Magistratura democratica

L’insostenibile “inadeguatezza” del contrasto giudiziario alla violenza di genere

di Maria Monteleone

Perché in molti casi non si riesce a proteggere le donne che denunciano di essere vittime di situazioni di abuso e di violenza? Il contributo cerca di rispondere a questa domanda, anche alla luce dell’importante esperienza della Commissione di inchiesta sul femminicidio, conclusasi nel settembre 2022, e di cogliere – con un realismo più che mai consapevole di tutte le implicazioni non solo tecnico-giuridiche, ma anche sociali e politiche del contrasto giudiziario alla violenza di genere – le ragioni sistemiche e culturali per le quali, in tanti casi di femminicidio preceduti dalla denuncia della vittima, si evidenziano ancora omissioni, ritardi e mancanza di specializzazione, tanto nell’azione dei magistrati quanto in quella delle forze di polizia.

1. Introduzione / 2. La realtà giudiziaria italiana / 3. Le indicazioni della Commissione d’inchiesta sul femminicidio / 4. Le indicazioni del Consiglio superiore della magistratura / 5. Il monitoraggio sull’Italia della Corte europea dei diritti umani

 

1. Introduzione

È ormai nota ai più la complessità che caratterizza i fenomeni criminali implicati nella violenza di genere e nella violenza domestica, e non meno avvertita è la necessità che le istituzioni pongano in essere strumenti di contrasto idonei e tempestivi, predisponendo strategie che favoriscano un approccio multidisciplinare, adeguato alle dimensioni, alle articolazioni e alle drammatiche ripercussioni delle vicende che si devono affrontare. 

Questi rilievi iniziali preludono subito a un’amara constatazione: si deve, infatti, registrare che, a differenza di altri settori di rilevanza penale, la minaccia di pene – pur severe – è talvolta, nei casi che ci occupano, priva di efficacia special-preventiva, considerando che circa un terzo degli autori di femminicidio si determina al suicidio subito dopo la consumazione del delitto[1]

La repressione conserva, tuttavia, un rilievo indiscusso, purché sollecita e adeguatamente protettiva nei riguardi delle vittime; tali obiettivi, all’un tempo sanzionatori e di tutela, si possono realizzare solo a condizione che siano presenti, in modo capillare sul territorio, strutture investigative e giudiziarie ben organizzate, principalmente dotate di professionisti formati e specializzati.

 

2. La realtà giudiziaria italiana 

L’osservazione schietta della realtà giudiziaria nel nostro Paese ci consegna un’immagine non del tutto nitida e confortante. E invero, si rilevano in materia diffuse, persistenti difficoltà a conformarsi a questi principi, a dotarsi di standard qualitativi idonei e generalizzati, al punto che, al ricorrere di un caso di femminicidio preceduto da una denuncia, a prescindere da ogni accertamento dei fatti si prospettano – specie ad opera dei media –, nell’azione dei magistrati e delle forze di polizia, omissioni, ritardi, se non trascuratezza e mancanza di specializzazione[2].

Pur senza soverchie illusioni sul carattere risolutivo delle azioni prettamente repressive, e nella consapevolezza che la violenza di genere e quella domestica non potranno certamente essere “sconfitte” soltanto nelle aule di giustizia, è indubbio che la giustizia rivesta un ruolo centrale, in termini di responsabilità e di dovere di intervento, ed è dunque indispensabile che i magistrati siano posti nelle condizioni di operare al meglio. Prendiamo atto, al riguardo, delle ripetute condanne promananti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[3], nonché della recente opinione della CEDAW[4] – la prima adottata su richiesta di una cittadina italiana – nella quale si afferma che «le donne incontrano molte difficoltà nell’accesso alla giustizia a causa della discriminazione diretta e indiretta (…) la disuguaglianza si manifesta (…) anche nella mancanza di capacità e consapevolezza delle istituzioni giudiziarie (…) di affrontare adeguatamente le violazioni dei diritti umani delle donne». 

Le considerazioni che precedono investono direttamente il tema della specializzazione dei magistrati – inquirenti e giudici – i quali, non potendo ignorare le specificità di questa materia, devono contemperare sapientemente dette “tipicità” con le regole del processo, assicurando al massimo grado possibile la protezione delle vittime e dando, dunque, contenuto concreto ed effettivo al monito dei giudici della Corte Edu, espresso con le seguenti parole: «nelle cause in materia di violenza domestica, i diritti dell’aggressore non possono prevalere sui diritti alla vita e all’integrità fisica e psichica delle vittime (…) il passare del tempo intacca inevitabilmente la quantità e la qualità delle prove disponibili e, inoltre, l’apparenza di una mancanza di diligenza porta a dubitare della buona fede con cui vengono condotte le indagini e fa perdurare lo stato di prostrazione cui sono sottoposti i denuncianti»[5].

Come accennato, per rendere generalizzata l’applicazione dei principi in menzione, occorrono misure straordinarie in molti settori, che contribuiscano a imprimere un’inversione di tendenza alla radicata cultura della diseguaglianza tra i generi, nonché interventi e strategie complessive, riguardanti e comprendenti tutti gli attori della “rete” di contrasto, poiché ciascuno deve poter fare la sua parte, pur rimanendo fondamentale e prioritaria quella che spetta alla magistratura. 

 

3. Le indicazioni della Commissione d’inchiesta sul femminicidio 

In argomento, importanti elementi di valutazione e spunti di riflessione possono trarsi dalle relazioni conclusive sulle indagini svolte da due importanti istituzioni: il Senato della Repubblica, attraverso la Commissione di inchiesta sul femminicidio[6], nonché su ogni forma di violenza di genere, e il Consiglio superiore della magistratura[7], rappresentative e sintomatiche della qualità dell’azione giudiziaria, soprattutto con riguardo alla specializzazione dei magistrati e all’organizzazione degli uffici giudiziari. 

Nell’indagine svolta dalla Commissione di inchiesta sul femminicidio, riassunta e trasfusa nel «Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria»[8], l’attenzione si è focalizzata sulla verifica della consapevolezza della complessità della materia e della specificità dei reati tipici, nonché su quanto questa presa di coscienza si sia tradotta in modelli organizzativi idonei a garantire competenza e tempestività nella trattazione dei procedimenti, ed anche in merito alla formazione e alla specializzazione dei principali protagonisti dell’attività di contrasto: i magistrati, gli avvocati e i consulenti tecnici (nello specifico: gli psicologi)[9].

In ordine all’attività investigativa e all’organizzazione delle procure, l’esito dell’inchiesta ha rappresentato una situazione molto variegata tra i diversi uffici, evidenziando che non vi è sufficiente consapevolezza della peculiarità dei fenomeni in trattazione, mancando spesso la capacità di rendere “strutturali” le buone prassi sperimentate in alcuni uffici[10]

Siffatte conclusioni trovano ragione in diverse evidenze: sul piano dell’analisi dei dati, si consideri che nel 62% delle procure la materia è equiparata alle altre nella distribuzione dei carichi di lavoro tra i magistrati, determinando inevitabilmente scarsa adeguatezza ed efficienza della risposta giudiziaria, ossia la non tempestività degli interventi, un aggravio e uno sbilanciamento nel carico di lavoro a svantaggio dei sostituti procuratori specializzati, con il rischio concreto di una loro disaffezione nei confronti della materia e di un disincentivo a trattarla.

Nello stesso tempo, è emerso come un ampio numero di uffici necessiti di investimenti e di risorse – sia umane che in termini di mezzi – imprescindibili per consentire il raggiungimento dei migliori standard operativi; nondimeno, come detto, occorre che le più avanzate modalità operative, sperimentate dagli uffici di procura più “virtuosi”, non restino un loro patrimonio esclusivo, ma diventino strutturali e condivise.

È parsa, altresì, evidente – tanto da farne oggetto di segnalazione al Csm – la non compatibilità delle pratiche correntemente implementate con le disposizioni della Convenzione di Istanbul, che richiedono la specializzazione di tutti gli operatori – segnatamente, dei pubblici ministeri e dei giudici – e delle vigenti disposizioni[11], a tenore delle quali è fatto divieto ai magistrati di svolgere le medesime funzioni specializzate per più di dieci anni.

Reputandoli qualificanti del grado di specializzazione dell’attività giudiziaria, sono stati “attenzionati” alcuni parametri, quali: la cooperazione inter-istituzionale[12], con specifico riguardo alle competenze interne alla giustizia civile, penale e minorile, al fine di verificare se e quanto la violenza nelle relazioni familiari emerga nelle cause civili, quanto sia conosciuta, quanta importanza assuma nell’attività istruttoria e quale rilievo abbia nelle decisioni dei giudici[13]

L’indagine ha evidenziato una sostanziale invisibilità e una sottovalutazione della violenza di genere e domestica nelle cause civili; si valuti che, nel 95% dei tribunali civili, non vengono quantificati i casi di violenza domestica emersi nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio. La lettura del dato si accompagna alla costatazione di una sostanziale sottovalutazione della materia, resa palese anche dalle criticità rilevate nello svolgimento delle ctu, che riguardano l’oggetto dell’incarico, le modalità di scelta dei professionisti, soprattutto per ciò che attiene al profilo di una professionalità “mirata”, in relazione alla mancata verifica di una formazione forense e di una specializzazione nella violenza domestica.

Ulteriori criticità si sono riscontrate anche con riferimento al profilo dei rapporti tra procedimenti penale, civile e minorile, e all’attuazione del disposto di cui all’art. 64-bis disp. att. cpp sulla trasmissione obbligatoria di provvedimenti al giudice civile, poiché, sebbene siano state attivate per tale via forme di collegamento, l’ostacolo principale alla sua effettiva realizzazione è costituito dalla mancata attuazione di collegamenti informatici e telematici. Limitato anche il ruolo svolto nel settore dal pubblico ministero, atteso che, nei casi di violenza, non riceve quasi mai informativa ad opera del giudice civile e, peraltro, quando è informato, si attiva raramente, intervenendo nella causa civile in modo non sistematico. 

Analoghe considerazioni possono essere rassegnate in merito alla fase esecutiva della pena, nella quale si è riscontrata una scarsa attenzione all’esigenza di protezione delle vittime, attestata dal rilievo che in un quarto dei tribunali di sorveglianza, ai fini della concessione dei benefici ai condannati per i delitti di violenza di genere e domestica, non vengono mai acquisite notizie e informazioni dalle persone offese, indice chiaro, questo, di una insufficiente specializzazione e di una inopportuna sottovalutazione della specifica pericolosità sociale che caratterizza gli autori di tali reati, esposti a un elevato rischio di recidiva specifica.

Quanto al tema della formazione[14], l’offerta formativa è apparsa, nel suo complesso, piuttosto carente: le magistrate si sono dimostrate più interessate e più sensibili alla materia e più impegnate nella formazione, come risulta dalla loro maggiore partecipazione ai corsi di aggiornamento professionale[15].

Peraltro, il numero limitato di partecipanti tra i magistrati che esercitano funzioni giudicanti è apparso sintomatico di una insufficiente attenzione e specializzazione relativamente a tutti i gradi del processo, di modo che la Commissione auspica che la formazione costituisca un presupposto inderogabile per il magistrato delegato a trattare questa materia.

In un contesto così delineato, assumono particolare rilievo i ripetuti interventi ad opera del Csm[16], che non ha mancato di confermare «la valenza irrinunciabile della specializzazione degli uffici» – requirenti e giudicanti – che trattano i procedimenti relativi ai reati di violenza di genere. 

Chiare le indicazioni sul punto: ritenendo la specializzazione dei magistrati «un obiettivo con valenza conformativa dell’assetto organizzativo delle Procure», il Csm ha precisato che devono essere costituiti dipartimenti o gruppi specializzati presso le procure (in quelle che hanno in organico almeno un procuratore aggiunto) e che, in via subordinata, l’assegnazione dei procedimenti deve concentrarsi in un numero limitato di magistrati, se del caso adottando correttivi attraverso esoneri e/o riduzione delle assegnazioni di altri affari, laddove si rendesse necessario un riequilibrio dei ruoli per il maggiore aggravio derivante dalle attribuzioni specialistiche. Soltanto ove nessuna delle indicate proposte fosse praticabile, si richiede un’adeguata formazione dei magistrati, con la partecipazione ai corsi organizzati dalla Scuola superiore della magistratura, con iniziative interne all’ufficio, con riunioni periodiche e con l’adozione di specifici protocolli investigativi interni, se del caso previsti nel progetto organizzativo dell’ufficio. 

 

4. Le indicazioni del Consiglio superiore della magistratura

Ebbene, l’indagine svolta dal Csm[17] per verificare quanto dette indicazioni abbiano trovato effettiva attuazione, ha rivelato che, al 31 dicembre 2020, il 90% delle procure ha costituito un gruppo specializzato, emergendo, tuttavia, una rilevante disomogeneità con riguardo sia al numero di sostituti ad esso assegnati in uffici di analoghe dimensioni, sia alla perequazione dei carichi di lavoro; osservando che la costituzione e il congruo dimensionamento dei gruppi di lavoro avviene sulla base di criteri di organizzazione fondati su una valutazione dei flussi di lavoro e dello stato delle pendenze, nonché di un’analisi dettagliata ed esplicita della realtà criminale nel territorio di competenza, il Csm ha ritenuto che «debbano essere indagate le ragioni di tale disomogeneità».

Di non minore interesse anche altri aspetti che qualificano l’azione di contrasto dell’azione giudiziaria, tra i quali: la cd. “personalizzazione del fascicolo”, cioè l’opportunità che a sostenere l’accusa nel dibattimento, soprattutto dinanzi al giudice collegiale[18], sia lo stesso pubblico ministero che ha svolto le indagini; l’istituzione, presso le procure di maggiori dimensioni, del cd. “turno violenza” svolto in via esclusiva dai magistrati del gruppo specializzato; il corretto impiego della magistratura onoraria; la trattazione degli affari civili e il collegamento tra uffici requirenti, giudicanti e minorili. 

L’indagine ha evidenziato gravi ed evidenti criticità per ciò che attiene alla cd. personalizzazione del fascicolo: solo nel 55% degli uffici, per carenze di organico, il sostituto che ha seguito le indagini partecipa anche all’udienza preliminare e al dibattimento; le stesse ragioni impedirebbero il coordinamento tra tribunali e procure, per trovare soluzioni condivise e garantire al pm dell’indagine di seguire i processi nella fase di giudizio. 

Sia pure con i limiti propri di una rilevazione statistica che non ha riguardato il 100% degli uffici requirenti[19], l’indagine svolta ha evidenziato anche una notevole variabilità quanto al numero dei componenti dei gruppi specializzati, che non sempre risulta direttamente proporzionato al numero dei magistrati in organico nelle singole procure. 

Inoltre, l’assegnazione al gruppo specializzato è avvenuta sulla base di un’adesione volontaria nel 70% degli uffici a seguito di interpello, mentre nel 30% circa degli uffici è stato necessario ricorrere alla designazione d’ufficio, per costituire almeno parte del gruppo specializzato; lo stesso Csm sottolinea che «L’assenza di vocazioni è verosimilmente da ricondursi anche al maggior carico di lavoro del gruppo specializzato in rapporto a quello gravante sugli altri gruppi, con l’ulteriore effetto che una tale sperequazione indurrà gli appartenenti al gruppo ad una uscita anticipata dallo stesso, con il rischio di dispersione delle professionalità acquisite». 

Sintomatico del limitato grado di consapevolezza della specificità della materia è anche il tema della sperequazione dei carichi di lavoro. Si consideri che solo il 26% degli uffici di procura ha previsto misure di perequazione[20], essendo invece auspicabile una più decisiva ponderazione di questi procedimenti, caratterizzati anche dall’elevato numero di richieste di misure cautelari, di incidenti probatori, di richieste di intercettazioni telefoniche e ambientali, nonché della esigenza, per il pm assegnatario, di partecipare alle udienze gup e dibattimentali.

A tutto ciò si aggiunga il fatto che, in questo settore, la trattazione corretta della notitia criminis richiede una specializzata e tempestiva valutazione della sua fondatezza, impone interventi – altrettanto urgenti – a protezione della vittima, non potendo di conseguenza sfuggire come la concreta operatività delle strutture inquirenti sia condizionata dal costante incremento delle notizie di reato, che accentua la grave distorsione nel carico di lavoro assegnato a ciascun magistrato. Poiché queste condizioni incidono direttamente sulla qualità della risposta giudiziaria, anche esponendo i titolari di detti procedimenti a maggiori responsabilità, va considerata la inderogabile esigenza di interventi correttivi da parte dei dirigenti degli uffici, cui spetta il compito di conoscere la realtà giudiziaria nel suo costante evolversi e di adeguare tempestivamente i modelli organizzativi, per assicurare, nell’interesse stesso della giustizia, a tutti i magistrati una – almeno tendenziale – perequazione dei carichi di lavoro.

Il turno esterno-arrestati, definito “turno violenze”, riservato ai magistrati del gruppo specializzato, è garantito soltanto nel 10% delle procure[21], ed è anche rilevante sottolineare come, a specifica richiesta, le procure abbiano rimarcato che i magistrati assegnatari della materia specialistica, sebbene gravati da un maggior carico di lavoro, non hanno nei propri gruppi personale commisurato ai maggiori adempimenti e impegni richiesti, tanto che il 92% degli uffici ha risposto che la assegnazione è equivalente a quella degli altri. 

Altro tema di centrale importanza, che condiziona significativamente la qualità della risposta giudiziaria alla violenza di genere e domestica – soprattutto nei grandi Tribunali – attiene al ruolo che, di fatto, svolge la magistratura onoraria, in specie i vpo, il cui non corretto impiego favorisce distorsioni e criticità[22].

Già nella delibera del 2018, il Csm auspicava che la materia fosse riservata in via esclusiva ai magistrati togati e che, qualora le esigenze organizzative o il complessivo buon andamento dell’ufficio avessero «reso irrinunciabile» il ricorso al vpo, sarebbe stata necessaria un’adeguata formazione professionale[23]

Contrariamente a dette indicazioni, risulta generalizzato (pur se con diverse cautele organizzative) l’impiego nei dibattimenti monocratici dei vpo nella quasi totalità degli uffici e in assenza di specializzazione.

Più accentuate sono risultate le criticità nel settore giudicante, nel cui ambito si è registrata una scarsa specializzazione, del tutto assente negli uffici gip/gup di tutti i tribunali del Paese.

Riguardo alla fase del dibattimento, il Csm – nella citata delibera del 2018 –, nel sottolineare come la materia della violenza di genere richiedesse al giudice un sapere specialistico, aveva escluso la soluzione «di un’indifferenziata distribuzione degli affari a tutti i giudici», indicando la specializzazione quale criterio necessario e derogabile solo in presenza di «particolari e comprovate esigenze organizzative», da esplicitare nelle tabelle assunte da ciascun ufficio. 

Dal monitoraggio effettuato emerge che la specializzazione ha trovato attuazione solo nel 24% degli uffici (tra i quali circa 1/3 di uffici di dimensioni medio-grandi) e che le ragioni di tale insufficiente attuazione sono ricondotte alla carenza della pianta organica ovvero dell’organico effettivamente presente o, ancora, alla notevole frequenza del ricambio dei giudici, ricorrenze ritenute ostacoli insuperabili. 

Ma vi è anche chi afferma che la specializzazione condurrebbe a un sostanziale rallentamento della risposta della giustizia nella materia, e che la distribuzione degli affari tra tutti i (pochi) giudici in organico assicura comunque la più rapida definizione degli stessi e il contestuale rispetto dell’art. 132-bis disp. att. cpp, disposizione che, come è noto, richiede la priorità nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, quando l’imputazione ha riguardo a talune fattispecie incriminatrici espressione di violenza di genere e domestica (maltrattamenti contro familiari e conviventi, atti persecutori, violenza sessuale e altre fattispecie affini).

In ogni caso, quando attuata, la specializzazione del giudice non è stata accompagnata dal monitoraggio e dalla rilevazione del peso dei procedimenti speciali[24], al fine di assicurare un’equa ripartizione dei carichi di lavoro[25].

Un dato di significativo rilievo riguarda poi tutti gli uffici gip/gup, i quali hanno precisato che non sono presenti – né previste – forme di specializzazione nel settore, con la creazione di “gruppi” dedicati esclusivamente a tale materia, ovvero anche associata eventualmente ad altre. 

Le ragioni sono state individuate, per gli uffici con meno di 15 unità, al ridotto numero di magistrati in servizio e, per quelli di maggiori dimensioni, alla circostanza che gli affari sono assegnati mediante sistema ASPEN, che garantisce un’equa ripartizione degli affari tra i giudici (ivi compresi i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica), rendendo necessaria l’eventuale introduzione di un ulteriore “canestro” specifico per la materia specializzata, una modifica dell’applicativo che assicuri l’equilibrio complessivo delle assegnazioni. 

Preso atto di questa situazione, ribadita l’autonomia dei singoli dirigenti, cui competono le valutazioni circa la sostenibilità in concreto delle scelte organizzative, il Csm ha formulato il criterio di indirizzo generale del necessario svolgimento, nelle sezioni gip/gup, di frequenti riunioni periodiche e tematiche per favorire l’approfondimento e il costante confronto sulle modalità di gestione dei procedimenti[26]

Non dissimile la situazione nei successivi gradi di giudizio, dal momento che la specializzazione dei sostituti procuratori generali presso le corti di appello è assicurata solo in 5 uffici, e ciò avviene mediante la concentrazione della materia su alcuni sostituti. Le ragioni di tale carenza sono state ricondotte alle ridotte dimensioni degli uffici[27] e all’assenza di corrispondente specializzazione delle sezioni giudicanti delle relative corti di appello. 

Soltanto in 9 corti di appello viene attuata la specializzazione dei consiglieri tramite l’assegnazione dei processi, e ciò per l’esistenza di una sola sezione penale, ovvero per l’eccessivo carico di lavoro che graverebbe sul collegio incaricato della trattazione della materia[28]

Conclusivamente, il Csm, nell’auspicare misure multisettoriali nel contrasto alla violenza di genere e domestica, ha sottolineato l’esigenza di concentrare l’analisi sul profilo della specializzazione, con specifico riferimento agli uffici di primo grado, in quanto chiamati a intervenire nell’immediatezza dei fatti, spesso con urgenza e in ogni caso con priorità. Ha, tuttavia, rilevato la significativa percentuale di scopertura degli organici[29], con notevoli picchi negli uffici che presentano il più elevato tasso di turn over, evidenziando come essa condizioni la specializzazione, soprattutto in una materia in cui appare essenziale garantire per la tutela della persona offesa una «adeguata giustizia di prossimità». 

Nello stesso tempo – e ciò rappresenta un elemento molto significativo –, il Csm ha sottolineato che il dirigente dell’ufficio è chiamato a scelte organizzative che assicurino anche il rispetto della tempistica dettata dalla normativa primaria, osservando che le esigenze di specializzazione debbono essere coniugate con l’evoluzione legislativa nella materia della violenza di genere, che ha imposto scelte organizzative mirate a fronteggiare nell’immediatezza l’urgenza tipica della materia, a fronte di un elevatissimo numero di notizie di reato e di organici scoperti (oltre che di ridotte dimensioni).

In altri termini, la specializzazione è una misura organizzativa necessaria: nella sua concreta attuazione, i dirigenti degli uffici hanno un ruolo primario, ma è altresì evidente che, per la sua piena attuazione, gli organici devono essere correttamente dimensionati e tendenzialmente coperti[30].

Non vi sono dati che consentano di verificare se e quanto i dirigenti degli uffici giudiziari abbiano condiviso dette indicazioni, conformando l’organizzazione degli uffici ai principi espressi e, quindi, se la situazione negli uffici si sia evoluta nel senso auspicato.

Deve prendersi atto che la perequazione dei carichi di lavoro, principio cardine in una organizzazione giudiziaria corretta ed efficiente, non ha costituito un ostacolo all’istituzione di gruppi specializzati di magistrati nelle procure, avendo invece rappresentato un impedimento per i corrispondenti uffici gip, sebbene sia incontestabile la necessità della specializzazione di tutti i magistrati, soprattutto di quelli che hanno funzioni inquirenti e connesse e contestuali competenze di giudice nelle indagini preliminari.

 

5. Il monitoraggio sull’Italia della Corte europea dei diritti umani

L’ulteriore riflessione da fare è che la risoluzione delle maggiori criticità rilevate non è rinviabile, anche perché, come già rilevato, nel frattempo i giudici della Corte Edu[31] hanno condannato più volte il nostro Paese non solo per l’intempestività dell’azione giudiziaria e la mancata protezione delle vittime, ma anche con riguardo ad affermazioni contenute in alcune decisioni dei giudici italiani. 

Nella citata sentenza della Corte Edu J.L. c. Italia, del 27 maggio 2021 (vds. supra, nota 3), i giudici di Strasburgo si sono espressi in termini inequivoci, affermando che «è essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, di minimizzare la violenza di genere e di esporre le donne a una vittimizzazione secondaria utilizzando affermazioni colpevolizzanti e moralizzatrici atte a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia». 

La Corte, altresì, evidenzia di «non comprendere come la condizione familiare della ricorrente, le sue relazioni sentimentali, i suoi orientamenti sessuali o ancora le sue scelte di abbigliamento nonché l’oggetto delle sue attività artistiche e culturali potevano essere pertinenti per la valutazione della credibilità dell’interessata e della responsabilità penale degli imputati. Ritenendole, quindi, non giustificate dalla necessità di garantire i diritti della difesa degli imputati».

Ancora più incisivo il rilevo secondo cui «vi è l’obbligo anche per i giudici di proteggere la vittima anche non divulgando informazioni e dati personali senza rapporto con i fatti (…) la facoltà per i giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni, che è una manifestazione del potere discrezionale dei magistrati e del principio dell’indipendenza della giustizia, è limitata dall’obbligo di proteggere l’immagine e la vita privata dei singoli da ogni violazione ingiustificata».

Sul medesimo versante argomentativo, di non minore rilievo la menzionata opinione del Comitato CEDAW dell’Onu, del 20 giugno 2022[32], che si è espresso per la prima volta censurando una decisione dei giudici italiani, ivi compresi quelli della Corte di cassazione, poiché su richiesta dei difensori di una donna italiana, vittima di violenza sessuale in un processo che ha visto l’imputato condannato in primo grado e assolto in appello con conferma della pronuncia di assoluzione in sede di legittimità, dopo avere affermato che «le donne dovrebbero poter contare su un sistema giudiziario libero da miti e stereotipi e su una magistratura la cui imparzialità non sia compromessa da questi presupposti di parte», sottolineano che «l’eliminazione degli stereotipi giudiziari nel sistema giudiziario è un passo cruciale per assicurare uguaglianza e giustizia per le vittime e i sopravvissuti»[33].

È dunque tempo di intervenire, perché non è sufficiente l’impegno costante, quotidiano, troppo spesso sottovalutato, di tanti magistrati. Piuttosto, il sistema giudiziario deve essere adeguato non solo nell’impianto normativo, ma nella sua concreta operatività, compito che spetta ai responsabili delle istituzioni competenti. Sotto questo aspetto, di fondamentale importanza è che le donne che subiscono violenza possano confidare nel fatto che il responsabile verrà perseguito e che la loro protezione sarà tempestiva ed efficace[34]: invero, come hanno più volte ribadito i giudici europei, «ciò è fondamentale per mantenere la fiducia e il sostegno dei cittadini nello Stato di diritto e per prevenire qualsiasi apparenza di tolleranza o di collusione delle autorità rispetto agli atti di violenza»[35]

 

 

1. Il dato è contenuto nella Relazione redatta dalla «Commissione parlamentare di inchiesta del Senato sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere», La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018, approvata il 18 novembre 2021, p. 23 (www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/366054.pdf).

2. In argomento, cfr. la Relazione cit. nella nota 1, in particolare il capitolo II, che riporta un’analisi statistica dei femminicidi avvenuti nel biennio 2017-2018, e i capitoli III e IV, in ordine alla risposta – rispettivamente – della polizia giudiziaria (p. 46) e dell’autorità giudiziaria (p. 64).

3. Al riguardo, si vedano le seguenti decisioni: Talpis c. Italia, n. 41237/14, 2 marzo 2017; J.L. c. Italia, n. 5671/16, 27 maggio 2021; Landi c. Italia, n. 10929/19, 7 aprile 2022; De Giorgi c. Italia, n. 23735/19, 16 giugno 2022.

4. Opinione adottata il 20 giugno 2022 dal «Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne» dell’ONU (CEDAW), comunicazione n. 148/2019, nella quale è parte l’Italia su richiesta di una cittadina italiana, vittima di violenza sessuale ad opera di un appartenente alle forze dell’ordine, assolto in secondo grado con sentenza confermata dalla Corte di cassazione.

5. Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, caso Talpis c. Italia (vds. supra, nota 3). 

6. Per una visione completa dell’attività svolta dalla Commissione di inchiesta si rinvia alla Relazione finale sull’attività della commissione, approvata nella seduta del 6 settembre 2022 (relatrice: Sen. Valente – www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=18&id=1360285&part=doc_dc).

7. Entrambe le indagini sono temporalmente riferite alla situazione esistente in periodi precedenti al 31 dicembre 2020. 

8. Il Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria è stato approvato, all’unanimità, dalla Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio nella seduta del 17 giugno 2021 (www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1300287.pdf). 

9. L’indagine è stata svolta sulla base di specifici questionari, elaborati e appositamente redatti dalle consulenti della Commissione, e ha riguardato le procure e i tribunali ordinari, i tribunali di sorveglianza, il Consiglio superiore della magistratura, la Scuola superiore della magistratura, il Consiglio nazionale forense e gli Ordini degli psicologi.

10. La rilevazione della Commissione di inchiesta ha registrato un tasso di risposta molto alto, pari al 98,6% (138 procure su 140) e ha riguardato il triennio 2016-2018, quindi poco prima dell’entrata in vigore della l. n. 69/2019 (cd. “Codice rosso”). Tuttavia, un’analoga indagine svolta successivamente dal Csm non ha fatto emergere decisive variazioni in senso positivo.

11. Cfr. il citato Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria (vds. supra, nota 8). La Commissione di inchiesta afferma (pag. 12) che «è decisivo interrogarsi sulla compatibilità con le disposizioni della Convenzione di Istanbul, che richiedono la specializzazione di tutti gli operatori – quindi anche dei magistrati – delle vigenti disposizioni, secondo le quali (fatta eccezione solo per gli uffici di più ridotte dimensioni) è fatto divieto ai magistrati, anche a chi ricopre le funzioni di pubblico ministero, di rimanere in servizio nel medesimo gruppo di lavoro – quindi anche quello specializzato nella violenza di genere e domestica – per più di dieci anni» (ivi, p. 12) – vds. art. 19, comma 2-bis, d.lgs 5 aprile 2006, n. 160 (ordinamento giudiziario) e reg. Csm del 13 marzo 2008. 

12. La Convenzione incoraggia i legislatori a inserire tale materia nella formazione, al dichiarato fine di consentire una gestione globale e adeguata degli orientamenti da seguire nei casi di violenza, ed è anche posto a carico degli Stati (art. 18) l’obbligo di garantire «adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri, le autorità incaricate dell’applicazione della legge».

13. Si segnala anche l’indagine svolta dalla Commissione di inchiesta di cui alla Relazione su La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale, approvata dalla Commissione nella seduta del 20 aprile 2022 (www.senato.it/leg/18/BGT/Testi/Allegati/00000366.pdf), redatta sulla base di un’inchiesta finalizzata a individuare la portata del fenomeno cd. di “vittimizzazione secondaria” in danno di donne e minori vittime di violenza, ritenendo che non si può reprimere la violenza domestica nei procedimenti penali e ignorarne gli effetti nei procedimenti che riguardano l’affidamento dei figli o la responsabilità genitoriale.
L’indagine ha avuto come oggetto lo studio di 1.411 procedimenti giudiziari, iscritti a ruolo nell’anno 2017, relativi sia a giudizi civili di separazione giudiziale con domande di affidamento di figli minori, sia a giudizi minorili sulla responsabilità genitoriale. Sono stati esaminati gli atti processuali dei procedimenti civili di un campione dei tribunali ordinari e dei tribunali minorili. La ricerca ha avuto il fine di verificare attraverso un’analisi di carattere statistico – pertanto, con criteri oggettivi – sia l’incidenza dei procedimenti con presenza di indicatori di violenza rispetto al numero complessivo dei procedimenti iscritti, sia gli accertamenti in concreto compiuti dai giudici e i provvedimenti adottati in presenza di allegazioni di violenza.

14. Si precisa che l’indagine della Commissione ha riguardato anche gli avvocati e gli psicologi, e che gli esiti non sono stati dissimili per quanto attiene al tema della specializzazione. Infatti, quanto ai primi, si sono registrate una sostanziale carenza di offerta formativa in materia, alla quale, peraltro, sono risultate più attente le avvocate (l’80% dei partecipanti), in maggioranza civiliste, ma anche iniziative di singoli ordini, meritevoli di sostegno e valorizzazione, che possono imprimere una svolta culturale, a cominciare dai percorsi di studio e universitari. Non dissimili le criticità per gli psicologi, con riguardo sia alla formazione che alla costituzione di gruppi di lavoro, mirati sull’attività di consulenza giuridico-forense nell’ambito della violenza di genere e domestica; si è registrata, infatti, una generalizzata sottovalutazione circa la necessità che gli psicologi che svolgono attività di consulenza e peritale nel processo, sia civile che penale, possiedano anche una formazione di tipo specialistico forense e competenze adeguate, qualora operino nella materia della violenza di genere e domestica.

15. I dati acquisiti dall’indagine della Commissione indicano che, nel triennio analizzato, le donne hanno costituito il 67% dei partecipanti, a fronte di una proporzione di donne in magistratura pari al 52%.

16. Il Csm è intervenuto ripetutamente nella materia, in particolare con le delibere dell’8 luglio 2009, del 30 luglio 2010, del 12 marzo 2014 e del 20 luglio 2017, nelle quali, in particolare, ha sollecitato la specializzazione dei magistrati operanti nel settore, ha sostenuto l’opportunità di garantire una risposta immediata ed efficace da parte dell’autorità giudiziaria, nonché la necessità di promuovere e condividere l’utilizzo di prassi virtuose. Più di recente, si registrano la delibera del 09 maggio 2018 – recante linee guida in tema di modelli organizzativi e di buone prassi – e, successivamente, la determinazione del 3 novembre 2021, rubricata Risultati del monitoraggio sull’applicazione delle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica (www.csm.it/documents/21768/87316/risoluzione+monitoraggio+violenza+di+genere+%28delibera+3+novembre+2021%29/f54b046d-85d5-33d0-6675-b5f46be51993).

17. Con delibera del 4 dicembre 2019, il Csm ha costituito un gruppo di lavoro composto da magistrati rappresentativi di tutte le aree geografiche del Paese e delle varie tipologie di uffici giudiziari, con esperienza maturata in materia, quale componente di sezioni specializzate, di gruppi di lavoro o di collaborazione a progetti di portata nazionale, al fine di «verificare la concreta applicazione delle Linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica (delibera del 9/5/2018) negli uffici di merito e le conseguenti ricadute in termini di efficienza ed effettività del servizio giustizia nel settore». 

18. Al riguardo, si è opportunamente sottolineato che tale scelta è da ritenersi una notevole risorsa, sia sotto il profilo qualitativo del lavoro sia sotto il profilo di economia processuale, essendo evidente che il pm che ha svolto le indagini potrà non solo sostenere al meglio l’accusa in dibattimento, ma anche gestire l’udienza preliminare, favorendo fondatamente l’accesso ai riti alternativi. Inoltre, lo studio di un processo da parte di chi lo già conosce, richiede minor tempo e fatica, competenza che si riflette favorevolmente anche sull’andamento del dibattimento. 

19. Hanno risposto al questionario: tra gli uffici di primo grado, 116 procure (su 140) e 119 tribunali (su 140); tra gli uffici di secondo grado, 18 procure generali (su 26) e 24 corti d’appello (su 26).

20. Al riguardo, sono state indicate molteplici soluzioni organizzative riconducibili ai seguenti criteri: verifiche periodiche (semestrali o annuali) dei ruoli dei singoli sostituti dell’ufficio con la loro perequazione per riequilibrare i carichi di lavoro; assegnazione al gruppo specializzato sulle violenze di genere di un numero di magistrati superiore a quello degli altri gruppi; diversa regolamentazione delle assegnazioni dei fascicoli cosiddetti “generici”, in modo da compensare l’afflusso di tutte le materie specialistiche; esonero totale dei sostituti del gruppo specializzato dalle assegnazioni dei reati a distribuzione diffusa o a rapida definizione, o da altri turni. 

21. Il “turno violenze” risulta istituito in soli 12 uffici requirenti, di dimensioni molto diverse tra di loro. 

22. La rilevanza del tema appare evidente, sol che si consideri come, nei tribunali di maggiori dimensioni, un numero elevatissimo di processi riguardi delitti che sono l’espressione tipica della violenza di genere e domestica, quali maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, lesioni volontarie, minacce, inosservanza di provvedimenti riguardanti l’affido dei minori, violazione degli obblighi di assistenza familiare. Questi si svolgono davanti al tribunale monocratico e, tendenzialmente, la funzione di pm è delegata a vpo non formati né specializzati. 

23. Nella delibera si precisava che detta specializzazione si sarebbe dovuta attuare anche attraverso la creazione di un gruppo di vpo specializzati, operante in affiancamento ai pubblici ministeri, la partecipazione alle attività di aggiornamento, l’assicurazione di un costante raccordo tra il magistrato onorario delegato per il dibattimento e il titolare del procedimento. 

24. Tra gli uffici che hanno risposto positivamente, la ponderazione prodromica alla perequazione è avvenuta, nella stragrande maggioranza dei casi, mediante interventi sull’applicativo informatico “Giada” o “Giada 2”. Solo in pochissimi uffici la ponderazione avviene mediante attribuzione di punteggi al singolo processo, secondo criteri predeterminati, o comunque mediante una valutazione espressa in percentuale.

25. Nella maggioranza dei casi sarebbe stata realizzata mediante interventi perequativi sul sistema “Giada”, ma non sono state indicate specificatamente le modalità di attuazione dell’esonero o del riequilibrio in favore dei giudici che trattano la materia.

26. In particolare, tra i temi specializzati da trattare, si richiamano le tecniche di svolgimento dell’incidente probatorio per l’assunzione anticipata delle dichiarazioni del minorenne ovvero della vittima maggiorenne in condizioni di particolare vulnerabilità.

27. Si tratta, per lo più, di uffici con organico di non grandi dimensioni. Basti pensare che solo una procura generale, sulle 11 che hanno risposto di non riuscire a garantire la specializzazione, presenta in organico più di 15 sostituti procuratori generali. 

28. Anche in questo caso è emersa la difficoltà di attuare la specializzazione con gli attuali sistemi di assegnazione automatica dei processi, sottolineando come i programmi applicativi disponibili non consentano di effettuare in sede di assegnazione una ulteriore valutazione della tipologia dei reati trattati. 

29. Stimata negli uffici di merito al 13,7%, alla data del 31 agosto 2021.

30. Nella citata determinazione del Csm del 2021, si precisa al riguardo che l’analisi è stata compiuta sull’organizzazione degli uffici come risultante dalle tabelle e dai progetti organizzativi per il triennio 2017/2019, essendo in atto – al momento dello svolgimento del monitoraggio – i procedimenti per la formazione delle tabelle e dei progetti organizzativi per il triennio 2020/2022. 

31. Ci si riferisce, in particolare, alle sentenze citate nella nota 3.

32. Vds. la già citata opinione adottata il 20 giugno 2022 dal CEDAW (comunicazione n. 148/2019 – vds. supra, nota 4).

33. Il Comitato ha affermato che «il trattamento riservato all’autrice prima dalla Corte d’appello, e aggravato a livello di Corte Suprema, non è riuscito a garantire l’uguaglianza di fatto tra l’autrice in quanto vittima di violenza di genere, e nasconde una chiara mancanza di comprensione dei costrutti di genere della violenza contro le donne, del concetto di controllo coercitivo, delle implicazioni e delle complessità dell’abuso di autorità, compreso l’uso e l’abuso di fiducia, dell’impatto dell’esposizione a traumi consecutivi, dei complessi sintomi post-traumatici, tra cui la dissociazione e la perdita di memoria, e delle specifiche vulnerabilità e necessità delle vittime di abusi domestici».

34. Al riguardo, cfr. la Relazione cit. nella nota 1. In particolare, si rileva un dato molto significativo desunto dall’esame degli atti processuali di uccisioni di donne qualificate come “femminicidi” (uccisione di donne a opera di uomini per ragioni di genere), avvenute nel nostro Paese nel biennio 2017-2018, e cioè che soltanto il 15% delle vittime (29 su 196) aveva presentato una denuncia, in quanto l’85% non si era mai rivolto alle forze dell’ordine o alla magistratura, e che solo il 35% (69 su 196) ne aveva parlato con una persona vicina, segno quest’ultimo che «le donne vivono in totale solitudine la violenza». 

35. Nella sentenza De Giorgi c. Italia, del 16 giugno 2022 (vds. supra, nota 3), si legge che «l’obbligo dello Stato di indagare non si può considerare soddisfatto se i meccanismi di protezione previsti nel diritto interno esistono soltanto in teoria: è soprattutto necessario che essi funzionino effettivamente nella pratica, il che presuppone un esame della causa sollecito e senza inutili ritardi ([…] Talpis c. Italia, n. 41237/14, §§ 106 e 129, 2 marzo 2017). Il principio di effettività implica che le autorità giudiziarie interne non devono in nessun caso essere disposte a lasciare impunite le sofferenze fisiche o psicologiche inflitte» (punto 81).