Magistratura democratica

L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR*

di Fabio Di Vizio

La delega attribuita al Governo con legge n. 134/2021 incide su molti snodi processuali, che richiederanno un mutamento di prospettive organizzative e scelte comportamentali all’altezza dei temi istituzionali  coinvolti. Nel contributo qui pubblicato, l’Autore si sofferma sulle trasformazioni che potranno essere impresse al principio di obbligatorietà dell’azione penale; il necessario bilanciamento di tale principio con altri valori di rilievo costituzionale richiederà un importante cambiamento culturale negli attori processuali e dovrà comunque preservare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e l’autonomia della giurisdizione rispetto al decisore politico.

1. Le premesse / 2. Cenni storici e assetti istituzionali / 3. Il controllo sui tempi dell’iscrizione della notizia di reato e del nome della persona cui lo stesso è attribuito / 4. La nuova regola di giudizio per l’archiviazione / 5. Altri criteri interni dell’obbligatorietà dell’azione penale: le condizioni di procedibilità, l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e la sospensione del procedimento per messa alla prova / 6. Criteri esterni all’obbligatorietà dell’azione penale: i criteri di priorità / 7. Considerazioni conclusive

 

1. Le premesse

Nel contesto del «Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza»[1], partendo dal dato dell’irragionevole durata dei processi[2], la “riforma Cartabia”[3] aspira a una ricostruzione organizzativa della giustizia penale con l’obiettivo di recuperare livelli di efficienza, effettività e competitività necessari per il sano sviluppo dell’economia e per il corretto funzionamento del mercato[4]. La profonda crisi di efficienza, effettività e autorevolezza del sistema giustizia e la preoccupante perdita di fiducia nello Stato di diritto e nella democrazia costituzionale[5] hanno persuaso il legislatore a intraprendere in maniera risoluta la strada di una maggiore selettività nell’esercizio dell’azione penale, con il dichiarato intento di evitare giudizi superflui, ampliare gli spazi di controllo giurisdizionale durante la fase delle indagini e implementare esiti diversi da quelli punitivi. È divenuto ormai unanime, in proposito, il rigetto della pretesa di cesure tra efficienza e giustizia penale, per la peculiarità qualitative di quest’ultima; l’obbligatorietà dell’azione penale e l’interesse alla persecuzione penale devono bilanciarsi con il buon andamento e l’efficienza, valori costituzionali idonei a relativizzare la lettura assoluta dei primi[6]. Ciò impone un cambiamento culturale rispetto al passato e l’intrapresa di iniziative innovative. 

Secondo la formulazione uscita dai lavori dell’Assemblea costituente, «Il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». La laconicità e l’apparente rigidità dell’art. 112 Cost[7] hanno segnato l’importanza storica della regola, capace d’influenzare l’assetto processuale nazionale e di garantire il rispetto di valori di democrazia. L’obbligatorietà, infatti, si è tradizionalmente profilata quale principio sovraordinato rispetto agli altri principi del processo accusatorio[8], crocevia[9] di altri principi costituzionali, pietra angolare del sistema giudiziario democratico, quale rigida condizione di salvaguardia dell’indipendenza del pubblico ministero e della sua veste di organo di giustizia, dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale e della legalità del procedere, prima garanzia del principio di legalità[10]. Uno scudo contro pretese di immunità, zone franche, suggestioni, seduzioni e minacce[11]

La latitudine del principio di obbligatorietà ha vissuto nel tempo travagli e trasformazioni profonde rivelate anche dalle nuove aggettivazioni che l’accompagnano, quasi a segnalare la (de)gradazione dell’assolutezza della regola. L’obbligatorietà è stata riletta secondo una concezione “temperata” o “realistica”[12], espressiva dell’offerta di servizi attraverso l’impiego efficiente delle risorse; nonché, quale discrezionalità “trasparente” e “controllata” quando non di scelte di opportunità “ragionata”[13], contro aree di arbitrio – più o meno – sommerso nel perseguimento criminale. Nella visione immediatamente post-costituzionale, in linea di massima, obbligatorietà faceva rima con indipendenza e personalizzazione, mentre opportunità/discrezionalità si coniugavano meglio con dipendenza e burocratizzazione; nel quotidiano giudiziario, in realtà, nessuno di questi concetti ha mai vissuto “puro”[14]. Obbligatorietà e opportunità nell’esercizio dell’azione penale, come dimostra anche l’esperienza comparatistica, hanno assunto contenuti meno distanti di quanto si potrebbe ritenere. La concezione realistica dell’obbligatorietà dell’azione penale[15], in particolare, presenta evidenti analogie con i criteri seguiti nei Paesi ove l’iniziativa penale è governata secondo il principio di opportunità: «segnatamente l’evidential test, il public interest test e le guidelines dettate per orientare e uniformare le scelte di opportunità affidate al pubblico ministero»[16].

Se la componente garantistica del principio di obbligatorietà continua a godere di unanime apprezzamento, il dissidio tra il carattere teorico dell’obbligo e la realtà fenomenica hanno persuaso molti a ritenere preferibile esigere la trasparenza delle scelte di azione e d’inazione, temendo occulte selezioni arbitrarie. Resta, però, una questione di fondo: se la sola trasparenza delle scelte (da chiunque realizzata) possa soddisfare esigenze di garanzia normalmente presidiate dal controllo giudiziale. E questo – non si intende celarlo – è uno dei punti dolenti e irrisolti del progetto di riforma. 

Quasi tutti i difensori del principio di obbligatorietà dell’azione penale danno per scontata una certa dose di infedeltà rispetto alla sua portata assoluta, sia pure con diversi gradi di cedevolezza, giustificata da esigenze di razionalità organizzativa e di postergazione temporale; non potrebbe essere diversamente, in effetti, per una regola che i giuristi austriaci della fine del 1800 tacciavano di costituire null’altro che una «bugia convenzionale» e che, comunemente, è ritenuta «ontologicamente irrealizzabile»[17]. In concreto, la variabilità delle situazioni territoriali può comportare che i criteri di discriminazione temporale nel perseguimento criminale conducano a stadi confinanti con il governo dell’opportunità non meno difficilmente rendicontabile. 

Le ragioni dei nuovi temperamenti dell’obbligatorietà, però, stanno rapidamente evolvendo, oltrepassando ragioni organizzative per soddisfare esigenze di equità in concreto. 

Ciò che è mutato – chiara premessa dell’evoluzione in atto – è certamente il rapporto del principio con gli altri principi costituzionali, ormai stimati equi-ordinati e bilanciabili, nel contesto di un diritto penale dal volto costituzionale[18]. Così l’asfittica prospettiva dell’inevitabile deflazione imposta dall’ingestibile carico di lavoro delle procure e dei tribunali – con situazioni tanto diversificate a livello territoriale da essere più consone a sistemi di federalismo giudiziario[19], non sanabili, dopo il 1992, con il periodico ricorso a provvedimenti di amnistia e indulto[20] né confidando nella depenalizzazione, specie perché quasi sempre inesorabilmente seguita da nuove penalizzazioni – sembra solo una delle cause delle nuove declinazioni della regola. I principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.) si espandono, perdendo le timidezze del recente passato, all’intero del sistema giustizia, comprensivo delle attività giurisdizionali, legittimando la riduzione numerica dei casi in cui opera il vincolo procedurale dell’art. 112 Cost. per ridar vita alle garanzie allo stesso sottese[21]. Così la realtà di processi inutili[22], che non merita celebrare e ancor prima iniziare, selezionati per ragioni organizzative presso gli uffici giudiziari, è divenuta ricognizione condivisa; quantunque non scissa dal rischio di arbitrio ove i criteri efficientistici siano enucleati storicamente dai protagonisti giudiziari, privi di diretta legittimazione democratica, al di fuori di una tassativa cornice normativa derogatoria della regola dell’art. 112 Cost. In questa prospettiva, la positivizzazione dei criteri di priorità dell’azione penale progettata dalla “legge delega Cartabia” offre un banco di prova importante, una delle prospettive di azione più nuove e problematiche dell’intera riforma. 

Ma è con il propagarsi della portata dei principi e delle garanzie del giusto processo previsti dall’art. 111 Cost., ivi compreso quello della ragionevole durata del processo, che lo scatenamento dell’azione penale (traslato dal cpp del 1989 alla fine delle indagini preliminari), per soddisfare le pretese punitive statuali, deve fare i conti con esiti innovativi: fatti tipici, astrattamente meritevoli di pena, in concreto possono non esprimere necessariamente il bisogno di pena e, prima, di processo. In linea con una concezione gradualistica del reato, che fotografa la peculiarità del caso concreto[23], prima ancora che nel momento applicativo della pena e della risposta sanzionatoria, emergono nuove declinazioni equitative del principio di proporzionalità ex artt. 49 Cdfue, 3 e 27 Cost.[24], che segnano la sorte non solo della dosimetria, ma anche dell’applicazione della punizione e, prima, dell’accesso al processo. Secondo una cultura nuova, già rivelata dalla causa di non punibilità ex art. 131-bis cp, ma anche da quella di estinzione del reato prevista dall’art. 168-bis cp, istituti che la riforma Cartabia potenzia.

La riforma, in effetti, costituisce una decisa presa di posizione a favore di una rimodulazione dei confini del principio di obbligatorietà dell’azione penale, in un’ottica di efficientamento del sistema: ridefinizione degli spazi di controllo giurisdizionali sui tempi di iscrizione, riforma della regola di giudizio ex art. 125 disp. att. cpp, ampliamento della sfera di operatività delle causa di non punibilità ex art. 131-bis cpp e della causa di estinzione del reato ex art. 168-bis cp, positivizzazione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale.

Prima di affrontare l’esame delle novità della riforma, conviene premettere un breve inquadramento storico del principio di obbligatorietà dell’azione penale e qualche considerazione sugli assetti istituzionali che lo hanno accompagnato nell’esperienza nazionale[25]; operazione utile a ravvivare la memoria delle forme che lo stesso ha assunto e delle garanzie che il principio ha presidiato, non consentendo di considerare del tutto tramontata l’idea per cui è preferibile un accusatore agente a uno inerte[26]. Prevenendo eccessive semplificazioni, se non è solo l’obbligatorietà a garantire l’indipendenza e l’uguaglianza non è l’opzione discrezionale a garantire, di per sé, il miglior presidio dell’efficienza. Proprio la storia e la comparazione rivelano la realtà di questa affermazione. Occorre estrema cautela nell’intraprendere strade distanti da un principio che ha effetti diretti sugli assetti ordinamentali e, in particolare, sul ruolo istituzionale e sulle garanzie del pubblico ministero. E, prima, sui valori che tali beni funzione garantiscono.

 

2. Cenni storici e assetti istituzionali

Nell’esperienza preunitaria, l’art. 2 del “codice Romagnosi” (1807) enunciò il principio di obbligatorietà («Ogni delitto dà luogo ad un’azione penale»), combinandolo con quello della pubblicità (art. 4: «L’azione penale è essenzialmente pubblica» e nei delitti qualificati come pubblici è «esercitata per officio dai funzionari pubblici destinati dalla legge»)[27]. L’art. 146 della “legge Rattazzi”, 13 novembre 1859, n. 3781, confermato dall’art. 129 del rd 6 dicembre 1865, n. 2626 (il primo ordinamento giudiziario del Regno d’Italia), definì il pubblico ministero «rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria» e lo poneva «sotto la direzione del ministro di giustizia». Il primo aspetto, scaturente dall’art. 1 della legge 24 agosto 1790 dell’Assemblée nationale e dal napoleonico «Regolamento organico della giustizia civile e punitiva» (1806), si saldò al secondo per il quale, al magistrato dell’accusa, spettavano prerogative di controllore e controllato che ne giustificavano uno status meno autonomo rispetto alla magistratura giudicante. Numerosi appelli degli studiosi, all’indomani dell’Unità, si sollevarono a salvaguardare l’indipendenza del pm: «dal governo, ovviamente, dallo Stato-persona, e persino dalla società»[28]. L’art. 139 dell’ordinamento giudiziario del 1865 attribuì al pubblico ministero anche la vigilanza sull’«osservanza delle leggi» e sulla «pronta e regolare amministrazione della giustizia», nonché il compito di promuovere «la repressione dei reati». Funzione quest’ultima, nella quale il pubblico ministero si delineò come organo della legge, se non quale legge parlante[29], e come con figura istituzionale irrisolta e ibrida[30]

Il cpp del 1865 stabilì che «ogni reato dà luogo ad un’azione penale» (art. 1, comma 1); che «l’azione penale è essenzialmente pubblica» e «si esercita dagli ufficiali del pubblico ministero» (art. 2, commi 1 e 2); che viene «esercitata d’ufficio in tutti i casi nei quali l’istanza della parte danneggiata od offesa non è necessaria a promuoverla» (art. 2, comma 3); che il procuratore del re «è tenuto nel distretto del Tribunale presso cui esercita le sue funzioni di promuovere e proseguire le azioni penali derivanti da crimini o delitti colle norme prescritte dal presente Codice» (art. 42, n. 1); quando gli fossero pervenute «denunce, querele, verbali, rapporti, o notizie di reato», avrebbe dovuto fare «senza ritardo al Giudice istruttore le opportune istanze per l’accertamento del fatto e la scoperta degli autori», salva la possibilità di procedere direttamente mediante «citazione diretta» (art. 43). Non venne prescritto alcun controllo giurisdizionale sull’effettivo esercizio dell’azione penale: l’iniziativa del pubblico ministero di archiviare non era sindacabile[31]. Nondimeno, nella prassi i funzionari della pubblica accusa, prima di procedere all’invio degli atti all’archivio, presero a sollecitare un’ordinanza del giudice istruttore rispetto ai reati perseguibili a querela privata. 

Nel dibattito postunitario la disputa a favore del principio di legalità[32] (sul modello del § 152, comma 2 del cpp tedesco) rispetto a quello di opportunità[33] (o della discrezionalità di fatto) dell’azione penale (tipico dell’esperienza francese) sembrò non risolversi, anche se la prima impostazione parve prevalere: in primis, per il favore verso l’obiettivo della difesa sociale[34], attraverso l’attuazione non discrezionale del diritto-dovere dello Stato di punire[35], nondimeno, per l’avversione rispetto all’idea che il pubblico ministero potesse essere titolare di un surrettizio potere di amnistia[36]

L’art. 1, comma 2, cpp del 1913 risolse la discussione, stabilendo che «l’azione penale è pubblica ed è esercitata dal pubblico ministero. Essa è esercitata d’ufficio quando non sia necessaria querela o richiesta». Innovando rispetto al passato, ai sensi dell’art. 179, comma 2, il procuratore del re che avesse reputato che, per il fatto, non si doveva promuovere azione penale doveva richiedere al giudice istruttore «di pronunciare decreto». In linea con il ruolo di pubblico accusatore, con funzioni essenzialmente investigative, quale capo della polizia giudiziaria (art. 163), il pubblico ministero poteva decidere di trasmettere gli atti al pretore (ex art. 179, comma 3) o ad altra autorità competente, richiedere al giudice istruttore il decreto secondo cui l’azione penale non doveva promuoversi (art. 179, comma 2), svolgere indagini (dirigendo la polizia giudiziaria o effettuando un’istruzione sommaria). Terminata tale fase, il procuratore (salvo l’esercizio della facoltà, concessa al leso per ingiuria o diffamazione, di citazione diretta; e salvi i reati pretorili) decideva in autonomia se promuovere l’azione penale, richiedendo l’istruzione formale o promovendo il giudizio di cognizione (per citazione diretta o direttissima: art. 179, comma 1)[37]

L’art. 77 rd 30 dicembre 1923, n. 2786 (“ordinamento giudiziario Oviglio”), marcando il profilo funzionariale e disciplinare della pubblica accusa[38], stabilì che «il pubblico ministero rappresenta il potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria ed è organizzato gerarchicamente sotto la direzione del ministro della giustizia»; rispetto all’esercizio di un diritto pubblico costituente anche un pubblico dovere, la discrezionalità identificava solo il discernimento ragionevole e giusto della sussistenza in concreto delle condizioni di legge per l’esercizio dell’azione penale. Ai sensi dell’art. 74, comma 2 del cpp del 1930, il pubblico ministero era tenuto a informare dell’archiviazione il procuratore generale, chiamato a realizzare un controllo gerarchico sostitutivo di quello giurisdizionale, con il potere di richiamare gli atti e di disporre di procedere. L’interesse alla persecuzione penale si profilava come sovrastante e assoluto, al netto di eccezioni normative, come le cause di non punibilità e le condizioni di procedibilità[39]

L’“ordinamento giudiziario Grandi” (rd 30 gennaio 1941, n. 12) confermò che «il pubblico ministero esercita, sotto la direzione del ministro di grazia e giustizia, le funzioni che la legge gli attribuisce» (art. 69). Nel pensiero della dottrina, la direzione del Ministro doveva limitarsi alle sole attribuzioni di carattere amministrativo, esorbitandone un potere sostitutivo in caso d’inerzia del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale; sennonché il potere di indirizzo arrivò sino a formulare istruzioni specifiche per il caso concreto, con persuasività irrobustita dall’assenza della garanzia d’inamovibilità del pubblico ministero, suscettibile di trasferimenti a seguito di banale nota ministeriale. L’esercizio dell’azione penale, inoltre, era soggetto a molteplici filtri politici, come le autorizzazioni necessarie per i processi a prefetti e sindaci, per i reati commessi dalle forze di polizia, nonché per le false testimonianze dei pubblici funzionari[40].

L’art. 69 cit. fu modificato solo dalla “legge Togliatti” (rdl 31 maggio 1946, n. 511, art. 39), che sostituì la direzione del Ministro con una più pallida vigilanza. Con il Governo Bonomi venne ripristinato il controllo giurisdizionale sull’archiviazione; modificando l’art. 743, l’art. 6 d.lgs lt. 14 settembre 1944, n. 288 imponeva al pubblico ministero di richiederla al giudice istruttore che, a sua volta, se avesse ritenuto di non accoglierla, avrebbe proceduto in via formale[41].

Nei lavori per la Costituente, Piero Calamandrei propugnò un pubblico ministero inserito nell’ordine giudiziario e indipendente dall’esecutivo[42]. In sede di Costituente, Giovanni Leone sostenne che, in caso d’inerzia del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione, poteva intervenire il giudice ex officio[43]. Nella Commissione dei 75, in particolare, Calamandrei propose un testo più articolato di quello definitivo: «L’azione penale è pubblica, e il p.m. ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere o ritardare l’esercizio per ragioni di convenienza». Targetti e Bettiol ritennero che potesse risultare, viceversa, opportuno consentire al pubblico ministero di ritardare l’esercizio, specie di fronte a sussulti politici[44].

Il testo, infine, approvato non contiene espliciti riferimenti né alla pubblicità dell’azione penale né al divieto al pubblico ministero di sospendere o ritardare l’esercizio dell’azione né al controllo giurisdizionale sull’archiviazione. Secondo la dottrina, tuttavia, la perentorietà della norma costituzionale implica tutti i suddetti principi.

Il modello italiano, dunque, immediatamente conseguente al varo della Costituzione repubblicana risulta fondato sul principio di obbligatorietà dell’azione penale da parte di un pubblico ministero investito del potere di coordinare le indagini della polizia, provvisto dello statuto di “parte imparziale”, indipendente dal potere politico ma costantemente controllato dal giudice, sia in caso di azione che di inazione[45]

Nel tempo è mutato il concetto di esercizio dell’azione penale. In primo luogo, per la modifica dell’impianto processuale primario. Se nel vecchio codice di procedura penale l’esercizio dell’azione penale si riscontrava alle «prime battute del procedimento»[46], dopo qualche (eventuale) atto di istruzione sommaria[47], a monte dell’istruttoria formale, nel “codice Vassalli” l’azione penale, coincidendo con la richiesta di rinvio a giudizio[48], è stata posticipata al termine delle indagini, cui sono riconosciute tempistiche assai più generose[49]. La moderna azione penale, dunque, è uno strumento diverso da quello avuto presente dai Costituenti, che attiva un meccanismo molto più sofisticato di quello precedente[50].

La seconda ragione del cambiamento deriva dal pervasivo influsso sul diritto penale dell’intero impianto costituzionale, anche a seguito dalla rivisitazione dell’art. 111 della Costituzione. Ne ha tratto vigore l’idea del processo penale quale luogo di garanzie e di contrappesi e della giustizia quale sistema finalizzato all’osservanza dei precetti – non solo e non esclusivamente all’inflizione della pena – per garantire un contesto di massimo sviluppo della vita associata[51]. Se, nel previgente sistema, la legge penale rappresentava la massima esplicazione della potestà sovrana dello Stato sull’individuo e la doverosità dell’azione, a tutela del potenziale punitivo enucleato dalla legge penale[52], costituiva principio assoluto, la Costituzione ha convertito quest’ultimo in un valore relativo da relazionare con altri valori di rango costituzionale, ai quali può “cedere” o con i quali raccordarsi[53]. Il potenziale conflitto tra l’interesse alla persecuzione penale e gli altri interessi quali l’efficienza giudiziaria presidiata dall’art. 97, comma 2, Cost., sul buon andamento della pubblica amministrazione, esteso all’ufficio giudiziario del pubblico ministero[54], e l’art. 111, comma 2, Cost. (e 6, comma 1, Cedu) sulla durata ragionevole del processo, può trovare quindi una soluzione alla luce di un bilanciamento tra i differenti valori – tra cui quelli di proporzione e di rieducazione – con i quali si individui l’oggetto di tutela preminente[55]

La stessa obbligatorietà non si delinea più come correlazione inevitabile tra notizia di reato, assistita da certo grado di fondatezza, e azione penale, ma anzitutto come regola della legalità: l’esercizio del potere di azione costituisce dovere in presenza di presupposti e modalità disciplinate dalla legge ordinaria, non rimesso a criteri di opportunità enucleati surrettiziamente[56]

Ciò ha creato le condizioni di prime esperienze di bilanciamento di interessi costituzionali in conflitto o comunque in rapporto con quello di obbligatorietà, governate sulla base di norme che regolamentano i poteri discrezionali del pubblico ministero e del giudice – le situazioni che Francesco Palazzo ha categorizzato quali criteri che presiedono all’esercizio dell’azione penale. Accanto ai criteri sostanziali interni alla finalità della repressione (che legittimano la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto ex art. 27 dPR n. 448/1988, il decreto di archiviazione per tenuità del fatto ex art. 34 d.lgs n. 274/2000 e per speciale tenuità del fatto ex art. 131-bis cp o la sospensione del procedimento con messa alla prova ex art. 168-bis cp), si affiancano i criteri processuali interni alle finalità del processo[57] (come le regole di valutazione della consistenza del materiale raccolto nelle indagini). Solo con i criteri esterni di opportunità (con le problematiche articolazioni di contenuto e degli organi competenti a “formalizzarli”) viene realmente messa in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale[58]

 

3. Il controllo sui tempi dell’iscrizione della notizia di reato e del nome della persona cui lo stesso è attribuito

Venendo alle tematiche d’interesse ai fini del nostro esame coinvolte dalla riforma Cartabia, procedendo nell’ordine cronologico di esse, l’iscrizione nel registro ex art. 335 cpp costituisce un’area di attività del pubblico ministero sovente esposta a ragioni di critica, anche a causa di un arido tessuto normativo[59]. L’adempimento costituisce la premessa imprescindibile dell’esercizio dell’azione penale e, dunque, concorre a salvaguardarne l’obbligatorietà, chiaramente elusa in presenza di eventuali omissioni; d’altro canto, l’iscrizione ale a dimensionare i tempi delle indagini[60], che da essa prendono a decorrere[61]: iscrizioni tardive[62], rateizzate[63], progressivamente ripartite tra diversi registri ministeriali[64] possono sostanzialmente protrarre la condizione di indagabile ed “eludere” la sanzione di inutilizzabilità ex art. 407, comma 3, cpp prevista per le indagini svolte oltre i termini[65]. Costituisce segno dell’importanza dell’adempimento, per la sua incidenza sulle attività a valle, il fatto che tra le prerogative precipue del procuratore della Repubblica e del procuratore generale presso la Corte di appello vi è proprio quella di assicurare l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato (cfr. artt. 2 e 6 d.lgs n. 106/2006). 

La natura di atto dovuto dell’iscrizione non ha impedito di riconoscere spazi di discrezionalità tecnica del pubblico ministero rispetto ai presupposti valutativi (con riferimento alla sussistenza «degli specifici elementi indizianti», evocati dall’art. 109 disp. att. cpp, norma che, ricorrendo all’avverbio «eventualmente», rifugge automatismi), ritenuta non sindacabile da parte del giudice. Sulla scia delle sezioni unite Tammaro[66] la giurisprudenza, infatti, ha stabilmente affermato che l’omessa annotazione della notitia criminis sul registro previsto dall’art. 335 cpp, con l’indicazione del nome della persona raggiunta da indizi di colpevolezza e sottoposta a indagini «contestualmente ovvero dal momento in cui esso risulta», non determina l’inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti fino al momento dell’effettiva iscrizione nel registro, poiché, in tal caso, il termine di durata massima delle indagini preliminari previsto dall’art. 407 cpp, al cui scadere consegue l’inutilizzabilità degli atti d’indagine successivi, decorre per l’indagato dalla data in cui il nome è effettivamente iscritto nel registro delle notizie di reato, e non dalla presunta data nella quale il pubblico ministero avrebbe dovuto iscriverla. Presupponendo l’obbligo di iscrizione l’emersione a carico di una persona di specifici elementi indizianti e non di meri sospetti[67], ne consegue che l’apprezzamento della tempestività dell’iscrizione rientra nell’esclusiva valutazione discrezionale del pubblico ministero[68] ed è comunque sottratto, in ordine all’an e al quando, al sindacato del giudice, ferma restando la configurabilità di ipotesi di responsabilità disciplinari o addirittura penali nei confronti del pm negligente[69]. Ripetuta l’affermazione per cui al giudice non spetta il potere di sindacare le scelte del pubblico ministero in ordine al momento dell’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro, al fine di rideterminare il dies a quo dei termini di indagine e di dichiarare quindi l’inutilizzabilità degli atti compiuti oltre il termine così ricomputato[70]; così come stabile il riconoscimento per cui la tardiva iscrizione del nome dell’indagato nel registro previsto dall’art. 335 cpp non incide sull’utilizzabilità delle indagini svolte prima della iscrizione[71]

La legge delega, all’art. 1, comma 9, incide su tale assetto fissando i seguenti principi e criteri direttivi: «p) precisare i presupposti per l’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale della notizia di reato e del nome della persona cui lo stesso è attribuito, in modo da soddisfare le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni; q) prevedere che il giudice, su richiesta motivata dell’interessato, accerti la tempestività dell’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale della notizia di reato e del nome della persona alla quale lo stesso è attribuito e la retrodati nel caso di ingiustificato e inequivocabile ritardo; prevedere un termine a pena di inammissibilità per la proposizione della richiesta, a decorrere dalla data in cui l’interessato ha facoltà di prendere visione degli atti che imporrebbero l’anticipazione dell’iscrizione della notizia a suo carico; prevedere che, a pena di inammissibilità dell’istanza, l’interessato che chiede la retrodatazione dell’iscrizione della notizia di reato abbia l’onere di indicare le ragioni che sorreggono la richiesta; r) prevedere che il giudice per le indagini preliminari, anche d’ufficio, quando ritiene che il reato è da attribuire a persona individuata, ne ordini l’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale, se il pubblico ministero ancora non vi ha provveduto; s) prevedere che la mera iscrizione del nome della persona nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale non determini effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo». 

La Commissione Lattanzi aveva sottolineato l’importanza di definire parametri, attraverso la legislazione delegata, per delineare i profili che impongono l’iscrizione della notizia di reato nel registro, facendo decorrere il termine di durata massima delle indagini, con introduzione di forme di controllo, intrinseco ed estrinseco, sulla gestione dei tempi delle indagini, al fine di permettere alla difesa una efficace interazione. Secondo la Commissione, occorre prendere atto della particolare delicatezza di un passaggio troppo spesso considerato un mero atto dovuto e sul rischio che si proceda a un’iscrizione esclusivamente formale di fatti, ma soprattutto di soggetti la cui posizione sia quasi certamente estranea a profili di responsabilità penale. Per un verso, infatti, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo fa discendere le garanzie dell’art. 6 Cedu dalla “soggettivizzazione” dell’indagine, quando questa si polarizzi, da un quadro ad ampio raggio, su specifici soggetti; per altro verso, gli effetti negativi indiretti, correlati all’iscrizione, possono costituire grave nocumento per soggetti comunque destinati a fuoriuscire presto dal quadro investigativo. Secondo la Commissione, però, l’aggancio dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato a una solida base fattuale e soggettiva non deve prestarsi a operazioni di ingiustificato ritardo nell’attivazione delle garanzie riconosciute alla persona sottoposta alle indagini. Sempre nel senso di un controllo oggettivo sulla gestione della notizia di reato, la Commissione ha proposto l’inserimento di un meccanismo di controllo giurisdizionale, attivabile anche dalla difesa, sull’effettiva datazione dell’iscrizione della notizia di reato, cui può conseguire la retrodatazione dell’inizio del periodo investigativo, con correlata inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza del termine e il potere del gip di imporre al pm l’iscrizione del nome della persona cui le indagini sono riferite, laddove l’inquirente non vi abbia provveduto. 

Lo sforzo della legge delega ha il merito di aspirare a dotare la materia di un maggiore dettaglio normativo, e dunque appare apprezzabile e coerente con l’esigenza di certezza e la garanzia della corretta evoluzione investigativa e probatoria. È una delle forme in cui si esprime la tendenza ad aprire finestre di controllo giurisdizionale su alcuni momenti topici delle indagini preliminari, che va preferita a interventi gerarchici o disciplinari, che finirebbero per esaltare la logica di separatezza del pubblico ministero e si rivelerebbero potenzialmente compressi dall’indipendenza interna del singoli magistrati dell’ufficio[72]

Al netto delle declinazioni di dettaglio affidate al legislatore delegato, ne deriverà un impegno di tempestività da parte del pubblico ministero nel censire le condizioni che attivano il proprio dovere di disporre e aggiornare le iscrizioni. Non può escludersi che si ovvi ai problemi di puntualità, prevenendo successive eccezioni difensive, disponendo le cd. iscrizioni retrodatate decorrenti dalla data di ricezione (e non da quella eventualmente successiva di valutazione) della notizia di reato[73]; è auspicabile che s’individuino termini calibrati sulle peculiarità dell’organizzazione delle procure, nei quali l’impegno di analisi delle nuove notizie di reato è solo parte del complessivo carico di lavoro. In tal senso, un rinvio a una disciplina di miglior dettaglio affidata ai progetti organizzativi non pare soluzione impropria. 

Dalla riforma scaturisce non solo un indubbio potenziamento del ruolo di controllo affidato al gip. Infatti, mutate le regole ex art. 125 disp. att. cpp e 425, comma 3, cpp (vds. infra), il vizio di utilizzabilità ex art. 407, comma 3, cp, seppur proiettato nella prospettiva della decisione dibattimentale, è accresciuto nella propria rilevanza, anticipata già al momento dell’esercizio dell’azione penale e del vaglio da realizzare in sede di udienza preliminare.

 

4. La nuova regola di giudizio per l’archiviazione

L’art. 1, comma 9 della legge delega Cartabia detta principi e criteri direttivi volti a riformare alcuni profili della disciplina in materia di indagini preliminari e udienza preliminare. Nell’esercizio della delega di cui all’art. 1, comma 1, i decreti legislativi dovranno essere adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: «a) modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, prevedendo che il pubblico ministero chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna; (…); m) modificare la regola di giudizio di cui all’articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale nel senso di prevedere che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna».

Tale formulazione è il frutto di una modifica approvata in sede referente, ispirata alla medesima ratio sottesa al testo originario del ddl che faceva riferimento, per la richiesta di archiviazione, all’ipotesi in cui gli elementi acquisiti nelle indagini risultino insufficienti e contraddittori o comunque non consentano «una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria del giudizio». 

L’attuale parametro dell’infondatezza della notizia di reato all’origine della presentazione della richiesta di archiviazione, fissato dall’art. 125 disp. att. cpp, è costituito dall’inidoneità degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari a sostenere l’accusa in giudizio e viene sostituito dall’inidoneità dei medesimi elementi a consentire una “ragionevole previsione di condanna”. Analogamente, con la lettera m, il Governo è delegato a modificare la disciplina della sentenza di non luogo a procedere al termine dell’udienza preliminare, modificando la regola, enunciata dal comma 3 dell’art. 425 cpp, in base alla quale il gup pronuncia la sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio.

Con riferimento al vigente parametro, la Corte costituzionale ha specificato che il «quadro acquisitivo» va valutato «non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella della superfluità o no dell’accertamento giudiziale, che è l’autentica prospettiva di un pubblico ministero, il quale, nel sistema, è la parte pubblica incaricata di instaurare il processo»[74]. Tanto che «il vero significato della regola così dettata è, quindi, quello della non equivoca, indubbia superfluità del processo». La successiva elaborazione giurisprudenziale ha chiarito che si tratta di una prognosi che concerne l’“utilità” del dibattimento[75], al quale dovrebbe transitarsi quando quest’ultimo, grazie alle superiori risorse cognitive attivabili con l’impiego del contraddittorio nella formazione della prova, possa apportare elementi rilevanti ai fini della decisione di merito[76]. Nel 1991, la Corte costituzionale ha confermato la legittimità costituzionale dell’art. 125 disp. att. cpp, assumendo che il principio di obbligatorietà dell’azione penale esige che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice e che in esso è insito il favor actionis. Con rigetto del contrapposto principio di opportunità – che consente all’organo dell’accusa di non agire anche in base a valutazioni estranee all’oggettiva infondatezza della notitia criminis – e regola comportamentale per cui nei casi dubbi l’azione deve essere esercitata e non omessa

Azione penale obbligatoria non significa, però, consequenzialità automatica tra notizia di reato e processo, né dovere del pm di iniziare il processo per qualsiasi notitia criminis. Limite implicito alla obbligatorietà, razionalmente intesa, resta che il processo non si instauri quando oggettivamente superfluo: regola ancor più vera nel nuovo sistema, che pone le indagini preliminari fuori dell’ambito del processo, stabilendo che, al loro esito, l’obbligo di esercitare l’azione penale sorge solo se sia stata verificata la mancanza dei presupposti che rendono doverosa l’archiviazione, che è, appunto, non-esercizio dell’azione (art. 50 cpp). Ha chiosato la Corte: «Il problema dell’archiviazione sta nell’evitare il processo superfluo senza eludere il principio di obbligatorietà ed anzi controllando caso per caso la legalità dell’inazione. II che comporta di verificare l’adeguatezza tra i meccanismi di controllo delle valutazioni di oggettiva non superfluità del processo e lo scopo ultimo del controllo, che è quello di far sì che i processi concretamente non instaurati siano solo quelli risultanti effettivamente superflui. Tale verifica opera su due versanti: da un lato, quello dell’adeguatezza al suddetto fine della regola di giudizio dettata per individuare il discrimine tra archiviazione ed azione[77]; dall’altro, quello del controllo del giudice[78] sull’attività omissiva del pubblico ministero, sì da fornirgli la possibilità di contrastare le inerzie e le lacune investigative di quest’ultimo ed evitare che le sue scelte si traducano in esercizio discriminatorio dell’azione (o inazione) penale».

Rispetto all’originaria formulazione dell’art. 125 disp. att. cpp (cfr. l’art. 115 del progetto preliminare collocato) la Corte costituzionale ha ricordato le vivaci critiche del Csm, all’origine dell’ultima versione. L’art. 115 disponeva che «il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene che gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sarebbero sufficienti al fine della condanna degli imputati». La formula comportava che «all’oggetto proprio della valutazione del pubblico ministero circa i risultati delle indagini ai fini dell’esercizio, o no, dell’azione si sostituisse l’oggetto proprio della valutazione del giudice, che investe, appunto, la sufficienza delle prove per la condanna: e ciò in netta contraddizione con il fatto che, nel sistema del codice, quest’ultimo giudizio è frutto di un materiale probatorio da acquisire nel dibattimento. Si sarebbe trattato, inoltre, di una valutazione non coerente alla provvisorietà della fase in cui avrebbe dovuto compiersi, senza tener conto della possibilità di acquisire nuovi elementi dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419, terzo comma) o dopo la pronuncia del decreto che dispone il giudizio (art. 430), ovvero nel corso dell’udienza preliminare (art. 422), oltreché dell’attività probatoria esperibile nel contesto della dialettica dibattimentale»[79]. Ben diversa la prospettiva dell’attuale art. 125 cit., che impone al pubblico ministero di valutare gli elementi acquisiti non più nella chiave dell’esito finale del processo, bensì nella loro attitudine a giustificare il rinvio a giudizio. Il quadro acquisitivo viene, cioè, valutato non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella della superfluità o no dell’accertamento giudiziale, che è l’autentica prospettiva di un pubblico ministero, il quale, nel sistema, è la parte pubblica incaricata di instaurare il processo. Non solo la sostituzione del termine “idonei” a quello di “sufficienti” designa un quantum minore di elementi, ma la loro valutazione diventa funzionale non alla condanna, bensì alla sostenibilità dell’accusa. È stata recuperata, in tal modo, la provvisorietà del quadro acquisitivo e la prospettiva dinamica propria della fase, dato che l’esclusione della sufficienza dei dati acquisiti consente di far rientrare nella valutazione le attività integrative esperibili dopo la richiesta di rinvio a giudizio. L’infondatezza della notizia di reato esprime una valutazione in prospettiva processuale che identifica la chiara e inequivoca impossibilità di coltivare in maniera attendibile la prospettazione accusatoria in sede dibattimentale[80].

Nondimeno, la Corte costituzionale già nel 1991 era consapevole che la tendenza ad allargare l’area di operatività dell’archiviazione, manifestatasi prima con la redazione dell’art. 115 cit. nel progetto preliminare, poi con interpretazioni dell’art. 125 volte a stabilire una sostanziale omogeneità con quello, celava preoccupazioni di deflazione dibattimentale; nondimeno rilevava che il legislatore delegante non aveva attribuito all’archiviazione una funzione deflattiva od obiettivi di economia processuale, perseguiti con altri strumenti, quali i riti alternativi e il largo impiego del procedimento pretorile. 

La riforma Cartabia, ora, spinge a superare il criterio dell’astratta utilità dell’accertamento dibattimentale e a legittimare l’instaurazione del processo nei soli casi in cui gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari consentano una ragionevole previsione di condanna[81]. Il cambiamento che si profila nell’impegno investigativo e valutativo del pubblico ministero appare consistente. 

Nel contesto di una rimodulazione della disciplina dei termini per le indagini preliminari[82], infatti, all’esito di esse il pubblico ministero sarà tenuto a porsi in condizione di svolgere una prognosi che oltrepassa, di molto, la ricognizione di imputazioni azzardate, la valutazione dinamica dell’utilità di una progressione processuale ovvero la previsione ragionevole sulle tematiche bisognose di approfondimento probatorio per calibrate richieste. Al pubblico ministero, infatti, è affidata una valutazione prognostica ragionevole sul risultato dell’azione e, prima, una ricerca esaustiva dei dati probatori rilevanti ai fini dell’emissione di una sentenza di accoglimento della prospettiva accusatoria nel giudizio[83]. La portata deflattiva rispetto al dibattimento ora è dichiarata, come l’avversione verso l’inutilità dei processi che non giungano a condanna. Il nuovo assetto si inserisce nel contesto di un ammodernamento dell’obbligatorietà dell’azione penale, abbandona il favor actionis e, con esso, la regola comportamentale per cui nei casi dubbi l’azione deve essere esercitata e non omessa; resta il controllo di legalità del giudice a garantire che la valutazione svolta dal pm non camuffi margini di inazione per mera inopportunità. Diviene assai critica, poi, la compatibilità tra il principio di completezza (che da tendenziale diventa quasi ultimativa) e quello di continuità investigativa: «convivenza fisiologicamente ipotizzabile solo se al pubblico ministero ci si limiti a chiedere la verifica della non superfluità del giudizio, dal momento che tale attività, ovviamente, non presume la svolgimento di una ricerca esaustiva dei dati probatori rilevanti ai fini dell’emissione di una sentenza»[84]

 

5. Altri criteri interni dell’obbligatorietà dell’azione penale: le condizioni di procedibilità, l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e la sospensione del procedimento per messa alla prova

Il blocco dell’azione penale strettamente funzionale all’inflizione di una punizione, con preferenza verso la nozione dell’obbligatorietà quale regola aperta e non esasperata capace di tener vivi i valori costituzionali ad essa sottesi[85], è ricollegabile a diverse situazioni rispetto alle quali la riforma Cartabia progetta interventi di potenziamento. Tra essi possono ricordarsi: (i) le condizioni di procedibilità e in particolare la querela (della quale l’art. 1, comma 15, lett. a, prevede l’estensione a reati contro la persona e contro il patrimonio puniti con pena edittale detentiva non superiore nel minimo a due anni)[86]; (ii) la causa di non punibilità della speciale tenuità del fatto ex art. 131-bis cp (per la quale l’art. 1, comma 21, lett. a, modifica il limite di applicabilità stabilendolo nella pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria, in luogo dell’attuale pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni); (iii) le cause di estinzione del reato per condotte successive a seguito di sospensione del procedimento con messa alla prova (della quale l’art. 1, comma 22, lett. a, estende l’applicabilità a specifici reati puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni) o per adempimento di apposite prescrizioni impartite dall’organo accertatore con pagamento di una somma di denaro pari a una frazione dell’ammenda comminata per la contravvenzione (art. 1, comma 23, lett. a). 

In proposito, è stato osservato che «tutti questi istituti hanno il grande vantaggio di assicurare il massimo risultato di deflazione processuale al prezzo di un sostanziale potenziamento del ruolo del pubblico ministero, al quale in sostanza vengono conferite ulteriori occasioni di disporre del processo sulla base di sue valutazioni non prive certo di una componente di discrezionalità»[87]. Può condividersi, inoltre, anche l’ulteriore rilievo per cui questi istituti non mettono in discussione il principio di obbligatorietà dell’azione penale: «E ciò non solo perché la vera ratio dell’art. 112 Cost. sta nell’esclusione di criteri di opportunità estranei alle esigenze sostanziali e processuali della giustizia penale, mentre i parametri di giudizio sono qui tutti interni a dinamiche funzionali proprie della penalità. Ma anche perché il legislatore si è dato carico di determinare in qualche modo questi criteri; e soprattutto perché, a ben vedere, la maggior parte di questi istituti presuppongono che vi sia stato un comportamento successivo del reo che può essere legittimamente assunto come indice di un sopravvenuto venir meno in concreto del “bisogno di pena”». In effetti, l’improcedibilità per assenza di querela lascia supporre un’intervenuta soluzione “privatistica” del conflitto, così come l’esito positivo della sospensione del procedimento e le condotte successive di ottemperanza alle prescrizioni, che consentono di definire la vicenda senza ricorrere alla pena, in quanto risultino già conseguiti i suoi scopi. Anche per la speciale tenuità del fatto, ad onta di una certa qual contraddizione interna, la riforma prevede il «rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa» (lett. b del comma 21). 

La particolare tenuità del fatto (comprensiva delle fattispecie previste dagli artt. 27 dPR n. 448/1998, 34 d.lgs n. 274/2000 e 131-bis cp) rivolge una sfida agli interpreti e agli operatori, chiamati a gestire con duttilità e superare disagi culturali verso un istituto che consacra le condizioni di una pronuncia liberatoria la quale, pur sempre, muove dal presupposto dell’antigiuridicità del fatto e dalla colpevolezza; una chiara ipotesi di depenalizzazione in concreto fondata sull’assenza di “meritevolezza di pena” in ragione dell’esiguità dell’offesa[88]. A ben considerare, però, più che su esigenze di deflazione la causa di non punibilità è sintonizzata sulla proporzionalità della pena (artt. 49 Cdfue, 3 e 27 Cost.), secondo la concezione gradualistica del reato che rimette a una concreta valutazione equitativa la selezione finale della meritevolezza della pena per fatti tipici[89]

Il potenziamento di queste cause di non punibilità e, soprattutto, di estinzione del reato nella fase delle indagini preliminari, con la valorizzazione delle condotte susseguenti, suscita qualche perplessità per l’assenza di una piena cognizione giurisdizionale in ordine a comportamenti che incidono comunque sulla (non) punibilità. Sennonché, «a parte il fatto che l’ideale della piena giurisdizione è tendenzialmente incompatibile con l’esigenza di deflazione processuale in concreto, c’è da dire che la natura delle conseguenze giuridiche subite, per di più volontariamente, dall’imputato legittima l’allentamento della garanzia della piena giurisdizionalità»[90].

 

6. Criteri esterni all’obbligatorietà dell’azione penale: i criteri di priorità

Il tema dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale è quello più scivoloso, potendosi porre in tensione – se non in contraddizione autentica[91] – con il principio di obbligatorietà dell’azione penale per la parte in cui, dando accesso a valutazioni di opportunità che esorbitando dalla funzione regolativa, propria della razionalizzazione delle risorse rispetto ai servizi da gestire, apre a logiche più propriamente selettive: è tale la scelta di distinguere le notizie di reato da trattare rispetto a quelle da postergare[92] – specie in contesti di sovraccarico giudiziario – e accantonare sul binario morto della prescrizione[93]. Anche se ciò può avvenire per esigenze di deflazione[94], è indubbio che questa è la strada elettiva per introdurre criteri di opportunità esterni al principio di obbligatorietà, che, se non lo pongono radicalmente in discussione[95], ne esigono una moderna rilettura. 

Non volendo drammatizzare la novità della materia, in via generale, molteplici sono gli interventi del legislatore finalizzati a influenzare la tempestività della trattazione di vicende penali in fase di indagini. Si pensi ai mutamenti dei limiti edittali, dei regimi delle iniziative cautelari e precautelari, delle forme di esercizio dell’azione penale, delle norme sulla competenza, fino alle recenti novità sulla specializzazione in seno alla magistratura inquirente per alcune forme di criminalità (cfr. art. 51, commi 3-bis e 3-quinquies, cpp) o sul regime di trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza domestica e di genere (cfr. d.lgs n. 69/2019). 

D’altro canto, in presenza di risorse limitate e di servizi ineludibili, il conveniente impiego e l’adeguata distribuzione delle prime non risponde ad opzione ma a ricognizione di principio di realtà. I criteri di priorità varrebbero, così, a rendere più credibile il principio di obbligatorietà, creando un sistema di precedenze trasparenti e prevedibili. La peculiarità dell’intervento sui criteri di priorità, piuttosto, attiene alla portata sistematica dell’intervento, che può aspirare a qualche risultato di efficacia solo in quanto sia esteso all’intera gramma dei reati. Come riconosciuto[96], «i “criteri di priorità” – nel momento stesso in cui nascono per tamponare una situazione emergenziale, figlia dei ripetuti fallimenti nella gestio degli affari penali – difficilmente possono assurgere a “virtuosismi organizzativi”; essi, all’opposto, rappresentano una sorta di “terapia di massa”[97], un correttivo all’inefficacia del sistema, una “risposta trasparente ad uno stato di necessità”»[98]

L’esame della materia impone di chiarire ulteriori aspetti: il momento in cui opera la selezione (discernendo i criteri che operano sin dalle indagini da quelli utili alla formazione dei ruoli di udienza), i contenuti di essa (individuazione dei reati più gravi per pene edittali o tipologie per cui accelerare le indagini[99] o, al contrario, postergazione di quelli bagatellari, prossimi alla prescrizione, etc.)[100] e il soggetto legittimato a compierla. 

Quest’ultimo è probabilmente l’aspetto meno discusso, ma più problematico rispetto alle prospettive dello statuto del pubblico ministero. Comune è infatti l’opinione che la portata selettiva di tali criteri – quantomeno in concreto e, certo, nelle realtà territoriali nelle quali carichi di lavoro non paiono fronteggiabili con il conveniente impiego delle risorse attualmente disponibili – esiga una legittimazione democratica diretta del soggetto che li formula e, in particolare, che s’imponga la definizione di una base regolativa di fonte parlamentare[101], utile a garantire una uniformità che prevenga forme di federalismo giudiziario[102]. Su questa linea si pone la riforma Cartabia, che all’art. 1, comma 9, lett. i, fissa quale principio per il legislatore delegato quello di «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti». In via astratta – ma in concreto le conseguenze potrebbero essere diverse –, i termini dell’impostazione sono chiari: la politica criminale, nelle linee fondamentali, spetta al Parlamento, che ne affida l’attuazione più dettagliata e trasparente ai procuratori della Repubblica. 

Sinora, la giustificazione dell’enucleazione dei criteri di priorità con circolari[103] e nei progetti organizzativi delle procure[104] è stata argomentata dalla portata orientativa di norme processuali (art. 227 d.lgs n. 58/1998, art. 132-bis disp. att. cpp) o disciplinanti prerogative dei procuratori della Repubblica (art. 1, comma 2, sul «corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale»; art. 4, comma 2, d.lgs n. 106/2006, sulla definizione dei «criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti»), come ulteriormente declinate nell’art. 3 della circolare del Csm sull’organizzazione degli uffici di procura[105], con rinvio ai principi enunciati nelle delibere consiliari del 9 luglio 2014[106] e dell’11 maggio 2016 in tema, rispettivamente, di «criteri di priorità nella trattazione degli affari penali» e di «linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari – rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti»[107]

Molte le voci critiche levatesi rispetto all’assetto attuale[108], anche per segnalarne il difetto di fondamento giuridico. Si è osservato, così, che le norme processuali evocate avrebbero natura transitoria e sarebbero destinate a disciplinare i ruoli di udienza e la trattazione dei processi, evidentemente situazioni non omogenee alle indagini[109]; per lo più, si sono espressi dubbi, alla stregua di fisiologici rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario, sulla possibilità di attribuire ai singoli procuratori una simile facoltà di determinare la politica criminale, che non può che spettare al Parlamento[110], in ossequio al principio di legalità e del processo regolato dalla legge (art. 111, comma 1, Cost.). 

La difesa dell’impostazione attuale – sulla quale la riforma Cartabia mira a intervenire – trae alimento, per contro, da diversi argomenti, non banalizzabili. È obiettiva la contraddizione intrinseca dell’opera di un legislatore pan-penalizzante[111] che, poi, per realizzare selettive amnistie di fatto, interviene attivamente nel regolamentare precedenze di un traffico da egli stesso incessantemente creato; un regolatore che crea e disfa secondo logiche – a dir poco – divergenti e mutevoli, per non dire capricciose. Peraltro, possono nutrirsi insicurezze sulla sua capacità di continenza: quali le conseguenze dell’insoddisfazione rispetto al modo con i quali i procuratori della Repubblica daranno dettagliata attuazione ai criteri generali? In ogni caso, inevitabile appare la presenza di un margine di discrezionalità tecnica nell’attuazione dei criteri generali fissati dal legislatore – come ammette la stessa Commissione Lattanzi[112] – che potrebbe alimentare lo spazio per una responsabilità e di una dipendenza verso il potere politico; situazione all’origine di un cambiamento anche culturale e della posizione ordinamentale dei procuratori[113], dagli esiti non preventivabili. Nel momento in cui quel potere di definizione dei criteri di priorità – ora ammesso in una logica strettamente organizzativa – appare definitivamente sdoganato da una norma primaria, concreto è il rischio di trasferire più sulla magistratura inquirente che sugli interpreti politici – Ministero della giustizia o Parlamento – il protagonismo nella politica criminale. Così, nella ricerca della trasparenza e dell’uniformità potrebbe doversi censire il risultato di una maggior supplenza giudiziaria, per vero già all’origine di molte delle instabilità delle riforme nel sistema giustizia.

Gli effetti istituzionali e ordinamentali del varo di questo programma di politica criminale, quindi, sono tutti da verificare; di certo, come insegna l’esperienza storica, non andrà trascurato che, ove si introduce la discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, l’opportunità si affaccia quale ospite indiscreto. Entrambe le componenti richiamano a un esercizio competente e responsabile delle prerogative, rafforzato dall’acquisita base normativa: ma responsabilità sociale non equivale a dipendenza dal (contingente) potere politico. 

Può legittimamente dubitarsi che la Politica resterà davvero alla finestra e non riferirà agli attuatori la responsabilità degli insuccessi nella politica criminale. Prima, però, può nutrirsi più di qualche perplessità sull’opportunità di sottrarre al controllo giudiziale l’esito delle enucleazioni concrete delle priorità da parte dei procuratori della Repubblica quando non si limitino a formali postergazioni – nelle realtà giudiziarie in cui il problema è davvero solo di priorità –, adottando autentiche selezioni dell’azione penale, come deve riconoscersi corrispondere a molte realtà in cui “procrastinare” significa “dismettere” la trattazione. 

In proposito, la Commissione Lattanzi  aveva immaginato l’introduzione di un meccanismo di coordinamento tra i criteri fissati dagli uffici di procura e quelli definiti dagli uffici giudicanti per la trattazione dei processi, in modo da evitare fenomeni di disallineamento che si traducono in potenziali ritardi nell’esercizio dell’azione penale; si trattava di un intervento che, in parte, era già stato anticipato dagli artt. 3 e 7 della circolare  per la formazione dei progetti organizzativi degli uffici di procura nella versione del 2020 (per la quale la redazione del progetto organizzativo è preceduta da un’interlocuzione con il presidente del tribunale relativa agli aspetti organizzativi che interessano e coinvolgono l’ufficio giudicante, mentre nell’elaborazione dei criteri di priorità il procuratore della Repubblica cura l’interlocuzione con il presidente del tribunale ai fini della massima condivisione, e opera tenendo conto delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti). Una simile forma di raccordo di salvaguardia procedurale non pare, però, una risposta all’altezza dei valori in gioco.

 

7. Considerazioni conclusive

Obiettivo fondamentale dei recenti progetti e delle riforme nell’ambito del settore giustizia è la riduzione del tempo del giudizio, che registra medie inadeguate. Tutti gli interventi in cantiere in materia di giustizia convergono, dunque, al comune scopo di riportare il processo italiano a un modello di efficienza e competitività. Secondo il PNRR, «L’efficienza dell’amministrazione della giustizia rappresenta un valore in sé, radicato nella cultura costituzionale europea che richiede di assicurare “rimedi giurisdizionali effettivi” per la tutela dei diritti, specie dei soggetti più deboli. Inoltre, il sistema giudiziario sostiene il funzionamento dell’intera economia. L’efficienza del settore giustizia è condizione indispensabile per lo sviluppo economico e per un corretto funzionamento del mercato»[114]

Alla base del PNRR è assai sviluppata la sensibilità verso la necessità di ricalibrare il sistema giustizia sull’efficienza economica. Tale consapevolezza si impone all’attenzione degli interpreti e degli operatori del diritto. Il Paese è di fronte a una sfida epocale, la cui drammaticità non ammette d’essere trascurata. Al netto delle necessarie riforme normative e organizzative, non sfugge la necessità di un mutamento culturale della magistratura, chiamata a prendere atto che nel nuovo sistema i valori vivono diversi equilibri e originali integrazioni reciproche. 

Sarebbe velleitario ritenere che una buona giurisdizione penale possa esistere prescindendo dalla sorte delle riforme che incidono sugli stadi iniziali del procedimento penale, ovvero sulla fase delle indagini[115]. Essa non va alimentata solo da una buona legislazione, sciolta da continue spinte emotive, ma anche dall’azione delle procure, sostenuta da una cultura espressa nel concreto impegno comportamentale di salvaguardia di interessi diffusi, quasi sempre la più difficile; solo questa cultura e tale rinnovata responsabilità deontologica[116] possono aspirare a preservare autenticamente il ruolo del pubblico ministero quale primo garante dei diritti dell’indagato, competente organo di impulso che rende conto dei risultati dell’esercizio dell’azionale penale e soggetto attivo di un giurisdizione socialmente responsabile[117]. Non secondario lo spazio d’intervento di garanzia ora delineato per il giudice per le indagini preliminari, il cui controllo riprende connotati di pregnanza più simili a quelli del vecchio giudice istruttore. 

Dalla riforma scaturisce un bisogno supplementare di professionalità, l’unico in grado di legittimare un impegno investigativo che, per restare presidio di legalità, deve conservare margini ineludibili di discrezionalità senza fuggire la responsabilità[118]; quest’ultima intesa come “accountability”, ovvero quale dovere di resoconto trasparente, necessario contrappeso di una discrezionalità sottratta al mondo dell’abuso e dell’arbitrio e sottoposta a serie possibilità di controllo.

Il principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è dunque richiesto di declinazioni moderne, ma deve mantenere il cuore antico. Esso s’identifica nella regola di controllo giudiziale quale maturata nell’ordinamento costituzionale e democratico[119]: controllo delle scelte di azione ma ancor più di quelle d’inazione del pubblico ministero. Non lo esigono, forse, solo il bisogno di indipendenza dei pubblici ministeri e le altre garanzie dell’ordinamento giudiziario ma, con essi, un valore che ha accompagnato il principio di obbligatorietà dell’azione penale sin dai suoi esordi e che non pare né scolorito né scontato: l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. 

 

 

*  Il presente contributo è stato pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 13 ottobre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/l-obbligatorieta-dell-azione-penale-efficiente-ai-tempi-del-pnrr).

1. È il programma approvato dal Governo italiano il 24 aprile 2021 («Next Generation Eu», www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR_0.pdf); vds. pp. 44-63, dedicate alle riforme nel settore “Giustizia”. Il PNRR è costruito secondo un approccio organico che coniuga interventi normativi, investimenti adeguati, innovazioni organizzative

2. Secondo il Rapporto 2020 (www.coe.int/it/web/portal/-/efficiency-and-quality-of-justice-in-europe-2020-report) della Commissione europea per l’efficienza della giustizia (CEPEJ, composta di esperti provenienti dai  47 Stati membri del Consiglio d’Europa), la definizione dei processi penali in Italia oltrepassa di molto la media europea. Dalla “scheda Paese” dedicata all’Italia, l’indicatore di efficienza del Disposition Time (Pending cases/resolved cases)*365 segnala i seguenti dati nazionali rispetto a dati medi europei, riportati a seguire tra parentesi: in primo grado 361 days (122), in secondo grado 850 days (104 giorni) e in ultima istanza 156 days (114) – per le schede Paese, cfr. https://rm.coe.int/evaluation-report-part-2-english/16809fc059. 

3. Cfr. ddl n. 2353, approvato dall’assemblea del Senato in data 23 settembre 2021, che ha ad oggetto la «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari». Dopo la sua presentazione alla Camera, il 13 marzo 2020, da parte del Governo Conte II, con il Governo Draghi, il Ministro della giustizia Cartabia ha insediato una Commissione di studio (cd. Commissione Lattanzi) per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al ddl AC 2435. Sulla base del contributo della Commissione, il 14 luglio 2021 il Governo ha presentato una serie di emendamenti al testo originario. Il ddl si compone di 2 articoli: l’art. 1 prevede una serie di deleghe al Governo, che dovranno essere esercitate entro un anno dall’entrata in vigore della legge; l’art. 2 contiene novelle al codice penale e al codice di procedura penale, immediatamente precettive. 

4. Cfr. G. Canzio e F. Fiecconi, Giustizia per una riforma che guarda all’Europa, Vita e Pensiero, Milano, 2021, pp. 19-20, i quali sottolineano come la lentezza offuschi il valore della giustizia radicato nella cultura costituzionale europea. 

5. G. Canzio, Le linee del modello “Cartabia”. Una prima lettura, testo riveduto e ampliato della relazione svolta il 14 luglio 2021 all’incontro su «Lo stato della giustizia e i suoi protagonisti», organizzato dalla Fondazione dell’Avvocatura torinese “Fulvio Croce” e dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino, in Sistema penale, 25 agosto 2021 (https://sistemapenale.it/it/opinioni/canzio-riforma-cartabia-prima-lettura?out=print). 

6. In tal senso, O. Dominioni, L’obbligatorietà dell’azione penale dal codice Rocco alla Costituzione. Il bilanciamento tra l’interesse alla persecuzione penale e altri interessi a copertura costituzionale, in Aa. Vv., L’obbligatorietà dell’azione penale, atti del XXXIII Convegno nazionale dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale (Verona, 11-12-ottobre 2019), Giuffrè, Milano, 2021, pp. 16-17. L’A. rimarca come l’efficienza giudiziaria riceva specifica copertura negli artt. 97, comma 2, e 111, comma 2, Cost.; quest’ultima norma assicura la durata ragionevole del processo e ha portata non limitata all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, ma estesa all’esercizio della funzione giurisdizionale; S. Quattrocolo, Tenuità e irrilevanza sociale del fatto, ivi, p. 192, assume problematico porre in esatto equilibrio, almeno per mano giudiziaria, il buon funzionamento e l’efficienza con i beni dell’art. 112 Cost. 

7. M. Chiavario, Obbligatorietà dell’azione penale: né un mito da abbattere né un feticcio da sottrarre a ogni discussione, in Aa. Vv., L’obbligatorietà, op. cit., pp. 9 ss. 

8. Corte cost., n. 88/1991 assumeva esplicitamente che il favor actionis, radicato nell’art. 112 Cost., imponesse adattamenti dell’astratto “modello” accusatorio in modo da renderlo coerente con il disposto costituzionale.

9. N. Rossi, Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, p. 21 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/933/2-2021_qg_rossi.pdf), evoca in proposito l’immagine degli anelli indissolubili tra eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, obbligatorietà dell’azione penale e indipendenza del pubblico ministero, utili a scongiurare utilizzazioni arbitrarie e discriminatorie della giurisdizione penale.

10. Cfr. Corte cost., n. 88/1991, ricorda come già in precedenza «ebbe ad affermare nella sent. n. 84 del 1979, cioè che “l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ad opera del Pubblico Ministero (...) è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del Pubblico Ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale”; sicché l’azione è attribuita a tale organo “senza consentirgli alcun margine di discrezionalità nell’adempimento di tale doveroso ufficio”. Più compiutamente: il principio di legalità (art. 25, secondo comma), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale. Realizzare la legalità nell’eguaglianza non è, però, concretamente possibile se l’organo cui l’azione è demandata dipende da altri poteri: sicché di tali principi è imprescindibile requisito l’indipendenza del pubblico ministero. Questi è infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.) e si qualifica come “un magistrato appartenente all’ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere”, che “non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge” (sent. n. 190 del 1970 e sent. n. 96 del 1975)». Sul legame tra i tre principi, cfr. R. Kostoris, Per un’obbligatorietà temperata dell’azione penale, in Riv. dir. proc., n. 4/2007, pp. 875 ss., e in La Magistratura, n. 1/2008, pp. 46 ss.; P. Gaeta, Il pubblico ministero e la polizia giudiziaria, in G. Spangher (a cura di), Procedura penale. Teoria e pratica del processo, vol. I, Utet Giuridica, Milano, 2015, pp. 155 ss. 

11. M. Chiavario, Obbligatorietà, op. cit., p. 11.

12. Cfr. P. Borgna, Esercizio obbligatorio dell’azione penale nell’era della “pan-penalizzazione”, in questa Rivista online, 31 ottobre 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/esercizio-obbligatorio-dell-azione-penale-nell-era-della-ldquopan-penalizzazionerdquo_31-10-2019.php; R. Kostoris, Per un’obbligatorietà temperata, op. cit.; N. Rossi, Per una concezione realistica dell’obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/1997, pp. 309-318.

13. Osserva C. Botti, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi: confini e prospettive, in Criminalia, 2010, p. 327: «L’Avvocatura ha sempre difeso questa c.d. obbligatorietà, anche e soprattutto come uno strumento a tutela dell’uguaglianza e come un freno all’insopprimibile contenuto di “politicità” insito nell’azione stessa. Ma questa difesa proclamata e declamata non ci deve fare confondere con quanti sono interessati a conservare la realtà di fatto di una discrezionalità surrettizia e incontrollata, che lede quei valori assai più di quanto non li lederebbe (e certamente li lederebbe) una discrezionalità controllata e manifesta secondo criteri determinati».

14. D. Manzione, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi, op. cit., p. 332.

15. Con quest’ultima espressione, ricorda N. Rossi, Per una cultura, op. cit., p. 25, si designa «un approccio all’esercizio dell’azione penale caratterizzato da una pluralità di fattori, tra cui: a) una ben calibrata valutazione, nell’ambito di ciascun ufficio di procura, dei mezzi disponibili per operare efficacemente nell’area di competenza, accompagnata in alcuni uffici da una esplicita determinazione di “criteri di priorità” nella trattazione degli affari giustificata in nome dell’efficacia operativa, di un impiego oculato delle risorse disponibili e di una sorta di “stato di necessità” derivante dal rapporto tra il numero di procedimenti e il personale e i mezzi di cui dispone l’ufficio; b) una valutazione di sostenibilità dell’accusa particolarmente rigorosa nel discernere i procedimenti di cui chiedere l’archiviazione e quelli per i quali sollecitare il giudizio, sulla scorta di indicazioni del capo dell’ufficio e/o di orientamenti maturati a seguito di confronti collegiali tra magistrati (in particolare dei gruppi specializzati) e di confronti con altri uffici. (…) ; c) una attenta valutazione sull’effettiva offensività di determinate condotte – astrattamente riconducibili a fattispecie di reato – oggi istituzionalmente reclamata dalla introduzione dell’istituto dell’archiviazione per tenuità del fatto per reati che si collocano entro limiti di pena legislativamente prefissati; d) la ricerca di una linea di condotta comune e coerente in ordine a soluzioni patteggiate dei procedimenti».

16. Per un quadro comparatistico cfr. M. Chiavario, Obbligatorietà, op. cit., p. 12; N. Rossi, Per una cultura, op. cit., pp. 25-26, osserva: «In altri termini, si può dire che il divario tra una concezione realistica dell’obbligatorietà dell’azione penale e una discrezionalità regolata ed esercitata entro i binari di linee-guida predeterminate e trasparenti si riduce notevolmente. Da un lato, infatti, in nessuno Stato di diritto è ammessa una discrezionalità arbitraria, capricciosa, disancorata da parametri prefissati e destinati a essere applicati in regime di uguaglianza tra le persone (per lo meno in assenza di indebite interferenze). Dall’altro lato, l’opposto principio di obbligatorietà dell’azione penale, realisticamente inteso, esprime una linea di tendenza e una costante tensione verso l’eguale applicazione della legge penale, con i corollari dell’indipendenza operativa del pubblico ministero e di un suo status giuridico circondato di forti garanzie».

17. R. Kostoris, Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità fissati dalle Procure, in Aa. Vv., L’obbligatorietà, op. cit., p. 47.

18. Cfr. Corte cost., n. 50/1980.

19. F. Palazzo, Sul pubblico ministero: riformare sì, ma con giudizio, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, p. 62; G. Melillo, La realtà dei criteri di priorità in una maxi-Procura, in Aa. Vv., L’obbligatorietà, op. cit., p. 75, ricorda come l’incidenza della prescrizione dichiarata nelle indagini preliminari vari grandemente su base territoriale, con distretti attestati sullo “zero virgola” e altri che raggiungono il 34%; per gli uffici di secondo grado, poi, oltre il 50% delle prescrizioni matura nelle Corti d’appello di Roma, Napoli, Torino e Venezia. 

20. L’art. 1 della legge n. 1/1992 ha elevato il quorum di approvazione delle leggi di amnistia e indulto a 2/3 dei componenti di ciascuna Camera; P. Gualtieri, Azione penale discrezionale e P.M. elettivo per superare le inefficienze del processo penale, in Aa. Vv., L’obbligatorietà, op. cit., p. 36, ricorda come tra il 1944 e il 1990 siano stati emanati 33 provvedimenti di amnistia e di indulto, con sostanziale depenalizzazione dei reati puniti fino a 3-4 anni. 

21. S. Quattrocolo, Tenuità, op. cit., p. 189.

22. Cfr. circolare della Procura della Repubblica di Torino (cd. “circolare Maddalena”) 10 gennaio 2007, n. 50/2007, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 3/2007, con nota di G. Santalucia, Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità, p. 619.

23. S. Quattrocolo, Tenuità, op. cit. (per i riferimenti bibliografici, vds. nota 60). 

24. Ivi, p. 196. Si richiamano al principio di proporzionalità della risposta sanzionatoria Corte cost., nn. 68/2012, 236/2016 e 112/2019.

25. Per un esame gli spazi di discrezionalità secondo una prospettiva internazionale comparatistica, cfr. N. Rossi, Per una cultura, op. cit., p. 16.

26. Ricorda D. Manzione, Il principio, op. cit., 335: «In realtà, appare metafisica l’idea di poter addivenire ad una geometrica applicazione del principio di eguaglianza: è lo stesso processo – come si vede – ad alimentare diseguaglianze; e lo è lo stesso procedere, condizionato com’è dai limiti degli uomini che ne indirizzano lo svolgimento e dalle ristrette risorse o mezzi di cui dispongono. Non sono, insomma, ferite di questo genere che possono indurre a ritenere così “sfregiato” il principio da far pensare che tanto vale abbandonarlo. Al contrario, come tutti i principi è invece bene che sia lì a fornire una traccia dalla quale l’operatore, non distaccandosene troppo, può sperare di ottenere un risultato equo, giusto, non una forma di protezione per privilegi corporativi o peggio personali».

27. Cfr. E. Dezza, Il codice di procedura penale del Regno Italico (1807). Storia di un decennio di elaborazione legislativa, Cedam, Padova, 1983, pp. 315-316. 

28. M. Miletti, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi; confini e prospettive, in Criminalia, 2010, p. 306, ricorda opportunamente come L. Borsari (Della azione penale, Società L’Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1866, pp. 183 e 186-187), dall’«indipendenza» costituzionale del giudizio penale «dallo Stato» facesse conseguire che «l’azione penale pubblica non è esercitata nell’interesse di nessuno, neppure nell’interesse della società (...): il Pubblico Ministero non è l’agente della società, come sempre si dice», bensì «un magistrato della giustizia».

29. G. Borsani e L. Casorati, Codice di procedura penale italiano commentato. Libro primo. Azione penale, azione civile, estinzione delle azioni, ordini della magistratura, giurisdizione, competenza, Tip. L.G. Pirola, Milano, 1873, I, pp. 13-4.

30. L. Lucchini, Elementi di procedura penale. Seconda edizione riveduta e ampliata, G. Barbera, Firenze, 1899, n. 192, p. 221, riscontrava nel pubblico accusatore, così come conformato dalle leggi del Regno, «una persona ibrida quant’è ibrido il sistema misto, un poco parte e un po’ magistrato, un po’ soggetto all’azione del governo e un po’ indipendente».

31. A. Andronio, Pubblico ministero e direzione delle indagini preliminari, in Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher, vol. III: Indagini preliminari e udienza preliminare, a cura di Giulio Garuti, Utet Giuridica, Milano, 2009, p. 250.

32. V. Manzini, Manuale di procedura penale italiana, Fratelli Bocca, Torino, 1912, pp. 77-78, nota 17, sosteneva l’obbligatorietà dell’agire, in presenza di ipotesi di reato sufficientemente fondata, giungendo a ritenere invalido un ipotetico divieto di procedere imposto dal Ministro: l’ordine gerarchico, infatti, assumeva valore solo se tendente all’attuazione della legge, non al suo disconoscimento. Scoraggiato dal dato di realtà, l’A. osservava: «Purtroppo, nella nostra pratica giudiziaria, per effetto di indebite ingerenze ministeriali, parlamentari, o consortesche locali, spesso è il principio della discrezionalità o opportunità del promovimento dell’azione penale che prevale». Tuttavia «il miglioramento progressivo della nostra magistratura» induceva lo studioso a sperare nell’imminente superamento della crisi di valori che aveva spinto un «guardasigilli magistrato» ad affermare «che l’ordine giudiziario italiano rende servigi e non giustizia» (ivi, pp. 78-79).

33. P. Rossi, Trattato di diritto penale (trad. it. con note di E. Pessina), Tip. G. Bozza, Torino, 1859, pp. 154-155, muovendo da un’impostazione “realistica” metteva in guardia dal rischio che, «in taluni casi speciali», la persecuzione dei reati e i processi si rivelassero «una sorgente di disordine» ed eccezionalmente «pericolos[i] o nociv[i] per la società». In tali ipotesi, il legislatore avrebbe dovuto «lasciare i mezzi di rettificare (...) la decisione generale», ossia «la facoltà di non perseguire, affinché la giustizia, destinata al mantenimento dell’ordine sociale, non ne divenga una cagione di travolgimento». Un’area franca comprensiva di situazioni eterogenee: i reati bagatellari; le infrazioni procedibili a querela di parte o per le quali, comunque, il danno fosse ritenuto esclusivamente “privato”; gli illeciti in qualche modo tollerati o addirittura coperti dal potere politico. Anche L. Borsari, Della azione penale, op. cit., p. 212, nota 8, era persuaso che il pm potesse autonomamente respingere denunce o querele sprovviste di un minimo di «credibilità».

34. E. Florian, Principi di diritto processuale penale. Seconda edizione riveduta e coordinata al nuovo codice di procedura penale, Giappichelli, Torino, 1932, pp. 192-193.

35. A. Rocco, Sul concetto del diritto subiettivo di punire, Tipografia Giachetti, Prato, 1904.

36. P. Nocito, La Corte d’assise. Esposizione teorica e pratica delle relative leggi di procedura ed ordinamento giudiziario compresa la legge sui Giurati 8 giugno 1874, Tipografia Eredi Botta, Roma, 1874, p. 203.

37. E. Florian, Il processo penale e il nuovo codice (Introduzione al Commentario del nuovo codice di procedura penale diretto da R. Garofalo - A. Berenini - E. Florian - A. Zerboglio), Vallardi, Milano, 1914, p. 115, nota 15.

38. M. Miletti, Il principio di obbligatorietà, op. cit., p. 322.

39. O. Dominioni, L’obbligatorietà, op. cit., p. 16.

40. G. Melillo, La realtà dei criteri di priorità in una maxi-procura, in Aa. Vv., L’obbligatorietà, op. cit., p. 77.

41. G. Neppi Modona e L. Violante, Poteri dello Stato e sistema penale. Corso di lezioni universitarie, Tirrenia-Stampatori, Torino, 1978, p. 325; F. Caprioli, L’archiviazione, Jovene, Napoli, 1994, pp. 35-39, nota 14, anche per i molteplici dilemmi ermeneutici cui la nuova disciplina diede luogo.

42. P. Calamandrei, Relazione preliminare sul tema «Posizione costituzionale del potere giudiziario nella nuova Costituzione italiana», in G. D’Alessio (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana. I lavori preparatori della «Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato» (1945-1946), Il Mulino, Bologna, 1979, p. 623.

43. A. Andronio, Pubblico ministero e direzione delle indagini preliminari, in Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher, vol. III: G. Garuti (a cura di), Indagini preliminari e udienza preliminare, Utet Giuridica, Milano, 2009, p. 253, nota 49.

44. M. Miletti, Il principio di obbligatorietà, op. cit., p. 327. 

45. N. Rossi, Per una cultura, op. cit., p. 21.

46. F. Cordero, Voce Archiviazione, in Enc. dir., vol. II, Giuffrè, Milano, 1958, p. 1030. 

47. S. Quattrocolo, Tenuità, op. cit., p. 192.

48. G. Melillo, La realtà, op. cit., p. 78; e con le altre forme di formulazione dell’imputazione. 

49. E. Marzaduri, Qualche considerazione sui rapporti tra principio di obbligatorietà dell’azione penale e completezza della indagini preliminari, in Aa. Vv., L’obbligatorietà, op. cit., p. 113. 

50. S. Quattrocolo, Tenuità, op. cit., p. 192; F. Caprioli, L’archiviazione, op. cit., p. 340. Lo riconosce anche Corte cost., n. 88/1991: «Tra vecchio e nuovo codice vi è, però, in materia, una fondamentale differenza. Nel primo, la decisione sull’archiviazione, assunta in base alla sola notizia di reato o a più o meno scarni elementi acquisiti nel corso degli atti preliminari all’istruzione, tendeva a stabilire se vi fosse o no un’infondatezza così manifesta da far ritenere superflua o meno, l’istruzione vera e propria. Nel secondo, invece, si tratta di decidere all’esito, e sulla base, di indagini preliminari anche “complete” e talvolta integrate da investigazioni suppletive (artt. 409, 410 e 413 c.p.p.). Ciò spiega perché il legislatore delegato, nel formulare l’art. 408 c.p.p., abbia ritenuto di omettere l’attributo “manifesta” che il delegante aveva adottato senza particolari discussioni sul punto: si è ritenuto, cioè, verosimilmente, che l’”infondatezza”, collocata al termine delle indagini preliminari, recasse già in sé il segno dell’inequivocità. Il vero significato della regola così dettata è, quindi, quello della non equivoca, indubbia superfluità del processo».

51. S. Quattrocolo, Tenuità, op. cit., pp. 193 ss. 

52. A.U. Palma, L’obbligo di esercizio dell’azione penale, carico giudiziario ed efficientamento di sistema: una prospettiva rispettosa del vincolo costituzionale, in Archivio penale, n. 1/2021, ricorda: «Era, d’altronde, il 1905 quando, per la prima volta, venne teorizzato che “il diritto di punire” rappresenta per lo Stato un “dovere” la cui attuazione, assurgendo a scopo “sociale e pubblico”, non può esser lasciata all’arbitrio ma va imposta “in modo obbligatorio” (…); ad affermarlo furono autorevoli esponenti della scuola positivistica che, raccordando l’efficacia intimidativa della legislazione penale alla concretezza della sanzione minacciata, osservarono che “quanto più intensamente sociali diventano gli scopi del diritto penale tanto maggiormente deve prevalere il principio di legalità” (…). Legalità, dunque, intesa come indisponibilità della pretesa punitiva e, di conseguenza, azione penale affidata ad un organo pubblico onerato di esercitarla “ogniqualvolta ne ricorrano in concreto le condizioni di legge, in adempimento d’un dovere funzionale assoluto e inderogabile, escludente ogni considerazione d’opportunità”».

53. N. Galantini, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale tra interesse alla persecuzione penale e interesse all’efficienza giudiziaria, in Dir. pen. cont., 23 settembre 2019.

54. V. Zagrebelsky, Stabilire le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, in Aa.Vv., Il pubblico ministero oggi, Giuffrè, Milano, 1994, p. 10; G. Silvestri, Relazione, in Aa.Vv., Pubblico ministero e riforma dell’ordinamento giudiziario, Associazione tra gli studiosi del processo penale, Giuffrè, Milano, 2006, p. 227. 

55. O. Dominioni, voce Azione penale, in Dig. discipl. pen., vol. I, Utet, Torino, 1987, p. 410. 

56. O. Dominioni, L’obbligatorietà, op. cit., p. 16.

57. F. Palazzo, Sul pubblico ministero, op. cit., p. 62.

58. Osserva F. Palazzo, ibid.: «il che significa che ben possono essere percorse e potenziate le strade dei criteri interni, anche in considerazione del fatto che esse, mentre consentono di sfoltire il carico giudiziario senza pregiudicare la tenuta del sistema, sono inoltre pur sempre sottoposte al controllo del giudice».

59. Cfr. circolare n. 3225/17 del 2 ottobre 2017, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, in tema di «Osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato», commentata da E. Bruti Liberati, Le scelte del pubblico ministero: obbligatorietà dell’azione penale, strategie di indagine e deontologia, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2018, p. 16, www.questionegiustizia.it/data/rivista/pdf/23/qg_2018-1.pdf. Cfr. N. Galantini, Il principio di obbligatorietà, op. cit., p. 9, osserva come la “ponderata tardività” dell’iscrizione, vista in bonam partem nella circolare del procuratore di Roma, «rischia di generare effetti pregiudizievoli sul diritto di difesa in termini di utilizzabilità successiva di atti non partecipati, salvo richiamare il principio affermato dalla Corte costituzionale secondo cui, se pure in relazione all’uso di prove formate in incidente probatorio, è ammessa per il giudice la “possibilità di sindacare la concreta utilizzabilità della prova assunta” a fronte di “qualsiasi comportamento omissivo addebitabile al pubblico ministero quanto al momento della individuazione della qualità di indagato”» (vds. Corte cost., n. 198/1994).

60. Per Cass., sez. IV, 6 luglio 2006, n. 32776, Rv. 234822, «nel corso delle indagini preliminari il P.M. – salvi i casi di mutamento della qualificazione giuridica del fatto o dell’accertamento di circostanze aggravanti – deve procedere a nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato previsto dall’art. 335 c.p.p. sia quando acquisisce elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona, sia quando raccolga elementi in relazione al medesimo o ad un nuovo reato a carico di persone diverse dall’originario indagato. Ne consegue che il termine per le indagini preliminari previsto dall’art. 405 cod. proc. pen., decorre in modo autonomo per ciascun indagato dal momento dell’iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato e, per la persona originariamente sottoposta ad indagini, da ciascuna successiva iscrizione». Ha precisato la Corte di cassazione che, per determinare il dies a quo ai fini della decorrenza dei termini di durata massima delle indagini preliminari relativi a diversi fatti iscritti sotto lo stesso numero in momenti differenti, l’unico criterio è quello di ordine sostanziale desumibile dall’art. 335 cpp, secondo cui, quando non si tratti di mutamento della qualificazione giuridica del fatto né di diverse circostanze del medesimo fatto, non può parlarsi di aggiornamento di iscrizioni, ma di iscrizione autonoma. Nello stesso senso: «Qualora il P.M. acquisisca nel corso delle indagini preliminari elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona già iscritta nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen., deve procedere a nuova iscrizione ed il termine per le indagini preliminari, previsto dall’art. 405 cod. proc. pen., decorre in modo autonomo per ciascuna successiva iscrizione nell’apposito registro, senza che possa essere posto alcun limite all’utilizzazione di elementi emersi prima della detta iscrizione nel corso di accertamenti relativi ad altri fatti» (Cass., sez. III, 18 marzo 2015, n. 32998, Rv. 264191; Cass., sez. II, 18 ottobre 2012, n. 150, ud. dep. 4 gennaio 2013, Rv. 254676). Sono inutilizzabili le prove acquisite oltre il termine di durata delle indagini preliminari decorrente dalla data della prima iscrizione soltanto quando il pubblico ministero, dopo l’iniziale iscrizione del registro delle notizie di reato, abbia provveduto a una successiva iscrizione relativa al medesimo fatto diversamente circostanziato (Cass., sez. VI, n. 29151/2017, Rv. 270573; conf. Cass., sez. V, n. 34510/2018, Moccia; Cass., sez. II, n. 15691, Notaro; Id., n. 22016/2019).

61. La Cassazione ha chiarito che, ai fini della previsione di cui all’art. 405 cpp, il termine di durata delle indagini preliminari decorre dal momento della effettiva iscrizione nell’apposito registro ex art. 335 cpp delle generalità della persona alla quale il reato sia stato attribuito e non da quello in cui il pubblico ministero abbia disposto l’iscrizione medesima (Cass., sez. VI, n. 10078/2021, Rv. 280718-01; Cass., sez. II, n. 12423/2020, Rv. 279337-01; contra Cass., sez. V, n. 44909/2017, Rv. 271619-01).

62. M. Fabri, Discrezionalità e modalità di azione del pubblico ministero nel procedimento penale, in Polis, n. 2/1997, pp. 180 ss.

63. A.U. Palma, L’obbligo, op.cit., p. 9 vi riconduce i casi in cui, pur in presenza di più soggetti indagabili ovvero (di più) reati contestabili, il rappresentante della pubblica accusa sceglie di scaglionare i tempi di iscrizione così da beneficiare per le proprie investigazioni di uno spazio complessivamente più lungo. Va ricordato che il regime di utilizzabilità degli atti in relazione al rapporto temporale con la scadenza dei termini delle indagini preliminari rimane distinto per i singoli indagati in base al principio di autonomia della decorrenza dei predetti termini per ciascun indagato (Cass., sez. IV, 6 luglio 2006, n. 32776, Meinero, Rv. 234822; Cass., sez. VI, 12 marzo 2003, n. 19053, Fumarola, Rv. 227380); per tale principio, ai fini dell’utilizzabilità degli atti deve aversi riguardo unicamente alla scadenza del termine decorrente per ciascun indagato dalla data di iscrizione nel registro, restando irrilevante che a carico degli indagati si proceda per reati diversi o per il concorso nel medesimo reato. 

64. Sulle iscrizioni a modello 45, cfr. le guidelines offerte dalla circolare ministeriale n. 533 del 18 ottobre 1989; cfr. anche la circolare 21 aprile 2011 emessa dal DAG, Direzione generale della giustizia penale, e la circolare 11 novembre 2016. Sulla base di tali testi, il registro dei fatti non costituenti reato riguarda le notizie prive, almeno nel momento in cui si procede all’iscrizione, di qualsiasi rilevanza penale e non meritevoli di alcun approfondimento investigativo, poiché relative a fatti che, seppur rispondenti al vero, non sono riconducibili in astratto ad alcun illecito penale (a titolo esemplificativo: perquisizioni di iniziativa con esito negativo, rispetto a fattispecie risultata ex post non penalmente rilevante; referti medici da cui non emergano ipotesi di reato suscettibili di approfondimento; informative di accadimenti non suscettibili di univoco inquadramento, come i casi di scomparsa o suicidio; esposti in materia civile e amministrativa; esposti privi di senso ovvero di contenuto abnorme o assurdo; atti espressivi di generiche doglianze riferite ad altrui comportamenti, non riconducibili a ipotesi di rilievo penale; atti riguardanti eventi accidentali; sentenze dichiarative di fallimento). Secondo la giurisprudenza (Cass., sez. unite, n. 34/2001, Rv. 217473-01), mentre il procedimento attivato a seguito di iscrizione degli atti nel registro previsto dall’art. 335 cpp (cd. “mod. 21”) ha come esito necessitato l’inizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione, l’iscrizione di atti nel registro non contenente notizie di reato (cd. “mod. 45”) può sfociare o in un provvedimento di diretta trasmissione degli atti in archivio da parte del pubblico ministero in relazione a quei fatti che, fin dall’inizio, appaiano come penalmente irrilevanti, o può condurre al medesimo esito della procedura prevista per le ordinarie notitiae criminis, qualora siano state compiute indagini preliminari o il fatto originario sia stato riconsiderato o comunque sia sopravvenuta una notizia di reato. In questo secondo caso, l’eventuale richiesta di archiviazione non è condizionata dal previo adempimento, da parte del pubblico ministero, dell’obbligo di reiscrizione degli atti nel registro “mod. 21”, in quanto la valutazione, esplicita o implicita, circa la natura degli atti spetta al titolare dell’azione penale indipendentemente dal dato formale dell’iscrizione in questo o quel registro, e al gip non è riconosciuto alcun sindacato né su quella valutazione né sulle modalità di iscrizione degli atti in un registro piuttosto che in un altro.

65. Condivisibile l’osservazione di D. Vicoli, I tempi delle indagini, in Aa. Vv., L’obbligatorietà, op. cit., p. 137, per il quale, in un sistema nel quale gli elementi di prova raccolti nella fase preliminare non sono utilizzabili in dibattimento, sono incongrui i limiti cronologici all’attività investigativa; salvo che gli elementi siano spendibili ai fini della diagnosi di colpevolezza, ovvero, adesso (dopo la riforma) per la prognosi per l’utile esercizio dell’azione penale. La giurisprudenza assume utilizzabili gli atti che non siano il risultato di indagini finalizzate alla verifica e all’approfondimento degli elementi emersi nel procedimento penale i cui termini delle indagini preliminari siano scaduti (Cass., sez. I, 30 giugno 2015, n. 36327, Sgarannella, Rv. 264527). Il principio è stato affermato rispetto all’acquisizione di atti già esistenti nel fascicolo della procedura fallimentare e non formati a seguito di indagini dirette a integrare gli elementi già raccolti nel procedimento penale così come per gli accertamenti effettuati nella diversa sede amministrativa in tempi successivi alla scadenza del termine delle indagini preliminari, trattandosi di atti che hanno autonoma natura documentale e sono acquisibili ai sensi dell’art. 234 cpp quali prove dei fatti oggettivi in essi rappresentati (Cass., sez. VI, n. 10996/2010, Vanacore, Rv. 246686). 

66. Cass., sez. unite, n. 16/2000; in precedenza, negli stessi termini, cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, 27 marzo 1999, Longarini, Rv. 214866; sez. I, 11 marzo 1999, Testa, Rv. 213827; sez. V, 26 maggio 1998, Nobile, Rv. 211968; sez. I, 27 marzo 1998, Dell’Anna, Rv. 210545. 

67. Cass., sez. I, n. 34637/2013, Rv. 257120.

68. Cass., sez. V, n. 22340/2008, Rv. 240491; Cass., sez. VI, n. 40791/2007, Rv. 238039; Cass., sez. IV, n. 39511/2004, Rv. 229578; Cass., sez. VI, n. 20510/2003, Rv. 227210.

69. Cass., sez. VI, n. 4844/2019, Rv. 275046; Cass., sez. unite, n. 40538/2009, Rv. 244376.

70. Cass., sez. II, n. 23299/2008, Rv. 241103.

71. Cass., sez. VI, n. 2818/2007, Rv. 235726. 

72. In tal senso, cfr. G. Canzio e F. Fiecconi, Giustizia, op. cit., pp. 29 e 149-154.

73. Alla stregua dell’attuale disciplina, la giurisprudenza (Cass., sez. II, n. 654/1996, Rv. 204261) ritiene abnorme il provvedimento con il quale il gip, richiesto della proroga del termine per il compimento delle indagini nei confronti di alcuni indagati, restituisca gli atti al pubblico ministero astenendosi dal provvedere sull’istanza e ordinando la retrodatazione dell’iscrizione nel registro previsto dall’art. 335 cpp di altro soggetto, a proposito del quale il titolare dell’azione penale non abbia sollecitato alcuna decisione. Un tale provvedimento, infatti, è ritenuto in contrasto con il principio generale espresso dall’art. 328 cpp, in forza del quale il gip è tenuto a provvedere sulle richieste delle parti, non essendogli consentito né di omettere di decidere sulla domanda ritualmente rivoltagli né, al di fuori dei casi specificamente previsti dalla legge, di provvedere d’ufficio su materia non devolutagli dalle parti. Nessuna norma, inoltre, al di fuori della particolare ipotesi di cui all’art. 415, comma 2, cpp (relativa all’ordine di iscrivere a carico di una persona identificata un reato già attribuito a ignoti dal pubblico ministero), abilita il giudice per le indagini preliminari a ordinare iscrizioni o annotazioni di sorta, nemmeno sotto la forma della retrodatazione, nel registro delle notizie di reato, la cui tenuta formale dipende esclusivamente dalle determinazioni del procuratore della Repubblica presso il cui ufficio il registro medesimo è custodito.

74. Corte cost., 28 gennaio 1991, n. 88.

75. Cfr. Cass.: sez. V, 28 gennaio 2019, n. 37322; sez. IV, 29 maggio 2018, n. 24073.

76. Così Cass.: sez. V, 28 gennaio 2019, n. 37322; sez. I, 5 dicembre 2018, n. 11570; sez. IV, 23 novembre 2017, n. 851; sez. IV, 3 ottobre 2017, n. 886; sez. IV, 19 maggio 2016, n. 26215; sez. IV, 21 aprile 2016, n. 21592; sez. IV, 20 aprile 2016, n. 19208; sez. IV, 8 marzo 2012, n. 1392; sez. IV, 27 ottobre 2010, n. 44845.

77. Corte cost., n. 88/1991: «L’efficacia del sistema dei controlli rischierebbe, però, di risultare vana se la regola di giudizio dettata per individuare l’oggettiva superfluità del processo non fosse idonea a segnare il discrimine, spesso labile, tra l’oggettiva superfluità e la mera inopportunità comunque camuffata».

78. Quale garanzia dell’effettività al controllo del gip sulla richiesta di archiviazione, la Corte costituzionale enuclea la regola (artt. 326 e 358 cpp) secondo cui il pubblico ministero ha il dovere di compiere «ogni attività necessaria» ai fini delle «determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale» (cioè, delle richieste o di archiviazione o di rinvio a giudizio), ivi compresi gli «accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini». È il principio di “completezza” (almeno tendenziale) delle indagini preliminari, necessaria, anzitutto, per consentire al pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili (tra cui la richiesta di giudizio immediato) e per indurre l’imputato ad accettare i riti alternativi (con presupposta solidità del quadro probatorio); inoltre, per arginare eventuali prassi di esercizio “apparente” dell’azione penale, che, avviando la verifica giurisdizionale sulla base di indagini troppo superficiali, lacunose o monche, si risolverebbero in un ingiustificato aggravio del carico dibattimentale. Tra gli strumenti di controllo del rispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale, a garanzia della completezza delle indagini sono annoverabili: la previsione per cui, ove il gip non ritenga accoglibile la richiesta di archiviazione, può, all’esito di un’udienza camerale all’uopo fissata, indicare al pubblico ministero le ulteriori indagini che ritiene necessarie, fissando il termine indispensabile per il loro compimento (art. 409, comma 4, cpp); la facoltà attribuita alla persona offesa dal reato di opporsi alla richiesta di archiviazione, indicando nel contempo l’oggetto dell’investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova (art. 410 cpp); il potere di avocazione del procuratore generale d’ufficio o su richiesta della persona offesa quando il procuratore della Repubblica «non esercita l’azione penale» (artt. 412 e 413 cpp); la comunicazione della fissazione con cui si faccia luogo all’udienza camerale per consentire al procuratore generale di svolgere direttamente le «ulteriori indagini» o le «investigazioni suppletive» (artt. 409, comma 3, 412, comma 2 e 413, comma 2, cpp); la potestà del gip, ove dissenta dalla valutazione di infondatezza della notizia di reato espressa dal pubblico ministero con la richiesta di archiviazione, di ordinare a quest’ultimo di formulare l’imputazione (art. 409, comma 5, cpp).

79. La Corte costituzionale – n. 88/1991 – escluse che la conformità alla legge delega dell’iniziale art. 115 potesse argomentarsi richiamando la regola della direttiva n. 11 («si ha mancanza di prova anche quando essa è insufficiente o contraddittoria»), introdotta per ragioni garantistiche, contro i pregiudizi derivanti dalle assoluzioni per insufficienza di prove e di coerenza delle formule assolutorie con la presunzione d’innocenza: ragioni le quali non avevano nulla a che vedere con la problematica dell’archiviazione.

80. Così come formulata, la norma costituiva la traduzione in chiave accusatoria del principio di non superfluità del processo, in quanto il dire che gli elementi acquisiti non sono idonei a sostenere l’accusa equivale al dire che, sulla base di essi, l’accusa è insostenibile e che, quindi, la notizia di reato è, sul piano processuale, infondata. L’impiego, nel testo definitivo, del presente («sono») in luogo del condizionale («sarebbero») proposto dalla Commissione parlamentare consultiva valeva a sottolineare ancor più che l’impossibilita di sostenere la prospettazione accusatoria, di coltivarla, cioè, in maniera attendibile, doveva essere chiara e non equivoca, coerentemente all’univocità dell’infondatezza («manifesta») che connota la formula usata dal legislatore delegante.

81. La Commissione Lattanzi ha sottolineato come, «alla luce dell’evoluzione della fase preliminare, vada superato il criterio dell’astratta utilità dell’accertamento dibattimentale; a seguito di indagini che – in linea con quanto richiesto dalla Corte costituzionale – devono risultare tendenzialmente complete (e possono avere una durata significativa), il pubblico ministero sarà chiamato a esercitare l’azione penale solo quando gli elementi raccolti risultino – sulla base di una sorta di “diagnosi prognostica” – tali da poter condurre alla condanna dell’imputato secondo la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tanto in un eventuale giudizio abbreviato, quanto nel dibattimento. Al contrario, laddove il quadro cognitivo si connoti per la mancanza di elementi capaci di sorreggere una pronuncia di condanna, il pubblico ministero dovrà optare per l’inazione. In tal modo viene valorizzata l’istanza di efficienza processuale propria dell’istituto dell’archiviazione, senza intaccare il canone di obbligatorietà dell’azione penale, che viene tutelato, per un verso, dal controllo del giudice sulla completezza delle indagini e, per l’altro, dalla possibilità di una loro riapertura».

82. L’art. 1, comma 9, fissa tra i criteri e principi quello di: «c) modificare i termini di durata delle indagini preliminari, di cui all’articolo 405 del codice di procedura penale, in relazione alla natura dei reati, nelle seguenti misure: 1) sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato, per le contravvenzioni; 2) un anno e sei mesi dalla data indicata al numero 1), quando si procede per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, del codice di procedura penale; 3) un anno dalla data indicata al numero 1), in tutti gli altri casi; d) prevedere che il pubblico ministero possa chiedere al giudice la proroga dei termini di cui all’articolo 405 del codice di procedura penale una sola volta, prima della scadenza di tali termini, per un tempo non superiore a sei mesi, quando la proroga sia giustificata dalla complessità delle indagini; e) prevedere che, decorsi i termini di durata delle indagini, il pubblico ministero sia tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro un termine fissato in misura diversa, in base alla gravità del reato e alla complessità delle indagini preliminari».

83. Già attualmente, la completezza delle indagini preliminari esige che il pubblico ministero non possa esimersi dal predisporre un esaustivo quadro probatorio in vista dell’esercizio dell’azione penale; sul punto, Corte cost., n. 88/1991; Id., n. 115/2001. 

84. Per un’analisi completa, cfr. E. Marzaduri, op. cit., p. 120.

85. M. Chiavario, Ancora sull’azione penale obbligatoria: il principio e la realtà, in Id., L’azione penale tra diritto e politica, Cedam, Padova, 1995, pp. 319 ss. 

86. Per questa prospettiva deflattiva, cfr. F. Giunta, Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, Giuffrè, Milano, 1993. 

87. F. Palazzo, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, in Sistema penale, 8 settembre 2021 (https://sistemapenale.it/pdf_contenuti/1631027253_palazzo-2021b-profili-sostanziali-riforma-penale.pdf).

88. Su questa prospettiva cfr. F. Giunta, C’è solo una strada per velocizzare la nostra giustizia: depenalizzare, Il Dubbio (intervista), 24 agosto 2021, che propone quale via maestra il potenziamento delle tecniche di depenalizzazione in concreto, osservando: «depenalizzazione in astratto presuppone che il fatto incriminato non sia in nessun caso meritevole di pena. Non si tratta di ipotesi numerose. Ben più frequenti sono i fatti storici, corrispondenti alla previsione incriminatrice, che non richiedono di essere puniti in concreto. In questi casi la depenalizzazione “orizzontale” comporterebbe irragionevoli lacune di tutele. La giusta risposta politico-criminale sarebbe una depenalizzazione “verticale”, ossia affidata al processo e ispirata a una concezione gradualistica dell’illecito penale».

89. S. Quattrocolo, Tenuità, op. cit., pp. 192-198; M. Donini, Le tecniche di degradazione fra sussidiarietà e non punibilità, in Indice pen., n. 1/2003, p. 93.

90. F. Palazzo, I Profili, op. cit. 

91. Per R. Kostoris, Obbligatorietà, op. cit., p. 49, tali criteri non esprimono scelte di discrezionalità tecnica, ma opzioni di autentica politica criminale, sostanziando un giudizio sulla convenienza di perseguire in astratto prioritariamente un reato. Essi dunque confliggono in modo aperto con il principio di obbligatorietà, anche se occorre riconoscere loro il pregio della uniformità e della trasparenza (nello stesso senso P. Gualtieri, Azione penale, op. cit., p. 36). F. Palazzo, Sul pubblico ministero, op. cit., assume che «è solo con i criteri esterni di opportunità che viene realmente messa in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale: il che significa che ben possono essere percorse e potenziate le strade dei criteri interni, anche in considerazione del fatto che esse, mentre consentono di sfoltire il carico giudiziario senza pregiudicare la tenuta del sistema, sono inoltre pur sempre sottoposte al controllo del giudice». 

92. In termini più problematici, a proposito dei criteri di priorità nell’attuale assetto, G. Salvi, Discrezionalità, responsabilità, legittimazione democratica del pubblico ministero, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, p. 34 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/934/2-2021_qg_salvi.pdf), osserva: «Essi non sono, a mio parere, in contrasto con il principio di obbligatorietà (almeno quando si tratti di postergazione e non di dismissione), ma pongono certamente il problema della responsabilità. Sono scelte rilevantissime e solo in parte disciplinate dal legislatore. Esse comportano vere e proprie scelte di politica criminale. Quali reati perseguire e con quali mezzi. Non punire sistematicamente alcune tipologie di illeciti che più direttamente colpiscono fasce deboli della popolazione, come le truffe o le percosse e le minacce, ad esempio, corrisponde a scelte non irrilevanti e può contribuire ad abbassare la percezione della illegalità». 

93. P. Ferrua, Criteri di priorità, in Aa. Vv., L’obbligatorietà, op. cit., p. 23.

94. Ne dubita P. Ferrua, ivi, p. 29. 

95. F. Palazzo, Sul pubblico ministero, op. cit., p. 62.

96. A.U. Palma, L’obbligo, op.cit., p. 20: «Mentre le guidelines vigenti nei paesi anglosassoni traspongono in capo al prosecutor un’attitudine genetica di tipo selettivo esonerandolo dall’obbligo di attivarsi, i “criteri di priorità” anelano ad un obiettivo totalmente diverso, circoscritto alla programmazione del lavoro secondo una graduatoria temporale coerente con la gerarchia dei beni e degli interessi tutelati dalla Costituzione. L’azione penale resterà, quindi, obbligatoria così come nessuna indagine potrà essere accantonata; di pari passo, però, l’elaborazione di linee direttrici relative alla gestione dei vari procedimenti comporterà standardizzate “deviazioni, per quanto attiene ai tempi dell’agire del pubblico ministero, dal parametro della sopravvenienza delle notizie di reato”, deviazioni che – nel concreto – si sostanzieranno non nella rinuncia ma nella semplice postergazione dell’esercizio dell’azione penale per tutti quei reati ritenuti minusvalenti». 

97. G. D’Elia, I principi costituzionali di stretta legalità, obbligatorietà dell’azione penale ed eguaglianza a proposito dei “criteri di priorità” nell’esercizio dell’azione penale, in Giur. cost., n. 3/1998, p. 1879.

98. N. Rossi, Per una concezione “realistica” dell’obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/1997, p. 315.

99. Filosofia alla base della cd. “circolare Zagrebelski”. 

100. Impostazione della cd. “circolare Maddalena”.

101. In questo senso N. Rossi, Per una cultura, op. cit., pp. 27-28; R. Kostoris, Obbligatorietà, op. cit., p. 50.

102. G. Canzio e F. Fiecconi, Giustizia, op. cit., p. 150, ritengono imprescindibile la definizione dei criteri di priorità con fonte normativa primaria, evitando una frammentazione territoriale secondo le geometrie variabili delle singole procure. 

103. Per esempi di tale auto-regolamentazione dei procuratori della Repubblica, senza pretese di completezza: cfr. circolare dell’8 marzo 1989 a firma del procuratore generale e del presidente della Corte d’appello di Torino, in Cass. pen., 1989, pp. 1616 ss.; circolare della Procura della Repubblica, Pretura circondariale di Torino, 16 novembre 1990 (vds. Una “filosofia” dell’organizzazione del lavoro per la trattazione degli affari penali, in Cass. pen., 1991, p. 362); circolare della Procura della Repubblica di Torino, 10 gennaio 2007, n. 50/07 (cd. “circolare Maddalena”), in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 3/2007, con nota di G. Santalucia, Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità, pp. 617 ss., commentata da M. Deganello, Notizie di reato ed ingestibilità dei flussi: le scelte organizzative della Procura torinese, in Cass. pen., n. 4/2011, p. 1592.
Cfr., ancora, il provvedimento organizzativo adottato il 5 marzo 2014 dalla Procura della Repubblica di Roma, rubricato «Criteri di priorità per la richiesta di fissazione di udienza per i procedimenti di competenza del Tribunale in composizione monocratica». Per una disamina dei “criteri di priorità” adottati dalla Procura della Repubblica di Bari, cfr. C.P. Blengino, Esercizio dell’azione penale e processi organizzativi: la selezione del crimine come output della procura, in C. Sarzotti (a cura di), Processi di selezione del crimine, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 157 ss.; circolare del 3 ottobre 2018 a firma del procuratore della Repubblica e del presidente del Tribunale di Perugia (file:///C:/Users/avvst/Downloads/linee-guida.pdf); circolare del 25 novembre 2019 a firma del procuratore della Repubblica e del presidente del Tribunale di Latina (www.tribunale.latina.it/allegatinews/A_26478.pdf); P. Gualtieri, Azione penale, op. cit., p. 37, critica la soluzione avallata dal Csm cui riferisce la pretesa di derogare al precetto dell’art. 112 Cost. per esigenze organizzative.

104. R. Kostoris, Obbligatorietà, op. cit., p. 49.

105. Circolare del Csm del 16 novembre 2017, modificata con delibera del 16 dicembre 2020, art. 3: «Ragionevole durata del processo e azione penale obbligatoria»: «1. Allo scopo di garantire la ragionevole durata del processo, il Procuratore della Repubblica assicura un’attenta e particolareggiata analisi dei flussi e delle pendenze dei procedimenti ed il loro costante monitoraggio, anche avvalendosi della Commissione Flussi istituita presso il Consiglio giudiziario della Corte d’Appello, nonché dei dati acquisiti dai Presidenti dei Tribunali sul ricorso ai riti speciali e sugli esiti delle diverse tipologie di giudizio. 2. Il Procuratore della Repubblica, nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei parametri fissati dall’art. 132-bis disp. att. c.p.p. e delle altre disposizioni in materia, può elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti. Indica i criteri prescelti al fine dell’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili. 3. Nell’elaborazione dei criteri di priorità, il Procuratore della Repubblica cura l’interlocuzione con il Presidente del tribunale ai fini della massima condivisione, ed opera sia tenendo conto delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti, sia osservando i principi enunciati nelle delibere consiliari del 9 luglio 2014 e dell’11 maggio 2016 in tema, rispettivamente, di “criteri di priorità nella trattazione degli affari penali” e di “linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari - rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti”». La circolare, specie a seguito della modifica del 2020, mira a garantire maggiore trasparenza e responsabilità nella direzione dell’Ufficio di procura, ad assicurare più ampia autonomia, anche interna, dei magistrati dell’Ufficio e ad affermare il ruolo di controllo e verifica da parte del circuito del governo autonomo sull’esercizio dei poteri di organizzazione del procuratore. Così N. Rossi, Per una cultura, op. cit., p. 23, che osserva: «la discrezionalità organizzativa del procuratore della Repubblica, pur restando assai ampia, è dunque inquadrata nel sistema di regole generali dell’ordinamento giudiziario e del processo e in un quadro di relazioni con il Csm, con il Consiglio giudiziario, con il procuratore generale presso la corte di appello; in modo da escludere che gli uffici requirenti possano essere strutturati come monadi incomunicanti con l’esterno e sulla base di orientamenti meramente soggettivi dei loro dirigenti». 

106. Con tale delibera il Csm è intervenuto sulla necessità di individuare criteri di priorità nella trattazione degli affari penali negli uffici, in considerazione della concreta e diffusa estrema difficoltà di procedere, nello stesso modo e secondo gli stessi tempi, alla trattazione di tutti gli affari pendenti. Lo scopo è quello di razionalizzare l’allocazione delle scarse risorse disponibili per la trattazione dei procedimenti penali, evitando sia l’affidamento delle scelte di trattazione alla valutazione, caso per caso, del magistrato operante, sia la resa alla pura casualità.

107. Cfr. L. Forteleoni, Criteri di priorità degli uffici di procura, in Magistratura indipendente (online), 8 aprile 2019 (www.magistraturaindipendente.it/criteri-di-priorita-degli-uffici-di-procura.htm), il quale ricorda che «il Csm ha più volte affermato la legittimità della prassi dei criteri di priorità nelle procure, riconoscendoli come moduli organizzativi virtuosi, anche se ha precisato che il suo intervento deve considerarsi limitato alla sfera organizzativa dell’attività giudiziaria, e non autorizzatorio – di fatto o di diritto – della mancata trattazione di taluni procedimenti». In questo senso, cfr. la risoluzione del Csm del 9 novembre 2006, in Foro it., 2007, III, c. 48. In più occasioni, il Csm ha focalizzato la propria attenzione sull’adozione di parametri orientativi nella tempistica di definizione dei procedimenti penali, in un’ottica di buona amministrazione e uniformità di esercizio dell’azione penale. In particolare, con la delibera del 13 novembre 2008, in merito all’art. 132-bis disp. att. cpp, il Csm: ha individuato la ratio sottesa alla disposizione nella necessità di «mitigare gli effetti deleteri di quell’eccesso di spontaneismo che conduceva in epoche passate giudici e pubblici ministeri ad una valutazione pressoché arbitraria dei tempi di fissazione e trattazione dei processi»; ha precisato che l’elencazione normativa di cui all’art. 132-bis disp. att. cpp non esauriva le aree di priorità, suscettibili di ampliamento alla luce del prudente apprezzamento del giudicante; pur confinando l’operatività dell’art. 132-bis disp. att. cpp all’esercizio della funzione giudicante, ha auspicato «un opportuno concerto» con la Procura della Repubblica ai sensi degli artt. 132, comma 2, e 160 disp. att. cpp in ragione delle implicazioni che la selezione di priorità comporta sul principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e sul suo corretto, puntuale e uniforme esercizio; ha precisato, infine, che i provvedimenti organizzativi in punto di priorità non hanno natura tabellare e non sono dunque soggetti alla procedura prevista per le variazioni tabellari. 

108. Nella versione proposta del “ddl Bonafede”, spettava alle procure la redazione dei criteri di priorità. 

109. P. Ferrua, Criteri, op. cit., pp. 25-27.

110. N. Rossi, Per una cultura, op. cit., p. 28: «Soluzione preferibile sembra quella di optare per la fissazione ad opera del Parlamento, con atti di indirizzo a cadenza periodica, di linee di priorità calibrate sulla situazione nazionale, lasciando agli uffici di procura due specifici spazi di intervento per così dire “a valle” della scelta parlamentare. Il primo consistente nell’“adeguamento” delle linee-guida nazionali alle situazioni locali e alle potenzialità operative dell’Ufficio. Il secondo relativo alla possibilità – meramente residuale – della individuazione, ad opera degli uffici di procura, di “priorità locali”, specifiche e ristrette, motivate con puntuali riferimenti a dati e situazioni del territorio (ad esempio, territori transfrontalieri, aree con elevati tassi di inquinamento, piazze finanziarie, etc.)». L’equilibrio tra tale sistema e l’impostazione costituzionale è, però, il mantenimento delle garanzie di indipendenza nello status del pubblico ministero, proprio una delle tematiche critiche scaturenti dall’opzione di politica criminale in esame. 

111. Per una ricostruzione assai critica delle tendenze in atto in seno alla legislazione penale, cfr. F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Il Mulino, Bologna, 2019.

112. La Commissione Lattanzi, sottolineando che, nell’architettura costituzionale, le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento, ha proposto che sia tale organo a stabilire, periodicamente (lasciando al legislatore delegato l’onere di indicare il periodo), i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, facendo riferimento anche a un’apposita relazione del Consiglio superiore della magistratura sugli effetti prodotti dai criteri nel periodo precedente. All’interno della cornice complessiva definita dal Parlamento, gli uffici giudiziari dovrebbero provvedere in modo autonomo e indipendente a stabilire criteri che tengano conto dell’effettiva realtà locale – tanto sotto il profilo criminale quanto sotto quello organizzativo – per assicurare un’efficacia concreta alle indicazioni emanate dal Parlamento. 

113. P. Gualtieri, Azione penale, op. cit., pp. 38-44, ritiene che la scelta sia coerente con un’alternativa inevitabile tra dipendenza del pm dal potere esecutivo (segnalatamente, dal Ministero della giustizia quale responsabile politico della pretesa punitiva dello Stato e della selezione dei reati da perseguire) e comunque una legittimazione del primo di natura elettiva (soluzione ritenuta compatibile con il quadro costituzionale scaturente dagli artt. 102, comma 3, 106, 107, comma 4, Cost.). R. Kostoris, Obbligatorietà, op. cit., p. 50 riconosce che un’azione penale discrezionale sarebbe difficilmente conciliabile con una posizione di indipendenza del pubblico ministero. 

114. Così il PNRR, ove si può leggere: «Una giustizia inefficiente peggiora le condizioni di finanziamento delle famiglie e delle imprese: il confronto tra province mostra che un aumento dei procedimenti pendenti di 10 casi per 1000 abitanti corrisponde a una riduzione del rapporto tra prestiti e Pil dell’1,5 per cento. Inoltre, alla durata dei processi più elevata si associa una minore partecipazione delle imprese alle catene globali del valore e una minore dimensione media delle imprese, quest’ultima una delle principali debolezze strutturali del nostro sistema. I dati evidenziano una naturale e stretta compenetrazione intercorrente tra giustizia ed economia: qualsiasi progetto di investimento, per essere reputato credibile, deve potersi innestare in un’economia tutelata, e non rallentata, da un eventuale procedimento giudiziario, così come deve essere posto al riparo da possibili infiltrazioni criminali. Le prospettive di rilancio del nostro Paese sono, insomma, fortemente condizionate dall’approvazione di riforme e investimenti efficaci nel settore della giustizia».

115. L’indipendenza e l’autonomia del pubblico ministero rappresentano un indispensabile corollario dell’indipendenza del potere giudiziario in genere: cfr. il parere n. 9(2014), «Norme e principi europei concernenti il pubblico ministero», del Consiglio consultivo dei pubblici ministeri europei (CCPE). Per una portata attenuata dell’applicabilità al pubblico ministero delle garanzie di indipendenza e di imparzialità proprie del processo equo, sancite dall’art. 6, § 1 della Cedu, cfr. Corte Edu, Previti c. Italia, ric. n. 45291/06, 8 dicembre 2009, per la quale esse «riguardano essenzialmente le autorità giudiziarie chiamate a decidere sul merito di una accusa in materia penale e non si applicano al rappresentante della procura – essendo soprattutto quest’ultimo una delle parti in un procedimento giudiziario in contraddittorio» – Priebke c. Italia (dec.), n. 48799/99, 5 aprile 2001, e Forcellini c. San Marino (dec.), n. 34657/97, 28 maggio 2002 – «o all’organo che, senza esaminare la sua innocenza o la sua colpevolezza, è incaricato di decidere se l’accusato debba essere giudicato da un “tribunale”» – De Lorenzo c. Italia (dec.), n. 69264/01, 12 febbraio 2004, pp. 26-27. 

116. Condivisibili le osservazioni di F. Palazzo, Sul pubblico ministero, op. cit., p. 61: «In linea generale, siamo dell’avviso che dinanzi a situazioni critiche così delicate com’è quella del ruolo attualmente assunto dal pubblico ministero, in cui si tratta di contenere una discrezionalità peraltro ineliminabile, non siano tanto gli espedienti normativi a produrre risultati significativi, quanto piuttosto mutamenti dello “stile comportamentale” e quasi dell’abito mentale dei soggetti interessati. E, a questo scopo, fondamentale potrebbe essere la valorizzazione del sistema deontologico più di quello disciplinare: e qui ci troviamo in buona e autorevole compagnia, visto che anche il presidente emerito Giovanni Flick si è espresso recentemente nello stesso senso. Naturalmente, però, il sistema deontologico potrà dare qualche risultato nella misura in cui esso non si atrofizzi in sistema di giustizia integralmente “domestica”. Il che significa che molto si gioca sul piano della composizione degli organi chiamati a dare concretezza ai precetti deontologici, specialmente in sede di valutazioni professionali del magistrato: i quali organi dovrebbero dunque vedere una presenza equilibrata ma non insignificante di componenti molto autorevoli e sicuramente indipendenti, ma soprattutto estranei alla magistratura. L’obiettivo di incidere sull’esercizio di poteri inevitabilmente discrezionali del pubblico ministero è raggiungibile non tanto con operazioni di ingegneria o ragioneria normativa quanto con un’operazione culturale, che dovrebbe avere i suoi punti di forza nella rivalutazione del momento deontologico e nel coraggio della magistratura – in questo caso requirente – di una sua sana apertura verso l’esterno, che non ha niente a che fare ovviamente con il pericolo di inquinamento “politico” propiziato dal nefasto correntismo. Tradotto in poche parole: premessa della rivalutazione dell’etica giudiziaria, specie del pubblico ministero che è più esposto a tentazioni protagonistiche, è la revisione della composizione e del meccanismo elettorale dei consigli giudiziari e del Csm. Certamente, poi, l’etica giudiziaria si potenzia anche (o soprattutto?) nei momenti formativi del magistrato, sia quelli all’inizio che quelli durante la carriera». G. Canzio e F. Fiecconi, Giustizia, op. cit., p. 40, richiamano l’importanza delle regole deontologiche dettate dall’ordinamento giudiziario e dal codice etico dei magistrati, secondo una visione non autoreferenziale incentrata su laboriosità, diligenza, impegno, equilibrio, rispetto delle parti e dei difensori, attenzione all’ascolto delle ragioni degli altri, leale collaborazione con le istituzioni e gli altri poteri dello Stato, moderazione nel linguaggio, sobrietà e riservatezza anche nei rapporti con i media.

117. G. Canzio e F. Fiecconi, op. ult. cit., p. 151, rimarcano come la cultura della giurisdizione debba non solo permanere a livello di esercizio dell’azione penale, ma essere anticipata alla fase delle indagini, senza ostacolare l’accertamento dei fatti di reato, riservato alla discrezionalità della pubblica accusa, alla stregua di un’asimmetria nei rapporti tra le parti entro certi limiti ineliminabile. Così anche M. Chiavario, Processo e garanzie della persona – Le garanzie fondamentali (vol. II), Giuffrè, Milano, 1984, p. 27. 

118. G. Salvi, Discrezionalità, op. cit., p. 34: «Il controllo del giudice riguarda il caso concreto a lui sottoposto e non potrebbe essere diversamente. Ma quel singolo caso arriva al giudice a seguito di scelte dell’ufficio e del delegato che hanno aspetti di grande discrezionalità, non sottoponibili a controllo ma – semmai – a integrazione (con l’ordine del giudice di procedere a nuove indagini in sede di archiviazione, o con la diretta integrazione in udienza): dalla distribuzione delle risorse alle scelte di carattere generale sull’organizzazione delle indagini fino alle scelte del magistrato designato. Già le scelte di investigazione nel singolo procedimento sono cariche di opzioni discrezionali. Ancora di più lo sono quelle (ci si augura non inconsapevoli) che incidono indirettamente sulla funzionalità dell’ufficio e dunque sulla effettività delle scelte investigative. Si pensi alle implicazioni delle opzioni sulla iscrizione della notizia di reato, recentemente ben evidenziate dalla circolare del procuratore della Repubblica di Roma. L’organizzazione dell’ufficio per dipartimenti o gruppi specializzati ha poi un effetto indiretto ma decisivo sull’efficacia delle indagini. Scelte di attribuzione degli affari a seconda di criteri diversi (anzianità, disponibilità, specializzazione, competenza, etc.) non sono certo neutre negli effetti che ne derivano. Si potrebbero fare molti esempi. Oggi quello più chiaro è costituito dai criteri di priorità. [Da qui cfr. nota 92:] Essi non sono, a mio parere, in contrasto con il principio di obbligatorietà (almeno quando si tratti di postergazione e non di dismissione), ma pongono certamente il problema della responsabilità. Sono scelte rilevantissime e solo in parte disciplinate dal legislatore. Esse comportano vere e proprie scelte di politica criminale. Quali reati perseguire e con quali mezzi. Non punire sistematicamente alcune tipologie di illeciti che più direttamente colpiscono fasce deboli della popolazione, come le truffe o le percosse e le minacce, ad esempio, corrisponde a scelte non irrilevanti e può contribuire ad abbassare la percezione della illegalità».

119. Ivi, p. 33: «Il rispetto della obbligatorietà dell’azione implica che le scelte sulla non azione siano sottoposte al controllo giudiziario (e non di altri organi) e in applicazione della legge. La legge può prevedere anche casi di non azione (o di abbandono dell’azione) che si basino su ragioni di opportunità (ad esempio, la non necessità di perseguire fatti di minore rilievo, quando il danno è risarcito o vi è un ravvedimento operoso, etc.), che siano però formalizzate e dunque sottoponibili a controllo sulla base di parametri stabiliti ex ante».