una giustizia come amicizia soprannaturale che si produce come armonia, ossia come unità dei contrari. Ma l’unità dei contrari, ossia di colui che si pone al centro del mondo e dell’altro che è un frammento insignificante del mondo, richiede il riconoscimento che nessun essere umano può occupare quel centro[25]. Occorre allora lavorare contro l’autoinganno che ci pone al centro del mondo, e che trova forma ed espressione per Weil nella nozione di “persona”. Questo termine, alla base del personalismo, affondando le sue radici nella tradizione giuridica del diritto romano, si trova per Weil compromesso nelle dinamiche della forza e risulta inadeguato a proteggere dalla violenza l’essere umano. 

Cosa c’è di sacro nella persona? Non la persona, risponde Weil[26], ma quel bene impersonale, che rappresenta quanto vi è di trascendente e insieme di concreto nell’essere umano:

«La giustizia consiste nel vigilare che non sia fatto del male agli uomini. Viene fatto del male a un essere umano quando grida interiormente: “Perché mi viene fatto del male?” (…). Il grido “Perché mi viene fatto del male?” pone problemi (…) per i quali è indispensabile lo spirito di verità, di giustizia e di amore»[27]

Ecco che, nello stesso periodo, Weil mette insieme la parte più sensibile della realtà umana (“perché mi viene fatto del male?”) e la realtà più trascendente (la verità, la giustizia e l’amore). Dunque sacro in un essere umano è ciò che è vero, buono e giusto e, insieme, i suoi occhi, le sue braccia, i suoi pensieri. I due piani di realtà sono distinti, ma indisgiungibili ed è da pensare che ognuno assuma il suo pieno significato nell’intreccio con l’altro. È quanto esprime nella Dichiarazione: «Ogni volta che, in conseguenza di atti o di omissioni da parte di altri uomini, la vita di un individuo è distrutta o mutilata da una ferita o da una privazione dell’anima o del corpo, in lui non è soltanto la sensibilità a subire il colpo, ma anche l’aspirazione al bene. Viene commesso in questo caso un sacrilegio verso ciò che di sacro l’uomo racchiude in sé»[28]. L’errore insito nella parola e nel concetto astratto di persona deriva dalla sua incapacità a tenere assieme questi due ordini di realtà, soprattutto a discapito dell’estrema concretezza dell’incontro con l’altro: «Il prossimo è colui che si incontra nudo e ferito sulla strada, non colui che non si incontra»[29]. Nella trasposizione ideale di una realtà concreta ciò che va perso è il nesso indissolubile tra l’idea di persona e la sua realtà. E non è un caso che la prospettiva intellettuale degli autori del personalismo (in particolare Maritain) coincida con una posizione di privilegiato distacco rispetto alla realtà da analizzare[30], una sostanziale estraneità alla realtà umana che pure essi intendono interpretare:

«Nell’uomo la persona è qualcosa nell’afflizione, che ha freddo, che anela a un riparo e a un po’ di calore. Coloro nei quali essa è avvolta dal calore della considerazione sociale, seppure solo come aspettativa, lo ignorano. Per questo motivo la filosofia personalista ha avuto origine e si è diffusa non negli ambienti popolari, ma in cerchie di scrittori che, per professione, detengono o sperano di acquisire un nome e una reputazione»[31].

Per questo il termine di “persona” non risulta in grado di mettere al riparo l’essere umano dalla violenza: «Se quel che vi è di sacro in lui per me fosse la persona umana, potrei cavargli gli occhi facilmente. Una volta cieco, sarà una persona umana esattamente come prima. Non avrò affatto colpito la persona umana che è in lui. Avrò soltanto distrutto i suoi occhi»[32]. L’unica cosa che può trattenermi dal fare violenza a un essere umano è sapere che in lui, come in tutti e sempre, «dalla prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore (…) si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro. Solo il bene e ciò che è relativo al bene è sacro»[33]. La parola “persona” dunque indica di per sé un concetto pieno, un’interezza che però non è in grado di proteggere tutti gli aspetti di quell’intero, e questo proprio perché è una concezione tutta umana dell’uomo, mentre le parole che esprimono il sacro eccedono sempre le concezioni (solo) umane: parole come Dio, verità, giustizia, amore, bene hanno un nucleo di inconcepibile[34], esprimono solo del bene allo stato puro[35], e solo queste portano reale conforto «e quasi un reale nutrimento»[36]

L’inadeguatezza del termine “persona” gli deriva dall’inclusione nel vocabolario della regione mediana dei valori e delle istituzioni, dove si trovano anche il diritto e la democrazia, posizionati al livello del sociale e delle collettività umane, spesso inadatti a sfiorare i problemi laceranti dell’esistenza. Per Weil la persona rappresenta l’individuo nel suo risvolto pubblico-sociale, impegnato in un antagonismo di diritti per il suo riconoscimento. Questa ricerca di un’aura di prestigio e di considerazione compromette l’autentico significato dell’essere umano nei suoi bisogni fisici, morali e spirituali. Pur affermando il bisogno umano di radicarsi in un ambiente sociale, Weil avverte che, se questo non viene riletto alla luce di un orientamento al bene e alla giustizia, rischia di essere solo un male, da cui il bene non si differenzia per grado, ma per natura: il bene non esercita mai la forza. Le parole che appartengono alla collettività restano nell’ambiguità, possono rientrare in frasi sia positive sia negative: se dico che egli mette la sua persona davanti a tutto; se parlo di abuso della democrazia; se riconosco un cattivo uso del diritto, tutto ciò significa che persona, democrazia, diritto non sono parole buone in tutti i loro aspetti[37].

Il personalismo ha contribuito a potenziare il termine di persona, non essendoci in realtà alcun bisogno di un pensiero che rafforzi il soggetto, visto che l’ipertrofia è già il suo conclamato vizio congenito. Restare su questo piano, magari associando alcune di queste parole tra loro, in espressioni come “diritti della persona”, non risolve la loro inadeguatezza[38]. Weil sceglie non di aggiungere o d’incrementare, d’inventare o di produrre qualcosa di meglio o di più rispetto alla realtà umana, riconoscendo che proprio questo tipo d’intervento ha generato il morbo corrosivo che l’ha vulnerata. Il suo gesto va piuttosto nel senso inverso del togliere e del levare, perché solo così si può tornare a fare esperienza della vivente presenza dell’essere umano, verso la sua parte sacra e impersonale. La nozione weiliana d’“impersonale” rappresenta la più radicale sovversione del paradigma soggettivo moderno[39]. Impersonale significa privo di nome proprio, irriducibile cioè all’identità personale. Esso si presenta come una determinazione negativa, come è evidente in tutti i riferimenti alti e soprannaturali: la giustizia (che non è il diritto), la sventura (che non è il dolore), la verità (che non è la ragione). 

Non si può sottolineare abbastanza l’attenzione di Weil per il linguaggio e il suo lavoro paziente sulle parole, che devono essere aperte, interrogate, curate e protette, facendovi emergere il contenuto e il senso. Occorre «chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane»[40]

 

4. La critica al diritto

Veniamo allora alla critica a cui Weil sottopone il termine di “diritto”, che funge da sostegno al concetto di persona, procedendo a una sua risemantizzazione alla luce dell’impersonale che lo spoglia della sua vuota astrattezza e lo riconnette alla realtà, consistendo il suo male proprio nell’aver perso quel contatto. Non si tratta di parlare contro il diritto, ma di individuare nella giustizia la sua eccentrica radice. La critica, allora, ha lo scopo di porlo in un giusto ordine, da cui discende la sua autentica funzione, ossia quella di essere un ponte verso il bene di ogni essere umano[41], nel rapporto con le circostanze, il contesto e l’aspirazione alla giustizia[42]. Questo significa per Weil poterne parlare anche positivamente, con riferimento a fatti reali e storici:

«L’antichità non ci ha consegnato soltanto la storia di massacri interminabili e inutili attorno a Troia, ci ha lasciato anche la testimonianza dell’azione energica e unanime con cui la plebe di Roma, senza versare una goccia di sangue, è uscita da una condizione che rasentava quella della schiavitù e ha ottenuto come garanzia dei suoi nuovi diritti l’istituzione dei tribuni. È esattamente nello stesso modo che gli operai francesi, con l’occupazione delle fabbriche, ma senza violenza, hanno imposto il riconoscimento di alcuni diritti elementari, e a garanzia di questi l’istituzione dei delegati eletti»[43].

I valori più alti devono “tradursi” nella regione mediana dell’esistenza umana. Ed è nel riferimento a questi valori incondizionati che le parole intermedie trovano la loro giusta misura, impedendo una loro ingiustificata e pericolosa assolutizzazione. 

Sul diritto ricorro, per amore di brevità, a delle espressioni che Weil riprende per far cogliere intuitivamente la povertà di questa nozione: «Se diciamo a qualcuno: “Ciò che mi fai non è giusto”, possiamo scuotere e destare alla sorgente lo spirito di attenzione e di amore. Non capita la stessa cosa con parole quali “Ho il diritto di…”, “Lei non ha il diritto di…”; esse racchiudono una guerra latente e destano uno spirito bellicoso»[44]. Si tratta di situazioni rispetto alle quali, come un’arma spuntata, il diritto non è in grado d’incidere nella realtà, sostanzialmente incapace a risvegliare davvero l’attenzione, come invece può accadere se si dà voce alla giustizia.

Il tono rivendicativo del diritto segue un modello meramente retributivo e si collega alla spartizione e alla quantità. La critica weiliana per disarmare il diritto della sua aggressività intrinseca, che ruota intorno al cardine della forza, consiste nel porlo sotto la luce dell’obbligo, il cui adempimento, che è «sempre e incondizionatamente, un bene sotto qualsiasi riguardo»[45], può ripristinare le condizioni per ricollegare il diritto a una concezione della giustizia avulsa dalla forza e dall’arbitrio[46]. Privo del suo radicamento nell’obbligo, il diritto rivela la sua inadeguatezza rispetto ad alcune situazioni che esulano, per la loro profondità, da una qualsiasi contrattazione e negoziazione. Alla rivendicazione economico-giuridica dei propri diritti, che dipende sempre dal riconoscimento altrui, Weil oppone l’incondizionato del dovere che, anche non riconosciuto da nessuno, non perderebbe il suo significato. Il diritto è sempre relativo agli aspetti personali dell’individuo, che può rivendicarli in base a ciò che gli appartiene in quanto “proprio”: si applica bene a ciò di cui si vanta o di cui si reclama la proprietà. Mentre il diritto opera un discrimine fra coloro che lo posseggono e coloro che ne sono privi, il dovere invece trascende il soggetto personale e indica una sfera impersonale del sé, che precede o è al di là del soggetto personale, e a cui si può accedere mediante un’attenzione pura, traducendosi in una prassi orientata a rispondere ai bisogni degli altri esseri umani. 

Com’è noto, Giorgio Agamben ha dedicato la sua tesi di laurea in filosofia del diritto al pensiero politico di Simone Weil, colpito dalla sua critica alle nozioni di persona e di diritto contenute ne La persona e il sacro[47]. Se ne trova traccia nella sua Prefazione all’edizione francese[48], in cui, pur nella raffinata lettura interpretativa che ne offre, Agamben osserva criticamente che Weil, dopo aver affermato l’insufficienza delle nozioni di diritto e di persona, ritorni nello stesso ordine del diritto quando introduce dei concetti «perfettamente omogenei, benché simmetricamente opposti», tra cui il concetto di obbligo. Ma, facendo valere il primato dell’obbligo sul diritto, osserva Agamben, Weil «non si accorge di ciò che ogni giurista sa perfettamente, cioè che l’obbligo non è che l’altra faccia del diritto e appartiene integralmente allo stesso sistema»[49]. Mi sembra che, in questo giudizio, l’Autore non consideri il ruolo che gioca nel discorso weiliano il riferimento alto al bene: obbligo e diritto sicuramente si corrispondono, ma a partire da una radicale asimmetria, indotta dal legame dell’obbligo al bene, che lo spoglia della forza, mentre il diritto resta, se sganciato dall’obbligo, il braccio armato del riconoscimento.

 

5. «Il carattere infinitesimale del bene»[50]

Leggendo Weil, non bisogna incorrere nel rischio di proiettare sul suo pensiero categorie di un dibattito a lei successivo, con il risultato di imputarle esiti estranei, come quello d’ispirare l’idea di uno Stato bio-politico o teocratico/etocratico, che interviene capillarmente nella vita biologica, psichica e spirituale dei singoli cittadini[51]. Lo sguardo diffidente o critico sulla proposta socio-politica di Weil sembra originarsi da due differenti snodi del suo discorso, solo apparentemente distanti tra loro e che riguardano, come abbiamo visto, l’estrema concretezza e l’estrema altezza del bene. Il primo passaggio si esprime nell’esigenza umana di nutrimento. Il secondo è, invece, costituito dalla tensione ideale al bene presente nel cuore di ogni vivente.

In questi casi è sempre buona cosa tornare alla fonte, che è il pensiero dell’Autrice, per liberarla da interpretazioni distorsive. Sul primo punto è bene sottolineare che, soprattutto ne La prima radice, il bisogno fisico della fame e il corrispettivo obbligo di nutrimento rappresenta per Weil il modello paradigmatico per concepire, per analogia, i bisogni morali e spirituali dell’essere umano e la necessità di una risposta per il loro soddisfacimento. Senza scivolare in un riduzionismo fisico-corporeo, è però riconosciuto il peso fisico e materiale dell’esistenza umana, anche nelle sue articolazioni morali e spirituali. La fisicità corporea gioca quindi un ruolo fondamentale nel discorso weiliano come cifra di quel riferimento concreto alle condizioni materiali dell’esistenza degli esseri umani, che orientano e danno radicamento a qualsiasi verticalità di pensiero. 

Anche il secondo riferimento del discorso weiliano respinge il dubbio di una sua deriva autoritaria, perché il bene a cui si tende non esercita alcuna forza e disinnesca qualsiasi tentativo di farne uno strumento nelle mani di un potere collettivo-statale. Questo svuota di contenuto il timore di una forma dittatoriale del bene, di per sé una pura contraddizione in termini. Non a caso il bene si presenta nella vita sociale sempre in una forma minima e discreta e, per parlarne, Weil ricorre alle immagini del più piccolo, del lievito nella pasta, della perla nel campo: «Innanzitutto la discrezione, il carattere infinitesimale del bene»[52], anche qualora assuma il nome di Dio[53]. È come il baricentro di un corpo o come la chiave di volta di un intero edificio, che sono immagini di un punto che scarica il peso senza pesare, che riposa sul vuoto per un equilibrio spoglio di potere e di forza[54].

La critica a Weil si aggancia probabilmente alla sua fedele adesione al pensiero di Platone, anche lui oggetto di attacchi analoghi. Ma di Platone Weil condivide proprio la contestazione non tanto della democrazia, quanto della oclocrazia, ossia del predominio della massa sul potere legittimo e sulla legge stessa. Ed è questa una posizione che stride con il procedere inesorabile della macchina politica totalitaria, a scongiurare il pericolo anche solo d’ispirare nuove procedure di assoggettamento. Per questo Weil ritiene necessaria una limitazione del potere, sia del popolo sia dello Stato, i quali devono rispettare precisi vincoli che ne impediscano l’espansione indiscriminata. Lo Stato deve occuparsi dello stretto necessario[55], in una forma che gli economisti definirebbero Stato minimo: «Una società ben fatta sarebbe quella in cui lo Stato svolgesse solo un’azione negativa, come quella del timone; una leggera pressione al momento opportuno per compensare un inizio di squilibrio»[56]. Ma per evitare qualsiasi forma di potere arbitrario e per garantire la legittimità, vale soprattutto il rapporto a doppio nodo del consenso accordato dal popolo sovrano alle autorità alle quali esso è sottomesso[57]. Il cortocircuito tra sovranità e sottomissione spezza l’alternativa oppositiva.

Il richiamo al bene può sconcertare chi ritiene che il piano giuridico, politico e sociale non abbia bisogno, e anzi debba fare a meno di questo riferimento, giudicato “fuori luogo”. E certo potrebbe comprensibilmente generare qualche timore se si presentasse nella forma di una confusa sovrapposizione degli ambiti spirituale e politico. Ma in Weil la loro distinzione, pure connessa in un rapporto inscindibile, è netta e insuperabile. Questo significa – come osserva Patrice Rolland – che allo Stato non viene chiesto di occuparsi direttamente della “realtà fuori di questo mondo”, ossia del bene assoluto, ma di adempiere gli obblighi eterni che ne discendono e che prescrivono di rispettare ognuno, rispondendo ai suoi bisogni nella realtà di questo mondo[58]:

«Il rispetto ispirato dal legame dell’uomo con la realtà estranea a questo mondo rende testimonianza di sé a quella parte dell’uomo che si trova nella realtà di questo mondo. (…) Esiste una sola possibilità di esprimere indirettamente il rispetto verso l’essere umano: essa è data dai bisogni degli uomini che vivono in questo mondo, i bisogni terrestri dell’anima e del corpo»[59]

Come osserva Robert Chenavier, il posto delle istituzioni è quello della regione mediana dei valori e questo esclude che una penetrazione spirituale possa sostituirvisi e proporsi come la soluzione diretta di problemi politici e sociali. Noi abbiamo a che fare con la realtà mondana, ma, se non ci riferiamo a qualcosa di perfetto, difficilmente riusciremo a rendere meno imperfetta la realtà di questo mondo, perché è illusorio pensare che «ciò che è mediocre possa produrre da se stesso qualcosa di migliore»[60]

Impostare in questo modo una teoria della giustizia rassicurerebbe il giurista, preoccupato di preservare una specificità del diritto contro il rischio di una sua riduzione moralizzante[61], tenendo fermo alla differenza intercorrente tra una giurisdizione etica – propria dei regimi totalitari – e un’etica della giurisdizione. 

 

6. Operare la giustizia 

Inserire nella Dichiarazione il riferimento al bene al di là del mondo, la cui esigenza abita il centro del cuore umano, riflette l’imperativo, più volte ribadito da Weil, di dare come nutrimento agli esseri umani le parole giuste, buone in tutti i sensi, non ambigue. Questo «sarebbe uno dei problemi urgenti di una vera politica»[62]

Chi pone attenzione alla sorgente di luce, rispecchiata dalla domanda di giustizia, di verità e di compassione espressa da ciascun essere, diventa un intermediario, metaxy, attraverso il cui consenso il bene potrà irradiarsi e prendere realtà nel mondo. Dobbiamo essere, dice Weil, come «un intermediario tra la terra incolta e il campo lavorato, tra i dati del problema e la soluzione, tra la pagina bianca e la poesia, tra lo sventurato che ha fame e lo sventurato saziato»[63]. L’essere umano, non manovrato dalla forza, prevede sempre, quale condizione necessaria del suo rapporto con il bisogno umano di bene e con la vertiginosa altezza di un bene assoluto, il paziente lavoro della mediazione, riferito anzitutto a se stesso: l’essere umano si fa intermediario. «Chiunque abbia la sua attenzione e il suo amore effettivamente rivolti verso la realtà estranea al mondo riconosce al contempo di essere vincolato, nella vita pubblica e privata, all’obbligo perenne ed esclusivo di porre rimedio, nei limiti della propria responsabilità e per quanto è in suo potere, a tutte le privazioni dell’anima e del corpo in grado di distruggere o mutilare la vita terrestre di qualsiasi essere umano»[64]

In questo senso si comprende l’auspicio di Weil di una formazione anche spirituale, filosofica ed extra-giuridica dei magistrati, degli interpreti della giurisdizione e di chiunque rivesta incarichi di responsabilità nella vita pubblica, essendo per essi indispensabili qualità etiche e di sensibilità quali condizioni per l’esercizio di un giudizio secondo equità e di un impegno civile e politico nel suo significato autentico[65]. È un compito che si costituisce e che si autolegittima attraverso un alto grado di attenzione che è alla radice di ogni forma di responsabilità ed è una facoltà che va esercitata a partire dall’insegnamento scolastico, perché è «necessario apprendere a essere attenti per poter essere, più tardi, giusti»[66]. Se ci si pone attentamente di fronte al bene e al male, sicuramente l’attenzione ci guida nel consenso al bene: «È impossibile evitare il bene se non distogliendo da esso la propria attenzione. Se gli si presta un’attenzione sufficiente e per un tempo sufficientemente lungo, non ci si può più difendere: si è presi. Al contrario, si è presi dal male quando non vi si dirige la propria attenzione»[67]

Solo chi ha assunto l’obbligo di rispettare ogni essere umano è legittimato ad assumere un ruolo di guida responsabile all’interno della collettività: «Lo scopo della vita pubblica consiste nel porre, nella misura più elevata possibile, ogni forma di potere nelle mani di quelli che consentono effettivamente a essere vincolati da quest’obbligo al quale ciascun uomo è tenuto verso gli altri esseri umani»[68]. È un obbligo infinito, assoluto, nei confronti di un essere umano che, seppur imperfetto e limitato, esprime una relazione al bene[69]. Il rapporto tra il singolo e la collettività, seppur necessario e naturale, se calibrato secondo la logica della potenza, non può che portare a un’inevitabile oppressione del singolo a causa di un evidente squilibrio tra le forze in campo, pari a quello che passa tra un grammo e un chilogrammo. Solo ciò che si sottrae e non fa ricorso alla forza può preservare il soggetto da quella dinamica stritolante:

«Una bilancia può essere fatta in modo che il chilogrammo ceda al grammo. Basta che uno dei bracci sia più di mille volte più lungo dell’altro. La legge dell’equilibrio trionfa sovrana sulle diseguaglianze di peso. Mai però il peso inferiore vincerà quello superiore se non vi sarà tra loro un rapporto in cui si cristallizzi la legge dell’equilibrio»[70].

 

 

1. S. Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Parigi, 1957, p. 74; Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, in Ead., Una Costituente per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma, 2013, p. 114.

2. S. Weil, L’Enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, Parigi, 1949, ora in Ead., Œuvres, a cura di F. de Lussy, Gallimard, Parigi, 2011 (1999), p. 1179; La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano (trad. it.: F. Fortini), SE, Milano, 1990, p. 218.

3. Cfr. S. Weil, Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale, Gallimard, Parigi, 1955, ora in Ead., Œuvres, op. cit., p. 315; Ead., Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 2011, pp. 76-77.

4. S. Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard, Parigi, 1950, ora in Ead., Œuvres complètes, tomo VI, vol. IV, Gallimard, Parigi, 2006, p. 118; Ead., Quaderni, vol. IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 2005, p. 111.

5. S. Weil, Intuitions pré-chrétiennes, La Colombe, Parigi, 1951, pp. 193-194; Ead., La rivelazione greca, a cura di M.C. Sala e G. Gaeta, Adelphi, Milano, 2014, pp. 200-201.

6. S. Weil, La prima radice, op. cit., p. 1032 (it. 19). 

7. S. Weil, Cahiers II, Plon, Parigi, 1972, p. 360; Ead., Quaderni, vol. II, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1997, p. 190.

8. S. Weil, Dichiarazione, op. cit., p. 74 (it. 114). 

9. E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Martinus Nijhoff, L’Aia, 1974, p. 217 – ed. it.: Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (trad. di S. Petrosino e M.T. Aiello), Jaca Book, Milano, 1983, p. 174.

10. S. Weil, Dichiarazione, op. cit., p. 76 (it. 115). 

11. Rientrano tra i bisogni fisici: protezione, abitazione, nutrimento, sonno, vestiario, calore, igiene, cura, riposo, aria pura, etc. Costituiscono bisogni spirituali: ubbidienza consentita e libertà, responsabilità, uguaglianza e gerarchia, considerazione, castigo, onore, sicurezza e rischio, solitudine e vita sociale, proprietà privata e collettiva, verità (cfr. la «Prima parte» de La prima radice e Dichiarazione).

12. S. Weil, Dichiarazione, op. cit., p. 74 (it. 114).

13. S. Weil, Dichiarazione, op. cit., p. 83 (it. 121). Weil concepisce una nuova vita comunitaria «a misura della costituzione fisica e spirituale dell’individuo» (G. Gaeta, Una politeia per i nostri giorni, in Aa.Vv., Le passioni di Simone Weil. Politica, cultura, religione, in Testimonianze, quad. n. 370, 1994, pp. 29-44). Cfr. anche G. Fiori, Il lascito di Simone Weil (1909-1943): una nuova costituzione per l’essere umano, in Studium, n. 2/2009, pp. 239-249.

14. S. Weil, La prima radice, op. cit., p. 1136 (it. 159).

15. Ivi, p. 1152 (it. 182).

16. Cfr. S. Weil, La personne et le sacré, in Ead., Œuvres complètes, op. cit., tomo V, vol. 1, p. 214 – ed. it.: La persona e il sacro, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano, 2012, p. 14.

17. S. Weil, La prima radice, op. cit., p. 1058 (it. 56).

18. Ivi, p. 1036 (it. 24).

19. Cfr. S. Weil, Dichiarazione, op. cit., p. 82 (it. 120); La prima radice, op. cit., p. 1066 (it. 67).

20. Cfr. S. Weil, op. ult. cit., p. 1068 (it. 70), p. 1084 (it. 91).

21. Ivi, p. 1036 (it. 25).

22. Ivi, p. 1218 (it. 268).

23. Cfr. S. Weil, La rivelazione greca, op. cit., p. 274 (it. 290). 

24. Ivi, pp. 268-269 (it. 283).

25. Ibid.

26. Cfr. S. Weil, La persona e il sacro, op. cit., p. 212 (it. 11).

27. Ivi, p. 232 (it. 47-48).

28. S. Weil, Dichiarazione, op. cit., p. 77 (it. 116).

29. S. Weil, Cahiers III, Plon, Parigi, 1972, p. 360; Ead., Quaderni, vol. III, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1997, p. 190.

30. Come osserva Giancarlo Gaeta, lo sguardo borghese, malgrado tutta la sua buona intenzione e capacità di analisi, resta in definitiva esterno all’oggetto della sua rappresentazione – Id., La fabbrica della schiavitù, postfazione a S. Weil, La condizione operaia (trad. it.: F. Fortini), SE, Milano 1994, p. 308. È noto l’aneddoto dell’incontro di Weil con Simone De Beauvoir e del veloce scambio di battute alla notizia della carestia in Cina: De Beauvoir auspica che si dia un senso all’esistenza di questo popolo, Weil commenta secca: «Si vede che Lei non ha mai avuto fame» (cfr. C. Rancé, Simone Weil. Le courage de l’impossible, Seuil, Parigi, 2009, pp. 18, 34).

31. S. Weil, La persona e il sacro, op. cit., p. 220 (it. 24). 

32. Ivi, p. 213 (it. 12).

33. Ibid. (it. 13).

34. Ivi, pp. 235-236 (it. 53-54).

35. Cfr. S. Weil, La persona e il sacro, op. cit., p. 226 (it. 36).

36. S. Weil, La prima radice, op. cit., p. 1146 (it. 175).

37. S. Weil, La persona e il sacro, op. cit., p. 226 (it. 37).

38. Ivi, p. 213 (it. 12). 

39. Sul tema della cancellazione dell’io e della conseguente concezione impersonale dell’uomo, rimando essenziale va ad alcuni fra i testi di R. Esposito, anzitutto Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino, 2007. Mi permetto di rimandare anche al mio Simone Weil. Per una decostruzione religiosa del soggetto moderno, Mimesis, Milano, 2022.

40. S. Weil, Ne recommençons pas la guerre de Troie, in Œuvres complètes, tomo II, vol. 3, p. 51 – ed. it.: Non ricominciamo la guerra di Troia, in Ead., Sulla guerra. Scritti 1933-1943 (trad. it.: D. Zazzi), Il Saggiatore, Milano, 2013, p. 57. 

41. Su questo vds. R. Fulco, Responsabilità e diritti umani, in Ead., Soggettività e potere. Ontologia della vulnerabilità in Simone Weil, Quodlibet, Macerata, 2020, pp. 157-165, dove si sofferma sulle implicazioni etico-politiche dell’ontologia della vulnerabilità dell’essere umano in Weil, lavorando interpretativamente sui concetti di “diritto”, “obbligo” e “responsabilità”. 

42. Cfr. T. Greco, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, Giappichelli, Torino, 2006. 

43. S. Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, op. cit., p. 58 (it. 65). Come ben osserva Rolland, la critica anche molto severa al diritto non conduce a una sua negazione, ma a una sua gerarchizzazione, nella subordinazione all’obbligo (P. Rolland, Avant-propos alla sezione intitolata Questions politiques et religieuses, in Œuvres complètes, tomo V, vol. I, p. 376). 

44. S. Weil, La persona e il sacro, op. cit., p. 223 (it. 31).

45. S. Weil, La prima radice, op. cit., pp. 1202-1203 (it. 247-248).

46. Sul primato dei doveri in Simone Weil, vds. T. Greco, Il ritorno dei doveri, in Cultura e diritti, n. 1/2012, pp. 91-98.

47. Un critica che egli approfondisce a partire dal primo volume di Homo sacer, trovando in quel saggio la sua prima radice – come afferma in un’intervista a La Repubblica del 15 maggio 2016 –, e che si srotola nel nesso che unisce la persona giuridica, la maschera teatrale e poi teologica dell’individuo moderno. 

48. G. Agamben, Au-delà du droit et de la personne, in S. Weil, La personne et le sacré, Payot & Rivages, Parigi, 2017. 

49. Ivi, pp. 19-20.

50. S. Weil, Quaderni, vol. III, op. cit., p. 361 (it. 370).

51. In tal senso, cfr. P. Dujardin, Simone Weil : idéologie et politique, Presses Universitaires de Grenoble, Grenoble, 1975.

52. S. Weil, Quaderni, vol. III, op. cit., p. 361 (it. 370).

53. S. Weil, Quaderni, vol. II, op. cit., pp. 418-419 (it. 247).

54. S. Weil, En quoi consiste l’inspiration occitanienne?, in Œuvres, op. cit., pp. 677-678. 

55. S. Weil, Idées essentielles pour une nouvelle Constitution, in Œuvres complètes, tomo V, vol. 1, p. 422 – ed. it.: Idee essenziali per una nuova Costituzione, in Una Costituente per l’Europa, op. cit., p. 112.

56. S. Weil, Quaderni, vol. III, op. cit., p. 273 (it. 275).

57. Cfr. S. Weil, Remarques sur le nouveau projet de Constitution, in Œuvres complètes, tomo V, vol. 1, p. 430; Osservazioni sul nuovo progetto di Costituzione, in Ead., Una Costituente per l’Europa, op. cit., p. 109. 

58. Cfr. P. Rolland, Avant-propos, cit., pp. 374-375. 

59. S. Weil, Dichiarazione, op. cit., p. 77 (it. 116). 

60. S. Weil, Quaderni, vol. III, op. cit., p. 122 (it. 114-115).

61. Cfr. P. Rolland, Simone Weil et le droit, in Cahiers Simone Weil, tomo XIII, n. 3, 1990, p. 244. 

62. S. Weil, La persona e il sacro, op. cit., p. 225 (it. 33-34).

63. S. Weil, Quaderni, vol. II, op. cit.

64. S. Weil, Dichiarazione, op. cit., p. 78 (it. 117).

65. S. Weil, Osservazioni sul nuovo progetto di Costituzione, op. cit., p. 426 (it. 105). 

66. S. Weil, Fragments et notes, in Ead., Écrits de Londres et dernières lettres, op. cit., p. 177. 

67. S. Weil, Quaderni, vol. II, op. cit., p. 383 (it. 216).

68. S. Weil, Dichiarazione, op. cit., pp. 100-101 (it. 118).

69. S. Weil, La prima radice, op. cit., p. 1126 (it. 145).

70. S. Weil, La persona e il sacro, op. cit., p. 236 (it. 54).