Magistratura democratica

La riforma della giustizia penale e la variabile referendum

di Nello Rossi

1. Il taglio prescelto per analizzare la riforma / 2. La variabile referendum / 3. Le incognite sulla giustizia penale / 4. Nessun tempestivo contrasto a gravi crimini commessi “in guanti bianchi”? L’impatto sulla riforma / 5. Rinunciare a una efficace frontiera di legalità delle elezioni? / 6. Separazione delle funzioni: il referendum più “difettoso” / 7. «È la politica, bellezza. E il diritto non può farci niente»

 

1. Il taglio prescelto per analizzare la riforma

Con la pubblicazione di questo numero della Trimestrale, l’ultimo del 2021 , viene onorato l’impegno assunto dalla Rivista di gettare in profondità lo scandaglio sulla legge delega di riforma della giustizia penale. 

Il lettore attento non mancherà di cogliere il particolare taglio che si è voluto imprimere a questa non lieve fatica. 

Il lavoro è stato principalmente imperniato sui “soggetti”, cioè sulle diverse figure professionali – pubblici ministeri e giudici delle indagini, dell’udienza preliminare, del dibattimento, della sorveglianza – la cui attività viene incisa e modificata dalle nuove norme. 

Scelta, questa, che è parsa congeniale a una rivista promossa e in larga parte scritta da magistrati, nella quale l’analisi di regole e procedure è intimamente connessa alla valutazione del loro impatto sul modus operandi dei professionisti della giurisdizione. 

Così, dopo l’ampia Introduzione di Andrea Natale, si susseguono saggi sugli snodi essenziali dell’intervento riformatore e sui profili soggettivi toccati dalle modifiche del codice di rito: le riflessioni sulla nuova penalità di Riccardo De Vito, Marco Bouchard e Fabio Fiorentin; gli interventi sull’obbligatorietà dell’azione penale e sui criteri di priorità di Giampiero Buonomo, Fabio Di Vizio, Saulle Panizza, Nello Rossi e Armando Spataro; i contributi centrati sulle figure del pubblico ministero (Gaetano Ruta), del giudice delle indagini preliminari (Linda D’Ancona), del giudice dell’udienza preliminare (Giuseppe Battarino ed Ezia Maccora), del giudice del dibattimento (Andrea Natale e Rosanna Ianniello), del giudice dell’appello (Giovanna Ichino). 

A completare il quadro stanno due scritti: il primo, di Aniello Nappi, analizza l’inedita disciplina dell’improcedibilità, mentre il secondo, di Benedetta Galgani, illustra le ragioni – e le speranze – del processo penale in ambiente digitale. 

Naturalmente, nonostante l’ampiezza e la ricchezza del volume che presentiamo ai lettori, ci si trova ancora alla metà del guado. 

Occorrerà infatti attendere, per commentarli, i decreti legislativi delegati che, dopo il passaggio alle Commissioni parlamentari, delineeranno la compiuta fisionomia dell’ambiziosa e per più aspetti problematica riforma. 

Di qui un nuovo appuntamento con i lettori all’esito della procedura di attuazione della delega. 

L’esauriente Introduzione del volume – firmata , come si è ricordato, da Andrea Natale, che ha anche coordinato l’intera opera di redazione del numero della Trimestrale – esime chi scrive da ulteriori richiami alle finalità perseguite, ai temi esplorati, al metodo adottato. 

Piuttosto, vale la pena di soffermarsi brevemente su di una “variabile” che in questo numero della Trimestrale non è stata né poteva essere contemplata. 

Parliamo della “variabile referendum”, in forza della quale la riforma della giustizia penale potrebbe giungere a compimento ed essere attuata in un ambiente istituzionale almeno in parte mutato per effetto di una risposta affermativa ad alcuni dei quesiti referendari sulla giustizia.

 

2. La variabile referendum

La discussione “in pubblico” che ha preceduto e seguito i giudizi di ammissibilità dei referendum stimola tanto riflessioni generali sull’evoluzione dell’istituto referendario quanto specifiche considerazioni sul suo impiego nell’ambito della giustizia penale. 

Sul primo tema – le trasformazioni del referendum – saranno necessari approfondimenti in un’ottica di sistema, in direzioni che qui possono essere solo accennate. 

In primo luogo, occorrerà comprendere la valenza e la portata del particolare favor verso questo istituto di democrazia diretta espresso dal presidente della Corte costituzionale. 

Un favor che, francamente, non può essere interpretato solo come il doveroso rispetto verso un istituto contemplato dalla Costituzione, se è vero che l’attuale presidente della Corte ha pubblicamente posto l’accento sull’opportunità di ammettere anche referendum connotati da “difetti” alla luce della tradizionale giurisprudenza della Corte sulla chiarezza e l’omogeneità dei quesiti. 

Un siffatto pregiudizio favorevole all’ammissibilità dei referendum, che peraltro intercetta un sentire diffuso nella più larga opinione pubblica, sembra destinato a imprimere un’accelerazione all’evoluzione, già in atto da tempo, dell’istituto. 

Originariamente concepito come strumento di abrogazione di norme ritenute inadeguate o superate dalla coscienza collettiva – ossia come un intervento chirurgico di precisione per rimuovere dal corpo normativo parti vetuste o neoformazioni indesiderate – il referendum è progressivamente divenuto un atto che, al di là della sua stretta portata abrogativa, esprime in positivo un indirizzo politico conforme alla volontà popolare. 

E oggi sembra ad un passo dal divenire la pura e semplice manifestazione di un desiderio politico, una sorta di messaggio alle istituzioni, in una logica che lo avvicina al referendum consultivo. 

Se poi si considerano le nuove regole sulla firma digitale delle proposte referendarie, che renderanno più agevole la procedura di presentazione dei quesiti, si intuisce come e quanto crescerà il peso della variabile referendum nella vita delle istituzioni repubblicane. 

E ciò tanto in situazioni di fisiologico funzionamento degli istituti di democrazia rappresentativa quanto nei loro momenti di crisi, allorquando, come oggi avviene, essi incontrano evidenti difficoltà a intervenire su temi cruciali della vita collettiva. 

 

3. Le incognite sulla giustizia penale

Dunque, nel prossimo futuro sarà indispensabile dedicare la massima attenzione ai processi evolutivi che stanno investendo i referendum e le altre forme di democrazia diretta, richiedendo a studiosi della politica e del diritto costituzionale di aiutarci a esplorare questo campo di problemi. 

Intanto, però, ci sono le urgenze del presente e le ipoteche sull’assetto della giurisdizione penale accese dai referendum ammessi dalla Corte. 

In caso di vittoria dei “SÌ” nelle consultazioni referendarie, il referendum sulle misure cautelari e quello sul testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e decadenze inciderebbero in profondità sulla giustizia penale e sulla sua recente riforma. 

Per altro verso, il referendum sulla separazione delle funzioni di giudici e pubblici ministeri mira a cristallizzare, sin dall’accesso in magistratura, le due figure professionali, precludendo ogni transito e irrigidendo i confini tra i due ruoli. 

L’avvio di una riflessione su questi tre referendum rappresenta dunque il naturale complemento del lavoro collettivo di studio svolto sulla “riforma Cartabia”. 

 

4. Nessun tempestivo contrasto a gravi crimini commessi “in guanti bianchi”? L’impatto sulla riforma 

Sulle peculiarità dei crimini dei white collars c’è un’ampia letteratura, che ha avuto il merito di rivelare anche alla più distratta opinione pubblica l’oggettiva gravità di questi reati e il loro effetto distorsivo e inquinante delle regole della vita economica, sociale e istituzionale. 

Nessuno, dunque, può oggi sottovalutare l’incidenza sulla collettività dei reati contro l’economia e contro la pubblica amministrazione o dei reati ambientali o informatici. Tutti reati di regola commessi con l’astuzia, la frode, il falso o altri artifici di qualsiasi natura, ma senza ricorrere alla violenza. 

E nessuno può ragionevolmente ignorare che l’attività di contrasto di queste forme di criminalità in guanti bianchi costituisce componente essenziale della difesa della convivenza nel contesto di società sofisticate e complesse. 

Eppure – si sarebbe tentati di dire: incredibilmente! – i cittadini italiani sono chiamati a votare un referendum abrogativo nel quale la posta in gioco è l’eliminazione della possibilità di adottare misure di custodia cautelare nei confronti di persone incriminate per gravi delitti tributari, economici, amministrativi, informatici, ambientali, e via dicendo (sino ad arrivare alle truffe ai danni degli anziani), motivandole con il concreto e attuale pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie[1].

In sostanza, se non vi sarà rischio di inquinamento delle prove (come avviene nei casi di ampie evidenze, ad esempio documentali, delle attività criminose compiute) e se non vi sarà un serio e attuale rischio di fuga dell’indagato (rischio divenuto sempre più improbabile in un mondo nel quale la latitanza è assai difficilmente sostenibile), il successo dei “SÌ” nella consultazione referendaria avrebbe l’effetto di precludere le misure di custodia cautelare al di fuori della sfera ristretta dei delitti di criminalità organizzata, di eversione o commessi con l’uso della violenza o di armi. 

Potrebbero tirare un sospiro di sollievo gli autori “seriali” dei gravi delitti prima elencati, ormai affrancati, con il suggello della volontà popolare, da efficaci e tempestive misure di tutela della collettività e in più casi sostanzialmente infrenabili. 

È questa la reale posta in gioco nel referendum concernente le misure cautelari, che non può essere offuscata da una campagna referendaria nella quale si discuta, a colpi di slogan e in termini vuoti e generici, di “eccessi della custodia cautelare” da impedire o moderare. 

Si tratta di una posta così alta che ha già provocato una spaccatura nello schieramento politico della destra, diviso tra chi sostiene il quesito referendario e chi dichiara che voterà “NO”. 

Né avrebbe senso, per sostenere il quesito abrogativo, invocare il rimedio di una maggiore celerità dei processi. 

Il nostro processo penale si articola, nella norma, in tre gradi di giudizio e dunque letteralmente “non può” approdare a una sentenza definitiva, da mettere in esecuzione, in tempi compatibili con l’esigenza di interrompere tempestivamente attività criminose in atto, insidiose e reiterabili. 

Si creerebbe perciò, inevitabilmente, una sorta di zona franca per il compimento di gravi delitti, dovuta alla prolungata paralisi di tempestive forme di salvaguardia degli interessi della collettività. 

Ed è sin troppo evidente l’impatto negativo che la “confortevole” normativa di risulta scaturente dal referendum avrebbe sulla riforma del processo penale, dissuadendo molti imputati dal ricorso alle alternative al processo o al dibattimento che rappresentano il cuore del disegno riformatore. 

In luogo dell’auspicata maggiore rapidità dei processi vi sarebbero più stimoli a ritardare, procrastinare, dilazionare, per imputati che si sentissero al riparo, fino a una sentenza definitiva, da provvedimenti cautelari incisivi e in grado di interrompere la ripetizione di condotte criminose di regola molto lucrose. 

 

5. Rinunciare a una efficace frontiera di legalità delle elezioni?

Anche il referendum che propone l’abrogazione delle norme sulle incandidabilità e sulle decadenze appare gravido di effetti squilibranti su di un sistema politico-istituzionale già in affanno e in crisi di credibilità agli occhi dei cittadini nonché sul giudiziario. 

Nel dibattito pubblico su tale quesito referendario si è posto l’accento “esclusivamente” sulla norma (l’art. 11 del testo unico) che disciplina la sospensione (anche a seguito di una condanna non definitiva per determinati reati) e la decadenza di diritto (a seguito di una condanna definitiva) degli amministratori locali in condizione di incandidabilità. 

Ma, per scelta dei proponenti, non è questa la sola norma di cui si propone l’abrogazione. 

Il bersaglio dell’iniziativa referendaria è, infatti, estremamente più ampio: l’intero testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità (il d.lgs 31 dicembre 2012, n. 235), che contiene le norme che precludono la partecipazione alle competizioni elettorali per il Parlamento europeo, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica nonché alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di mafiosi, terroristi, rei di fatti di corruzione e di altri gravi reati, che siano stati condannati in via definitiva[2].

Normativa elaborata dal Governo in attuazione di una delega legislativa e destinata a regolare le ipotesi di incandidabilità (di persone condannate con sentenze definitive per reati gravi o gravissimi) a “tutte” le cariche elettive decisive per il corretto funzionamento della democrazia e dell’amministrazione pubblica, e a introdurre un parallelo divieto (per coloro che sarebbero incandidabili alle elezioni) di assumere cariche nel governo nazionale. 

Il voto favorevole al quesito abrogativo implicherebbe la rinuncia a un efficace presidio di legalità nelle competizioni elettorali di ogni ordine e grado, che resterebbero aperte alle più disparate incursioni e, in contesti territoriali con forti presenze di criminalità organizzata, a indicibili candidature. 

Bisognerebbe inoltre cambiare il vocabolario, se è vero che la parola “candidato” trae origine dall’espressione latina “toga candida”, “senza macchia”, che nella Roma repubblicana era la veste indossata da chi concorreva a cariche pubbliche, a simboleggiare la purezza ed onestà della sua vita. 

È, poi, difficile concordare con quanti sostengono che, a seguito dell’eventuale abrogazione del testo unico, le norme sull’interdizione dai pubblici uffici sarebbero sufficienti a evitare l’inquinamento delle competizioni elettorali da presenze criminali. 

Il regime dell’interdizione – imperniato su forme di interdizione perpetua e temporanea – coprirebbe infatti un’aera sensibilmente più ridotta dell’attuale regime delle incandidabilità e decadenze, lasciando comunque sguarnito un ampio segmento del fronte oggi presidiato dalla normativa del testo unico. 

Alla luce di queste considerazioni, la scelta dei promotori del referendum (non a caso anch’essa divisiva per la destra italiana) appare l’espressione di una aprioristica sfiducia nel giudiziario e di una sostanziale indifferenza verso una preventiva frontiera di legalità in ambito politico-elettorale. 

 

6. Separazione delle funzioni: il referendum più “difettoso”

L’ammissione del referendum sulla separazione delle funzioni è, con ogni probabilità, il più diretto e voluto risultato della dichiarata apertura verso i referendum difettosi. 

È infatti estremamente difettoso il lunghissimo, complicato e astruso quesito referendario[3]

Quesito di ardua lettura anche per gli addetti ai lavori e, quel che più conta, privo dei caratteri di chiarezza, univocità e omogeneità che dovrebbero consentire una risposta, a sua volta chiara e netta, dei cittadini chiamati alle urne. 

L’infastidito ripudio delle “sottigliezze” nel giudizio di ammissibilità e la scelta di sorvolare sulle carenze del quesito rischiano di tradursi nella rinuncia a salvaguardare la comprensibilità e la linearità della domanda rivolta al popolo, che dovrebbe essere il tratto essenziale di ogni referendum

In queste condizioni, l’esito della consultazione sarà rimesso, più che al genuino giudizio dei cittadini (non importa se intuitivo e spontaneo o ponderato e meditato), ai rapporti di forza mediatica, ai messaggi e alle suggestioni della campagna referendaria. 

Naturale corollario dei difetti del quesito è, poi, il carattere difettosissimo della normativa di risulta, cioè della disciplina scaturente da una eventuale abrogazione di norme disparate disseminate in ben cinque leggi. 

Ma questa è materia esente dalle valutazioni di ammissibilità, e propria del confronto che si svilupperà nel Paese sul merito di un referendum con il quale si propone di tagliare i ponti, o meglio, le esigue passerelle che ancora permettono i passaggi di funzioni tra pubblici ministeri e giudici. 

Passerelle, è bene ribadirlo, già oggi assai poco utilizzate, dati i limiti e gli ostacoli normativi frapposti ai transiti. 

Come ha messo in evidenza Armando Spataro in uno dei suoi scritti sull’argomento[4], «mentre tra il ’93 ed il ’99 (…) la percentuale di giudici trasferitisi a domanda agli uffici del P.M. risultava sostanzialmente costante, oscillando tra un minimo del 6% ed un massimo dell’8,50% (…) e nel caso di trasferimenti in direzione opposta, le percentuali nello stesso periodo erano costanti, oscillando tra il 10% e il 17%», tali dati hanno subìto una drastica riduzione a seguito delle limitazioni introdotte dal d.lgs n. 160/2006, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007. 

E infatti sempre Spataro rileva che, «esaminando numeri e tipologia dei trasferimenti con contestuale cambio di funzioni (da requirenti a giudicanti e viceversa), forniti dal Consiglio Superiore della Magistratura, relativi a due periodi in sequenza (1° gennaio 2011 - 30 giugno 2016 e 30 giugno 2016 - 30 giugno 2019) (…) successivi al D. Lgs. 111/2007, si ricavano i seguenti dati:

Periodo 1° gennaio 2011 - 30 giugno 2016: 

trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti: 101 (con media annua di 18,36 unità);

• trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti: 78 (con media annua di 14,18 unità).

Pertanto, le percentuali annue dei magistrati trasferiti da una delle due funzioni all’altra, considerando il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2016 (requirenti: 2192; giudicanti: 6453), risultano le seguenti:

– REQUIRENTI: 0,83

– GIUDICANTI: 0,21.

Periodo 30 giugno 2016 - 30 giugno 2019:

• trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti: 80 (con media annua di 26,66 unità);

• trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti: 41 (con media annua di 13,66 unità).

Pertanto, le percentuali annue dei magistrati trasferiti da una delle due funzioni all’altra, considerando il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2019 (requirenti: 2270; giudicanti: 6754), risultano le seguenti:

– REQUIRENTI: 1,17

– GIUDICANTI: 0,20

E tali percentuali, in relazione ad entrambi i due periodi considerati (per un totale di otto anni e mezzo), sarebbero ancora più irrilevanti se le si rapportassero al numero più alto dei magistrati previsti in organico, anziché a quello dei magistrati effettivamente in servizio». 

A ciò si può aggiungere che i dati successivi al 2019 non fanno altro che confermare questi numeri e la linea di tendenza che essi individuano. 

In realtà, i passaggi stretti ancora esistenti assolvono una funzione assai utile sul piano strettamente professionale, consentendo, in particolare ai magistrati più giovani, di seguire, all’esito di una prima esperienza, la vocazione professionale ritenuta più aderente alla loro natura e cultura. 

Ed è questa la ragione per cui la proposta di riforma dell’ordinamento giudiziario del Ministro della giustizia non cancella del tutto, ma si limita a ridurre ulteriormente le possibilità di mutamento di funzioni nell’arco della vita professionale dei magistrati. 

Di contro, il referendum – che non investe il concorso di accesso alla magistratura destinato a rimanere comunque unico – trasformerebbe in statue di sale i vincitori, indotti a scegliere la prima e immutabile collocazione professionale non sulla base di una meditata valutazione della propria vocazione ma in ragione dei posti disponibili e delle più diverse contingenze. 

Una evenienza, questa, che non interessa affatto i promotori del referendum, ma che appare irrazionale ed incongrua al fine di un’adeguata gestione delle risorse professionali affluenti in magistratura. 

Nel che è da scorgere l’ennesima dimostrazione del fatto che il referendum abrogativo è utilizzato – e, sostanzialmente, strumentalizzato – non per produrre un miglior assetto istituzionale ma per inviare fumosi segnali di fumo in direzione della separazione delle carriere, anche a costo di disarticolare l’assetto professionale della magistratura. 

Ed è evidente che una separazione delle funzioni attuata in questi termini sarebbe un pessimo servigio anche per la causa della riforma della giustizia penale. 

Questi dati oggettivi rischiano di essere del tutto ignorati, o di passare in secondo piano, in una campagna referendaria che fosse dominata dal diverso tema della separazione delle carriere e dal relativo effetto-messaggio destinato a risultare preponderante rispetto al più limitato tema della consultazione. 

 

7. «È la politica, bellezza. E il diritto non può farci niente»

Bisognerà dunque rassegnarsi a parafrasare il celebre epilogo del film L’ultima minaccia, adattando per l’occasione le parole di Ed Hutcheson-Humphrey Bogart: «È la politica, bellezza. E il diritto non può farci niente»? 

Forse non è proprio così. 

C’è uno spazio, esiguo ma non irrilevante, per immettere nel confronto pubblico sui referendum elementi di realtà, di verità, di razionalità giuridica al fine di evitare che tutto finisca nel calderone della propaganda e degli schieramenti preconcetti. 

Ciò potrà avvenire a condizione che si riesca a tenere viva l’attenzione sul tenore e sugli effettivi contenuti dei quesiti, e a mantenere la campagna referendaria sul solido terreno dei fatti. 

Dal canto suo, la magistratura non può che muoversi su questo piano, che le è certamente più congeniale delle dichiarazioni vuote e dei triti luoghi comuni che saranno agitati in vista della consultazione referendaria. 

Marzo 2022

 

 

1. Questo il testo del quesito referendario di cui si discute: «Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni.”?». 
Come è noto, l’art. 274 del codice di rito elenca tre tipi di esigenze idonee a giustificare l’applicazione di misure cautelari: il pericolo di inquinamento delle prove, la fuga o il pericolo di fuga concreto e attuale e il pericolo di reiterazione di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata. A quest’ultimo elenco il codice aggiunge il pericolo di reiterazione di reati «della stessa specie di quello per cui si procede», aggiungendo: «Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni».  
Di queste ultime disposizioni i referendari sollecitano l’abrogazione.

2. Questo il testo del quesito referendario: «Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?».

3. Per la lettura del testo integrale del quesito, rinvio – anche per ragioni di spazio – al mio scritto Referendum sulla giustizia. È possibile parlarne nel “merito”?, in questa Rivista online, 9 giugno 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/referendum-sulla-giustizia-e-possibile-parlarne-nel-merito), nel quale sono passati in rassegna i sei quesiti referendari sulla giustizia, cinque dei quali sono stati ritenuti ammissibili dalla Corte costituzionale, con la sola eccezione del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. 

4. Cfr. A. Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati? Una riforma da evitare, intervento per il convegno sulla separazione delle carriere tenutosi a Sanremo l’1 e 2 luglio 2016, organizzato da Unione camere penali e dalla Camera penale di Imperia, poi pubblicato in La Pazienza, rassegna dell’Ordine degli avvocati di Torino, n. 3/2017 (settembre) – versione oggetto di un aggiornamento, al 30 giugno 2019, dei dati statistici relativi al trasferimento di magistrati dagli uffici requirenti a quelli giudicanti e viceversa.