Magistratura democratica

Riforma del processo penale e giudice per le indagini preliminari*

di Linda D’Ancona

Nel presente contributo si passano in rassegna le previsioni della legge delega sulla riforma del processo penale che interessano il giudice per le indagini preliminari. Si esaminano le previsioni della legge delega, scrutinandone la coerenza rispetto agli obiettivi di accelerazione ed efficienza perseguiti dal disegno riformatore, ponendo particolare attenzione alle modalità con cui potrà essere attuata la delega e soffermandosi sulle criticità che potrebbero determinarsi su snodi particolarmente delicati del procedimento (con particolare attenzione ai rimedi contro le stasi processuali e al sindacato sulla tempestività dell’iscrizione della notizia di reato).

1. Introduzione / 2. La durata delle indagini preliminari / 3. La stasi del procedimento e i suoi rimedi / 4. L’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato / 5. Il presupposto per l’archiviazione / 6. Conclusioni

 

1. Introduzione 

All’apparenza non sembrano molte le modifiche che dovranno essere introdotte alla fase delle indagini preliminari. La legge delega prevede alcuni “ritocchi” ai termini di durata massima delle indagini preliminari, ai presupposti per l’archiviazione, e alcune possibilità di intervento del giudice per le indagini preliminari per fronteggiare eventuali stasi del procedimento gestito dal pubblico ministero. 

Come spesso accade, l’apparenza può ingannare. Le novità incideranno sui termini per le indagini preliminari e sui presupposti per l’archiviazione, prevedendo meccanismi processuali in parte comprensibili, in parte non chiari nella loro attuazione concreta.

La riforma della fase delle indagini si propone di produrre un effetto deflattivo e, in senso ampio, di maggiore efficienza del sistema, senza intaccare il principio di obbligatorietà dell’azione penale. L’obiettivo di ottenere un filtro concreto nella fase delle indagini dovrebbe consentire di evitare che una mole di procedimenti passino alla fase del giudizio a causa di un’inadeguata prognosi circa il loro esito. Le nuove disposizioni processuali presupporranno maggiore impegno e attenzione da parte del pubblico ministero e del giudice per le indagini preliminari: sarà a loro affidata l’attuazione concreta del sistema delineato dal legislatore delegante. 

 

2. La durata delle indagini preliminari

Il comma 9, lett. c della legge delega fissa in modo stringente i nuovi termini di durata delle indagini preliminari: sei mesi dalla data di iscrizione del nominativo dell’indagato nel registro delle notizie di reato, per le contravvenzioni; un anno e sei mesi per i procedimenti di criminalità organizzata e per tutti gli altri delitti elencati nell’art. 407, comma 2, cpp; un anno per i procedimenti relativi a tutti gli altri delitti.

Considerata la formulazione letterale della disposizione in commento, non sembra che residui al legislatore delegato alcuno spazio di manovra rispetto ai termini massimi di durata delle indagini preliminari. Il testo dell’emanando decreto legislativo non potrà fare altro che recepire i termini indicati dalla legge delega: probabilmente si sono voluti fissare i periodi massimi di durata delle indagini preliminari in modo da non consentire equivoci, per poi introdurre il nuovo regime insieme alla restante disciplina. Probabilmente si è ritenuto che non avrebbe avuto senso introdurre la nuova disciplina dei termini delle indagini preliminari senza che entrassero in vigore le restanti modifiche; peraltro, l’indicazione anticipata dei nuovi termini per le indagini preliminari consente agli uffici di procura di iniziare a organizzarsi in vista dell’entrata in vigore delle modifiche. In tal senso, si può ravvisare una connessione tra i termini di durata delle indagini preliminari e la previsione, contenuta nella lett. i del comma 9, dei criteri di priorità da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica: la finalità di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza impone che si tengano presenti i termini di durata massima delle indagini preliminari in relazione a ciascuna tipologia di reato. 

Dal punto di vista concreto, la durata massima delle indagini preliminari si riduce soltanto per i procedimenti relativi a contravvenzioni, passando da diciotto mesi a un anno, come già evidenziato nella relazione conclusiva dei lavori della Commissione Lattanzi. Per i procedimenti relativi agli altri reati, il termine massimo rimane identico a quello attuale, con la differenza che si abolisce la richiesta di proroga alla scadenza dei sei mesi (o di un anno, per i reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a, cpp). Il pubblico ministero potrà dunque svolgere le indagini per un intero anno o diciotto mesi (per i procedimenti relativi a reati di criminalità organizzata e agli altri reati indicati nell’art. 407, comma 2, lett. a, cpp), senza dover dare comunicazione all’indagato dell’esistenza del procedimento; tuttavia, una volta scaduto il termine, l’unico motivo che potrà determinare una proroga dei termini sarà la complessità delle indagini. Rispetto all’attuale formulazione, verrà abrogato il primo comma dell’art. 406 cpp e verrà, probabilmente, modificato il secondo comma. Una sola possibilità di proroga, dunque, per «complessità delle indagini» laddove, attualmente, la prima proroga può essere concessa per «giusta causa» e la seconda per «particolare complessità delle indagini ovvero di oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine stabilito». Tenendo presente che, sul piano applicativo, tra «complessità» e «particolare complessità» delle indagini potrebbe non cogliersi la differenza, quel che sembra esclusa sarà la possibilità di prorogare le indagini per oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine. 

Al di là delle sfumature linguistiche, il legislatore delegante ha presumibilmente voluto esigere un controllo pregnante, da parte del giudice per le indagini preliminari, circa l’effettiva necessità di proseguire le indagini. Ciò significa, probabilmente, che per autorizzare la proroga il gip dovrà esaminare tutti gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero e verificare se ci sono concreti spazi per la prosecuzione delle indagini: sarebbe anche utile che il pm indicasse quali indagini deve ancora svolgere.

Sembra che il legislatore delegante abbia inteso limitare i casi di proroga delle indagini: a tale deduzione si giunge correlando la nuova disciplina dei termini delle indagini alla modifica dei presupposti per la richiesta di archiviazione: il comma 9, lett. a dell’art. 1 della legge delega prevede infatti la nuova regola di giudizio per l’archiviazione, individuata nella mancanza di elementi indiziari che consentano una ragionevole previsione di condanna (vds. infra). 

Il primo, importante, momento di valutazione e filtro sarà quindi collocato al termine delle indagini preliminari: questa sembra essere anche la ragione per cui, decorsi i termini per le indagini, il pubblico ministero sarà tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro un termine fissato in misura diversa, in base alla gravità del reato e alla complessità delle indagini preliminari, secondo quanto previsto dal comma 9, lett. e dell’art. 1 della legge delega. 

Il legislatore delegato ha previsto anche un meccanismo processuale volto a evitare che, decorso il termine di durata delle indagini preliminari, il pubblico ministero lasci decorrere inutilmente il termine stabilito senza esercitare l’azione penale né chiedere l’archiviazione. 

L’ipotesi in questione va inquadrata nell’ambito delle ulteriori novità introdotte dal legislatore delegato per garantire efficienza e ragionevole durata del procedimento.

 

3. La stasi del procedimento e i suoi rimedi

Il legislatore delegato ha previsto una serie di novità volte a scongiurare la stasi del procedimento nella fase delle indagini preliminari. Lo scopo è quello di garantire tempi certi e ragionevoli nella definizione del procedimento, assicurare efficienza al sistema e, nel contempo, perseguire l’intento deflattivo attraverso un controllo del giudice per le indagini preliminari sull’attività di indagine del pubblico ministero. L’obiettivo appare in linea con lo spirito della riforma; tuttavia la disciplina, definita soltanto nelle finalità, presenta aspetti critici di non poco momento.

La lett. g della legge delega impone l’introduzione di una disciplina che, «in ogni caso, rimedi alla stasi del procedimento mediante un intervento del giudice delle indagini preliminari». 

Analogamente, la lett. h stabilisce che si prevedano analoghi rimedi alla stasi del procedimento qualora, dopo la notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini, il pubblico ministero non assuma tempestivamente le determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale. 

Non sembra ipotizzabile una stasi del procedimento fino a quando non siano decorsi i termini delle indagini preliminari, e nemmeno qualora il pubblico ministero chieda e ottenga la proroga delle indagini: per “stasi” del procedimento deve intendersi, verosimilmente, la mancata assunzione di determinazioni da parte del pm qualora siano decorsi, con o senza proroga, i termini delle indagini preliminari e l’ulteriore «pausa di riflessione» di cui alla lett. e del comma 9 dell’art. 1, che corrisponde all’attuale formulazione dell’art. 407, comma 3-bis, cpp. 

La Commissione Lattanzi, nella relazione conclusiva, ipotizza una sorta di discovery automatica per fronteggiare l’inazione del pubblico ministero. Attualmente il rimedio all’inerzia del pm è costituito dall’avocazione delle indagini da parte del procuratore generale presso la corte di appello; l’intervento del giudice sarà concorrente con quello del procuratore generale? Posto che non vi è traccia di una delega per l’abrogazione dell’art. 412 cpp, occorrerà prevedere un coordinamento tra l’avocazione del procuratore generale e l’intervento del giudice per le indagini preliminari. Non è chiaro, poi, in quale modo si potrà realizzare la discovery automatica indicata dalla Commissione Lattanzi, a cui va riconosciuta la paternità della formulazione delle lett. g e h del comma 9 della legge delega. 

Conviene seguire l’ordine secondo cui sono enunciate le disposizioni di legge. 

Dopo la lettera e, che introduce un termine concesso al pm per determinarsi e variabile a seconda della tipologia dei reati, la lett. f stabilisce di predisporre idonei meccanismi procedurali volti a consentire alle parti private di prendere cognizione degli atti di indagine, qualora sia scaduto anche il termine concesso al pm per determinarsi, e tuttavia l’inquirente non abbia ancora deciso se esercitare l’azione penale. Sembra proprio che si introduca una sorta di discovery degli atti del procedimento, onde consentire all’indagato e alla parte offesa di avere contezza del compendio indiziario pur in presenza di un’inerzia del pubblico ministero. Verosimilmente, l’esigenza sottesa alla previsione normativa va ricollegata all’ampliamento delle garanzie difensive e alla finalità di speditezza del procedimento. Decorsi tutti i termini, la durata delle indagini preliminari non è più ragionevole, e occorre ideare un meccanismo che induca il pm a determinarsi: l’intenzione del legislatore non sembra essere quella di prevedere sanzioni a carico del pubblico ministero, tantomeno di natura disciplinare, poiché si è scelta la strada di prevedere strumenti acceleratori che operino nel processo, non al di fuori di esso. 

Orbene, tenuto conto che l’avviso di conclusione delle indagini prevede già la discovery degli atti di indagine, la previsione della lettera f si colloca nella fase successiva al decorso dei termini delle indagini e prima della notificazione dell’avviso della loro conclusione. In altre parole, la previsione della legge delega mira a rimediare all’inerzia del pm qualora, decorsi i termini delle indagini, non si decida a notificare l’avviso della conclusione previsto dall’art. 415-bis cpp. L’ipotesi può effettivamente verificarsi, e non è detto che ciò non sia successo in svariati casi. A questo punto l’unico modo per sollecitare il pm sembra essere il ricorso al gip: indagato e parte offesa potranno, probabilmente, depositare al giudice un’apposita istanza; il gip, verificate le condizioni prospettate dalle parti, ordinerà al pm la discovery, che a quel punto potrebbe concretarsi anche soltanto nella notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini, da cui consegue il deposito degli atti presso la segreteria dell’inquirente, e anche con accesso informatico sulla piattaforma apposita. 

Rimane da stabilire cosa accadrà nei procedimenti relativi a reati di criminalità organizzata e agli altri reati previsti dall’art. 407 cpp. Fermo restando che, ai sensi del comma 9, lett. f, una volta decorsi i più lunghi termini delle indagini per i reati di criminalità organizzata sussiste l’esigenza di ampliare il ventaglio delle garanzie difensive anche per tale tipologia di procedimenti, l’obbligo di tener conto delle esigenze di tutela del segreto investigativo può significare che il pubblico ministero sarà tenuto a depositare soltanto gli atti che penserà di utilizzare in caso di richiesta di rinvio a giudizio, mentre gli altri documenti, produttivi di eventuali ulteriori indagini in relazione ad altre ipotesi di reato, potranno non essere svelati. 

Nei procedimenti per reati di criminalità organizzata si porranno verosimilmente problemi relativi ai tempi di deposito dei brogliacci e delle registrazioni delle intercettazioni effettuate nel corso delle indagini, così come altre questioni sorgeranno probabilmente sull’utilizzo di intercettazioni non inserite negli atti messi a disposizione delle parti nella fase prevista dalla lett. f del comma 9. 

Con riferimento alla lett. g del comma 9, il rimedio alla stasi del procedimento affidato al gip dopo il deposito degli atti investigativi non sembra poter prescindere dalla fissazione di un’udienza camerale per garantire il contraddittorio tra le parti, ancorché nella forma semplificata prevista dall’art. 127 cpp. L’inerzia del pubblico ministero non sembra questione da poter risolvere soltanto tra inquirente e giudice.

L’ipotesi di cui alla lett. h del comma 9 sembra più agevole da configurare: dopo la notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini, l’indagato è informato dell’esistenza del procedimento, può accedere agli atti di indagine e può verificare i termini di durata delle indagini. In caso di inutile decorso di tutti i termini, ivi compresi quelli di riflessione dopo la chiusura delle indagini, l’indagato potrebbe avanzare un’istanza al giudice per le indagini preliminari, al fine di compulsare il pubblico ministero a formulare le sue richieste; a quel punto spetterà al giudice il compito di rimediare alla stasi, probabilmente fissando un’udienza camerale per la discussione circa le determinazioni sull’azione penale. Entro la data di udienza, il pubblico ministero dovrà far pervenire la sua opzione per l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Si tratta di un’ipotesi di attuazione della norma, che si fonda sul principio del contraddittorio tra le parti.

Tuttavia, la vera criticità circa la stasi del procedimento è riferibile al caso di pendenza di una richiesta di misura cautelare avanzata al gip, il quale, alla scadenza dei termini per le indagini, non abbia ancora emesso la relativa ordinanza[1]. Qui la stasi del procedimento è determinata dal ritardo del giudice, il quale non ha un termine per la decisione sulla richiesta di misura cautelare e non è prevista alcuna sanzione per il ritardo. Ad aggravare la situazione è il fatto che, verosimilmente, la richiesta di applicazione di misura cautelare è avanzata quando le indagini sono il più possibile complete ed è quindi decorso già parecchio tempo dall’iscrizione della notizia di reato, poiché altrimenti non risulterebbe sostanziato il requisito della gravità indiziaria. Si osserva che l’adozione della misura cautelare, se confermata all’esito della procedura di riesame, consente di accedere al giudizio immediato e favorisce la scelta di riti alternativi, con conseguente riduzione dei tempi del giudizio di primo grado. La scelta di prevedere un’ulteriore riduzione della pena di un sesto nel caso in cui l’imputato decida di non impugnare la sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato (comma 10, lett. b, n. 2) mostra l’intenzione del legislatore di assicurare un ampio ricorso alla scelta di tale rito.

In sostanza, manca un coordinamento tra il meccanismo ideato per compulsare il pm a determinarsi in ordine all’azione penale e la pendenza di richiesta di misura cautelare non ancora esitata dal gip. Attualmente, sembra che il procuratore generale non eserciti il potere di avocazione qualora penda una richiesta di misura cautelare, in quanto il ritardo del pubblico ministero titolare delle indagini è giustificato dall’attesa della decisione del giudice sulla cautela. Pertanto, sulla falsariga dell’orientamento del procuratore generale presso la corte di appello, si può ipotizzare che per «stasi del procedimento» si intenda soltanto l’inerzia del pubblico ministero, mentre il decorso del tempo determinato dalla pendenza della richiesta cautelare non rientri nella nozione di inerzia dell’organo inquirente e fuoriesca, quindi, dalle previsioni di cui all’art. 1, comma 9, lett. e e g.

Non si può non tenere conto del fatto che nei procedimenti relativi a fatti di criminalità organizzata le richieste di misure cautelari sono molte, molto complesse, e spesso richiedono un tempo non breve per la decisione del giudice; inoltre, una corretta decisione sulle richieste di misure cautelari non solo è doverosa, ma consente anche di velocizzare il processo nelle fasi successive, con effettiva riduzione dei tempi di durata dei processi. Pertanto, non sembra coerente provocare una strozzatura dei procedimenti, con obbligo di rispettare i tempi per l’esercizio dell’azione penale, nei casi in cui il pubblico ministero ritenga necessario il ricorso all’applicazione di misure cautelari.

In sintesi, la finalità di evitare la stasi del procedimento dovrà essere coordinata con l’attuale normativa in materia di misure cautelari personali e con il potere di avocazione assegnato al procuratore generale in caso di mancato esercizio dell’azione penale.

Invero, sebbene la misura cautelare costituisca tutela interinale al processo e anche se non sempre è necessario farvi ricorso, purtuttavia si deve tener conto della realtà: spesso in procedimenti complessi, specie in materia di reati di criminalità organizzata, la richiesta di applicazione di misure cautelari rappresenta la logica conseguenza di indagini complesse da cui emerge l’attualità delle condotte e l’intenso pericolo di reiterazione dei reati, sia associativi che di attuazione del programma criminoso. Di questo aspetto, che caratterizza larga parte del territorio, non può non tenersi conto, anche se apparentemente può sembrare patologica una stasi del procedimento principale determinata dalla lunghezza del tempo necessario a provvedere sulla richiesta cautelare. 

 

4. L’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato

L’obbligo di precisare i presupposti per l’iscrizione della notizia di reato e del nome dell’indagato nel registro di cui all’art. 335 cpp è previsto nell’art. 1, comma 9, lett. p della legge delega. Lo scopo è quello di soddisfare le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni ed era già emerso dalla relazione conclusiva della Commissione Lattanzi, che aveva anche indicato un parametro di origine giurisprudenziale per la successiva formulazione della norma di attuazione della delega. 

Le sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 16 del 2000, hanno affermato che occorrono specifici elementi indizianti e non meri sospetti a carico di un individuo per iscriverlo nel registro delle notizie di reato, e che al giudice non spetta il potere di sindacare le scelte del pubblico ministero in ordine al momento dell’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro, al fine di rideterminare il dies a quo dei termini di indagine e di dichiarare quindi l’inutilizzabilità degli atti compiuti oltre il termine così ricomputato. Tali principi risultano ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità, ed è per tale motivo che il legislatore delegante ha deciso di introdurre il potere di controllo del giudice per le indagini preliminari sulla tempestività dell’iscrizione della notizia di reato. 

Vediamo, in concreto, come le disposizioni della legge delega potranno essere tradotte in norme processuali. 

Non sembra molto complicato attribuire significato alla locuzione «specifici elementi indizianti e non meri sospetti»: escluse le denunce anonime e quelle che attribuiscono a un soggetto condotte non sussumibili in fattispecie criminose, può trattarsi anche di un solo elemento indiziante, purché proveniente da una fonte idonea a costituire indizio di colpevolezza. Sembra esclusa l’eventualità che nell’attuazione della delega si proceda a un’elencazione dei casi di fonti indizianti, e in ogni caso non potrebbe essere un’indicazione tassativa. 

Ciò posto, anche l’ipotesi prevista dalla lett. r del comma 9 non presenta particolari problemi attuativi: quando ravvisi specifici elementi indizianti, il giudice per le indagini preliminari potrà ordinare al pubblico ministero l’iscrizione della notizia di reato, sempre che l’inquirente non vi abbia già provveduto. Del resto, già allo stato attuale non è infrequente che il gip ravvisi elementi indizianti a carico di persona determinata e lo evidenzi in un proprio provvedimento. 

La vera criticità è rappresentata dalla previsione della lett. q del comma 9, non tanto dal punto di vista applicativo, quanto per il numero di casi in cui, prevedibilmente, si farà ricorso alla richiesta di accertamento della tempestività dell’iscrizione della notizia di reato. 

Il meccanismo potrebbe essere analogo a quello dell’opposizione alla richiesta di archiviazione: previsione di un termine di decadenza per la formulazione dell’istanza, che a pena di inammissibilità dovrà contenere le ragioni poste a fondamento della richiesta di retrodatazione; qualora l’istanza sia tempestiva e ammissibile, dovrà essere fissata l’udienza camerale, all’esito della quale il gip deciderà con ordinanza. Il termine per la richiesta di retrodatazione decorrerà dal primo momento in cui si concreta la discovery degli atti di indagine. Nel caso di palese inammissibilità, è possibile che il giudice provveda con decreto, senza dover fissare udienza camerale.

La competenza a decidere sull’istanza è attribuita unicamente al giudice per le indagini preliminari, ragion per cui è esclusa la possibilità di prevedere la riproposizione dell’istanza in fasi o gradi successivi. Si sarebbe potuta prevedere l’ipotesi del reclamo al tribunale in composizione monocratica nel caso in cui il gip provveda con decreto di inammissibilità, analogamente a quanto previsto dall’art. 410-bis del codice di rito. Tuttavia, tale previsione non è contenuta nella legge delega, così che il legislatore delegato non potrà affrontare la criticità evidenziata, a meno di non incorrere in un eccesso di delega.

L’esigenza indicata dal legislatore delegante appare quella di consentire l’esercizio di un controllo più penetrante sulle attività del pubblico ministero. Tuttavia, più ampio è lo spettro di controllo attribuito al gip, maggiore potrà essere la durata del procedimento. Per fronteggiare il rischio di un allungamento dei tempi dei procedimenti, occorrerà probabilmente ridistribuire le risorse negli uffici giudicanti di primo grado, ampliando le sezioni dei giudici per le indagini preliminari e dell’udienza preliminare, anche in vista delle modifiche alla disciplina dell’udienza preliminare e dei riti alternativi. 

 

5. Il presupposto per l’archiviazione

L’attuale formulazione dell’art. 125 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale prevede che il pubblico ministero richieda l’archiviazione quando gli elementi raccolti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Cambia, quindi, il punto di vista e con esso la regola di valutazione, per il pm e per il giudice: occorrerà infatti valutare se gli elementi indiziari raccolti saranno sufficienti non a sostenere l’accusa in giudizio, ma a consentire di giungere a una pronuncia di condanna.

Premesso che anche la lett. a del comma 9 fissa un preciso criterio a cui il legislatore delegato dovrà attenersi lasciando soltanto la scelta su quale norma processuale modificare (probabilmente l’art. 125 delle disposizioni di attuazione), l’intento deflattivo posto a fondamento della riforma dovrà essere in primo luogo metabolizzato dal pubblico ministero, per l’evidente ragione che, nel caso in cui l’ufficio di procura non ampli il ventaglio delle richieste di archiviazione, non si avrà una reale riduzione dei procedimenti pendenti. 

Con riferimento all’art. 125 delle disposizioni di attuazione al codice di rito, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 88/1991[2], ha affermato che il pubblico ministero deve effettuare una valutazione degli elementi acquisiti in chiave della loro attitudine a giustificare il rinvio a giudizio: la valutazione degli indizi è considerata funzionale alla sostenibilità dell’accusa, non alla condanna. La Corte ha così messo in luce il principio di “non superfluità del processo” così che finora non può disporsi l’archiviazione ogni volta che il procedimento merita il vaglio dibattimentale. La giurisprudenza di legittimità ha condiviso tale impostazione[3] e l’ha fatta propria, ritenendo che si imponga il vaglio dibattimentale ogni volta che l’accusa sia sostenibile e il giudizio sia quindi “utile”, anche se poi l’esito del dibattimento può essere di tipo assolutorio. 

Le nuove norme, che impongono al legislatore delegato di intervenire parallelamente e in ugual modo sul presupposto per l’archiviazione e sulla regola di giudizio per il proscioglimento, sono volte a superare il criterio della semplice utilità o non superfluità del processo, per consentire l’apertura della fase del giudizio solo nel caso di ragionevole previsione di condanna. Il mutamento dello scopo da perseguire è evidente: il procedimento può passare alla fase del giudizio soltanto quando vi è una ragionevole probabilità di condanna; in caso contrario, il processo è inutile.

In proposito, la Commissione Lattanzi ha ritenuto che, «alla luce dell’evoluzione della fase preliminare, vada superato il criterio dell’astratta utilità dell’accertamento dibattimentale; a seguito di indagini che – in linea con quanto richiesto dalla Corte costituzionale – devono risultare tendenzialmente complete (e possono avere una durata significativa), il pubblico ministero sarà chiamato a esercitare l’azione penale solo quando gli elementi raccolti risultino – sulla base di una sorta di “diagnosi prognostica” – tali da poter condurre alla condanna dell’imputato secondo la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tanto in un eventuale giudizio abbreviato, quanto nel dibattimento. Al contrario, laddove il quadro cognitivo si connoti per la mancanza di elementi capaci di sorreggere una pronuncia di condanna, il pubblico ministero dovrà optare per l’inazione. In tal modo viene valorizzata l’istanza di efficienza processuale propria dell’istituto dell’archiviazione, senza intaccare il canone dell’obbligatorietà dell’azione penale, che viene tutelato, per un verso, dal controllo del giudice sulla completezza delle indagini e, per l’altro, dalla possibilità di una loro riapertura». 

Valorizzare il connotato di efficienza processuale senza intaccare il canone dell’obbligatorietà dell’azione penale significa, in primo luogo, attribuire un significato sufficientemente chiaro e preciso alla locuzione «ragionevole probabilità di condanna». 

Si può ipotizzare che il legislatore delegante abbia tenuto presente il criterio elaborato dalla giurisprudenza per la valutazione circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ai fini dell’emissione delle misure cautelari: la valutazione degli indizi in termini di futura, qualificata probabilità di condanna costituisce condizione per applicare una misura restrittiva della libertà personale, e obbliga il giudice per le indagini preliminari a prospettarsi lo sviluppo processuale degli elementi raccolti, a considerare se gli indizi coprano tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice e a valutare se, al di là di fatti imprevedibili quali la ritrattazione di un testimone, l’indagato sarà condannato o meno. 

L’assenza di una ragionevole probabilità di condanna sembra un criterio mutuato a contrario dalla condizione generale di applicabilità delle misure cautelari personali (art. 273 cpp), richiedendo tuttavia un minor grado di intensità. Invero, il procedimento transiterà alla fase del giudizio in presenza di una ragionevole probabilità di condanna, laddove invece per le misure cautelari si richiede la sussistenza di una qualificata probabilità di condanna; se ne desume che, per l’archiviazione, la mancanza di ragionevole probabilità di condanna dovrebbe corrispondere a una prognosi di inidoneità degli elementi raccolti a determinare la condanna dell’indagato, in uno con l’oggettiva impossibilità di acquisire ulteriori indizi.

Da ciò consegue che sarà richiesta al pubblico ministero una maggiore attenzione al quadro indiziario e ai suoi sviluppi dibattimentali, effettuando una valutazione rigorosa degli elementi probatori in suo possesso alla scadenza dei termini per le indagini preliminari. 

Sembra proprio che sia tramontata l’epoca dell’astratta utilità della fase dibattimentale.

Il meccanismo delineato dal legislatore imporrà un controllo più stingente da parte del giudice per le indagini preliminari, e renderà necessaria un’adeguata motivazione del decreto di archiviazione in ordine alla prognosi di esito dibattimentale. Infatti, poiché le indagini potranno essere riaperte solo in presenza di criteri più stringenti rispetto a quelli attuali – comma 9, lett. t della legge delega – e tenuto conto dell’obbligo di motivazione quale fonte di legittimazione del potere del giudice, sembra evidente che il giudice per le indagini preliminari dovrà dare conto, in motivazione, delle ragioni per cui ritiene che non si giungerà a una pronuncia di condanna nei confronti dell’indagato 

Parallelamente, è prevedibile ipotizzare che aumenteranno le opposizioni alle richieste di archiviazione, con conseguente aumento dei procedimenti camerali che il gip dovrà fissare e trattare. Spesso si tratta di procedimenti complicati, originati da controversie di tipo civilistico nelle quali si profilano aspetti di carattere penale.

Per raggiungere un effetto deflattivo concreto sarebbe stato opportuno inserire nella legge delega anche una linea guida per la riforma dei presupposti per l’opposizione alla richiesta di archiviazione. Invero, attualmente l’opposizione alla richiesta di archiviazione è ammissibile quando siano indicati l’oggetto dell’investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova. Non sono infrequenti i casi di opposizione alla richiesta di archiviazione in cui formalmente sono rispettati i presupposti di ammissibilità, ma nella sostanza non vi è nulla di nuovo rispetto alle indagini già espletate: spesso si prospettano temi di indagine già sviluppati dal pubblico ministero o si chiedono nuove indagini senza chiarire che cosa si intende dimostrare, o ancora si chiede di sentire nuovamente persone informate dei fatti già escusse, ovvero di acquisire elementi che già dalla prospettazione si rivelano impossibili da reperire. Ciò comporta che, formalmente, si dovrà fissare l’udienza camerale, ma non vi è nulla di realmente nuovo o inesplorato rispetto alle indagini espletate dal pm. 

In assenza di una previsione del legislatore delegante, sembra possibile ritenere che l’intento deflattivo cui il legislatore si è ispirato possa permeare anche la valutazione sull’opposizione alla richiesta di archiviazione. 

In conclusione, il sistema delineato dal legislatore delegante per le indagini preliminari poggia su due pilastri: rigorosa osservanza dei termini delle investigazioni e chiusura del procedimento in tutti i casi in cui, prevedibilmente, non si può arrivare a una condanna nei confronti dell’indagato. 

In astratto, sembra che si potrà ottenere una diminuzione dei procedimenti che passeranno alla fase del giudizio; in concreto, molto dipenderà dagli uffici di procura e dalla loro capacità di dotarsi di linee guida per la valutazione del criterio di «ragionevole probabilità di condanna», che sarà a fondamento della chiusura del procedimento in fase di indagini o, al più, in fase di udienza preliminare (art. 425 cpp nella formulazione che risulterà dall’attuazione della delega); e anche al giudice sarà richiesta una valutazione più approfondita di quella attuale, analogamente a quanto accadrà per l’udienza preliminare.

 

6. Conclusioni

All’esito della disamina sin qui effettuata senza pretesa di esaustività, può affermarsi che il testo della legge delega risponde alle esigenze poste a fondamento della riforma: sembra soddisfatto l’obiettivo di razionalizzare il procedimento in fase di indagini, e risultano concretamente delineati i meccanismi acceleratori che dovranno fronteggiare i rischi di ritardo o di stasi della fase delle indagini, ampliando anche la piattaforma delle garanzie difensive e degli strumenti a disposizione delle parti private finalizzati alla discovery degli atti nonché al rispetto dei tempi del procedimento[4]. Risulta altresì rispettato il principio di obbligatorietà dell’azione penale e non depotenziato il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini e nelle determinazioni circa l’esercizio dell’azione penale. 

Alla valutazione positiva non può che accompagnarsi l’auspicio di un puntuale e tempestivo esercizio della delega.

Tuttavia, il legislatore delegante avrebbe potuto osare di più, rendendo effettivo anche il ricorso all’incidente probatorio in fase di indagini. Come è noto, soltanto nell’ipotesi prevista dal comma 1-bis dell’art. 392 cpp è difficile che la richiesta di incidente probatorio sia respinta: in tutti gli altri casi, il giudice per le indagini preliminari può non accogliere la richiesta senza particolare obbligo di motivazione, dal momento che la sua decisione è impugnabile esclusivamente se abnorme; pertanto, il rifiuto di incidente probatorio è in sostanza insindacabile, anche qualora fondato su argomentazioni non condivisibili o addirittura ispirato dall’intento di non dedicarsi a un’attività processuale che, inevitabilmente, richiede tempo e attenzione. Nel rispetto dei criteri di razionalizzazione e accelerazione del processo, sarebbe stato logico prevedere la facoltà per le parti di impugnare l’ordinanza con cui il gip respinge la richiesta di incidente probatorio, prevedendo una sorta di reclamo a un organo giurisdizionale di controllo circa la pertinenza e validità della decisione. La valutazione in sede di reclamo potrebbe essere affidata al tribunale in composizione monocratica, come nel caso di ordinanza di rigetto dell’opposizione alla richiesta di archiviazione, o al giudice dell’udienza preliminare, il quale deciderebbe soltanto sul reclamo, restituendo gli atti al gip per la celebrazione dell’incidente probatorio in caso di accoglimento dell’opposizione. La seconda soluzione avrebbe, però, il difetto di aumentare i casi di incompatibilità tra giudice delle indagini e giudice dell’udienza preliminare, determinando ulteriori criticità organizzative nelle sezioni gip/gup; in ogni caso, la previsione del reclamo andrebbe introdotta poiché sarebbe del tutto in linea con l’impianto della “riforma Cartabia” e consentirebbe anche di giungere a più consapevoli determinazioni circa l’esercizio dell’azione penale a seguito dell’acquisizione di vere e proprie prove, che potrebbero rivelarsi decisive per la soluzione di casi concreti.

Infine, è appena il caso di evidenziare il mancato coordinamento tra la riforma dell’art. 380, comma 2, lett. l-ter del codice di rito e la disciplina delle misure cautelari personali. Il reato di violazione del divieto di allontanamento dalla casa familiare e di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 387-bis, cp) è punito con la reclusione fino a tre anni, limite che non consente l’applicazione di misure cautelari detentive: l’obbligo di arresto in flagranza, introdotto con specifica norma già in vigore, impone al giudice per le indagini preliminari di convalidare l’arresto in presenza degli indizi di reato, ma di dover subito dopo liberare l’indagato per inapplicabilità di qualsiasi misura di tipo detentivo. Ci si augura che tale incongruenza venga al più presto risolta in un senso o nell’altro, ossia eliminando la previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza per il reato di cui all’art. 387-bis cp, oppure prevedendo un’ipotesi eccezionale di applicabilità di misura cautelare detentiva, nella specie gli arresti domiciliari e non anche la custodia in carcere, alla cui applicazione ostano il comma 2-bis dell’art. 275 e l’art. 280 cpp. 

 

 

*  Questo scritto è stato pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 9 novembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/riforma-del-processo-penale-e-giudice-per-le-indagini-preliminari).

1. Sulla questione in esame, il Consiglio superiore della magistratura, nell’articolato parere al disegno di legge delega, ha evidenziato l’esistenza di un “punto di collisione” tra decorso del termine per le indagini preliminari e pendenza di richiesta di misura cautelare personale. 

2. Come evidenziato anche nel dossier della Camera dei deputati, con la sentenza n. 88/1991 la Corte costituzionale ha evidenziato che il quadro degli elementi acquisiti va valutato «non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella della superfluità o no dell’accertamento giudiziale, che è l’autentica prospettiva di un pubblico ministero, il quale, nel sistema, è la parte pubblica incaricata di instaurare il processo».

3. Sia pure con riferimento alla sentenza di non luogo a procedere, la Corte di cassazione ha affermato che la valutazione del giudice deve essere parametrata alla ragionevole prognosi di inutilità del dibattimento, così che, in presenza di elementi suscettibili di valutazione aperta e discrezionale, idonei a fondare soluzioni alternative, è logicamente incongruo escludere lo sviluppo dialettico del contraddittorio e la verifica dibattimentale (Cass., nn. 37322/2019, 15942/2016, 41162/2014, 22864/2009, 45275/2001). In sostanza, ai sensi dell’art. 425 cpp, si può prosciogliere solo nel caso in cui non si possano acquisire nuove prove o non sia possibile valutare in chiave diversa gli elementi già acquisiti. Il parallelismo tra archiviazione e proscioglimento appare palese: il giudice proscioglie quando il pubblico ministero ha erroneamente chiesto il rinvio a giudizio invece di chiedere l’archiviazione, e non siano acquisibili ulteriori elementi di prova. 

4. Sul punto cfr. G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della “legge Cartabia”, in Sistema penale, 15 ottobre 2021; G. Canzio, Le linee del modello “Cartabia”. Una prima lettura, ivi, 25 agosto 2021. In termini favorevoli alla riforma, nella parte relativa alle indagini, sembra esprimersi anche G. Fiandaca, La riforma della giustizia secondo la commissione Lattanzi, Il Foglio, 18 giugno 2021 (www.ilfoglio.it/giustizia/2021/06/18/news/la-riforma-della-giustizia-secondo-la-commissione-lattanzi-2533476/).