Magistratura democratica

Le persecuzioni nei confronti delle donne e il sistema di protezione internazionale: quale Paese può dirsi “sicuro” per le donne?

di Ilaria Boiano

Per sondare le potenzialità analitiche del femminismo giuridico, inteso come limite esterno del diritto positivo e di una giurisprudenza che non sempre garantisce spazio all’esperienza concreta e singolare, in questo contributo propongo un approfondimento sull’accesso delle donne alla protezione internazionale e sulla violenza sessuale quale forma specifica di persecuzione, partendo dall’esperienza delle singole richiedenti asilo e dalla consapevolezza che ne deriva: non esiste un Paese “sicuro” per le donne.

1. Il femminismo giuridico: una breve nota introduttiva / 2. Le donne e il diritto internazionale dei rifugiati / 3. Le persecuzioni per motivi di sesso e genere e la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato / 3.1. Il ragionevole e fondato timore di persecuzione e il danno grave / 3.2. Le persecuzioni / 3.3. Gli agenti della persecuzione e l’assenza una via di fuga interna alternativa / 3.4. I motivi di persecuzione / 4. Le esperienze delle donne e le persecuzioni per motivi basati sul genere / 4.1. Le regole sociali e il concetto di “onore” / 4.2. Le forme di violenza di genere e la protezione internazionale / 5. La forza della ribellione delle donne alle persecuzioni per motivi di genere nascosta dalla costruzione giuridica della vulnerabilità / 6. Conclusioni: un rifugio per tutte ovvero ricentrare il discorso sulla protezione internazionale come questione che riguarda i diritti e le libertà di tutte le donne

 

1. Il femminismo giuridico: una breve nota introduttiva

È nel contesto accademico statunitense che, a partire dagli anni sessanta, si è andato delimitando un campo di studio, di ricerca e pratica forense denominato “femminismo giuridico” (legal feminism) o “dottrina femminista del diritto” (feminist jurisprudence), definizioni che si fanno risalire all’attivista, avvocata e accademica statunitense Ann Scales[1].

In Italia, l’analisi del diritto ha attraversato sin dagli anni settanta il pensiero femminista, senza però delimitarsi nei termini di settore specifico di studio e riflessione. 

La voce “femminismo giuridico” è apparsa per la prima volta all’interno del Digesto delle discipline privatistiche (sez. civ.) solo nel 1992, ad opera della giurista Sylviane Colombo[2], che ha segnalato, quale elemento di originalità comune alle elaborazioni femministe d’Oltreoceano, la critica del formalismo giuridico contestuale alla valorizzazione degli aspetti emotivi e non razionali della vita e delle situazioni concrete interessate dal diritto. Non altrettanto positivo, però, il giudizio di Colombo sulle modalità con le quali si è sviluppato il filone di pensiero in commento: secondo l’Autrice, la pluralità di voci non unanimi, la molteplicità delle discipline in cui si muovevano le studiose, l’inconciliabilità dei loro posizionamenti non facevano ben sperare per il consolidamento del femminismo giuridico quale accreditata cornice di ricerca giuridica. Mentre alcune si rivolgevano alla produzione legislativa, altre contestavano l’ordinamento attraverso la pratica forense, tenendo però sempre presenti obiettivi di natura concreta, ossia politici. Tutto ciò rivelava, per Colombo, l’assenza di uno sforzo epistemologico che impediva al femminismo giuridico di proporsi quale prospettiva rigorosa e, al contempo, innovativa in campo filosofico-giuridico.

In realtà, in questa restituzione del primo lavoro sul diritto delle studiose femministe americane si possono cogliere già chiari enunciati di una prospettiva generativa e trasformativa, poi condivisi anche in altri contesti e, per di più, particolarmente promettenti quanto a innovatività e radicalità dell’approccio: il primo enunciato è il riconoscimento dell’improduttività della reductio ad unum del punto di vista; il secondo coincide con il rifiuto del confinamento disciplinare; il terzo riguarda il concetto di oggettività e il rapporto tra soggetto e oggetto della ricerca, e si traduce nell’assunzione di una posizione attiva che si fonda su particolari forme di esperienza vissuta, un approccio che suggerisce che l’indagine e la ricerca che prende le mosse dai punti di vista delle donne e di altri gruppi emarginati sia più obiettiva e più completa della ricerca basata sulla prospettiva dei privilegiati[3].

Questo posizionamento ha condotto il femminismo a una lettura critica dell’universo di regole di vario tipo che informano i rapporti tra i soggetti e le relazioni sociali, verificando come il genere concorra a strutturarle[4].

In questo attraversamento, la critica femminista si è soffermata anche sulle regole propriamente giuridiche, dapprima proprio sul diritto positivo che, come evidenzia Silvia Niccolai nel saggio Controversia, disciplina dell’esperienza, si presenta come visibile «controfigura della politica istituzionale, della politica seconda fondata sulla rappresentanza, sulla delega e sui partiti della quale la legge è il prodotto»[5], nonché come cristallizzazione dei rapporti di potere così come articolati in una certa società, in un tempo e luogo definiti.

L’azione di critica e, al contempo, di produzione di diritto positivo si è rivolta poi anche alle regole procedurali, al fine di garantire la costruzione di un luogo di ricomposizione dei conflitti rinnovato, nel quale potesse trovare pienamente ascolto la domanda di giustizia proveniente dalle donne[6]

Come per il femminismo (rectius: i femminismi) inteso quale movimento politico, anche al “femminismo giuridico” non si attaglia nessuna delle definizioni correnti di teoria: esso è uno spazio che offre orizzonte di senso a una molteplicità di elaborazioni, autoindividuatesi come femministe. Quest’orizzonte di senso, in continuo dialogo interno ed esterno, come precisa Tamar Pitch, «non è finito o definito: il senso cambia continuamente a misura dei discorsi che lo riproducono e che esso stesso produce», mantenendosi sempre «crossdisciplinare», nel senso che ha vocazione «a forzare i paradigmi disciplinari tradizionali, a non farsene contenere e a renderli confusi e incerti»[7]

L’assenza di confini non significa, però, che il femminismo giuridico così inteso non abbia limiti: da un lato, si individua un limite nel senso di confine che rende riconoscibile, dato dall’insieme delle pratiche prodotte dal femminismo giuridico, a sua volta informato dalle medesime pratiche in una chiave autoriflessiva e, per questo, costitutiva di soggettività[8]

Dall’altro lato, il femminismo giuridico agisce all’esterno quale limite del diritto e dei diritti: in questa direzione, Anna Simone ha chiarito che «la critica femminista al diritto è situata ma può parlare a tutti perché assume l’esperienza e la controversia, nonché il limite stesso del diritto e dei diritti, come punto di partenza per l’analisi e la trasformazione della società, decostruendo il soggetto universale del diritto e dei diritti, avulso dalla realtà materiale dei conflitti e delle relazioni»[9].

Per sondare le potenzialità analitiche del femminismo giuridico inteso come limite esterno del diritto positivo e di una giurisprudenza che non sempre garantisce spazio all’esperienza concreta e singolare, in questo contributo propongo un approfondimento in tema di accesso delle donne alla protezione internazionale e sulla violenza sessuale quale forma specifica di persecuzione nei confronti delle donne, fino a divenire un’arma nel contesto dei conflitti interni e internazionali.

 

2. Le donne e il diritto internazionale dei rifugiati

L’esperienza della migrante, esule, profuga, apolide e rifugiata è stata e rimane fortemente influenzata dal diritto, che produce o si appropria delle molteplici definizioni ed etichette impiegate nel dibattito filosofico e politico, così contribuendo a delineare le frontiere per chi si sposta da un Paese all’altro e la misura della legittimità del loro attraversamento[10].

Benché riguardanti i rapporti tra le diverse comunità politiche, la condizione degli stranieri è stata disciplinata, nel tempo, prevalentemente dal diritto interno per rispondere a finalità di autoconservazione, protezione economica e sociale dei nascenti Stati-nazione.

È nell’Europa contemporanea che l’esodo di massa della popolazione si è posto quale tema di politica internazionale, che influisce sui rapporti tra Stati e definisce un soggetto collettivo identificabile e identificato anche giuridicamente (profughi, richiedenti asilo, rifugiati): la svolta in tal senso si registra, prima, a seguito delle guerre balcaniche (1912-1913), poi con il primo conflitto mondiale, fino a connotare il XX secolo all’indomani del Secondo dopoguerra come il “secolo dei rifugiati”, e ciò proprio in ragione del più consistente e drammatico movimento di popolazione in fuga mai sperimentato in Europa che ha fatto vivere, per la prima volta, a una imponente numero di persone uno «sradicamento totale»[11]. Le masse, infatti, si ritrovarono private a livello simbolico dell’appartenenza alla comunità dello Stato-nazione e, a livello materiale, di ogni bene, “senza casa”, oltre che senza un Paese[12], poiché costrette a recidere quei «legami morali e legali» che stanno alla base del rapporto fra gli individui e lo Stato, grazie ai quali si diviene cittadini e cittadine[13]. Da queste considerazioni, che gettano le fondamenta dei refugee studies, ha preso avvio una stagione di intenso dibattito, che ha influenzato le politiche del diritto nazionali e internazionali in materia di condizione giuridica dei rifugiati fino ai nostri giorni, dalle quali tuttavia le donne rifugiate sono state a lungo assenti, sia come soggetto attivo sia come beneficiarie della produzione normativa[14].

Come la maggior parte dei sistemi giuridici, anche l’ordinamento internazionale è stato costruito da una prospettiva prevalentemente maschile, e la differenza sessuale o è stata ignorata completamente oppure è stata assimilata a tutti gli altri fattori che diversificano e distinguono i soggetti in gruppi e categorie. 

Il soggetto di riferimento del diritto internazionale, infatti, come avviene per gli ordinamenti interni, è solo in apparenza neutro ed astratto, poiché di fatto coincide con la dimensione maschile, mentre le donne rimangono il paradigma per eccellenza del «soggetto estraneo [alien] del diritto internazionale»[15].

Tali considerazioni trovano conferma nella lettura dei verbali che documentano i lavori della Conferenza dei plenipotenziari delle Nazioni Unite, convocata nel 1951 per elaborare la Convenzione per regolare la condizione giuridica dei rifugiati: vi parteciparono ventuno Stati, rappresentati da altrettanti delegati uomini. I verbali registrano la presenza di appena due donne, con il ruolo di osservatrici dei lavori della Conferenza per conto di tre organizzazioni internazionali[16].

Nella Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato del 1951 (di seguito: Convenzione di Ginevra)[17], all’art. 1A, n. 2, par. 1 si rinviene la definizione di «rifugiato»: è tale

«chiunque, nel ragionevole timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua nazionalità, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi».

Questa definizione, nel suo insieme molto restrittiva, fu il frutto di una negoziazione che ha visto come protagonisti gli Stati Uniti e gli Stati alleati europei, che hanno promosso una prospettiva fortemente individualistica e limitata ai casi di coloro che giungevano in Occidente dal blocco dei Paesi dell’Est, così riflettendo la politica internazionale dell’epoca della guerra fredda[18], con la sistematica esclusione soprattutto dell’esperienza delle donne rifugiate.

Gli atti di tutela internazionale dei diritti umani che, negli anni seguenti, hanno contribuito a riempire di significato la definizione di “persecuzione” rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, hanno offerto rimedio effettivo alle donne allorché queste ultime fuggivano alla negazione pervasiva e strutturale dei diritti sperimentata nei Paesi di origine, condizione che però non era ritenuta inquadrabile nella definizione codificata dalla Convenzione di Ginevra[19].

Neppure all’art. 3 della Convenzione di Ginevra, intitolato «Divieto delle discriminazioni», si rinviene riferimento al sesso come ragione non legittimante trattamenti diseguali, e ciò benché nella Dichiarazione universale dei diritti umani fosse stata già vietata ogni forma di discriminazione:

«Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità» (art. 2). 

L’art. 3 della Convenzione di Ginevra si limita, al contrario, solo a precisare che:

«gli Stati Contraenti applicano le disposizioni della presente Convenzione ai rifugiati senza discriminazioni quanto alla razza, alla religione o al Paese d’origine».

Dalla lettura dei verbali della Conferenza emerge che l’omesso riferimento al sesso non fu casuale dimenticanza, né si può invocare l’uso del maschile come universale astratto da parte dei redattori della Convenzione di Ginevra. Dalla lettura dei verbali che documentano la discussione tra i rappresentanti degli Stati intervenuti alla stesura dell’atto, emerge infatti che il delegato della Jugoslavia, proprio citando l’art. 2 della Dichiarazione universale dei diritti umani sopra menzionato, propose di integrare l’art. 3 aggiungendo le parole «in particolare» prima di «quanto alla razza (…)», così da ampliare i motivi di discriminazione vietati anche a quelli non menzionati, che avrebbero assunto solo una funzione esemplificativa. Il delegato jugoslavo suggerì, inoltre, di introdurre le parole «o al sesso», dopo il riferimento al Paese di origine, così da riscrivere l’art. 3 come segue: 

«Gli Stati Contraenti applicano le disposizioni della presente Convenzione ai rifugiati senza discriminazioni in particolare quanto alla razza, alla religione, al Paese d’origine o al sesso»[20].

I delegati convenuti non condivisero questa proposta, esplicitando senza mezzi termini il timore di un eccessivo ampliamento della dimensione applicativa della Convenzione di Ginevra, e ciò con argomentazioni che comprovano l’intrinseca adesione a un sistema sociale e giuridico fondato proprio sulla disuguaglianza tra i sessi.

Le esperienze delle donne sono rimaste ignorate o, comunque, marginali nel discorso pubblico generale in tema di protezione internazionale e status di rifugiato per oltre trent’anni, durante i quali ha prevalso il paradigma androcentrico dell’uomo come parametro universale (male-as-norm paradigm), la cui validità è stata progressivamente messa in discussione solo grazie alle studiose e attiviste femministe[21], denunciando il silenzio sulle donne del diritto internazionale dei rifugiati come elemento costitutivo del sistema di protezione internazionale da mettere in discussione. Ciò è stato possibile solo grazie al racconto delle singole donne richiedenti asilo nei gruppi informali di donne e alla pratica femminista del diritto: dalla narrazione delle singole, infatti, abbiamo lavorato per trarre gli elementi da valorizzare sotto il profilo giuridico e sottoporli al vaglio delle autorità competenti (commissioni territoriali e tribunali in sede di impugnazione).

 

3. Le persecuzioni per motivi di sesso e genere e la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato

La Convenzione di Ginevra non menziona espressamente né il sesso né il genere tra i motivi che possono fondare il riconoscimento dello status di rifugiato, e il Comitato CEDAW, nella raccomandazione generale n. 34, ha espresso preoccupazione per il fatto che «molti sistemi di asilo continuano a trattare le richieste di asilo delle donne attraverso la lente delle esperienze maschili, il che può comportare che le loro richieste di status di rifugiato non vengano adeguatamente valutate o vengano respinte» (§ 16). 

Se, da un lato, l’assenza di espresso riferimento al sesso e al genere nella Convenzione di Ginevra è considerata tra le ragioni prevalenti della marginalizzazione della richiesta di protezione internazionale delle donne, dall’altro lato, l’opzione di una modifica normativa per integrare l’art. 1A, n. 2, par. 1 della Convenzione di Ginevra è stata accantonata non solo dalle organizzazioni internazionali, tra cui proprio l’UNHCR, ma anche dalle studiose e attiviste femministe e dal Comitato CEDAW, il quale ha chiarito che, «anche se il genere non è specificamente menzionato nella definizione di «rifugiato» data nella Convenzione del 1951 relativa allo status di rifugiato, esso può influenzare o dettare il tipo di persecuzione o danno subito dalle donne e le ragioni di tale trattamento. La definizione della Convenzione del 1951, correttamente interpretata, copre le richieste di status di rifugiato legate al genere» (Comitato CEDAW, 2014, § 16).

La Convenzione di Ginevra infatti, ricorda il Comitato CEDAW, fa parte di un quadro giuridico internazionale complesso, nel quale esiste un’importante interrelazione tra il diritto internazionale dei diritti umani, tra cui la CEDAW, la Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati e il relativo Protocollo del 1967, e le molteplici convenzioni in tema di tutela dei diritti umani, comprese quelle regionali di prevenzione e contrasto della violenza di genere, come la Convenzione interamericana sulla prevenzione, punizione e sradicamento della violenza contro le donne del 1994[22], il Protocollo sui diritti delle donne della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, adottato a Maputo nel 2003[23], e poi nel 2011 la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto della violenza nei confronti delle donne (di seguito: Convenzione di Istanbul)[24], tutti atti che sono da intendersi in un regime di reciproca complementarità[25]

Di conseguenza, le studiose e attiviste femministe hanno promosso la prospettiva di genere nell’interpretazione di tutti e cinque i motivi indicati dall’articolo 1A, n. 2, par. 1, Convenzione di Ginevra (così anche Comitato CEDAW, 2014, § 13), senza però mai distinguere la riflessione teorico-giuridica dalla dimensione di pensiero e azione più propriamente politica e pratico-operativa dell’attivismo e del supporto concreto alle donne richiedenti asilo. 

Grazie a questo lavoro d’interpretazione e rafforzamento di pratiche di accoglienza e supporto, negli anni si è prodotto un significativo impatto sull’intero sistema: mentre sempre più marginale è divenuta la posizione, mantenuta da alcuni ordinamenti interni, di refrattarietà a una riflessione sulla questione, come il Regno Unito[26], le autorità statali e le organizzazioni internazionali hanno avviato un lavoro d’integrazione dei parametri interpretativi della Convenzione di Ginevra attraverso linee guida specifiche e l’elaborazione di riforme legislative[27].

Nel prosieguo, si offre un quadro di questa attività interpretativa, incoraggiata dall’azione di sensibilizzazione e rielaborazione condotta dalle studiose e attiviste femministe che hanno veicolato, nei singoli casi sottoposti al vaglio delle autorità, interpretazioni dei motivi di riconoscimento della protezione internazionale più vicine ai concreti vissuti delle donne, seppure in un quadro complessivo di accesso delle donne allo status di rifugiata che ancora non può ritenersi soddisfacente, sia per quantità sia per qualità.

Nella ricostruzione dell’interpretazione dell’art. 1A, n. 2, par. 2, Convenzione di Ginevra, che contiene la definizione generale di «rifugiato» recepita anche in ambito italiano ed europeo[28], primario riferimento è il Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951 e del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, pubblicato nel 1979 e aggiornato nel 1992[29]. Questo testo sarà integrato nell’analisi che segue con le convenzioni in tema di tutela dei diritti delle donne, tra cui la Convenzione di Istanbul, gli atti di indirizzo dell’UNHCR, le raccomandazioni del Comitato CEDAW, la giurisprudenza delle corti regionali di tutela dei diritti umani, senza trascurare l’evoluzione del diritto dell’Unione europea e del diritto italiano, ma soprattutto tenendo conto dell’esperienza concreta delle donne che lottano per vedersi riconosciuto lo status di rifugiata. 

 

3.1. Il ragionevole e fondato timore di persecuzione e il danno grave 

Elemento chiave della definizione contenuta all’art. 1A, n. 2, par. 1, Convenzione di Ginevra è il concetto di “persecuzione”, per il quale tuttavia non esiste «una definizione universalmente accettata» (vds. il citato Manuale UNHCR, § 51). La riconducibilità dei fatti ricostruiti di volta in volta alla definizione di persecuzione rilevante ai fini della Convenzione di Ginevra implica la verifica della sussistenza dei seguenti elementi:

- danno grave che deriva dalla persecuzione; 

- fondato timore di subire l’atto persecutorio; 

- natura concretamente persecutoria delle condotte subite o che si rischia di subire;

- assenza di una via di fuga interna alternativa.

L’approfondimento del profilo soggettivo del timore di persecuzione e della sua fondatezza (profilo oggettivo) è preliminare al vaglio del danno grave e della natura persecutoria degli atti lamentati o temuti. L’UNHCR chiarisce sul punto la necessità di una valutazione di opinioni e sentimenti della persona interessata, alla luce delle quali «si devono considerare le misure poste in atto ovvero preannunciate» (Manuale UNHCR, § 52).

Nelle linee guida pubblicate dall’UNHCR sulla protezione delle donne rifugiate[30], seguite nel 1995 dalle direttive Sexual Violence Against Refugees: Guidelines on Prevention and Response[31], l’Organizzazione internazionale chiarisce che, nel merito della valutazione delle richieste di asilo, le circostanze che spingono le donne a fuggire dal loro Paese (per esempio, per aver violato norme sociali), non rientrano nella definizione universale di rifugiato (§ 54) e, in generale, come si legge nelle Linee guida sulla protezione internazionale n. 1. La persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati del 2002, si ritiene che «persecuzione di genere» sia «un’espressione che non ha valenza giuridica di per sé. Essa, piuttosto, comprende una serie di domande diverse tra loro, nelle quali il genere assume un ruolo di considerazione rilevante nell’ambito della determinazione dello status di rifugiato» (§ 1). 

Malgrado ciò, l’UNHCR ritiente comunque non necessario integrare la definizione di rifugiato inserendo riferimenti al genere, dal momento che «è ampiamente accettato che esso può influenzare o condizionare il tipo di persecuzione o danno sofferto e le ragioni di tale trattamento. La definizione di rifugiato pertanto, se interpretata correttamente, copre le istanze relative al genere» (ivi, § 6), tenendo però presente che: 

«Adottare un’interpretazione sensibile alle questioni di genere della Convenzione del 1951 non significa che tutte le donne abbiano automaticamente diritto allo status di rifugiato. Deve essere stabilito che abbiano un fondato timore di subire persecuzione per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinione politica» (§ 4).

Nella valutazione della domanda di protezione delle donne bisogna, quindi, seguire un approccio interpretativo che consideri l’impatto del genere, che: 

«si riferisce alla relazione tra uomo e donna basata su identità, status, ruoli e responsabilità, costruite e definite socialmente o culturalmente, che vengono assegnate alle persone appartenenti a un sesso o ad un altro, mentre il sesso è una determinazione biologica. Il concetto di genere non è statico o innato, ma acquista significati costruiti socialmente e culturalmente nel tempo» (§ 3).

L’UNHCR, nel 2002, ritorna sul concetto di «fondato timore di persecuzione» con riferimento specifico ai casi delle donne richiedenti asilo[32], evidenziando che solo una valutazione caso per caso consente di comprendere in modo approfondito le richieste di protezione internazionale delle donne e coloro che sono chiamati ad applicare la Convenzione di Ginevra devono tener presente il fatto che: 

«Se è vero che i richiedenti uomini e donne possono essere soggetti alle stesse forme di danno, è altrettanto vero che essi possono anche sperimentare forme di persecuzione specifiche del loro sesso. Il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto penale internazionale indicano con chiarezza determinate azioni come violazioni di tali diritti, come la violenza sessuale, e sostengono la loro caratterizzazione di gravi abusi come risultante in persecuzione. In questo senso, il diritto internazionale può assistere le persone incaricate di prendere decisioni nel determinare la natura persecutoria di una particolare azione. Non vi è dubbio che lo stupro e altre forme di violenza di genere, come le violenze legate alla dote, la mutilazione genitale femminile, la violenza domestica e la tratta, sono azioni che infliggono grave dolore e sofferenza – sia mentale che fisica – e che sono state utilizzate come forme di persecuzione, sia da parte di Stati che di attori privati» (ivi, § 9).

Si riconosce quindi che, se le donne sono esposte da un lato alle stesse forme di danno che patiscono gli uomini, rischiano dall’altro lato anche specifici danni che dipendono da fattori di genere, come quelli sopra menzionati, che però sono per lo più ignorati nel procedimento di valutazione delle loro domande di protezione internazionale, cosicché le violazioni subite o che le donne rischiano di subire sono qualificate raramente nei termini di persecuzione[33].

Utile a colmare la lacuna interpretativa che si registra nei vari ordinamenti è l’evoluzione della tutela internazionale dei diritti umani, contesto nel quale, ricorda Heaven Crawley, si ritengono costituire un danno grave:

tutte le violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciute dagli atti internazionali (diritto alla vita, divieto di tortura e di trattamento inumano e degradante, divieto di schiavitù, libertà di pensiero, coscienza e religione); 

la discriminazione o violazione dei seguenti diritti e libertà fondamentali: protezione dall’arresto e detenzione arbitraria; uguaglianza davanti alla legge; equo processo; libertà di movimento, libertà di opinione, espressione, riunione e associazione; diritto di voto e accesso al pubblico impiego;

ogni forma di limitato godimento non giustificato dalla scarsità di risorse del diritto al lavoro, ai beni essenziali (cibo, vestiti e alloggio), alla salute, all’istruzione e all’espressione culturale.

In definitiva, il danno grave si ravvisa allorché si riscontri «la violazione prolungata o sistemica dei diritti umani fondamentali, in quanto dimostrativa di un fallimento della protezione dello Stato»[34], violazione dinanzi alla quale risulta altresì calzante la definizione di danno grave rilevante ai fini dell’applicazione della Convenzione di Ginevra.

 

3.2. Le persecuzioni

Costituisce una persecuzione rilevante ai fini dell’art. 1A, n. 2, par. 1, Convenzione di Ginevra «ogni minaccia alla vita o alla libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza ad un determinato gruppo sociale» (Manuale UNHCR, § 52), così come altre violazioni gravi o minacce di tali violazioni dei diritti umani, alla luce delle circostanze del singolo caso. Secondo le indicazioni contenute nel Manuale, rilevano inoltre le «misure non persecutorie in se stesse (per esempio, discriminazioni di vario tipo), cui si aggiungono in certi casi altre circostanze avverse (per esempio, una generale atmosfera di insicurezza nel Paese di origine)», tutti elementi che possono aver determinato «uno stato d’animo tale da giustificare ragionevolmente l’assunto di un fondato timore di persecuzione per “concorso di motivi”», alla luce di tutte «le circostanze del caso, tenuto conto del particolare contesto geografico, storico ed etnologico» (§ 53), senza trascurare di considerare il genere (UNHCR, Linee guida sulla protezione internazionale n. 1, 2002), che in prevalenza influenza o condiziona il tipo di persecuzione o danno sofferto dalle donne e le ragioni del trattamento loro riservato (ivi, § 6).

Bisogna comunque procedere all’accertamento della sussistenza di tutti i requisiti individuati dalla definizione dello status di rifugiato, adottando «un approccio complessivo alla valutazione», e «considerare tutte le circostanze rilevanti del caso», per ricostruire così «un quadro complessivo della personalità, del vissuto e delle esperienze personali del richiedente asilo» avvalendosi di un’analisi e di una conoscenza aggiornata delle specifiche circostanze storiche, geografiche e culturali del Paese d’origine, evitando di «fare generalizzazioni su donne o uomini (…), poiché si rischia di trascurare importanti differenze che potrebbero risultare rilevanti nell’ambito di un determinato caso» (§ 7).

Con riferimento alla natura persecutoria degli atti subiti o che temono ragionevolmente di subire le donne, nelle linee guida del 1995 (vds. supra, nota 31: Guidelines) l’UNHCR menziona il timore di subire un trattamento inumano «per aver trasgredito le leggi o consuetudini della loro società riguardanti il ruolo delle donne» – situazioni in cui le donne subiscono violenza e pene, finanche la morte, per adulterio, ma anche per ciò che indossano, oppure discriminazioni sessuali specifiche. Si prende atto, nel documento, della difficoltà di inquadrare queste condotte nella definizione di rifugiato. E se dinanzi a punizioni per la violazione di norme sociali l’UNHCR raccomanda agli Stati di considerare le donne come perseguitate (Guidelines, 1995, § 54), con riguardo alle discriminazioni si evidenzia che «la linea di demarcazione tra discriminazione e persecuzione non è chiara» (ivi, § 55): ciò accade, per esempio, allorché le donne aggredite dai militari debbano dimostrare di essere vittime di persecuzione piuttosto che di violenza casuale, così come difficilmente sono qualificate come «persecuzioni» gli stupri subiti da parte delle forze armate, ancora ritenute «danni collaterali delle guerre» (ivi, § 56). 

L’UNHCR si sofferma sulla violenza sessuale, raccomandandone l’inquadramento come forma di persecuzione allorché risulti perpetrata da agenti statali per intimidire o punire, e sottolinea che «ci può essere una base per la concessione dello status di rifugiato quando un governo non può o non vuole proteggere le donne che sono soggette ad abusi per aver trasgredito gli standard sociali. Non è necessario che il governo stesso sia stato l’istigatore degli abusi» (ivi, § 71).

Possono rientrare, inoltre, nella definizione di persecuzione non solo le conseguenze pubbliche che le donne subiscono per la violazione di norme giuridiche, sociali o consuetudinarie, come già chiarito nelle linee guida del 1995, ma anche il rischio di subire conseguenze dell’applicazione di una legge «persecutoria in sé»: tale è quella che codifica norme e pratiche tradizionali o culturali non conformi agli standard internazionali sui diritti umani; che prevede una grave punizione per le donne che trasgrediscono costumi sociali (UNHCR, Linee guida sulla protezione internazionale n. 1, 2002, § 12), anche allorché siano ancora tollerati e giustificati nonostante l’abrogazione delle leggi che prima, eventualmente, avevano recepito determinate pratiche (§§ 10-11). 

Sono da ritenersi persecutorie anche quelle leggi e quelle politiche pubbliche che pur avendo finalità ragionevoli e legittime, tuttavia sono implementate con pratiche lesive dei diritti e delle libertà individuali: si pensi, per esempio, al caso della pianificazione familiare, ritenuta generalmente una risposta appropriata a una forte pressione demografica, ma che nella pratica si è tradotta nella costrizione delle donne all’aborto o alla sterilizzazione forzata (§ 13).

Con riguardo alla qualificazione di una determinata condotta nei termini di persecuzione è sempre necessario accertare la sussistenza del fondato timore di essere perseguitato: per esempio, dinanzi a una legge che astrattamente risulta essere discriminatoria e con conseguenze gravemente dannose per la richiedente asilo, si ritiene non sussista più il fondato timore ove la legge persecutoria sia in vigore formalmente, ma senza essere più applicata in concreto (§ 10). La prova che, di conseguenza, la richiedente asilo dovrà apportare a sostegno del timore fondato di persecuzione nei suoi confronti è molto rigorosa e complessa: non basterà addurre in modo generico la sussistenza di disposizioni giuridiche discriminatorie, ma occorrerà dimostrare se e in che misura le stesse ancora siano applicate nel contesto di riferimento della richiedente asilo.

Dopo un primo accenno alla discriminazione come forma di persecuzione contenuta nelle linee guida del 1995, l’UNHCR ha precisato che di norma «la “mera” discriminazione non potrebbe costituire persecuzione di per sé», tuttavia «un modello di discriminazione o di trattamento meno favorevole potrebbe, su base cumulativa, risultare in persecuzione e giustificare la protezione internazionale» (UNHCR, 2002, § 14)[35], così come l’omessa protezione contro certi tipi di danno da parte dello Stato nei confronti di una parte della popolazione, come accade nei casi di violenza domestica o di abusi perpetrati per ragioni relative a un differente orientamento sessuale (§§ 15-17).

Anche la tratta di persone finalizzata alla prostituzione forzata o allo sfruttamento sessuale rileva come forma di persecuzione «quando lo Stato non è in grado o non vuole fornire protezione contro tali danni o minacce di danno». Sul tema, l’UNHCR è ritornato più recentemente con l’elaborazione di specifiche linee guida finalizzate alla rilevazione degli indicatori che consentono, caso per caso, di accertare la condizione di vittimizzazione nell’ambito della tratta di esseri umani e la rilevanza dell’esperienza vissuta nel contesto della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato[36].

È importante comprendere la differenza tra le persecuzioni legate al genere (gender-related persecutions) e le forme di danno specifiche in base al genere (gender-specific harms). Con riguardo a queste ultime, l’attenzione è da porsi sulle modalità della persecuzione che con maggiore probabilità le donne affrontano, prescindendo quindi dai motivi che possono essere anche scollegati dal genere. Sono forme specifiche di danno e modalità di persecuzione, per esempio, la violenza sessuale o le mutilazioni genitali femminili, l’aborto e la sterilizzazione forzata, l’impedimento nell’accesso alla contraccezione. È importante precisare che le violazioni specifiche di genere non costituiscono necessariamente una persecuzione a causa del genere. Per esempio, se i genitali di un uomo sono sottoposti a scosse elettriche, egli viene torturato in modo specifico per il genere: non ne consegue necessariamente che sia perseguitato “a causa del suo genere”, ma può essere perseguitato con modalità “di genere” a causa della sua identità o attività politica o religiosa. Analogamente, molte donne subiscono forme di persecuzione specifiche di genere, tra cui la violenza sessuale, a causa della loro attività politica o per motivi religiosi reali o attribuiti. Di conseguenza, non si può dare per scontato che tutte le donne subiscano persecuzioni legate al genere anche quando questa persecuzione assuma in concreto una forma specifica di genere. 

Costituiscono, invece, persecuzioni di genere nei confronti delle donne (gender-related persecutions) quelle «forme di persecuzione che sono dirette contro una donna perché è una donna o che colpiscono le donne in modo sproporzionato» (Comitato CEDAW, 2014, § 15), ossia quelle violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali che le donne subiscono in presenza di una relazione causale tra il genere (come socialmente costruito) e il trattamento loro riservato: per esempio, l’attività sessuale al di fuori di una relazione socialmente tollerata può portare alla persecuzione della donna in ragione del regime di genere vigente in un determinato contesto. Bisogna tener conto, inoltre, del fatto che spesso le donne sono perseguitate non solo in quanto donne, ma perché si rifiutano di corrispondere al modello di donna socialmente imposto (cd. “proper women”) in un dato contesto[37].

Una volta accertato il fondato timore di una persecuzione capace di produrre un grave danno, bisogna verificare/dimostrare caso per caso che le persecuzioni siano imputabili alle autorità dello Stato di origine, che non vi sia disponibile una via di fuga interna alternativa e che le persecuzioni siano riconducibili a uno o più motivi indicati dalla Convenzione di Ginevra. 

 

3.3. Gli agenti della persecuzione e l’assenza una via di fuga interna alternativa

La rilettura femminista degli elementi della definizione giuridica di rifugiato si è rivelata necessaria affinché le condotte subite dalle donne non solo fossero concretamente inquadrate nella definizione di persecuzione fornita dalla Convenzione di Ginevra, ma anche per superare il principale ostacolo argomentativo che spesso si rinviene nelle motivazioni che fondano i dinieghi, ossia che quanto subito dalle donne, seppure atti integranti violazioni specifiche, siano però commessi in un contesto di relazioni individuali da soggetti privati e per questo motivo non riconducibili alle autorità statali. E quindi ad agenti persecutori pubblici[38].

La richiedente asilo deve dimostrare, infatti, di avere fondato timore di persecuzione da parte di autorità statali o di soggetti che lo Stato non vuole o non riesce a controllare: lo scrutinio della domanda di protezione internazionale riguarda anche la capacità e volontà dello Stato di origine di assicurare protezione. Laddove si riscontri una protezione concreta ed effettiva dalle persecuzioni riferite, non potranno ravvisarsi i presupposti per riconoscere lo status di rifugiato/a.

Il Comitato CEDAW è intervenuto sulla questione della prova della protezione e della sua effettività ed efficacia evidenziando che:

«Il danno perpetrato nei confronti delle donne e delle ragazze è spesso nelle mani di attori non statali, compresi i membri della famiglia, i vicini o la società più in generale. In questi casi, l’articolo 2, lettera e) della Convenzione [CEDAW – ndr] richiede che gli Stati parti si assumano l’obbligo di diligenza e garantiscano che le donne siano efficacemente protette dai danni che possono essere inflitti da attori non statali. Non è sufficiente lottare per l’uguaglianza verticale di genere della singola donna nei confronti delle autorità pubbliche; gli Stati devono anche lavorare per garantire la non discriminazione a livello orizzontale, anche all’interno della famiglia» (Comitato CEDAW, 2014, § 27). 

Di conseguenza, il Comitato CEDAW ha chiarito che anche il danno perpetrato da attori non statali deve essere qualificato nei termini di una persecuzione rilevante ai fini della Convenzione di Ginevra «quando lo Stato non è in grado o non è disposto a prevenire tale danno o ad assicurare protezione a causa di politiche o pratiche governative discriminatorie» (ibid.).

Significativo impulso alla qualificazione nei termini di atti persecutori di tutte le forme di violenza di genere cui sono esposte le donne, nonché alla determinazione della misura della responsabilità statale in caso di violazioni subite dalle donne da parte di attori non statali, è stato dato dalla Corte europea per i diritti umani e le libertà fondamentali (di seguito: Corte Edu), che ha fornito indicazioni utili alle autorità statali non solo per adeguare l’ordinamento interno ai parametri convenzionali di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali delle donne, ma anche per predisporre adeguati strumenti a protezione delle donne richiedenti protezione internazionale per persecuzioni subite in ragione del genere. In particolare, la Corte di Strasburgo ha chiarito che gli Stati, in attuazione degli artt. 2, 3, 6, 8 e 14 Cedu, sono responsabili nel caso in cui non abbiano assicurato alle donne vittime di violenza di genere misure adeguate atte a proteggere l’incolumità psicofisica delle vittime e dei figli esposti alla violenza, a garantire loro il pieno accesso alla giustizia e a perseguire gli autori delle violenze, considerate trattamenti disumani e degradanti che, sebbene commessi da soggetti privati, gli Stati sono tenuti a prevenire e reprimere[39].

I principi elaborati dalla Corte Edu in materia di violenza di genere sono stati codificati dalla Convenzione di Istanbul che, in tema di riconoscimento della protezione internazionale, all’articolo 60 riconosce la violenza nei confronti delle donne basata sul genere quale forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1A, n. 2, par. 1 della Convenzione di Ginevra, incoraggiando gli Stati ad adottare un approccio gender-sensitive in tutte le fasi del procedimento in materia di diritto internazionale dei rifugiati.

Nei casi in cui la persecuzione sia perpetrata da attori non statali, gli Stati di destinazione, spesso, ancora respingono la domanda di protezione delle donne, motivando la decisione sulla base della loro possibilità di beneficiare di una via di fuga interna, alternativa alla partenza dal Paese di origine (Comitato CEDAW, 2014, § 28): una persona, infatti, non è ritenuta a rischio di persecuzione da parte di attori non statali se ha la possibilità di un trasferimento in un luogo sicuro all’interno dello Stato di origine. 

Il Comitato CEDAW ha ricordato, sul punto, che l’art. 2, lett. d ed e della Convenzione CEDAW richiede che gli Stati firmatari garantiscano che le donne siano protette contro la discriminazione generata da attori non statali e, con riguardo alle donne richiedenti asilo, ha sottolineato come i dinieghi di protezione internazionale, motivati sulla disponibilità di una via di fuga interna alternativa alla partenza, non tengano conto che l’alternativa della fuga interna è un’opzione generalmente preclusa alle donne, prive delle risorse e dell’autonomia per spostarsi liberamente (e, a volte, legittimamente) nel Paese di origine o per fuggire all’estero, opportunità rara che le donne spesso hanno solo ricorrendo a canali di migrazione, che le espongono al rischio di ulteriori violenze:

«le difficoltà incontrate dalle donne nel trasferirsi in altre parti del loro Paese d’origine possono includere restrizioni o divieti legali, culturali e/o sociali per le donne che viaggiano o vivono da sole, realtà pratiche come i problemi di garantire l’alloggio, la custodia dei bambini e la sopravvivenza economica senza il sostegno della famiglia o della comunità, e il rischio di molestie e sfruttamento, compresi lo sfruttamento sessuale e la violenza» (Comitato CEDAW, 2014, § 27).

Le autorità statali, di conseguenza, sono tenute a verificare caso per caso, rispetto alla possibilità concreta di una ricollocazione interna, i rischi “di genere” (ivi, § 26).

 

3.4. I motivi di persecuzione

La definizione di rifugiato contenuta all’art. 1A, n. 2, par. 1, Convenzione di Ginevra individua cinque motivi ai quali, alternativamente o congiuntamente, devono essere causalmente correlate le persecuzioni: razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale e opinioni politiche[40]

A livello istituzionale si è consolidata, in particolare sul piano applicativo, l’indicazione di considerare le donne «appartenenti a un particolare gruppo sociale», incorporata nelle linee guida dell’UNHCR (1995, § 14; 2002) e ripresa dalla “direttiva qualifiche” 2011/95/UE all’art. 10, par. 1, lett. d, che menziona il genere e l’identità di genere tra i fattori rilevanti ai fini della determinazione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo.

Questo orientamento è stato criticato dal Comitato CEDAW (2014, § 29), nel solco dei rilievi già mossi dalle studiose e attiviste femministe[41], poiché ha complessivamente rallentato il percorso delle donne verso un pieno godimento del diritto alla protezione internazionale e ha rinforzato la percezione delle donne rifugiate come soggetti determinati «in natura principalmente da società e cultura»[42]. Esso si è mostrato, inoltre, problematico sia in considerazione della frequente inefficacia della stessa richiesta di protezione internazionale così impostata a livello individuale, sia in termini di politica del diritto.

Con riguardo a quest’ultimo profilo, il riconoscimento dello status di rifugiata alle donne in quanto «appartenenti a un particolare gruppo sociale» si fonda, infatti, su presupposti non corretti tanto sul piano di strategia politica quanto sul piano strettamente giuridico e, in generale, teorico: da un lato, infatti – ha evidenziato Heaven Crawley –, si è assistito a una replica e al rafforzamento della marginalizzazione delle donne richiedenti asilo, che si vedono generalizzare le loro esperienze come richiedenti prescindendo da un approfondimento individuale delle singole biografie, determinate e qualificate esclusivamente alla luce del genere. 

Ciò ha generato confusione sul significato di persecuzione basata sul genere (gender-related persecution) e ha rafforzato, sul piano giuridico dell’applicazione e interpretazione della Convenzione di Ginevra, la diffusione di parametri omogenei di verifica di comportamenti che, a loro volta, sono attribuiti alle donne intese come corpo monolitico, a prescindere cioè da una comprensione autentica della relazione tra la forma del danno patito o temuto dalla singola richiedente asilo e i motivi di protezione enumerati dall’art. 1A, n. 2, par. 1, Convenzione di Ginevra. 

Così si è assistito, seppure nel quadro di iniziative finalizzate ad emancipare le esperienze delle donne richiedenti asilo dal silenzio che le ha a lungo occultate nel contesto del diritto internazionale dei rifugiati, a ribadire la netta contrapposizione tra l’esperienza della persecuzione che lamentano gli uomini richiedenti e quella delle donne, ancora una volta imprigionate in un modello che generalizza ed enfatizza le persecuzioni che assumono la forma di aggressione sessuale, mentre limita l’immagine della richiedente asilo a quella di una donna povera, impotente e vulnerabile, contrapposta non di rado al modello occidentale di donna libera, anche sessualmente, istruita e indipendente, svuotando di contenuto politico le narrazioni delle richiedenti asilo, estraniate per di più dal complessivo contesto politico-sociale del Paese di origine[43].

Invocando l’art. 5 CEDAW, anche il Comitato di monitoraggio non ha trascurato di segnalare agli Stati i limiti della valutazione delle richieste di asilo delle donne limitando l’accertamento alla loro appartenenza a un particolare gruppo sociale, precisando che questo approccio alimenta pregiudizi e nozioni stereotipate delle donne «che si basano sull’inferiorità o sulla superiorità dell’uno o dell’altro sesso. Gli stereotipi di genere influiscono sul diritto delle donne a un procedimento di asilo equo e giusto e le autorità competenti in materia di asilo devono prendere precauzioni per non creare standard basati su nozioni preconcette di violenza e persecuzione basate sul genere» (Comitato CEDAW, 2014, § 31).

Non si può dimenticare, inoltre, nella prospettiva di interpretazione della Convenzione di Ginevra del Comitato CEDAW, che:

«le donne sono agenti attivi che svolgono ruoli importanti come leader politiche, membri di governi o gruppi di opposizione, giornaliste, difensore dei diritti umani e attiviste, avvocate e giudici, tra gli altri. [Le donne] sono prese di mira a causa delle loro opinioni politiche e/o delle loro attività, compreso l’esercizio dei loro diritti in quanto donne. Di conseguenza, l’articolo 7 della Convenzione [CEDAW] richiede agli Stati firmatari di agire per realizzare l’uguaglianza delle donne nella vita politica e pubblica. Può, quindi, essere opportuno che le donne presentino richieste di asilo per motivi di persecuzione legati al genere o per motivi politici, religiosi, razziali ed etnici, anche in situazioni in cui siano state costrette a fuggire dal loro Paese d’origine a causa di aggressioni esterne, occupazione, dominazione straniera o gravi conflitti civili» (Comitato CEDAW, 2014, §§ 31-32).

Con riguardo al profilo dell’efficacia dell’impostazione di una domanda di protezione internazionale sostenendo la meritevolezza della protezione internazionale delle donne in quanto appartenenti a un particolare gruppo sociale, non si può trascurare che non è lineare e scontato ravvisare caso per caso la concreta sussistenza, nel Paese di origine delle singole richiedenti di asilo, di un gruppo sociale particolare al quale ciascuna appartiene: l’espressione «gruppo sociale» include «membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata, oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, ovvero colei che possiede un’identità distinta nel Paese di origine, perché vi è percepita come diversa dalla società circostante»[44].

Si tratta dunque di caratteristiche obiettive, immodificabili o non rinunciabili senza grave sacrificio, degli appartenenti al gruppo stesso oppure del modo in cui il gruppo stesso viene percepito dalla società esterna. Di conseguenza, le richieste delle donne che si fondano sulla persecuzione subita in quanto appartenenti al gruppo di donne di una determinata regione, sono giudicate negativamente perché troppo generiche. Ma anche definizioni più ristrette del gruppo (ad esempio: «donne vittime di violenza domestica in Ecuador») non sono state accettate come elemento comprovante la persecuzione, dal momento che i componenti del gruppo indicato non si ritengono condividere caratteristiche immutabili[45].

Si trascura, inoltre, che il riferimento nei casi di donne richiedenti asilo all’appartenenza a un gruppo sociale determinato costituisce una scelta interpretativa problematica non solo per le donne che chiedono protezione, ma anche, più in generale, per la coerenza interpretativa della categoria di gruppo sociale. 

L’orientamento che tende a ricondurre la persecuzione delle donne a questo motivo, inoltre, trascura anche che il genere rappresenta una caratteristica fondamentale e performativa della vita sociale che segna una profonda divisione sulla quale è costruita l’ineguaglianza sociale delle donne, spesso manifestata con la violenza e avverso la quale la protezione in quanto appartenenti al gruppo “donne” non è adeguata né coerente al sistema della convenzione sullo status dei rifugiati, in quanto escluderebbe la protezione delle donne dalle persecuzioni subite per motivi diversi dal genere. 

Il caso di una giovane donna saudita consente di cogliere in concreto la portata restrittiva dell’inquadramento delle richieste di protezione internazionale nel motivo dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale.

Residente con la famiglia in Italia almeno dall’inizio delle scuole medie superiori, tra i sedici e i diciassette anni, la giovane R. comprende la forte disparità di trattamento a lei riservata rispetto ai fratelli: ai limiti alla frequentazione dei compagni di scuola e a una vita sociale tipica per la sua età nel Paese ospitante, si aggiungono reazioni violente del padre dinanzi alla sua richiesta di continuare gli studi dopo il diploma per realizzarsi individualmente e professionalmente attraverso viaggi ed esperienze all’estero. Questi progetti sono infatti sistematicamente messi a tacere dal padre, che dinanzi alla perseveranza della ragazza a ribadire le sue aspettative, la sottopone a punizioni consistenti in isolamento e privazione di ogni mezzo di comunicazione con l’esterno, fino ad atti di violenza fisica. Infine, al compimento dei diciotto anni e dopo il conseguimento del diploma, la ragazza viene informata del suo prossimo rimpatrio in Arabia Saudita per procedere al matrimonio con un uomo benestante e politicamente in vista, obiettivo che avrebbe giovato a tutta la famiglia e, soprattutto, al futuro dei fratelli. Fino alla partenza per il Paese di origine, l’unica attività consentita alla ragazza sarebbe stata la frequenza di un corso di inglese specialistico già avviato. La donna, che inutilmente aveva cercato di opporsi al progetto delineato dai genitori, che riconosceva incompatibile con la sua visione di sé e del suo ruolo nella società, ha raccolto informazioni sulle possibilità e strumenti per ribellarsi, ha pianificato la fuga durante il corso di inglese e ha chiesto aiuto per richiedere la protezione internazionale come refugee sur place, la situazione di coloro per i/le quali il bisogno di protezione internazionale si concretizza sul posto (sur place) a causa di eventi che hanno luogo quando sono già fuori dal Paese di origine. In sede di audizione dinanzi alla Commissione territoriale per la protezione internazionale, la giovane richiedente asilo ha ricostruito i fatti che l’avevano portata a chiedere lo status di rifugiata, sottolineando in ordine ai motivi il fondato timore di essere perseguitata per le sue opinioni politiche: in modo lucido e consapevole, la ragazza chiariva alle autorità che la sua scelta era stata determinata da una visione dei rapporti sociali tra uomini e donne e della struttura politica del suo Paese di origine incompatibile con quella esistente e mantenuta in vigore dall’uso della violenza nelle relazioni private, avallata dalle stesse autorità. In caso di rimpatrio, non avrebbe avuto nessuna via di fuga effettiva né accesso ad altre forme di protezione. A ciò si aggiungeva il fatto che, con la sua richiesta di protezione internazionale, al disonore arrecato alla famiglia si sarebbe aggiunto il tradimento così arrecato al Paese di origine, e dunque le conseguenti ritorsioni pubbliche che ne sarebbero derivate.

La Commissione le riconosce lo status di rifugiata, «considerata la forte discriminazione sociale, lavorativa e di libertà di movimento cui sono sottoposte le donne in Arabia Saudita», così riconducendo la decisione al motivo dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale. Nonostante l’esito positivo della domanda, la giovane rifugiata ha fortemente criticato questa motivazione, rivendicando la natura politica delle sue scelte, peraltro molto sofferte perché le imponevano la recisione radicale, in giovanissima età, con quelli che comunque erano per lei gli affetti fondanti[46].

La valutazione delle domande di protezione internazionale delle donne necessita, dunque, un radicale ripensamento: le richiedenti asilo non dovrebbero essere incluse nell’ambito di applicazione della Convenzione di Ginevra come “casi speciali” che deviano dai parametri codificati, bensì come parte del variegato panorama dei soggetti che possono beneficiare dello status di rifugiato così come definito dall’atto internazionale, nel quale si rinvengono già quei riferimenti utili per assicurare una protezione adeguata anche alle donne. Il nodo problematico, dunque, è nel riconoscere la natura di volta in volta politica, religiosa, sociale, razzista o nazionalista della persecuzione delle scelte femminili:

«Le richieste di status di rifugiata con specificità di genere [gender-specific claims] non sono diverse da qualsiasi altra richiesta di asilo. Non hai bisogno di una nuova definizione. Non hai bisogno di manipolare l’attuale definizione. Le richieste di status di rifugiata con specificità di genere devono essere valutate esattamente alla luce degli stessi presupposti di ogni altra richiesta di status di rifugiato ai sensi della Convenzione [di Ginevra]»[47].

Riprendendo questo monito, Heaven Crawley chiarisce che si tratta di una questione che non comporta necessariamente una modifica letterale del contenuto del testo normativo di riferimento, ma che invita a un lavoro di interpretazione (content versus interpretation), poiché le basi giuridiche per riconoscere lo status di rifugiata alle donne si possono rinvenire proprio nella Convenzione di Ginevra, se tutti i termini della definizione di cui all’articolo 1 – da persecuzione a danno grave, da fondato timore ad assenza di via di fuga interna alternativa – vengono reinterpretati così da riguardare anche le donne, a partire dalle loro esperienze individuali e concrete, superando le rappresentazioni monolitiche che si sono consolidate nella pratica[48].

 

4. Le esperienze delle donne e le persecuzioni per motivi basati sul genere

I singoli motivi indicati dall’articolo 1°, n. 2, par. 1 della Convenzione di Ginevra sono sicuramente influenzati o sottendono persecuzione o danno specifico in base al genere (Comitato CEDAW, 2014, § 16). Le specifiche esperienze di persecuzione e discriminazione di genere che solo le donne vivono e contro le quali sempre di più si ribellano nel mondo, cercando di far valere nei Paesi di destinazione quanto subito nel Paese di origine o di transito come persecuzione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiata, possono essere riconosciute come rilevanti combinando tra loro i diversi motivi (razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale e opinioni politiche) previsti dalla Convenzione e declinati congiuntamente alle motivazioni “di genere” sottese alle persecuzioni, a loro volta perpetrate con modalità e mezzi specifici proprio perché rivolte alle donne.

 

4.1. Le regole sociali e il concetto di “onore”

La persecuzione per motivi di genere può assumere, come più sopra anticipato, anche la forma di restrizioni e imposizioni che, dall’area della religione, sono trasfuse in norme, prima sociali ma comunque molto stringenti e dotate di una generalizzata percezione di inderogabilità, con sanzioni sociali che vanno dall’isolamento e marginalizzazione finanche all’uccisione da parte di componenti della famiglia, che così ristabiliscono l’integrità dell’onore leso dal comportamento trasgressivo delle donne. Vi sono poi contesti nei quali le norme sociali e religiose divengono parte dell’ordinamento giuridico, e alle sanzioni sociali si affiancano quelle previste dalla legge, che prevede anche meccanismi istituzionali di controllo pervasivo del rispetto delle regole mutuate dalla religione e dalla tradizione. Si intersecano così molteplici piani di discriminazione, limitazione della libertà e dell’autodeterminazione femminile, che dalla dimensione personale e familiare si estendono a quella pubblica e si concretizzano in forme di persecuzione rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale.

Il nodo problematico nell’affrontare i casi delle donne richiedenti asilo che fuggono da queste forme di persecuzione rimane quello di comprendere la connessione tra le norme sociali imposte alle donne e la stretta politicità dei regimi di genere, del valore che le stesse norme esprimono riguardo alla sessualità delle donne e, in generale, sul concetto di “onore”[49]. Ciò pure nel contesto dei progetti nazionalisti che, in molti Stati – per contrastare la politica ancora influente dei Paesi colonizzatori e, al contempo, ridefinire una nuova coscienza nazionalista spesso contrapposta all’Occidente –, ritornano a disciplinare la dimensione privata della famiglia, occupandosi dei ruoli di genere e delle donne, costruite come soggetti «portatrici di una cultura autentica/autenticata»[50]. Heaven Crawley richiama quindi l’attenzione sull’“onore”, fortemente associato al comportamento sessuale delle donne in molti contesti:

«All’interno di questo concetto, ogni violazione effettiva o percepita di quelle che sono ritenute “appropriate” relazioni di genere è vista come una violazione dell’onore della donna e insieme dell’onore della nazione stessa. La tutela dell’onore della donna e dell’onore della nazione acquista quindi un significato politico e sarà attuata direttamente attraverso lo Stato, come si vede nelle leggi discriminatorie e nelle leggi che regolano il comportamento delle donne, o attraverso la famiglia della donna e la comunità di appartenenza. Queste ultime diventano particolarmente importanti in molti contesti perché è praticamente e ideologicamente impossibile per lo Stato avere il controllo diretto della sessualità delle donne e dei rapporti con gli uomini»[51].

Si rafforzano, così, pratiche punitive delegate ai privati, ma di fatto riconducibili allo Stato, che non protegge né previene gli atti persecutori che conseguono ai comportamenti ritenuti lesivi dell’onore familiare e collettivo: violazioni dei limiti di movimento o attività specifiche (ad esempio, guidare o fare attività sportive); violare codici di abbigliamento o di comportamento, compresi quelli che impongono di astenersi da relazioni sessuali prima del matrimonio. Vi sono, poi, restrizioni sociali e giuridiche all’accesso all’educazione, all’esercizio di determinate professioni, al godimento di diritti civili e politici, i matrimoni forzati, legittimati giuridicamente oltre che socialmente, anche in tenera età[52].

In questi casi, le donne sono a rischio di molteplici forme di danno grave (serious harm) che vanno dalla punizione formale, prescritta dalla legge, che ha recepito precetti religiosi e norme sociali, alla discriminazione di genere fino ai cd. crimini “d’onore”.

Con riguardo alle pene previste dalla legge, si cita a esempio la fattispecie incriminatrice, prevista in Iran, che punisce con settantaquattro frustrate la violazione dell’obbligo di indossare l’hijab, oppure le pene corporali e pena di morte previste in caso di attività sessuale fuori dal matrimonio, che colpiscono le donne anche se vittime di violenza sessuale. 

Le discriminazione, in generale, costituisce un grave danno laddove «produca nella mente della persona coinvolta un sentimento di apprensione e insicurezza riguardo alla sua esistenza nel futuro», e può essere riconosciuta come forma di persecuzione alla luce del contesto e delle circostanze, in particolare dinanzi a forme multiple di discriminazione e laddove sia dunque rilevato un «elemento cumulativo» (Manuale UNHCR, §§ 54-55). La violazione delle norme sociali può comportare per le donne diversi tipi di conseguenze, comprese serie minacce alla loro vita in caso di rimpatrio, in particolare il rischio di essere esposte ai “crimini d’onore”, rispetto ai quali gli ordinamenti dei Paesi di provenienza non dimostrano, generalmente, di adottare adeguate misure di repressione nei confronti degli autori e di protezione per le vittime[53]

Le persecuzioni di questo tipo possono fondare il riconoscimento dello status di rifugiata perché riconducibili, caso per caso, al motivo religioso, alle opinioni politiche e all’appartenenza a un particolare gruppo sociale. Pur prevalendo quest’ultimo inquadramento, è interessante evidenziare come religione e opinione politica siano strettamente intrecciate nella ribellione delle donne alle norme sociali e religiose: la scelta di non adeguarsi ai comportamenti ritenuti “accettabili” per le donne potrebbe implicare, infatti, una critica della singola alla costruzione propriamente politica della posizione delle donne nella società e allo stesso concetto di onore. Sempre di più, in ordinamenti nei quali le discriminazioni di genere sono implementate tramite le leggi dello Stato, le donne rivendicano un ruolo di attiviste e la natura politica delle violazioni delle restrizioni loro imposte. 

 

4.2. Le forme di violenza di genere e la protezione internazionale

Il femminismo, nelle sue molteplici espressioni, ha reso visibili e sempre meno accettabili le aggressioni sistematiche all’integrità psicofisica e alla libertà di autodeterminazione delle donne, nominando espressamente ciò che a lungo era stato percepito come indicibile. In generale, la violenza maschile contro le donne è stata ed è variamente nominata anche all’interno del movimento delle donne, ma deve evidenziarsi come i diversi concetti impiegati dal femminismo situino tutti l’origine della violenza nell’esistenza della disparità di potere esistente tra uomini e donne nel sistema patriarcale.

“Violenza patriarcale” è l’espressione ritenuta inizialmente più adeguata a nominare la questione in contrapposizione a letture neutre, sintetizzate nelle espressioni “violenza familiare” e “violenza domestica”, poiché «ricorda continuamente all’interlocutore che la violenza a casa è connessa al sessismo e al pensiero sessista, alla dominazione maschile»[54], che si esplica ad ogni livello della struttura sociale.

La locuzione “violenza di genere” si è affermata con le elaborazioni teoriche della categoria di genere, che irrompe nello scenario accademico-politico inglese intorno alla seconda metà degli anni settanta[55]. Tale categoria viene individuata in opposizione a quella di “sesso”, che fa riferimento a tutto ciò che contraddistingue un uomo e una donna da un punto di vista puramente fisico-biologico, per indicare ciò che si sovrappone a tali differenze fisiche quale prodotto di schemi e stereotipi socio-culturali. Secondo questa impostazione di pensiero, il “genere” è un’istituzione sociale[56], che indica tutto ciò che si richiede e si impone all’uno e all’altro sesso strutturando le relazioni sulla base del potere riconosciuto all’uno piuttosto che all’altro sesso.

La violenza è “di genere” (gendered o gender based), dunque, perché strettamente correlata alla costruzione della mascolinità e della femminilità. In astratto, è da considerarsi tale ogni tipo di violenza commessa nei confronti di un determinato individuo per la sua identificazione di genere. In concreto, negli atti internazionali, con l’espressione «violenza di genere» si indica la violenza commessa nei confronti delle donne in quanto donne ovvero commessa nei confronti delle donne in modo sproporzionato a causa delle relazioni di potere diseguali tra le donne e gli uomini, e per mantenere o restaurare la condizione di subordinazione alla quale le donne si ribellano sia nel privato sia nella sfera pubblica (art. 3 Convenzione di Istanbul). Si rinviene negli atti internazionali anche la locuzione «violenza nei confronti delle donne» e, soprattutto nei documenti femministi, «violenza maschile contro le donne», che «dice esattamente che si tratta di uomini che maltrattano (fisicamente e/o psicologicamente) donne, talvolta (non raramente) fino ad ucciderle»[57] (Pitch, 2008, p. 3).

Nel linguaggio politico-giuridico contemporaneo si registrano prevalentemente definizioni neutre come “violenza domestica”, “violenza intra-familiare”, “violenza nelle relazioni intime”.

La violenza di genere ricomprende molteplici forme, che trovano riferimento nel capitolo V della Convenzione di Istanbul: dalla violenza domestica (fisica e psicologica) alla violenza sessuale, dai matrimoni forzati alle mutilazioni genitali femminili.

A lungo, la questione della violenza di genere è stata marginale nel diritto internazionale dei rifugiati, in quanto considerato fenomeno certamente diffuso e grave, ma comunque relegato alla dimensione personale e alla sfera privata, pertanto non riconducibile ad agenti persecutori statali.

a) La violenza domestica. Le richieste di asilo delle donne che lamentavano di temere per la loro vita in caso di rimpatrio nel Paese di origine perché fuggite da forme di violenza di genere, in particolare violenza domestica, sono state a lungo rigettate con riconoscimento di forme minori di protezione e, per lo più, in sede d’impugnazione di provvedimenti di dinieghi delle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. 

L’orientamento delle autorità deputate al vaglio delle richieste di asilo è gradualmente mutato nel tempo, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della Convenzione di Istanbul e dell’affermazione, anche da parte dell’UNHCR, della complementarità tra la Convenzione di Ginevra e la Convenzione di Istanbul[58], che all’art. 60 stabilisce l’obbligo per gli Stati di riconoscere la violenza contro le donne basata sul genere come forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1A, par. 2, Convenzione di Ginevra, e di applicare un’interpretazione sensibile a ciascuno dei motivi previsti dalla Convenzione. In una cornice normativa così rinnovata, significativo è stato il ruolo dei centri antiviolenza nel supportare le richiedenti asilo nell’accesso alle procedure, veicolando dinanzi alle autorità amministrative e giudiziarie la lettura femminista della violenza contro le donne basata sul genere, che ne sottolinea costantemente la dimensione politica e pubblica, e dunque la riconducibilità delle condotte subite da agenti privati alle autorità statali, alla loro inerzia o all’inefficacia delle misure legislative introdotte.

Se nel sostenere la richiesta di asilo delle donne che fuggono da questo tipo di persecuzioni si insiste nel motivare politicamente la persecuzione, sostenendo la natura pubblica e politica della ribellione e della fuga delle donne, prevale ancora in sede decisionale l’inquadramento delle richieste nel motivo dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale.

Si registra, comunque, il consolidarsi di un orientamento, che da minoritario, si è progressivamente rafforzato dinanzi alle commissioni territoriali, in particolare a seguito dell’intervento della Corte di cassazione, che con la sentenza 17 maggio 2017, n. 12333 ha annullato la decisione della Corte d’appello di Roma che aveva confermato il diniego di protezione internazionale a una donna marocchina. Quest’ultima aveva addotto come motivo della sua richiesta il rischio di essere esposta, in caso di rientro in Marocco, a gravi violenze da parte del marito, il quale aveva persistito nella sua condotta violenta anche dopo il divorzio e dopo una condanna a tre mesi di reclusione. Secondo la Corte di cassazione, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto preliminarmente approfondire la situazione del Paese di provenienza della ricorrente, e procedere all’accertamento della capacità effettiva delle autorità statali di offrire protezione adeguata alla donna. La Corte di cassazione ha quindi ricondotto la vicenda della richiedente asilo alle previsioni della Convenzione di Istanbul, sostenendo che la «violenza domestica» rientra nell’ambito dei «trattamenti inumani e degradanti» cui fa riferimento l’articolo 14, lett. b, d.lgs n. 251/2007 e, in applicazione dell’art. 60 Convenzione di Istanbul, configura condotta rilevante ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiata.

Tale orientamento, ribadito anche con la sentenza 24 novembre 2017, n. 28152[59], non è tuttavia definitivo, ma necessita di un continuo lavoro di vigilanza e supporto specializzato a sostegno delle richieste di protezione internazionale delle donne in ogni fase del procedimento di riconoscimento della protezione internazionale.

b) La violenza sessuale. Ancor di più della violenza domestica, essa è questione spesso trascurata nella valutazione del diritto allo status di rifugiata: sebbene infatti sia riconosciuta quale specifica forma di violenza alla quale le donne migranti e richiedenti asilo sono esposte durante tutto il percorso migratorio, nelle linee guida delle organizzazioni internazionali e negli atti normativi si menziona questa forma di violenza come fattore che determina la vulnerabilità specifica delle donne, giustificando l’adozione di accorgimenti per lo più procedurali (speditezza dell’esame della domanda di asilo e presenza di personale femminile) e di misure di accoglienza che prevengano la violenza sessuale e rispondano, in termini di trattamento e supporto, alle conseguenze psicofisiche derivanti da quanto patito[60].

Non può ignorarsi che la violenza sessuale, nel corso di conflitti interni e internazionali, è impiegata in misura «che va ben oltre la nozione di danno collaterale»[61] e con una pianificazione tattica che consente di definirla come “arma di guerra”[62].

Con l’espressione «violenza sessuale nelle situazioni di conflitto» (conflict-related sexual violence), nel contesto del diritto internazionale, si indica:

«lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di pari gravità commesse contro donne, uomini, ragazze e ragazzi collegate direttamente o indirettamente (temporalmente, geograficamente o causalmente) a un conflitto»[63].

In questo contesto si coglie molto nitidamente la caratteristica dello stupro e delle altre forme di violenza sessuale quale “fatto sociale totale”[64], cioè strutturato in modo tale da racchiudere in sé la struttura e la forma dei rapporti sociali nella loro complessità e della trama di fondo dei rapporti tra sessi, generazioni, classi ed etnie. Le forme di violenza sessuale dispiegano, infatti, la forza di un rituale di degradazione dell’avversario che si rivela particolarmente efficace nei confronti delle donne, colpite in modo sproporzionato, ma anche degli uomini, che subiscono la doppia umiliazione di essere femminilizzati e, quindi, sottoposti a violenze specifiche di genere[65].

La violenza sessuale subita nel Paese di origine, sia in situazioni di conflitto sia nella comunità di appartenenza, in famiglia, da persona conosciuta o sconosciuta, ma anche durante il percorso migratorio nei Paesi di transito, di per sé dovrebbe essere approfondita non solo per predisporre misure di assistenza e accoglienza, ma anche come specifica forma basata sul genere che la persecuzione assume, motivata di volta in volta da religione, opinione politica, appartenenza a particolare gruppo sociale, ma anche razza e nazionalità. 

La violenza sessuale, inoltre, può giustificare da sola il riconoscimento dello status di rifugiata se si tiene conto anche del fondato timore delle donne che hanno subito tale forma di violenza, qualificato come «trattamento inumano e degradante» e forma di «tortura» dalle Corti regionali di tutela dei diritti umani, di subire un danno grave ulteriore in caso di rimpatrio nel Paese di origine. Qui le donne sarebbero esposte a persecuzioni consistenti in stigma e marginalizzazione, isolamento e trattamento discriminatorio, che impediscono non solo un pieno reinserimento sociale, ma anche di beneficiare di cure e supporto adeguato, essendo precluso il pieno accesso a qualsivoglia misura di tutela della salute sessuale e riproduttiva, compreso l’aborto[66]. Questo è il caso, per esempio, delle donne che giungono in Italia attraverso la traiettoria che, dall’area subsahariana, le conduce fino alla Libia, dove la violenza sessuale nei loro confronti è sistematica, perpetrata in particolare in luoghi di detenzione arbitraria e strumentale alla riduzione delle donne in stato di soggezione per l’inserimento nel circuito della tratta a fini di sfruttamento sessuale[67]

In tali casi, ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale, con riguardo in particolare all’accertamento della fondatezza del timore di subire ulteriori persecuzioni e un danno grave in caso di rimpatrio, rilevano anche i traumi già patiti, come quelli correlati alla violenza sessuale, che in generale sono da considerarsi ostativi al rimpatrio secondo il principio umanitario per il quale non è rimpatriabile una persona che sia stata colpita da «atroci forme di persecuzione di cui stia ancora soffrendo il trauma», anche se «una futura reiterazione delle stesse appaia oggettivamente irrealistica o inverosimile» (Manuale UNHCR, § 136)[68].

Sulla base di quest’argomentazione, la giurisprudenza di merito ha riconosciuto la protezione per motivi umanitari in casi di richiedenti asilo costretti a permanere a lungo in Libia e lì sottoposti a trattamenti inumani e degradanti[69]. L’approfondimento di quest’orientamento imporrebbe di valutare, nei casi delle donne, il riconoscimento di forme anche più ampie di protezione, compreso lo status di rifugiata, alla luce delle gravi conseguenze che le stesse rischiano nei Paesi di origine per il solo fatto di essere state stuprate.

c) La violazione della salute, della libertà e dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne. Le persecuzioni basate sul genere e riconducibili alla motivazione politica che muove le donne ad opporsi alle leggi e pratiche dei Paesi di origine possono riguardare, inoltre, l’ampio tema dei diritti e della salute sessuali e riproduttivi: si consideri, per esempio, l’attacco che spesso subiscono le donne impegnate a promuovere riforme legislative volte a superare il divieto di aborto ancora esistente in molti Paesi, oppure a frenare riforme di segno opposto promosse da forze politiche conservatrici, attacco che non di rado può raggiungere livelli gravi di intimidazione politica fino alla violenza fisica. Rilevante, nella cornice del diritto internazionale dei rifugiati, è anche la condizione delle donne che subiscono in prima persona le conseguenze di leggi discriminatorie che impediscono l’accesso all’aborto, punito come omicidio, con pene detentive molto lunghe e in condizioni disumane e degradanti: le donne salvadoregne, per esempio, non hanno possibilità di accedere a un aborto sicuro nel Salvador, e rischiano di essere perseguite in caso di gravidanza che termini prima delle quaranta settimane, inclusi i casi di aborto spontaneo o di nascite premature[70]. Tra il 2000 e il 2011 sono state perseguite penalmente 129 donne per crimini riproduttivi, 28 delle quali sono state condannate per omicidio aggravato. Almeno 27 tra loro sono ancora detenute in un contesto carcerario sovraffollato, deprivate dei contatti con la famiglia di origine e spesso con i figli lasciati fuori senza cure, esposte a maltrattamenti in ragione delle condanne subite (omicidio) e a sistematiche violazioni del diritto a un processo equo e del principio di uguaglianza[71].

Per lo più trascurato rimane, nell’ambito delle persecuzioni inerenti alla sfera dei diritti e della salute sessuali e riproduttivi, anche l’approfondimento dell’esposizione delle donne richiedenti asilo alle persecuzioni per il loro orientamento sessuale, che se deviante “dalla norma” è punito anche da stupri “correttivi” che subiscono le donne scoperte a intrattenere relazioni lesbiche, così come raramente si considerano rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiata le pratiche di controllo delle nascite e di sterilizzazione forzata o indotta[72]

Nell’ambito delle persecuzioni inerenti alla sfera della salute e della libertà sessuale, si annovera anche la pratica delle mutilazioni genitali femminili (di seguito: MGF): malgrado la progressiva introduzione, in molti ordinamenti dei Paesi di origine delle donne migranti e richiedenti asilo, di leggi che sanzionano penalmente le MGF, tale pratica rimane molto diffusa. Ad essa, sempre di più, le donne provano a sottrarre se stesse e le loro figlie[73], ma questa ribellione, spesso punita con gravi violenze, ancora con difficoltà è riconosciuta nella sua natura politica rilevante, insieme alle persecuzioni poi subite o temute in caso di rimpatrio, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiata[74]

In Italia, il ddl AS 414, poi confluito nella legge 9 gennaio 2006, n. 7, recante disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile, conteneva all’inizio della discussione uno specifico riferimento, nell’art. 5, alle mutilazioni genitali femminili quale motivo specifico per il riconoscimento dello status di rifugiata, poi abbandonato, indebolendo così il sistema di protezione che la legge avrebbe poi delineato.

Prevale, per lo più, l’orientamento in base al quale la protezione internazionale può essere riconosciuta ove ancora non sia intervenuta una forma di MGF ai danni della richiedente asilo, che però dia prova di essere a rischio di esservi sottoposta in caso di rimpatrio[75], trascurando così che le MGF comportano, anche laddove già patite, conseguenze molto dolorose e danni alla salute che raramente trovano cura nei Paesi di origine. Si ignora, inoltre, che la pratica può essere reiterata a seguito del parto. Tutti trattamenti di tale gravità da poter essere qualificati nei termini di “persecuzione”, dalla quale le donne non trovano protezione efficace nei Paesi di origine.

Ancora scarsa, inoltre, è l’attenzione rivolta alle donne migranti e richiedenti asilo che hanno subito MGF e si trovano a vivere in contesti di accoglienza istituzionale, ovvero in stato di detenzione in vista dell’espulsione, in condizioni igienico-sanitarie non adeguate alle loro specifiche esigenze di salute e prive di cura e assistenza.

Le donne provenienti da Paesi in cui le mutilazioni genitali femminili sono ancora praticate, spesso nonostante l’introduzione di leggi che le vietano, sempre di più si attivano per proteggere le figlie dalla pratica. Una strada che, non di rado, percorrono non appena ottenuto un titolo di soggiorno, anche come rifugiate, è quella del ricongiungimento familiare: questo è stato il caso, per esempio, di una giovane donna somala fuggita dal Paese di origine per sottrarsi alla pena di morte inflitta, a seguito di un giudizio sommario delle autorità religiose, per aver violato l’obbligo imposto dall’ex-marito, appartenente al gruppo islamista e terroristico di Al Shabaab, di non sposarsi più. Ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiata per le persecuzioni subite per motivi religiosi, oltre alle gravi violenze di genere, quali violenza domestica e mutilazioni genitali femminili, la donna decide di richiedere il visto di ingresso per motivi umanitari per le tre figlie minori, che per ordine del padre avrebbero dovuto essere sottoposte alle mutilazioni genitali entro pochi mesi per mano della nonna paterna, pena la loro morte. A seguito di diniego del visto da parte dell’ambasciata italiana, la donna ha presentato ricorso in urgenza al Tribunale di Roma, che ordinava l’immediato rilascio del visto di ingresso per ricongiungimento familiare, riconoscendo come concreto e attuale il pericolo per le bambine di subire la pratica, nonché giuridicamente fondata la domanda della donna alla luce delle disposizioni della Convenzione di Istanbul, richiamando l’attenzione anche sulla paura per il destino delle figlie, che poneva la donna in condizioni psicofisiche delicate, com’era stato documentato dal centro antiviolenza che la sosteneva nella richiesta del visto. Il Tribunale ordinava il rilascio del visto anche per la nonna materna, che aveva accompagnato le bambine dalla Somalia fino al Kenya, dove si trova l’ambasciata italiana competente per l’area geografica, dal momento che riconosceva per la stessa un grave rischio di persecuzione in caso di rientro in Somalia per l’iniziativa assunta a tutela delle nipoti[76].

d) La tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale. La tratta di esseri umani rientra tra le forme di violenza che possono fondare il timore di persecuzione, spesso determinata da motivi di genere, tenuto conto delle sue specificità[77]:

«la tratta degli uomini e quella delle donne hanno spesso fini diversi. Per questo motivo, anche le misure di assistenza e sostegno dovrebbero integrare una specificità di genere laddove opportuno. I fattori che spingono le persone a lasciare il proprio Paese d’origine (fattori “push”) e quelli che le attraggono nei Paesi di destinazione (fattori “pull”) possono divergere in base ai settori interessati, ad esempio l’industria del sesso o lo sfruttamento del lavoro nel settore edile, agricolo o della servitù domestica»[78].

Lo sfruttamento sessuale, il rapimento, la detenzione, lo stupro, la riduzione in schiavitù, tutte condotte attraverso le quali si esplica la tratta delle donne, costituiscono infatti, secondo l’UNHCR, violazioni particolarmente atroci, tali da assurgere a gravi violazioni dei diritti umani di carattere persecutorio. Anche se l’esperienza della tratta della richiedente è ormai conclusa, si ritiene corretto riconoscere lo status di rifugiata, dal momento che il suo rimpatrio nel Paese di origine potrebbe esporla a ulteriori violazioni dei diritti umani fondamentali, a ritorsioni in danno proprio o dei familiari e/o a nuove esperienze di tratta (re-trafficking).

L’esperienza della tratta di esseri umani è per lo più interpretata come forma di persecuzione motivata dall’appartenenza a un determinato gruppo sociale delle vittime, poiché si ritiene che queste ultime condividano caratteristiche comuni e immutabili, o comunque fondanti la loro identità, come per esempio proprio l’essere donna e ragazza in determinati contesti sociali e culturali privi di protezione effettiva. Le stesse vittime di tratta possono essere considerate un gruppo sociale particolare, basato sulla caratteristica immutabile, comune e storica dell’essere stati vittime di tratta. Caso per caso, bisognerà accertare che nel Paese di origine le autorità statali non sono in grado o non intendono fornire protezione a coloro che sono coinvolte nei trasferimenti forzati ai fini di sfruttamento: la tratta di esseri umani è fenomeno che riguarda, in modo prevalente, la popolazione femminile costretta alla prostituzione nei Paesi di transito e destinazione, ma anche ad altre forme di sfruttamento[79]. Essa è stata approfondita, in Italia, come violazione grave dei diritti fondamentali che legittima il riconoscimento dello status di rifugiato soprattutto a partire dal 2015, allorché si è registrato un forte incremento tra le richiedenti asilo di donne nigeriane che chiedevano protezione rappresentando alle autorità molteplici vicende di sopraffazione e violenza, poi ricostruendo anche dinamiche di reclutamento, trasferimento e sfruttamento proprie della tratta, così da motivare l’UNHCR a elaborare delle linee guida specifiche finalizzate a individuare caso per caso le circostanze rilevanti (indicatori di tratta) per l’inquadramento giuridico delle singole situazioni nel contesto della tratta di esseri umani, e attivare di conseguenza gli strumenti di protezione sociale previsti dalla legge (art. 18 d.lgs n. 286/1998[80]), per poi valutare la configurabilità, in ogni singola situazione, dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiata.

A lungo, sia dinanzi alle autorità amministrative sia in sede giudiziaria, la tratta di esseri umani è stata sottovalutata dalle autorità quale violazione tale da rientrare nell’ambito di applicabilità della Convenzione di Ginevra[81], nonostante le linee guida UNHCR del 2006 fossero state chiare sull’applicabilità dell’istituto dello status di rifugiato nei casi delle persone coinvolte dal fenomeno.

L’orientamento dei Tribunali in Italia, a fronte di ancora numerosi dinieghi della protezione internazionale da parte delle commissioni territoriali, spesso motivati ricorrendo ad argomentazioni intrise di pregiudizi e stereotipi discriminatori e sessisti, si sta progressivamente uniformando nel riconoscimento dello status di rifugiata sia nel caso che le donne riferiscano espressamente di essere state coinvolte da tratta e sfruttamento, sia in assenza di diretta menzione del fenomeno da parte delle richiedenti che, tuttavia, abbiano riferito circostanze e condotte tipiche della vittimizzazione, così consentendo all’autorità giudiziaria di ritenere accertate nei loro confronti violazioni serie dei diritti fondamentali tali da assurgere a persecuzione riconducibile al motivo dell’appartenenza della richiedente al determinato gruppo sociale di vittime di tratta. 

 

5. La forza della ribellione delle donne alle persecuzioni per motivi di genere nascosta dalla costruzione giuridica della vulnerabilità

Dalle questioni approfondite emergono non solo le persecuzioni e discriminazioni subite nei Paesi di origine e di transito, ma anche forme di violenza istituzionale derivanti dai procedimenti di valutazione delle domande di asilo e dalla discriminazione di genere strutturale a tutti gli ordinamenti, compresi quelli dei Paesi occidentali di principale destinazione delle donne in fuga, nei quali l’intreccio di razzismo, sessismo e marginalizzazione sociale ed economica in quanto straniere rende difficile, se non impossibile, ogni tappa del percorso migratorio: dall’accesso a vie di fuga sicure agli strumenti di protezione che gli ordinamenti interni e internazionale sono tenuti ad assicurare, senza dimenticare la posizione, per lo più subalterna, nella quale le rifugiate si trovano collocate nelle società “di accoglienza”.

In questo itinerario, che parte dai gesti di ribellione delle singole per arrivare alla narrazione delle biografie individuali secondo schemi comprensibili a istituzioni che sono fisicamente e culturalmente lontane da quelle di provenienza, ma anche intrise di stereotipi sessisti e razzializzati, ciò che ancora il diritto non riesce a riconoscere e a restituire è la forza trasformativa che le donne rifugiate e richiedenti asilo dispiegano a partire dalla loro singola vita, con ripercussioni sulle società di provenienza e di destinazione. 

Il motivo di questa incapacità “giuridica” risiede, spesso, proprio nelle etichette che il diritto elabora e rafforza allorché si dia spazio a un approccio di mera inclusione nominale delle donne nel discorso giuridico: la prospettiva di genere applicata all’analisi del diritto non significa aggiungere sic et simpliciter le donne nell’analisi giuridica, ma impone di tener conto della misura in cui il genere condiziona il punto di vista del discorso giuridico, ancora inadeguato a nominare in modo autentico le esperienze delle donne, senza ricorrere a rigidi paradigmi che, a loro volta, imbrigliano la nostra vita[82].

Prevalgono infatti, nei testi normativi e nei documenti d’indirizzo, immagini che marginalizzano le donne rifugiate e richiedenti asilo, per lo più associate nelle statistiche ai bambini, così riconsegnandole a un ristretto ruolo di genere e raggruppandole ancora in una categoria residuale e dipendente, oggi determinata dalle sue “vulnerabilità”, che da concetto che intendeva evidenziare temporanee condizioni di difficoltà e fragilità a resistere in un ambiente ostile o, più in generale, dimensione «universale e costante, propria della condizione umana»[83], è divenuto ulteriore elemento interpretato come biologicamente predeterminato da sesso o età, ovvero “patologico”, mentre sono respinti di nuovo in secondo piano il contesto, la disparità di potere correlata al regime di genere dominante, la disparità di mezzi economici e di accesso alle risorse primarie. Ciò determina una marginalizzazione delle donne e delle loro narrazioni autentiche, togliendo loro spazio come soggetti e attrici indipendenti, seppure vulnerabili, ma nel senso di esposte alle conseguenze sociali dannose dell’interconnessione di fattori discriminatori di sesso, genere, appartenenza etnica e provenienza geografica, disponibilità di risorse economiche in un dato contesto storico e sociale.

In secondo luogo, a fronte di questa caratterizzazione delle donne si perpetua l’esplicarsi di una risposta paternalistica dello Stato, che interviene a “proteggere” e a “salvare” le donne che, però, devono dimostrare, anche nell’ambito della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, di aver agito e di agire in modo “appropriato” per una donna, e cioè secondo gli schemi di una performance che restituisca l’immagine di vittima depoliticizzata e senza voce, in quanto proveniente da una cultura oppressiva. Più tace sull’esplicazione della sua capacità di azione individuale (agency) e si rappresenta come soggetto privo di voce e iniziativa, più è probabile una decisione positiva della richiesta di protezione, per lo più per l’appartenenza a un particolare gruppo sociale, e cioè al genere femminile, schiacciato in una dimensione di inazione e debolezza e con bisogni speciali.

Il processo di riforma che sarebbe auspicabile impone cambiamenti più ampi e radicali rispetto alla sola interpretazione “sensibile al genere” della Convenzione, che spesso tradisce il portato politico e giuridico che l’approccio di genere porta con sé nella prospettiva femminista. 

Si impone, quindi, una visione più ampia e complessa dinanzi alle narrazioni delle richiedenti asilo portate a conoscenza delle autorità competenti per la valutazione delle domande di asilo, e l’apertura di spazi politici e di una produzione giuridica inclusiva delle voci delle donne rifugiate per superare le rappresentazioni dominanti.

 

6. Conclusioni: un rifugio per tutte ovvero ricentrare il discorso sulla protezione internazionale come questione che riguarda i diritti e le libertà di tutte le donne

Lo status di rifugiato/rifugiata è attualmente sempre più al centro del dibattito pubblico, seppure nel contesto di discorsi che riguardano in modo più ampio il controllo dei confini e la regolamentazione del fenomeno migratorio. Anche laddove se ne approfondisce il contenuto giuridico, il tenore del dibattito rimane connotato da una postura distaccata: se ne parla e si approfondisce in ogni sede come istituto giuridico certamente cruciale per il dibattito politico e giuridico contemporaneo, ma prendendone la distanza in quanto concepito come condizione giuridica e dimensione rilevante per gli altri/altre. 

Vi è il paradosso per cui i Paesi dell’Unione europea, sempre più barricati dietro confini letali per chi tenti di accedervi, si confortano ancora di un’autorappresentazione come “terra promessa”, terra di asilo per chi è esposto alle persecuzioni in Paesi con una “bassa reputazione internazionale” per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali.

Rischia così l’oblio il fatto storico che sottende la stessa Convenzione di Ginevra, ossia che, all’epoca della sua elaborazione, la fonte primaria che ha ispirato il suo impianto è stata la persecuzione subita in Europa negli anni del totalitarismo nazista e delle dittature fasciste, in Paesi con una struttura sociale fortemente patriarcale e sessista.

In definitiva, per restituire vitalità all’istituto della protezione internazionale, appare imprescindibile ricentrare il discorso pubblico sulla protezione internazionale e il diritto di asilo partendo dall’esperienza delle donne e dalla consapevolezza che ne deriva: non esiste un Paese “sicuro” per le donne.

Certamente, vi sono contesti nei quali più palese è la condizione di persecuzione delle donne perché prevista dalla legge e riconducibile a pratiche tradizionali e religiose ritenute estranee e lontane; tuttavia, per tutte e ciascuna potrebbe configurarsi la necessità di fuggire dal Paese in cui si vive per la violenza sessista istituzionale, o perpetrata e subita nella dimensione personale, nell’impunità correlata all’incapacità dello Stato di assicurare una risposta adeguata.

Si pensi, per esempio, alla situazione delle donne vittime di violenza domestica che, nel proprio Paese, non trovano adeguata protezione e sono per di più esposte a procedure previste dalla legge che le espongono a ulteriori violenze da parte dell’agente persecutore “privato”, ma anche alla violenza istituzionale e alla doppia vittimizzazione.

In questo contesto, la richiesta di protezione internazionale che una donna rivolge alle autorità di un Paese terzo rispetto a quello dove risiede e ha patito violenze di genere, meriterebbe un sistema rivisitato sotto il profilo dei presupposti e che potrebbe trovare ispirazione dal diritto di asilo previsto all’articolo 10 della Costituzione italiana: «la protezione va accordata a chi sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», tenendo presente, però, che “democratico” può dirsi quell’ordinamento che assicura il pieno accesso alla giustizia alle donne senza discriminazione dinanzi alla legge e che garantisce protezione effettiva dalla violenza di genere.

 

 

1. Tra i tanti, vds. A. Scales, Towards a Feminist Jurisprudence, in Indiana Law Journal, vol. 56, n. 3/1981 (www.repository.law.indiana.edu/ilj/vol56/iss3/1); Ead., Legal Feminism: Activism, Lawyering, and Legal Theory, New York University Press, New York, 2006.

2. S. Colombo, Femminismo giuridico, in Digesto delle Discipline privatistiche – Sezione civile, vol. VIII, UTET, Torino, 1992, pp. 247 ss. 

3. L. Stanley e S. Wise, Breaking Out Again: Feminist Ontology and Epistemology, Routledge, Londra/New York, 1993.

4. Per l’analisi delle diverse prospettive di critica femminista del diritto, si rinvia ad A. Simone, L’approccio del “femminismo giuridico” come limite ed esperienza del diritto. Un’interpretazione, in R. De Giorgi (a cura di), Limiti del diritto. Prospettive di riflessione e analisi, Pensa Multimedia, Lecce, 2017, pp. 272-283.

5. S. Niccolai, Controversia, disciplina dell’esperienza, in R. Buttarelli e F. Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008, p. 265.

6. La condizione personale e processuale delle vittime dei crimini sessuati è presa in considerazione nella sua peculiarità dalle norme procedurali introdotte negli statuti delle corti penali internazionali: la Rule 96 delle regole di procedura e prova del TPIY stabilisce che non è necessario trovare riscontri alle dichiarazioni delle vittime, non è ammessa indagine sulle pregresse esperienze sessuali delle vittime e il consenso della vittima non è ammesso come argomento di difesa se esso risulta essere stato reso in un contesto di minaccia o fondato timore di temere violenza fisica o psicologica, detenzione, o allorché la vittima abbia ritenuto ragionevolmente che, non acconsentendo, la condotta sarebbe ricaduta su un’altra persona. La Rule 34 A del TPIY istituisce un’unità di supporto e assistenza alle vittime e ai testimoni, reclutando donne di alto profilo professionale e specializzazione tra il personale addetto all’unità. Presso la Corte penale internazionale è stata predisposta un’unità dedicata al supporto e all’assistenza delle vittime e dei testimoni (artt. 43, 68, 75) e anche nell’organizzazione dei servizi e nella definizione della composizione della Corte è stato colto l’invito proveniente dalle organizzazioni di donne riunite nella Women’s Caucus for Gender Justice in International Criminal Court a coinvolgere un cospicuo numero di donne esperte di violenza nei confronti delle donne sia tra il personale dell’unità di supporto sia tra i giudici (artt. 36.8; 42; 44.2).

7. T. Pitch, Sesso e genere del e nel diritto: il femminismo giuridico, in E. Santoro (a cura di), Il Diritto come questione sociale, Giappichelli, Torino, 2010, p. 94. 

8. Ibid.

9. A. Simone, L’approccio, op. cit.

10. Sia consentito il rinvio a I. Boiano, Cittadinanza/Frontiere, in A. Simone - I. Boiano - A. Condello, Femminismo giuridico. Teorie e problemi, Mondadori Università, Milano, 2019, pp. 55-68.

11. S. Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 10.

12. S. Salvatici, op. ult. cit., p. 11.

13. J. Vernant, The Refugee in the Post-War World, Allen & Unwin, Londra, 1953, pp. 4-6 (cit. in S. Salvatici, Senza casa e senza paese, op. cit., p. 11).

14. Per una ricostruzione degli studi e delle ricerche che compongono i refugee studies si rinvia a R. Black, Fifty Years of Refugee Studies: From Theory to Policy, in International Migration Review, vol. 35, n. 1/2001, p. 57.

15. C.A. MacKinnon, Feminism, Marxism, Method and the State: Toward a Feminist Jurisprudence , vol. 8, n. 4/1983, pp. 635-658.

16. Miss J. de Romer per la Catholic International Unions for social services e l’International Union of Catholic Women’s League, e Mrs. Renée Girod, portavoce dell’International Council of Women.

17. In seguito alla risoluzione dell’Assemblea generale n. 429 (V) del 4 dicembre 1950 (A/RES/429, https://www.refworld.org/docid/3b00f08a27.html), nel 1951 a Ginevra fu convocata una Conferenza di plenipotenziari delle Nazioni Unite allo scopo di elaborare una convenzione per regolare lo status giuridico dei rifugiati. La Convenzione fu adottata il 28 luglio 1951 ed entrò in vigore il 21 aprile 1954 (www.unhcr.it/wp-content/uploads/2017/01/Convenzione-di-Ginevra-del-1951_.pdf). Inizialmente essa conteneva limitazioni temporali e territoriali: la condizione giuridica di “rifugiato” era riconosciuta solo a coloro che si trovassero nella condizione di cui all’art. 2 per «avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951» in Europa. I limiti temporali e geografici sono stati eliminati dal Protocollo di New York del 1967, «considerando l’opportunità di applicare il medesimo statuto a tutti i rifugiati compresi nella definizione espressa dalla Convenzione, senza tener conto della data limite del 1° gennaio 1951».

18. A. Edwards, Transitioning Gender: Feminist Engagement with International Refugee Law and Policy 1950–2010, in Refugee Survey Quarterly, vol. 29, n. 2/2010, p. 72.

19. H. Charlesworth - C. Chinkin - S. Wrigth, Feminist Approaches to International Law, in American Journal of International Law, vol. 85, n. 4/1991, pp. 613-645; H. Crawley, Refugees and Gender: Law and Process, Jordan, Bristol, 2001; A. Edwards, Transitioning Gender, op. cit., pp. 21-45; J. Freedman, Gendering the International Asylum and Refugee Debate, Palgrave Macmillan, Londra, 2015.

20. Corsivo mio. Vds. la Conferenza Onu dei plenipotenziari sullo status dei rifugiati e degli apolidi, Summary Record of the Fifth Meeting, 4 luglio 1951, A/CONF.2/SR.5, p. 9 (https://digitallibrary.un.org/record/696253?ln=en). 

21. A. Edwards, Transitioning Gender, op. cit., p. 22; J. Freedman, Gendering, op. cit., p. 72.

22. www.oas.org/juridico/english/treaties/a-61.html

23. www.un.org/en/africa/osaa/pdf/au/protocol_rights_women_africa_2003.pdf.

24. La Convenzione sulla prevenzione e il contrasto della violenza nei confronti delle donne, ivi compresa la violenza domestica, è stata adottata a Istanbul nell’aprile del 2011, prodotto di un Comitato ad hoc («Committee on Preventing and Combating Violence Against Women and Domestic Violence», CAHVIO), istituito dal Consiglio d’Europa a seguito della sentenza Opuz c. Turchia del 2009. Per maggiori approfondimenti, si rinvia a Consiglio d’Europa, Explanatory Report, CETS, n. 210, Istanbul, 11 maggio 2011 (www.istat.it/it/files/2017/11/ExplanatoryreporttoIstanbulConvention.pdf).

25. Vds. Comitato CEDAW, 2014, § 9 ; Consiglio d’Europa e UNHCR, Refugee women and the Istanbul Convention, Strasburgo, 23 gennaio 2013 (file:///C:/Users/avvst/Downloads/99913%20GBRBrochureRefugeeWomen.pdf).

26. T. Spijkerboer, Gender and Refugee Status, Routledge, Londra, 2000, p. 171.

27. Per un compendio sulle linee guida adottate dagli Stati, si rinvia a Center for Gender and Refugee Studies, Review of Gender, Child, and LGBTI Asylum Guidelines and Case Law in Foreign Jurisdictions: A Resource for U.S. Attorneys, San Francisco, 2014, (www.amnesty.org/en/library/asset/POL33/004/2006/en/b1ed18d8-d40a-11dd-8743- d305bea2b2c7/pol330042006en.htm). Di seguito, i documenti rilevanti dell’UNHCR (consultabili in rete sul sito dell’Agenzia): Guidelines on the Protection of Refugee Women, luglio 1991; UNHCR’s Commitments to Refugee Women, 12 dicembre 2001; Guidelines on International Protection: Gender-related persecution within the context of Article 1A(2) of the 1951 Convention and/or its 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, HCR/GIP/02/01, 7 maggio 2002; Handbook for the Protection of Women and Girls, 6 marzo 2008; Position Paper on Violence against Women and Girls in The European Union and Persons of Concern to UNHCR, marzo 2014; UNHCR’s views on Gender-Based Asylum Claims and Defining “Particular Social Group” to Encompass Gender, UNHCR Asylum Lawyers Project, novembre 2016.

28. La procedura per il riconoscimento della protezione internazionale è disciplinata dalla direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013 – cui è stata data attuazione nell’ordinamento italiano con il d.lgs 18 agosto 2015, n. 142 – che, come rilevato nel primo considerando, apporta una serie di modifiche sostanziali alla dir. 2005/85/CE del 1° dicembre 2005, attuata nell’ordinamento interno con il d.lgs 28 gennaio 2008, n. 25 (per come modificato da: d.lgs 3 ottobre 2008, n. 159; l. 24 luglio 2008, n. 125; l. 15 luglio 2009, n. 94; d.lgs 1° settembre 2011, n. 150; d.lgs 4 marzo 2014, n. 24; d.lgs 18 agosto 2015, n. 142; l. 13 aprile 2017, n. 46; l. 1° dicembre 2018, n. 132).

29. UNHCR, Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951 e del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, Ginevra, settembre 1979 (www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2020/07/Manuale-procedure-e-criteri-determinazione-status-rifugiato-compresso.pdf). 

30. UNHCR, Guidelines on the Protection of Refugee Women, Ginevra, 1991 (www.unhcr.org/publications/legal/3d4f915e4/guidelines-protection-refugee-women.html), nelle quali si rinvengono prime direttive in tema di procedure, da adeguare alle specifiche necessità di protezione delle donne sin dal momento della fuga, al fine di ampliare l’effettivo accesso delle donne al procedimento di valutazione delle richieste di protezione internazionale, ma anche per prevenire violazioni secondarie che le richiedenti asilo possono subire nei Paesi di transito e destinazione.

31. UNHCR, Sexual Violence Against Refugees: Guidelines on Prevention and Response, Ginevra, 1995 (www.unhcr.org/publications/operations/3b9cc26c4/sexual-violence-against-refugees-guidelines-prevention-response-unhcr.html).

32. UNHCR, Linee guida sulla protezione internazionale n. 1. La persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, Ginevra, 7 maggio 2002, HCR/GIP/02/01 (www.refworld.org/cgi-bin/texis/vtx/rwmain/opendocpdf.pdf?reldoc=y&docid=5513ca474). 

33. H. Crawley, Refugees and Gender, op. cit.; J. Freedman, Gendering, op. cit.

34. J.C. Hathaway, The Law of Refugee Status, Butterworths, Toronto (CA-ON), 1991, pp. 104-105.

35. Costituirebbero «persecuzione», ad esempio, le misure discriminatorie che conducono a conseguenze di natura sostanzialmente pregiudiziale per la persona interessata, come gravi restrizioni del diritto al sostentamento, del diritto di praticare la propria religione o dell’accesso a strutture educative. Vds. il Manuale dell’UNHCR, par. 54.

36. UNHCR, L’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral. Linee Guida per le Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, testo a cura di F. Nicodemi, 2017 – cfr., anche per il successivo aggiornamento (2020): www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2021/01/Factsheet-tratta-UNHCR.pdf.

37. H. Crawley, Refugees and Gender, op. cit., p. 63.

38. J.C. Hathaway, The Law of Refugee Status, op. cit.; H. Crawley, Refugees and Gender, op. cit., p. 37; J. Freedman, Gendering, op. cit., p. 45.

39. L’obbligo di assicurare un sistema adeguato di contrasto alla violenza di genere deriva, secondo la Corte, dagli artt. 2, 3, 6, 8 e 14 Cedu, che sono stati considerati violati dalla Corte ove l’ordinamento di volta in volta vagliato non avesse assicurato indagini adeguate, misure cautelari specifiche ed efficaci, una partecipazione effettiva al procedimento penale (si vedano, in proposito, le seguenti sentenze: M.T. et S.T. c. Slovacchia, 2012; Kowal c. Polonia, 2012; Kalucza c. Ungheria, 2012; V.C. c. Slovacchia, 2011; Hajduova c. Slovacchia, 2010; A. c. Croazia, 2010; E.S. e a. c. Slovacchia; Opuz c. Turchia, 2009; Branko Tomašić e a. c. Croazia, 2009; Bevacqua e S. c. Bulgaria, 2008; Kontrova c. Slovacchia, 2007; M.C. c. Bulgaria, 2004).

40. L’approfondimento dei motivi di riconoscimento dello status di rifugiata e delle problematiche di valutazione delle domande delle donne richiedenti asilo è condotto attraverso casi di donne che si sono rivolte all’Associazione “Differenza Donna”, ong che sin dal 2009 ha strutturato e progressivamente attuato una strategia di supporto e un’azione di advocacy specifiche finalizzate al pieno riconoscimento dello statuto giuridico di «rifugiata» alle donne che lasciano il loro Paese per persecuzioni e discriminazioni di genere.

41. H. Crawley, Gender, persecution and the concept of politics in the asylum determination process, in Forced Migration Review, n. 9/2000, pp. 17-20; A. Edwards, Transitioning Gender, op. cit.; J. Freedman, Gendering, op. cit., p. 45.

42. A. Edwards, Transitioning Gender, op. cit., p. 27.

43. H. Crawley, Gender, persecution, op. cit.

44. Così all’art. 8, comma 1, lett. d, d.lgs n. 251/2007.

45. I. Lieberman, Women and Girls Facing Gender-Based Violence and Asylum Jurisprudence, in Human Rights Magazine (American Bar Association), 1° luglio 2002. Si segnala, tuttavia, l’interpretazione del gruppo sociale di appartenenza in senso sempre più inclusivo delle esperienze di persecuzione di genere delle donne: in particolare, si definisce un gruppo sociale in riferimento «a una caratteristica immutabile o fondamentale che i singoli membri del gruppo non hanno potere di cambiare o che è così fondamentale per la loro identità o coscienza che non dovrebbe essere richiesto loro di essere cambiato» (Acosta, U.S. Board of Immigration Appeals, El Salvador/USA, 1° marzo 1985); i membri del gruppo sociale «intendono la loro affiliazione al gruppo, così come tutti gli altri soggetti all’interno di una data società» e il danno subito è di per sé un attributo sociale importante (RA, U.S. Board of Immigration Appeals, Guatemala/USA, 19 gennaio 2001); in assenza di altre caratteristiche del gruppo, il genere può essere l’elemento centrale della definizione del gruppo sociale (Kasinga, U.S. Board of Immigration Appeals, Togo/USA, 13 giugno 1993).

46. Commissione territoriale per la protezione internazionale di Caserta, 12 novembre 2014.

47. J.C. Hathaway, «Gender specific claims to refugee status and membership in a specificial social group» (conferenza), Convention Refugee Determination Division, Toronto, 1990.

48. H. Crawley, Refugees and Gender, op. cit., p. 35. Vds., altresì, Comitato CEDAW, 2014, § 30.

49. H. Crawley, Refugees and Gender, op. cit., p. 107.

50. Ivi, p. 108.

51. Ibid.

52. Trib. Milano, ord. 12 dicembre 2017; Trib. Bologna, ord. 14 settembre 2017, status di rifugiata per appartenenze a un particolare gruppo sociale; Trib. Bologna, ord. 3 marzo 2017, protezione sussidiaria – la costrizione a un matrimonio non voluto costituisce grave violazione della dignità e, dunque, trattamento degradante che integra un danno grave.

53. Codice penale giordano, art. 340.

54. b. hooks, Feminism Is for Everybody. Passionate Politics, South End Press, Cambridge (MA), 2000, p. 62.

55. R. Connell, Questioni di genere, Il Mulino, Bologna, 2009.

56. T. De Leornardis, Le istituzioni, Carocci, Roma, 2001.

57. T. Pitch, Qualche riflessione attorno alla violenza maschile contro le donne, in Id. (a cura di), Studi sulla questione criminale, n. 2/2008, Carocci, Roma, pp. 7-13.

58. Consiglio d’Europa e UNHCR, Refugee women and the Istanbul Convention, cit.

59. La decisione riguarda il caso di una donna nigeriana, fuggita per sottrarsi alle gravi ritorsioni subite dopo la morte del marito, per aver rifiutato il matrimonio con il cognato così come imposto dalle pratiche funebri tradizionali locali: in conseguenza di tale rifiuto, la donna era stata allontanata dalla sua abitazione, era stata allontanata dai suoi figli, spogliata delle sue proprietà e perseguitata dal fratello del marito deceduto.

60. UNHCR, Action against Sexual and Gender-Based Violence: An Updated Strategy, giugno 2011 (www.unhcr.org/protection/women/4e1d5aba9/unhcr-action-against-sexual-gender-based-violence-updated-strategy.html); UNHCR-Italia, Strategia sulla violenza sessuale e di genere 2017-2019, 2016.

61. Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Report of the Secretary-General on the protection of civilians in armed conflict, Doc.S/2005/740, 2005 (www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/2005/740).

62. Per “arma di guerra” si intende infatti ogni modalità, strumento o dispositivo usato in attacco o in difesa in un combattimento, battaglia o guerra e impiegato come parte di una campagna sistematica con finalità strategico-militari. Così I. Skjelsbæck, Sexual Violence and War: Mapping a Complex Relationship, in European Journal Of International Relations, vol. 7, n. 2, pp. 211-237. Sul tema, vds. anche S. La Rocca (a cura di), Stupri di guerra e violenza di genere, Ediesse, Roma, 2015.

63. Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Conflict Related Sexual Violence. Report of the Secretary General, S/2015/203, 23 marzo 2015 (www.refworld.org/docid/5536100a4.htm).

64. T. Pitch, Un diritto per due, Il Saggiatore, Milano, 1998, p. 149.

65. La violenza sessuale nei confronti degli uomini durante le guerre si è registrata ripetutamente nella storia, ma rimane largamente invisibile, sebbene altrettanto indicibile nella sua brutalità. Gli studiosi hanno esplorato la relazione tra genere, corpi delle donne e violenza sessuale come arma di guerra contro le donne, ma non vi è stata una simile e rigorosa considerazione del rapporto tra generi, corpi maschili e violenza sessuale come arma di guerra contro gli uomini. Vds., sul tema, V.K. Vojdik, Sexual Violence Against Men And Women In War: A Masculinities Approach, in Nevada Law Journal, vol. 14, n. 3/2014, pp. 923-952. In un recente rapporto a cura dell’organizzazione International Federation for Human Rights (FIDH), è stato segnalato il sistematico ricorso alla violenza sessuale come «strumento politico» contro la società civile, indifferentemente sia uomini sia donne, compresi i minori di età, da parte delle autorità di pubblica sicurezza egiziane (FIDH, 2015). Non si può tacere, infine, delle violenze sessuali documentate ai danni dei migranti e delle migranti provenienti dall’Africa subsahariana e detenuti in Libia in condizioni disumane. Vds., da ultimo, Oxfam, You aren’t human any more. Migrants expose the harrowing situation in Libya and the impact of European policies, 9 agosto 2016 (www.oxfam.org.uk/media-centre/press-releases/2017/08/migrants-tell-of-torture-sexual-violence-and-slavery-in-libya).

66. Si segnala l’inaccessibilità di misure a tutela della salute sessuale e riproduttiva, compreso l’accesso all’aborto, spesso precluso anche alle donne richiedenti asilo provenienti dalla Libia e approdate sul territorio italiano e notoriamente in stato di gravidanza, a seguito degli stupri subiti durante la prigionia libica – cfr. C. Quagliariello, L’isola dove non si nasce. Lampedusa tra esperienze procreative, genere e migrazioni, Unicopli, Milano, 2021.

67. Onu, Statement on “International Day for the Elimination of Sexual Violence in Conflict Zones”, 19 giugno 2020. Il Consiglio di Sicurezza ha chiarito la stretta connessione tra violenza sessuale correlata a situazioni di conflitto e tratta di esseri umani nella risoluzione n. 2331/2016, nella quale ha indicato agli Stati azioni specifiche di prevenzione e di repressione dei due fenomeni, nonché misure di protezione e supporto per le vittime (www.undocs.org/S/RES/2331%20(2016)). 

68. UNHCR - ASGI - SPRAR, La tutela dei richiedenti asilo. Manuale giuridico per l’operatore, 2016, p. 10 (www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2020/07/1UNHCR_manuale_operatore.pdf).

69. Trib. Catania, ord. 26 aprile 2017 (RG. 9275/2012); Trib. Genova, ord. 6 dicembre 2017 (RG. 10172/2017).

70. A. Januwalla, Human Rights Law and Abortion in El Salvador, in Health and Human Rights Journal, 26 agosto 2016 (www.hhrjournal.org/2016/08/human-rights-law-and-abortion-in-el-salvador/). 

71. Amnesty International, Report 2017/18 - El Salvador, 22 febbraio 2018 (www.refworld.org/docid/5a99390f4.html). 

72. Si menziona, tra i vari casi di controllo delle nascite, la politica del figlio unico in Cina, che ha avuto gravi conseguenze sulle donne, costrette ad abortire per sottrarsi alle sanzioni derivanti dalla violazione, subendo peraltro anche la pratica degli aborti selettivi in caso di prima figlia femmina, e oggi ancora esposte alle conseguenze dei regolamenti di pianificazione familiare malgrado, con una dichiarazione del 2015, il Partito comunista abbia dichiarato la fine della politica del figlio unico. Le donne, infatti, in caso di parto di figlio successivo al primo, avvenuto prima del 2015, sono costrette a pagare multe molto onerose, pari anche a tre volte il reddito familiare annuo, a seguito delle quali possono procedere a richiedere il certificato di residenza per i neonati. Non potendo pagare le somme richieste, molti bambini e ora giovani non sono registrati e quindi, in quanto invisibili, non possono ricevere i servizi pubblici, dall’istruzione alla sanità. Tra le pratiche di controllo delle nascite, si registrano inoltre i casi di sterilizzazione forzata nei confronti di donne appartenenti a minoranze etniche oppure nei confronti di donne con disabilità.

73. UNHCR, Too Much Pain. Mutilation and Asylum In The European Union. A Statistical Overview, 2013 (www.unhcr.org/protection/women/531880249/pain-female-genital-mutilation-asylum-european-union-statistical-overview.html).

74. A. Middelburg e A. Balta, Female Genital Mutilation/Cutting as a Ground for Asylum in Europe, in International Journal of Refugee Law, vol. 28, n. 3/2016, pp. 416-452.

75. Tra le varie, Corte appello Catania, sent. 27 novembre 2012, che riconosce lo status di rifugiata a una donna nigeriana fuggita dal Paese di origine per sottrarsi alle mutilazioni genitali femminili per ragioni di appartenenza a un determinato gruppo sociale, ma anche per motivi di opinione politica e religione.

76. Trib. Roma, decreto 13 giugno 2018, n. 8443.

77. Per «tratta di esseri umani» si intende «il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell’autorità su queste persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento» – art. 3 direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime (che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI), considerando n. 3 (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32011L0036&from=IT).

78. Ibid

79. Eurostat (Commissione europea), Trafficking in human beings, working paper, aprile 2013 (https://ec.europa.eu/eurostat/documents/3888793/5856833/KS-RA-13-005-EN.PDF.pdf/a6ba08bb-c80d-47d9-a043-ce538f71fa65?t=1414780383000); per database aggiornati, cfr. www.ctdatacollaborative.org/.

80. Si consenta il rinvio a I. Boiano e C.L. Cecchini, Le frontiere del diritto: gli artt. 18 e 18 bis TU 286/98 in una prospettiva di genere e femminista, in M. Giovannetti e N. Zorzella (a cura di), Ius migrandi. Trent’anni di politiche e legislazione sull’immigrazione in Italia, Franco Angeli, Milano, 2020, p. 662. 

81. E. Rigo, Donne attraverso il Mediterraneo. Una prospettiva di genere sulla protezione internazionale, in Notizie di Politeia, n. 124, 2016, pp. 82-94. 

82. C. Smart, Feminism and the Power of Law, Routledge, Londra, 1989.

83. M. Albertson Fineman, The Vulnerable Subject: Anchoring Equality in the Human Condition, in Yale Journal of Law and Feminism, vol. 20, n. 1/2008 (file:///C:/Users/avvst/Downloads/SSRN-id1131407.pdf).