Magistratura democratica

Introduzione. La cd. “riforma Cartabia” e la giustizia penale

di Andrea Natale*

1. Leggi e salsicce: un faticoso iter legis / 2. Il mantenimento dello status quo non è un’opzione / 3. Luci e ombre / 3.1. Le (possibili) luci: per una nuova penalità / 3.2. Le (possibili) luci: una concreta possibilità di deflazione? / 3.3. Le (possibili) luci: le previsioni in materia di UPP e PPT / 3.4. Le ombre: la sorte dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale / 3.5. Le ombre: prescrizione e improcedibilità / 4. Alba o tramonto del processo penale?

 

1. Leggi e salsicce: un faticoso iter legis

All’indomani dell’approvazione della legge n. 134 del 2021, un amico e collega – sconcertato per l’accantonamento di alcune buone idee elaborate dalla cd. “Commissione Lattanzi” e per le mediazioni parlamentari concretizzatesi (per lui deludenti) – si è abbandonato a una filippica sul funzionamento delle nostre istituzioni rappresentative, terminata con un’amara battuta: «La gente a cui piacciono le salsicce e rispetta la legge non dovrebbe mai guardare come entrambe vengono fatte»[1].

E, in effetti, soffermarsi sullo sviluppo dell’iter legis della legge n. 134 del 2021, permette di mettere a fuoco alcune immagini che ci dicono qualcosa sul funzionamento delle nostre istituzioni rappresentative.

In principio fu il cd. “ddl Bonafede”, presentato alla Camera dei deputati il 13 marzo 2020 (AC 2435) e ambiziosamente rubricato «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello». Regnava il Governo Conte II, sostenuto dalla cd. maggioranza giallo-rossa.

Come è noto, quell’esperienza di governo avrà poi termine. Subentra a reggere le sorti del governo del Paese il gabinetto Draghi, che ottiene la fiducia di una maggioranza tanto inedita nella storia repubblicana, quanto composita. 

Le sfide che quel governo deve affrontare sono molte e uno degli obiettivi è ottenere i fondi che l’Unione europea ha destinato agli Stati membri per il rilancio indispensabile a superare la fase pandemica e post-pandemica.

Il 15 marzo 2021, la neo-Ministra della giustizia Marta Cartabia illustra alla Commissione giustizia della Camera dei deputati le «linee programmatiche del dicastero, anche in relazione al contenuto della Proposta di Piano nazionale di ripresa e di resilienza»[2]; analoga informativa sarà presentata alla Commissione giustizia del Senato il successivo 18 marzo 2021.

Le linee programmatiche disegnano il quadro in cui il nuovo Governo si trova a operare: il fattore pandemia; il fattore Next Generation EU (con la necessità di non perdere le risorse che esso offre); il dibattito pregresso (e la necessità di non disperdere il lavoro già fatto dal precedente Governo e dal Parlamento). Con specifico riferimento alla giustizia penale, la Ministra Cartabia illustra al Parlamento le direttrici lungo le quali intende muoversi il suo gabinetto: riduzione dei tempi processuali; aumento dell’efficacia e dell’efficienza della giustizia processuale; rispetto dei principi costituzionali in materia di garanzie e di ragionevole durata del processo. Ma non solo. Nelle linee programmatiche, la Ministra Cartabia prefigura la possibilità di operare «meditati interventi di deflazione sostanziale», nonché di operare «una seria riflessione sul sistema sanzionatorio penale» (nel quale la “certezza della pena” non debba necessariamente coincidere con “la certezza del carcere”) e di «sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa, già presenti nell’ordinamento».

Per dare corpo agli ambiziosi obiettivi di tali linee programmatiche, la Ministra Cartabia decide di avvalersi di una Commissione di studio, presieduta da un presidente emerito della Corte costituzionale e da competenti figure dell’accademia, del foro e della giurisdizione. La Commissione Lattanzi – nominata il 16 marzo 2021 – lavora a tambur battente e, nel volgere di un paio di mesi, confeziona un ponderoso elaborato contenente proposte di emendamenti al ddl Bonafede, corredato da un’articolata e preziosa relazione illustrativa, che ha costituito un imprescindibile punto di riferimento nel successivo sviluppo dell’iter legis[3]

Il lavoro della Commissione Lattanzi si fondava su alcuni capisaldi che qui è possibile soltanto evocare: un significativo rafforzamento delle alternative al dibattimento (rendendo maggiormente appetibili e convenienti le scelte in materia di riti alternativi); un incentivo a definizioni alternative rispetto al processo (con la creazione – o il rafforzamento – di istituti che, privilegiando la “rimozione” degli effetti dell’illecito prima del processo, anticipassero la ricomposizione della legalità prima di impegnare i complessi meccanismi del giudizio: si allude ad alcuni istituti riparatori, al significativo rafforzamento della messa alla prova, all’istituto della cd. “archiviazione meritata”); un ripensamento della risposta penale all’illecito (con l’elaborazione di un sistema di sanzioni sostitutive largamente sovrapponibile alle odierne misure alternative alla detenzione - affidamento in prova al servizio sociale compreso - da consegnare alle cure del giudice di cognizione, anziché alla magistratura di sorveglianza); una introduzione nel sistema degli istituti di giustizia riparativa; un sistema di disincentivo alla presentazione di impugnazioni puramente dilatorie; un più rigoroso controllo delle forme, dei modi e dei casi di esercizio dell’azione penale; un significativo ripensamento della disciplina della prescrizione originariamente immaginata nel ddl Bonafede.

Si intravedeva – nella trama del progetto elaborato dalla Commissione Lattanzi – un disegno complessivo che, certamente suscettibile di discussione (anche profonda) sotto più profili, non era privo di un suo respiro sistematico.

Ma il lavoro dei tecnici deve fare i conti con la cruda realtà della politica. L’elaborato della Commissione Lattanzi viene consegnato il 24 maggio 2021. Ci vorranno quasi due mesi prima che, il 14 luglio 2021, il Governo formuli le proposte di emendamento al ddl Bonafede.

Tra il 24 maggio e il 14 luglio 2021 – nella discussione sul disegno di riforma della giustizia penale – entra in scena la politica e vi rimarrà sino alla definitiva approvazione della legge, avvenuta il 27 settembre 2021.

In questi mesi – tra il maggio e il settembre 2021 – l’originaria trama del progetto elaborato dalla Commissione Lattanzi viene sottoposto a un profondo ripensamento su molti aspetti: si affievoliscono alcuni caratteri “premiali” immaginati dalla Commissione Lattanzi per i riti alternativi (messa alla prova compresa); spariscono dai radar alcuni meccanismi che intendevano favorire – in alternativa al giudizio – il ripristino della legalità violata (si allude alla soppressione della cd. “archiviazione meritata”); si affievolisce – forse in nome di istanze securitarie – il carnet di sanzioni sostitutive alla pena detentiva (non essendo previsto che il giudice di cognizione possa sostituire la pena detentiva con l’affidamento in prova al servizio sociale); si interviene in modo radicale – e con un intervento di difficile inquadramento sistematico – sulla disciplina della prescrizione[4].

Il tutto avviene in un contesto in cui buona parte delle forze politiche che compongono la variegata maggioranza che ha accordato la fiducia al Governo Draghi pare molto attenta a posizionare alcune “bandierine” sul testo dell’emendamento governativo poi approvato dalle due Camere.

Ne è scaturito un prodotto normativo in cui – in nome di esigenze securitarie care ad alcune componenti della maggioranza – le disposizioni introdotte nell’ordinamento sono non prive di un carattere potenzialmente anche discriminatorio[5]; in cui – in nome dell’esigenza politica di ribadire l’originaria ispirazione del ddl Bonafede (per cui la prescrizione cessa di decorrere dopo la sentenza di primo grado) – si concepiscono figure di dubbia coerenza sistematica (come l’improcedibilità dell’azione penale nei gradi di giudizio successivi al primo)[6]; in cui alcuni criteri di delega risultano talora forse eccessivamente vaghi, tanto da potersi paventare – a giudizio di alcuni[7] – persino un rischio di illegittimità costituzionale[8]; in cui altri criteri di delega possono determinare esiti suscettibili di seria censura sul piano della ragionevolezza[9]; in cui altri criteri di delega – quelli relativi ai criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale – pongono in discussione il rispetto del principio di obbligatorietà della legge penale[10]

Ma – al netto delle molte perplessità che essa suscita – la mediazione politica raggiunta rappresenta un punto di equilibrio che è coerente con tre elementi che, in questa contingenza, non è possibile trascurare: (i) il disegno costituzionale consegna non alla tecnica, ma alla politica – attraverso le istituzioni rappresentative – il compito di dettare le leggi; (ii) la politica è l’arte del possibile; le riforme che la politica è in grado di produrre riflettono la coerenza (e le incoerenze) delle forze parlamentari che compongono la maggioranza di governo; la mediazione – e l’esercizio della politica come arte del possibile – è, dunque, scritta nelle regole del gioco; (iii) «il mantenimento dello status quo non può essere un’opzione sul tavolo»[11].

 

2. Il mantenimento dello status quo non è un’opzione

E vediamolo, allora, lo status quo. Nel settore penale, il sistema giudiziario italiano è gravato da un fardello che rende del tutto problematica – se non impossibile – l’eventualità che possa essere offerta una risposta di giustizia nei modi e nei tempi (ragionevoli) che la Costituzione vorrebbe.

Dalla relazione svolta dal presidente della Corte di cassazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, emerge che – sul sistema giudiziario italiano e nonostante una capacità di definizione superiore alle sopravvenienze – gravava (al 30 giugno 2021) un numero di affari pendenti pari a oltre due milioni e mezzo di procedimenti (con autori noti)[12]

La durata dei procedimenti penali è lungi dall’essere conforme al precetto costituzionale e convenzionale della ragionevole durata: il dato medio nazionale – relativo all’anno giudiziario 2020-2021 – indica una durata media dei processi penali (cd. “disposition time”) così fotografata: 320 giorni presso gli uffici di procura; 439 giorni presso gli uffici giudicanti di primo grado; 956 giorni presso le corti di appello; 150 giorni presso la Corte di cassazione[13]

In linea con tali dati, si registra un numero significativo di dichiarazioni di prescrizione. Complessivamente, nel 2020 sono stati dichiarati definiti per intervenuta estinzione del reato a seguito di prescrizione oltre 85.000 procedimenti (con dato in flessione rispetto agli anni precedenti), dei quali: 31.000 circa in indagini preliminari, 30.000 circa durante la fase successiva all’esercizio dell’azione penale in primo grado, 21.000 circa durante i giudizi di appello, poche centinaia in cassazione[14].

Questi i dati nazionali. È, però, noto che il tasso di efficacia – in termini di durata – della risposta giudiziaria è fortemente disomogeneo sul territorio nazionale; ragion per cui, in diversi distretti, la situazione è persino peggiore rispetto a quella sopra fotografata.

Si tratta di dati che pongono la situazione del nostro Paese in una situazione di warning in sede di Consiglio di Europa, tanto che, nel rapporto CEPEJ 2020 (dati del 2018), con riferimento ai giudizi di primo grado si legge che «in Italia si registrano i disposition time più alti, con tendenze crescenti»[15]. Sappiamo che tale dato – ben più allarmante con riferimento ai giudizi di secondo grado – è tra quelli che conducono il nostro Paese a figurare tra quelli che subiscono il maggior numero di condanne a Strasburgo per la violazione del principio convenzionale del diritto alla ragionevole durata del processo.

Una situazione, dunque, che fotografa una complessiva inefficienza del sistema giudiziario, incapace di assicurare tempestive risposte a una consistente domanda di giustizia. Una situazione che, dunque, giustifica l’icastica affermazione per cui «il mantenimento dello status quo non può essere un’opzione sul tavolo».

Ma non sono solo i tempi del processo a restituirci un’immagine di inefficienza della giustizia penale italiana. Un campanello di allarme suona anche esaminando l’esito dei processi. Dell’elevato numero di prescrizioni si è detto. Qui è possibile soffermare l’attenzione anche sull’esito dei giudizi, allorché si giunge a una definizione degli stessi nel merito.

Anche qui attingiamo ad alcune preziose considerazioni svolte dal presidente Curzio nell’ultima relazione svolta in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Dopo avere osservato che la parte preponderante degli “affari penali” che giungono a giudizio è rappresentata dalla citazione diretta dell’imputato a giudizio ex art. 552 cpp, Curzio annota: «circa il 50% dei processi di primo grado introdotti dalla citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero (54,8% nell’anno giudiziario 2020/2021; 50,5% nell’anno giudiziario 2019/2020) si conclude con l’assoluzione, sicché, tenuto conto che la citazione diretta rappresenta, a sua volta, oltre i due terzi del carico di lavoro del tribunale monocratico (262.085 nell’anno giudiziario 2020/2021; 297.650 nell’anno giudiziario 2019/2020), deve concludersi per la necessità di un rinnovato impegno dell’ufficio del pubblico ministero nello svolgimento di indagini complete e di un serio ed effettivo filtro giurisdizionale per evitare un inutile dispendio di energie e di costi, oltre che, in primis, la pena derivante dal semplice fatto di essere sottoposti a processo»[16].

Certamente, ciascuna assoluzione può trovare cause variegate: esiti assolutori possono trovare spiegazioni in esiti estintivi non immaginabili al momento dell’esercizio dell’azione penale (esito positivo della messa alla prova; estinzione del reato per remissione di querela a seguito di sopravvenuti risarcimenti del danno) o nella considerazione di cause di non punibilità che non implicano una sconfessione dell’ipotesi d’accusa (con l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto). 

Resta, tuttavia, il fatto che un dato così rilevante (oltre il 50% di assoluzioni, con un dato consolidato da qualche anno) denuncia in sé l’inefficienza e l’iniquità del meccanismo di selezione delle notizie di reato per cui si ritiene di dover esercitare l’azione penale; inefficienza per il dispendio di energie processuali che impegnano i meccanismi del giudizio per trattare procedimenti penali che, probabilmente, avrebbero potuto e dovuto essere “fermati” prima; iniquità per la posizione delle persone che – siano esse imputati o persone offese – hanno visto pronunciare sentenza di assoluzione dopo anni di faticoso coinvolgimento in un processo penale.

Anche sotto tale profilo, dunque, la situazione esistente giustifica l’icastica affermazione per cui «il mantenimento dello status quo non può essere un’opzione sul tavolo».

Ma – come si è cercato di anticipare – il disegno riformatore non interviene solo sugli snodi procedimentali che intendono assicurare un maggior livello di efficienza del nostro sistema penale. Con la legge n. 134 del 2021 si coltiva anche l’ambizioso obiettivo di intervenire sulla risposta sanzionatoria al reato, tentando di riallinearla a quello che dovrebbe essere il «volto costituzionale della pena»[17].

E anche qui, allora – seppur senza il livello di analisi che sarebbe necessario –, occorre partire dalla fotografia dell’esistente. E il primo tema di interesse è, ovviamente, quello del carcere.

Al 31 gennaio 2022 i detenuti sono 54.372 (capienza regolamentare: 50.862). I detenuti si “distribuiscono” così in ragione della posizione processuale: i condannati in via definitiva sono circa il 69,4%; gli imputati in custodia cautelare non ancora condannati in primo grado: circa il 16%; gli imputati in custodia cautelare condannati in primo grado: circa il 6,92%; gli imputati in custodia cautelare condannati in secondo grado: circa il 5,32%; i detenuti in condizione promiscua (custodia cautelare ed esecuzione pena): circa l’1,7%[18].

Altre statistiche sembrano restituire la fotografia di un sistema in cui, in queste carceri sovraffollate, è più facile finiscano le persone socialmente svantaggiate: a basso tasso di scolarità[19], stranieri[20], tossicodipendenti, disoccupati.

Vi è poi un fenomeno oscuro, sul quale non ho rinvenuto statistiche pubblicate sul sito del Ministero della giustizia. Alludo al noto fenomeno dei cd. “liberi sospesi”. Si tratta delle persone che – condannate a pene detentive non superiori a quattro anni di reclusione – vedono disporre la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva (ai sensi dell’art. 656 cpp) e, dopo aver presentato domanda per ottenere misure alternative alla detenzione previste oggi dall’ordinamento penitenziario, sono in attesa delle decisioni della magistratura di sorveglianza (che talora giungono dopo lassi di tempo tutt’altro che esigui). 

Come detto, sul punto, non ho reperito statistiche pubbliche; tuttavia – considerato il numero di condanne irrevocabili emesse ogni anno e considerato il numero di persone detenute in carcere o ammesse a fruire dei cd. “benefici penitenziari” – non è irragionevole stimare in diverse migliaia e migliaia di persone il numero dei liberi sospesi (persone condannate in via definitiva che dovrebbero trovarsi, alternativamente: in regime di esecuzione di pena detentiva, ovvero sottoposti a misure alternative alla detenzione).

Anche la fotografia del “momento” dell’esecuzione penale – sia essa carceraria o extra-carceraria – restituisce dunque l’immagine di una situazione di grave inefficienza (con buona pace delle esigenze securitarie e con buona pace delle istanze rieducative).

Anche qui si giustifica, dunque, l’icastica affermazione per cui «il mantenimento dello status quo non può essere un’opzione sul tavolo».

 

3. Luci e ombre

La lettura della legge n. 134 del 2021 permette di mettere a fuoco luci e ombre del disegno riformatore. È di tutta evidenza che gli esatti contorni dell’immagine potranno essere messi davvero a fuoco solo quando saranno approvati i decreti delegati; ed è altrettanto evidente che il concreto recepimento della delega potrà, forse, offrire risposte ai – non pochi – aspetti problematici che sono stati oggetto di analisi nei contributi pubblicati in questo fascicolo. 

Tuttavia, qualche riflessione può già essere azzardata in questa fase, muovendo, però, dalla ineludibile premessa: «il mantenimento dello status quo non può essere un’opzione sul tavolo». Premessa che – proprio per l’impellenza delle domande cui la riforma deve offrire risposta – nelle pagine che precedono è stata volutamente ribadita più volte in modo enfatico. Nell’approccio alla riforma, infatti, questa premessa non può essere in alcun modo messa da parte.

 

3.1. Le (possibili) luci: per una nuova penalità

«La storia del “penale”», scriveva Mario Sbriccoli, «può essere pensata come la storia di una lunga fuoriuscita dalla vendetta»[21]. E, in effetti, leggendo l’articolato, uno dei primi dati che balzano agli occhi come elemento potenzialmente positivo è rappresentato dal diverso approccio del legislatore in tema di risposte che l’ordinamento intende – o può – offrire rispetto all’illecito penale, sino a imporre una meditazione intorno ad alcuni (non tutti) connotati “egemonici” della risposta penale[22]

Il tema è oggetto dei contributi di De Vito (sul sistema delle sanzioni sostitutive) e di Bouchard-Fiorentin (sulla giustizia riparativa). Non posso soffermarmi qui sul tema della giustizia riparativa – cui si associa anche una nuova concezione del ruolo della vittima nel processo penale – perché si tratta di un tema pressoché totalmente inedito nel nostro sistema e ogni lettura di sintesi peccherebbe di un eccesso di superficialità. Rimandando dunque al ricco contributo di Bouchard e Fiorentin, ci si limita a sviluppare qui solo qualche riflessione sulla fisionomia che potrebbe assumere la risposta che l’ordinamento potrà dare all’illecito penale. 

Viene anzitutto in rilievo una considerazione di carattere assiologico. In diversi secoli di storia, gli Stati moderni non sembrano ancora essere stati in grado di elaborare risposte al delitto diverse dal carcere. E sappiamo – senza indugiare troppo sul tema – che la detenzione in carcere – se soddisfa le istanze retributive e quelle di “incapacitazione” degli autori di reato – non sempre è in grado di assolvere l’unica funzione della pena esplicitamente menzionata dalla Costituzione: si allude alla funzione rieducativa.

Con la riforma Cartabia, si coltiva l’ambizione di prendere sul serio il precetto costituzionale[23]. Certo, la pena non risponde solo a una funzione rieducativa: i profili di «reintegrazione, intimidazione, difesa sociale (…) hanno un fondamento costituzionale»; il rilievo costituzionale di tali coesistenti funzioni della pena, tuttavia, non è «tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell’istituto della pena. Se la finalizzazione venisse orientata verso quei diversi caratteri, anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione. È per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena»[24]. Seppure non sia dato delineare una gerarchia tra le finalità costituzionalmente assegnate alla sanzione penale[25], non è però immaginabile che l’unica funzione esplicitamente considerata dalla Costituzione (quella rieducativa) possa essere pretermessa; le istanze retributive e le ragioni di ordine special-preventivo, infatti, debbono comunque risultare «coerenti con il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena»[26]

Il disegno riformatore prefigura l’introduzione di diversi strumenti che intendono rafforzare in modo significativo gli aspetti che – nella risposta alla lacerazione del tessuto sociale derivante dalla commissione di illeciti penali – assumono rilievo risocializzante, più che retributivo. Si allude: (a) all’ampliamento del catalogo di reati per cui è ammissibile la messa alla prova («che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori» – art. 1, comma 22, lett. a, l. n. 134/2021); (b) alla possibile attribuzione di rilievo alle condotte post-delictum ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità codificata dall’art. 131-bis cp (art. 1, comma 21, lett. b, l. n. 134/2021); (c) al rilievo che i decreti delegati dovranno attribuire ai percorsi di giustizia riparativa («l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa possa essere valutato nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena»[27] – art. 1, comma 18, l. n. 134/2021). 

Ma si allude – ovviamente – anche e soprattutto alla delega relativa al catalogo di sanzioni sostitutive di pene detentive brevi (art. 1, comma 17, l. n. 134/2021)[28].

Le previsioni relative al sistema delle sanzioni sostitutive meritano una non breve parentesi, perché si tratta probabilmente di uno degli aspetti qualificanti della riforma. Anzitutto, un’osservazione: il legislatore delegante – pur percorrendo la condivisibile strategia di una risposta sanzionatoria differenziata all’illecito penale – manifesta comunque la difficoltà ad abbandonare l’idea del carcere come risposta principale al reato; qui, infatti, si discute di «sanzioni sostitutive» e non di «pene principali». Sfumature terminologiche? Può darsi. Ma è anche con la collocazione dentro o fuori dal codice penale che si può promuovere tra gli operatori una diversa cultura della penalità.

Le sanzioni sostitutive previste dalla legge delega sono destinate a sostituire pene detentive sino a quattro anni di reclusione. Esse, dunque, potenzialmente potranno essere applicate a una platea molto vasta di condannati, offrendo loro una risposta sanzionatoria diversa dall’unica che, sino ad oggi, i sistemi penali moderni sono riusciti a immaginare (la detenzione in carcere)[29]. Il recepimento della delega, almeno potenzialmente, potrà avere due effetti che rispondono alle esigenze di riforma dello status quo: da un lato, si potrà determinare un alleggerimento dei tassi di sovraffollamento della popolazione carceraria; dall’altro lato – ove alle sanzioni sostitutive alla detenzione si accompagni anche un’effettiva ed efficace offerta di percorsi di risocializzazione –, si potrà rispondere all’indicazione costituzionale dettata dall’art. 27, comma 3, Cost.

Discorsi per anime belle? Rinuncia agli aspetti retributivi della sanzione? Risposta debole contro il crimine? Aumento dell’insicurezza sociale?

Francamente non credo. Alcune ricerche – purtroppo non recenti – pongono in luce dati sui quali appare opportuno riflettere e che, forse, varrebbe la pena mettere al centro di nuove ricerche. In uno studio del 2007, l’allora direttore dell’Osservatorio delle misure alternative presso la Direzione generale dell’esecuzione penale esterna del Ministero della giustizia evidenziò che la percentuale dei recidivi fra coloro che scontano una pena in carcere era del 68,45%, mentre nel caso di coloro che scontano una pena alternativa la percentuale scendeva al 19%[30]. Altri studi – condotti sul regime di trattamento penitenziario proposto ai detenuti – sembrano poi smentire che, al rigore della risposta trattamentale, si accompagni un miglior risultato in termini di prevenzione della recidiva[31].

Inoltre, occorre considerare che alcuni dati statistici sembrano suggerire il buon livello di adesione delle persone condannate alle misure alternative alla detenzione (ossia la figura “più vicina” a quelle che potrebbero essere le future sanzioni sostitutive); rimandando alla curiosità del lettore un’analisi più approfondita delle statistiche, qui ci si può limitare a evidenziare alcuni dati: (a) nel triennio 2018-2020, il numero di persone condannate ammesse a misure alternative alla detenzione ha oscillato tra le 28.000 e le 29.000 persone circa[32]; (b) all’interno di questa vasta platea – nello stesso triennio – il numero di revoche delle misure alternative alla detenzione è stato – in termini assoluti – non elevato e non sempre legato a violazioni delle prescrizioni connesse alla misura alternativa[33]

Non è dunque scontato che il rigore punitivo sia funzionale all’aumento di sicurezza. Al contrario, alcuni dei dati sopra considerati sembrano suggerire che la proposta di percorsi di risocializzazione può indirizzare verso migliori risultati.

Ma la possibilità che la riforma garantisca i due principali obiettivi che essa coltiva con la riforma del sistema sanzionatorio (la riduzione del sovraffollamento e il miglioramento dei percorsi di risocializzazione) è condizionata dal superamento di alcune (serie) criticità.

In primo luogo, sarà necessario che il legislatore delegato trovi il modo di superare un profilo di irragionevolezza intrinseca, che sembra annidarsi nella legge delega: si allude alla questione – opportunamente messa in luce nel contributo di De Vito – che si pone con l’esclusione dell’affidamento in prova dal novero delle sanzioni sostitutive di pene detentive brevi; postulando la persistenza del meccanismo di sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive inferiori a quattro anni (art. 656 cpp, estraneo alla legge delega) e la non sospendibilità delle sanzioni sostitutive (art. 661 cpp, su cui la legge delega non si esprime esplicitamente) si potrebbe determinare questo (irragionevole) esito: una persona condannata a pena detentiva (non sostituita) di quattro anni, vedrebbe sospeso l’ordine di esecuzione (ex art. 656 cpp), con possibilità di chiedere le misure alternative alla detenzione, affidamento in prova compreso, alimentando il numero dei liberi sospesi; una persona condannata a pena sostitutiva di pena detentiva inferiore a quattro anni (in ipotesi: la semilibertà, che comporta comunque un “assaggio di carcere”) sarebbe immediatamente sottoposta a regime detentivo e – da quella condizione di cattività già in atto – potrebbe richiedere l’accesso a più miti misure alternative alla detenzione; e ciò nonostante il fatto che la condanna a pena sostitutiva si fondi su una valutazione “favorevole” sul possibile percorso di reinserimento sociale della persona condannata. 

Si tratta di un esito irragionevole, che determina risultati “anti-economici”: esso rischia di disincentivare l’adesione dei condannati alle sanzioni sostitutive; rischia di incentivare il perdurare di impugnazioni dilatorie; rischia di allontanare il momento del percorso di risocializzazione rispetto al momento di commissione del reato. Risolvere questo profilo di irragionevolezza sarà uno dei terreni di impegno del legislatore delegato.

Altrettanto importante sarà assicurare una fisionomia delle misure della semilibertà e della detenzione domiciliare in cui prevalgano elementi che favoriscano la risocializzazione (oggi troppo spesso assenti da tali percorsi).

Altro terreno di impegno per il legislatore delegato sarà rappresentato dall’innesto del sistema di sanzioni sostitutive nel giudizio di cognizione (come esplicitamente previsto dalla legge delega: art. 1, comma 17, lett. g, l. n. 134/2021). Anche qui non è possibile allo stato prevedere come verrà attuata la delega e come il legislatore delegato disciplinerà il coinvolgimento degli UEPE nel tessuto del giudizio di cognizione. 

Ma il successo del cambio di paradigma nel sistema sanzionatorio sarà condizionato – oltre che alla soluzione dei nodi sopra evidenziati – da altri fattori.

Anzitutto, è indispensabile che si assicuri un consistente rafforzamento delle dotazioni degli uffici di esecuzione penale esterna. Nel solo anno 2020, gli UEPE hanno avuto in carico la “gestione” di oltre 100.000 casi (tra cui 31.000 persone in carico per misure alternative alla detenzione; oltre 24.000 persone in «messa alla prova»; quasi 9.000 persone ammesse a lavori di pubblica utilità a titolo di sanzione sostitutiva ex art. 73, comma 5-bis, dPR n. 309/1990 o ex art. 186, comma 9-bis, d.lgs n. 285/1992)[34].

Si tratta, evidentemente, di una mole di lavoro che, con la riforma Cartabia, è destinata ad aumentare e che difficilmente – ove non rafforzata significativamente – l’attuale dotazione organica degli UEPE potrà fronteggiare con la necessaria incisività e tempestività. È un problema che il decisore politico ha presente[35] e la cui effettiva soluzione è ineludibile, per scongiurare il rischio che la riforma resti scritta solo sulla carta.

Non solo. Per funzionare, il sistema delle sanzioni sostitutive non avrà bisogno soltanto di un’architettura processuale funzionale e di uffici di esecuzione penale esterna con adeguate dotazioni organiche e materiali. Sarebbe anche auspicabile un maggiore coinvolgimento degli enti locali territoriali[36] e degli enti del terzo settore[37] nella costruzione di percorsi che favoriscano l’inclusione sociale delle persone condannate; in altri termini, «si tratta di contaminare il sistema penitenziario con elementi di inclusione sociale»[38], sicuramente rientranti nel perimetro dei doveri istituzionali degli enti territoriali e – altrettanto sicuramente – coerenti con il dettato costituzionale; come a dire: l’inclusione sociale è un tema che coinvolge tutte le istituzioni; non solo l’amministrazione penitenziaria e il sistema giudiziario.

Resta da affrontare un’ultima questione. Cosa c’entra la riforma delle sanzioni sostitutive con «l’efficienza del processo penale» e la «celere definizione dei procedimenti giudiziari» (ossia due dei temi che campeggiano nella rubrica della legge n. 134 del 2021)?

È stato notato che le previsioni relative ai meccanismi di risposta all’illecito penale[39], in realtà, poco hanno a che fare con l’accelerazione dei procedimenti penali: la «strategia sanzionatoria differenziata» non necessariamente diminuisce i tempi del processo; «perché scopo di accelerazione dei processi non può essere quello della mediazione penale, o della riparazione dell’offesa in senso lato, né della messa alla prova, né della esiguità del fatto, né della riforma della pena pecuniaria. Istituti che velocizzano la cognizione o l’esecuzione solo se gestiti con sommarietà burocratica: essi non hanno quindi nulla a che vedere con il PNRR, ma è stata un’abile manovra averli accorpati per “fare passare” riforme giuste e intelligenti dentro a un contesto parlamentare altrimenti riottoso»[40].

L’osservazione è, evidentemente, acuta. Tuttavia, rispetto ad essa, si può esprimere cauto dissenso rispetto all’affermazione per cui i meccanismi della «strategia sanzionatoria differenziata» non c’entrino nulla con il miglioramento di velocità ed efficacia del sistema giudiziario. 

Personalmente, ritengo che, ove il legislatore delegato riesca a delineare in modo efficace la fisionomia di tali istituti, è anche possibile attendersi un positivo impatto sull’efficienza del sistema giudiziario. Da un lato, si potrebbe – con gli istituti di probation – incentivare la anticipata ricomposizione della frattura alla legalità conseguente al reato, favorendo l’anticipata riparazione del delitto, anticipando gli interventi di risocializzazione, con conseguente alleggerimento del peso che – da quei giudizi – cade sulle spalle del sistema giudiziario (e degli stessi imputati). Dall’altro lato, con il sistema delle sanzioni sostitutive, è possibile ipotizzare – sebbene la solidità dell’ipotesi non possa dirsi certa – che il sistema di sanzioni sostitutive, coinvolgendo in qualche modo l’imputato nella elaborazione del percorso che conduce all’irrogazione della sanzione, potrebbe ridurre il numero di impugnazioni incentrate sulla sola determinazione della pena. Dall’altro lato ancora, si alleggerirebbe il carico sul sistema penitenziario e sulla magistratura di sorveglianza, essendo altresì ipotizzabile un serio contenimento del fenomeno dei cd. liberi sospesi.

Certamente – per funzionare – sarà però fondamentale una convinta adesione culturale della magistratura a questa importante riforma. Tale adesione è indispensabile e deve maturare non solo nella cultura dei giudici di cognizione, ma anche in quella dei pubblici ministeri. 

Si è molto discusso (in senso critico) della soppressione – nel transito dal progetto della Commissione Lattanzi alla approvazione della legge n. 134 del 2021 – della cd. “archiviazione meritata[41]. Tuttavia, ciò che – in quel transito – si è perso (l’archiviazione meritata), è stato in parte recuperato nell’elaborazione del criterio di delega con cui si prevede che «la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato possa essere proposta anche dal pubblico ministero» (art. 1, comma 22, lett. b, l. n. 134/2021). Tale previsione – come e forse più dell’archiviazione meritata – coinvolge anche il pubblico ministero nell’elaborazione di meccanismi di probation alternativi alla celebrazione di un processo e proiettati verso una più efficace opera di reinserimento sociale, orientata anche alla riparazione. 

E anche questo è un salto culturale che il corpo giudiziario dovrà saper fare, per essere fedele al dettato dell’art. 27, comma 3, Cost. che – come è noto – «vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie»[42].

 

3.2. Le (possibili) luci: una concreta possibilità di deflazione?

Molti interventi prefigurati nella legge delega sono orientati al perseguimento dell’obiettivo della deflazione. Essi sono oggetto di puntuale analisi nei contributi dedicati alle trasformazioni che subiranno i vari segmenti procedimentali, tutti pubblicati in questo fascicolo[43]

Ciascuno dei meccanismi acceleratori immaginati con riferimento a ciascuna fase è – in quei contributi – oggetto di accurato approfondimento, con riflessioni che indugiano sia sulla possibile efficacia delle proposte prefigurate dalla legge delega, sia sulle possibili disfunzioni che potrebbero discendere dal recepimento della delega[44]. A quelle analisi, pertanto, non si può che fare rinvio.

Qui – in linea di sintesi – si può però mettere in luce il fatto che, al netto delle pur rilevabili criticità, è possibile che il compimento della riforma possa avvicinare il nostro sistema giudiziario all’obiettivo di un recupero di efficienza: 

(a) i meccanismi di probation e il rilievo attribuito a condotte riparatorie prima (e in luogo) del processo potranno diminuire il carico giudiziario; 

(b) la maggiore appetibilità di alcuni riti alternativi potrà indurre un più largo numero di imputati ad accedervi, con correlativa riduzione dell’impegno degli onerosi meccanismi del giudizio dibattimentale; 

(c) le modifiche in materia di giudizio abbreviato condizionato potranno aumentare il numero di processi definiti con tale rito speciale, con la celebrazione di un minor numero di dibattimenti; 

(d) il mutamento della regola di giudizio richiesta per la celebrazione di un dibattimento (con la controversa enunciazione della ragionevole previsione di condanna) potrà diminuire il numero di processi dibattimentali (limitando altresì il - non fisiologico - risultato evidenziato dal presidente della Corte di cassazione nella relazione svolta all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022)[45]

(e) le modifiche in tema di giudizio di appello (con alcune semplificazioni procedimentali, l’aumento delle ipotesi di udienza camerale, l’esplicita sanzione processuale di inammissibilità di atti d’appello privi di specificità[46], l’inappellabilità di alcune tipologie di sentenza[47]) potranno ridurre il numero dei giudizi di appello e semplificare le forme di celebrazione di quei giudizi; 

(f) le modifiche in tema di sanzioni sostitutive potranno comportare una riduzione delle impugnazioni formulate esclusivamente in punto pena (e, anzi, ove sia applicata la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, è esplicitamente previsto che quella decisione - cui il condannato non si opponga - sia inappellabile).

 

3.3. Le (possibili) luci: le previsioni in materia di UPP e PPT

Molte previsioni della legge delega – allorché troveranno corpo nei decreti delegati – imporranno ai magistrati assegnati a funzioni penali una profonda rimeditazione del proprio approccio con il lavoro. Il tema è già oggetto di altro contributo pubblicato in questo fascicolo[48] e, dunque, a quell’analisi non si può che fare rinvio.

Qui ci si limita ad osservare che – ove mai si realizzi – l’implementazione del processo penale telematico metterà a disposizione di ogni magistrato assegnato a funzioni penali un armamentario di arnesi capaci di accelerare sensibilmente il suo lavoro: si pensi al tempo dedicato alla verifica dell’esito delle notificazioni, della tempestività di determinate richieste a lui rivolte, della ritualità di determinati atti; ma, ancora, si pensi alla possibilità di accedere a un fascicolo processuale digitale, in cui sono memorizzati tutti gli atti processuali, auspicabilmente indicizzati e agevolmente reperibili.

È intuitivo quanto risparmio si possa determinare in termini di energie mentali (ma anche fisiche…).

L’implementazione del processo penale telematico – ove mai si realizzi – consentirà anche ai giudici di accedere a un’ampia banca dati, non limitata ai provvedimenti di legittimità. Non è escluso che l’implementazione del processo penale telematico finisca anche con l’imprimere una progressiva trasformazione del modo di concepire i provvedimenti giudiziari, in direzione di una semplificazione dell’architettura degli atti giudiziari (ma, auspicabilmente, non delle valutazioni).

Si tratta, forse, di scenari futuribili (e fortemente condizionati da “come” verrà disegnato il processo penale telematico). Ma la contemporaneità ci insegna che le accelerazioni, spesso, sono talora impreviste, improvvise, e molto forti. 

Anche le previsioni relative all’ufficio per il processo imporranno un ripensamento del magistrato.

Anche qui, il tema è stato oggetto di articolate riflessioni pubblicate su questa Rivista[49], sicché non si può che mettere a fuoco qualche punto: l’ufficio per il processo vedrà il magistrato affiancato da alcuni collaboratori; questi avranno il compito di «compiere tutti gli atti preparatori utili per l’esercizio della funzione giudiziaria da parte del magistrato, provvedendo, in particolare, allo studio dei fascicoli e alla preparazione dell’udienza, all’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale e alla predisposizione delle minute dei provvedimenti» (art. 1, comma 26, lett. b, n. 1, l. n. 134/2021). 

Se il personale destinato all’ufficio per il processo sarà adeguatamente formato (e se il sistema giudiziario saprà offrire adeguata formazione); se al personale destinato all’UPP saranno garantite adeguate infrastrutture (scrivanie, stanze, personal computer, etc.); se tutto ciò avverrà, è di tutta evidenza che il magistrato penale dovrà concepire il suo lavoro in una dimensione profondamente diversa, abbandonando una logica puramente artigianale; dovrà, cioè, pensare al “prodotto giudiziario” come risultato di un lavoro di staff, nel quale la qualità del risultato non è legata alla “bella penna” di chi scrive un certo atto giudiziario, ma alla capacità di organizzare bene lo sforzo comune di più persone, senza nulla togliere alla responsabilità ultima della decisione che, come è ovvio, non può che gravare sulle spalle del magistrato.

Anche qua, la trasformazione potrà essere profonda. E potrà assumere un verso positivo se all’UPP verranno assegnate risorse – umane e materiali – adeguate e se, dal corpo della magistratura, non si leveranno istintive – e talora antistoriche – resistenze culturali.

Ma, mentre scriviamo, troppe sono le variabili sul campo. Molto dipenderà dalle risorse destinate al processo penale telematico e all’ufficio per il processo; molto dipenderà dalle soluzioni tecniche (e tecnologiche) che verranno messe in campo.

Altrettanto, però, sarà affidato alla cultura e alla capacità dei giudici di sfruttare quegli strumenti e al loro coraggio di cogliere la sfida della contemporaneità. Perché non si può immaginare di continuare a lavorare con gli stessi schemi mentali che si usavano ai tempi di Zanardelli…

 

3.4. Le ombre: la sorte dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale

Con l’art. 1, comma 9, lett. i, l. n. 134/2021, il Governo è delegato a introdurre disposizioni con le quali «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti».

È un tema di particolare importanza, perché rischia di porre in discussione uno dei principi informatori del sistema penale: l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.).

Tale è il rilievo della questione che la Rivista ha deciso di pubblicare più contributi, che sollevano una varietà di questioni e che riflettono una pluralità di punti di vista[50]. Tutti i contributi pubblicati in questo fascicolo non eludono le questioni di fondo. Con varietà di accenti, ciascun Autore si è qui soffermato sul tema dell’impossibilità per l’attuale sistema processuale di sostenere la tempestiva celebrazione di tutti i processi per ogni notizia di reato; ciascun Autore ha, poi, preso atto del fatto che il concreto dispiegarsi dell’azione penale è – di fatto – governato da criteri selettivi, che accordano precedenza ad alcuni processi a discapito di altri. Per dirla con N. Rossi, «l’obiettivo da raggiungere sta nel promuovere la transizione – culturale e istituzionale insieme – da un’obbligatorietà dell’azione penale postulata in astratto, ma di fatto scarsamente controllabile e deresponsabilizzata, a un’obbligatorietà temperata e realistica e, proprio per questo, esercitabile secondo canoni di trasparenza e corredata da assunzione di responsabilità sociale e istituzionale per le scelte compiute».

Tuttavia, ciò rischia di relativizzare il precetto scolpito nell’art. 112 Cost., anche perché – come osserva F. Di Vizio – «ove si introduce la discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, l’opportunità si affaccia quale ospite indiscreto»[51].

Anche per questo, sarà molto importante il modo con cui il Governo darà attuazione alla delega del Parlamento (aspetto su cui si soffermano, in particolare, N. Rossi e A. Spataro): «stiamo parlando di criteri organizzativi e procedurali o di un catalogo di tipologia di reati e/o di interessi prioritari tutelati dalle leggi penali?» (Spataro)[52].

Rossi e Spataro escludono che il Parlamento possa dettare a ciascun procuratore della Repubblica un catalogo di reati prioritari. Il primo propugna un’interpretazione del criterio di delega che eviti il rischio che «il Parlamento investito del compito di elaborare una legge di “parametri” e di “procedure” pretenda di dettare direttamente e autonomamente i criteri di priorità entrando nel merito di scelte che la legge delega attribuisce chiaramente agli uffici»[53]. Per contro, A. Spataro segnala che – anche a voler percorrere una simile impostazione – «il rischio più evidente rimane quello di vedere l’azione della magistratura dipendere, come già si è detto, da scelte del Parlamento e del Governo indirizzate dalle maggioranze politiche di turno, sempre più fluttuanti, instabili e persino divise nel periodo storico che il nostro Paese sta vivendo»[54].

Resta poi tutta da immaginare la concreta declinazione del criterio di delega e – per il futuro – resta ancora da immaginare il come il Parlamento potrà dettare – con legge – i criteri generali nel cui perimetro gli uffici giudiziari dovranno individuare criteri di priorità trasparenti e predeterminati. Si tratta di un tema di estremo interesse, su cui si sofferma G. Buonomo[55].

Sullo sfondo resta il fatto che – come osserva S. Panizza – la riforma pone in questione «la portata dell’obbligatorietà quale sancita dall’art. 112 Cost.» e fa emergere «il connesso rischio, se non di uno svuotamento, certo di una modificazione profonda del suo significato»: «non più “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, ma, potremmo dire, “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge”. Con il che, pare abbastanza scontato, la questione potrebbe rapidamente condurre a un giudizio di legittimità innanzi alla Corte costituzionale»[56].

 

3.5. Le ombre: prescrizione e improcedibilità

Il punto dell’immagine su cui si proiettano più cupe le ombre del disegno riformatore è, però, quello relativo alla disciplina della prescrizione. Il tema è già oggetto di riflessioni articolate sviluppate da A. Nappi[57] e G. Ichino[58] in due contributi pubblicati in questo fascicolo della Rivista.

Qui ci limitiamo a riassumere – con inevitabile schematismo – le questioni maggiormente rilevanti. È, però, indispensabile ripercorrere brevemente le tappe che hanno condotto all’approvazione dell’art. 2 della legge n. 134 del 2021 (che non contiene un criterio di delega, ma appronta una nuova disciplina che incide significativamente sulla portata del rapporto tra tempo di commissione del fatto e risposta del sistema giudiziario).

Il punto di partenza è inevitabilmente rappresentato dalla disciplina dettata dalla l. n. 3/2019 (cd. “legge spazzacorrotti”, in vigore dal 1° gennaio 2020). Con quell’intervento normativo si modificava, tra gli altri, il testo dell’art. 159, comma 2, cp, disponendo la sospensione del corso della prescrizione successivamente alla pronuncia della sentenza di primo grado e sino alla sua irrevocabilità (ossia, più correttamente, la definitiva interruzione del corso della prescrizione). Il che rendeva, di fatto, imprescrittibili tutti i reati per cui si fosse giunti tempestivamente a una pronuncia di primo grado (fosse essa di assoluzione o condanna). Tale intervento normativo aveva generato la figura dell’“eterno imputato”, la cui immagine era respinta da larga parte della cultura giuridica.

L’originario ddl Bonafede (AC 2435) aveva tentato di inserire, come punto di equilibrio di una complessa mediazione politica, dei correttivi che – semplificando al massimo grado – limitavano gli effetti della definitiva interruzione del corso della prescrizione ai soli casi di sentenza di condanna in primo grado (cfr. la versione originaria dell’art. 14 del ddl). 

La Commissione Lattanzi aveva, viceversa, ipotizzato di intervenire sulla disciplina vigente formulando due diverse ipotesi; anche qui ci si limita a una schematizzazione semplificatoria: un’ipotesi (A) manteneva ferma la natura sostanziale della prescrizione, prevedendo che il corso della stessa rimanesse condizionatamente sospeso per determinati lassi di tempo in pendenza dei giudizi di impugnazione; una seconda ipotesi (B), invece, proponeva una scelta riformatrice più radicale, introducendo una distinzione tra il tempo dell’oblio (circoscritto al lasso di tempo tra la data di commissione del reato e l’esercizio dell’azione penale; tempo dell’oblio che avrebbe conservato natura sostanziale) e il tempo del processo (la Commissione Lattanzi ipotizzava un sistema per cui - una volta esercitata l’azione penale e definitivamente cessato il corso della prescrizione - il processo avrebbe dovuto essere celebrato entro termini predeterminati per ciascuna fase processuale, superati i quali si sarebbe determinata l’improcedibilità dell’azione penale, salva la possibilità, per l’imputato, di rinunciarvi per ottenere una pronuncia nel merito). In questa seconda ipotesi, la disciplina dell’improcedibilità avrebbe avuto natura processuale e non sostanziale[59]

All’esito di una faticosa mediazione politica[60], la legge delega percorre una via ancora più inedita, introducendo un articolo al codice penale (art. 161-bis cp: cessazione del corso della prescrizione) e un articolo al codice di procedura penale (art. 344-bis cpp: improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione). 

Schematizzando: (a) dopo la sentenza di primo grado – sia essa di assoluzione o di condanna –, il corso della prescrizione cessa definitivamente; (b) per i gradi di giudizio successivi al primo, l’esaurimento della pretesa punitiva dello Stato nei confronti dell’imputato – nell’intenzione di assicurare il diritto alla ragionevole durata del processo – è segnato non dalla prescrizione, ma dalla sanzione dell’improcedibilità dell’azione penale, laddove le fasi del giudizio di impugnazione non siano definite entro termini determinati (due anni per i giudizi di appello; un anno per il giudizio di legittimità); (c) in alcuni casi – in cui le caratteristiche del procedimento ne rivelino la particolare complessità –, il giudice dell’impugnazione può disporre, con ordinanza impugnabile, la proroga del termine entro il quale definire il grado di giudizio (a pena di improcedibilità); (d) in altri casi – tra essi, il caso della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale –, il corso del termine oltre il quale si determina l’improcedibilità è sospeso.

Una simile disciplina ha scatenato molte voci aspramente critiche[61]. Qui ci si limita ad enumerarne alcune.

In primo luogo, la disciplina dell’improcedibilità per superamento dei termini massimi previsti per i giudizi di impugnazione rischia di porsi in frizione con il dettato dell’art. 112 Cost. Se è vero che il principio della durata ragionevole del processo ha rilievo costituzionale e convenzionale (art. 111, comma 2, Cost.; art. 6, § 1, Cedu), è altrettanto vero che la concretizzazione di tale principio dev’essere assicurata dalla legge. Viceversa, il dettato dell’art. 112 Cost. è perentorio nello stabilire l’obbligatorietà dell’azione penale. Finché il fenomeno sostanziale (il reato) non sia estinto, l’azione penale – secondo l’art. 112 Cost. – non può che proseguire: «l’azione è una domanda, e in tanto ha senso definirla obbligatoria, in quanto al suo valido esercizio segua l’obbligo del giudice di rispondere accertandone la fondatezza (…): la persecuzione penale non è materia disponibile»[62]. Detto in altri termini (molto schematici): l’art. 112 Cost. ha la struttura di una regola; e, come noto, le regole si applicano (o non si applicano), mentre i principi si bilanciano. L’introduzione dell’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini massimi dei giudizi di impugnazione, dunque, finisce con il porre in bilanciamento il principio della ragionevole durata del processo[63] con la regola dell’obbligatorietà dell’azione penale, così intervenendo sulla fisionomia dell’art. 112 Cost. È comunque doveroso mettere in evidenza che tale radicale censura all’impostazione della novella è messa in discussione da chi – richiamando alcuni arresti della Consulta – nega «rilevanza al canone in questione “oltre il momento iniziale dell’impulso dato dal pubblico ministero”, argomentandone l’inidoneità ad assicurare l’“efficienza del processo” negli stadi susseguenti», ritenendo comunque ammissibile il temperamento del principio di obbligatorietà ove post0 in bilanciamento con altri principi di rilievo costituzionale[64].

Un secondo possibile profilo di frizione tra il dettato costituzionale e la disciplina dell’improcedibilità prevista dalla riforma Cartabia è dato dalle svariate eccezioni che il dettato dell’art. 344-bis cpp prevede rispetto all’applicazione della regola generale: in presenza di alcune evenienze processuali (processi di particolare complessità), è possibile disporre una proroga del termine massimo previsto per l’utile svolgimento del giudizio di impugnazione (vds. infra); per alcune tipologie di reato, poi, la disciplina dell’improcedibilità è (fortemente) derogata e le forche caudine dell’improcedibilità sono suscettibili di plurime proroghe del termine (vds. art. 344-bis, comma 4, secondo periodo, cpp); sennonché – si osserva – tale disciplina derogatoria rischia di porsi in frizione con svariati principi costituzionali: il principio di ragionevolezza (potenzialmente interessato dalla ragionevolezza delle situazioni che giustificano il regime derogatorio); il principio della presunzione di non colpevolezza (si tratta un presunto innocente in modo deteriore rispetto al regime ordinario, in ragione dell’addebito formulato nei suoi confronti o in ragione di alcune particolari evenienze processuali); il principio della ragionevole durata del processo (che, per il catalogo di reati previsto dall’art. 344-bis, comma 4, secondo periodo, cpp, può portare a durate anche abnormi dei processi)[65].

Un terzo profilo di criticità è legato al meccanismo previsto dall’art. 344-bis cpp per disciplinare la proroga del termine massimo per la celebrazione del giudizio di impugnazione: si prevede, infatti, che tale determinazione sia assunta dal giudice con ordinanza. Anzitutto, un rilievo: dette ordinanze sono impugnabili in cassazione; il che – in controtendenza con tutte le istanze di semplificazione e deflazione – rischia di porre sulle spalle del giudice di legittimità un ulteriore carico di ricorsi. Ma – detto questo – il profilo di criticità di maggior rilievo sembra essere dato dal fatto che l’affidare la determinazione di quale debba essere la ragionevole durata del processo a una decisione del giudice (seppure sulla base di indicatori dati dalla legge) solleva (almeno) due problemi: da un lato, si affida a una determinazione giudiziale la sorte dell’azione penale (obbligatoria) e la perimetrazione della ragionevole durata del giudizio; dall’altro lato – e, secondo alcuni, soprattutto – «affidare ai giudici una scelta destinata a ripercuotersi sulla concreta perseguibilità dei reati equivale a consegnare alla giurisdizione scelte di politica criminale in evidente contrasto con il principio di separazione dei poteri»[66].

Un quarto profilo di riflessione è legato al “mutamento di natura” che il decorso del tempo ha rispetto alla sorte del giudizio. La disciplina della prescrizione – come storicamente l’abbiamo conosciuta –, avendo natura sostanziale, cade sotto il presidio di garanzie dettato dall’art. 25, comma 2, Cost. (con il divieto di retroattività dei trattamenti normativi sfavorevoli sopravvenuti in corso di giudizio). La giurisprudenza costituzionale, sul punto, è consolidata[67]. Il mutamento del rilievo del decorso del tempo nei giudizi di impugnazione – da prescrizione (natura sostanziale) a improcedibilità (natura processuale) – muta anche lo statuto di garanzie per l’imputato? Cioè: essendo l’improcedibilità una disciplina di natura processuale, si applica ad essa il principio del tempus regit actum? È dunque ipotizzabile che – in corso di giudizio – sopravvengano discipline che regolino in modo diverso (e magari deteriore) la durata del termine oltre il quale si determina l’improcedibilità? 

Secondo alcuni, la disciplina dell’improcedibilità – pur processuale – potrebbe, in certi casi, essere ricondotta allo statuto di garanzie dettato dall’art. 25, comma 2, Cost.: «in altri termini, una violazione dell’art. 25 cpv. Cost. si ha ogni volta che vi sia in concreto un effetto in malam partem. E certamente sarebbero ravvisabili effetti in malam partem se si cambiassero in corso di partita e in peius le regole della durata dell’improcedibilità, applicando il principio del tempus regit actum, perché ciò impatterebbe retroattivamente sul diritto di punire, non solo sui tempi del processo»[68].

Altre opinioni, invece, ritengono che la natura processuale dell’improcedibilità non possa che comportare, quale inevitabile corollario, la fuoriuscita della improcedibilità dal perimetro di garanzie dettato dall’art. 25, comma 2, Cost.: «Sul piano propriamente giuridico il discorso non convince. A differenza della prescrizione sostanziale, che si risolve in una causa di non punibilità per estinzione del reato, l’improcedibilità si limita a troncare il processo, senza affrontare il tema della punibilità; l’ipotetico reato non si estingue, ma il giudice è destituito del potere di decidere nel merito. Senza dubbio l’effetto è di sottrarre l’imputato alla condanna, anche perché alla ripresa del processo si oppone il ne bis in idem. Ma tanto il ne bis in idem quanto la “improcedibilità” restano disposizioni ad ogni effetto “processuali” (…). La punibilità nel senso propriamente giuridico – che attiene al diritto sostanziale – non è scalfita né dalla improcedibilità né dalle conseguenze di carattere pratico che da quest’ultima derivano; altrimenti, buona parte delle disposizioni processuali finirebbe per coinvolgere la “punibilità”. (…) Dunque, la regola applicabile è quella del tempus regit actum, tipica di ogni disposizione processuale»[69] (corsivi aggiunti).

Ove si ritenga condivisibile tale – lineare e quasi geometrica – prospettazione, l’effetto della riforma del regime della prescrizione sarebbe quasi paradossale: la riforma – con l’intenzione di rafforzare il diritto dell’imputato a una ragionevole durata del processo – finirebbe con il depotenziare il più forte statuto di garanzie oggi previsto per la prescrizione. Residuerebbe – a tutela dell’imputato che si dolga di modificazioni del regime dell’improcedibilità a lui sfavorevoli – solo la garanzia (meno forte) data dagli artt. 3 e 117 Cost. in relazione agli artt. 6 e 7 della Cedu[70].

I problemi appena segnalati non sono evidentemente di poco conto e, per il vero, nella disciplina dell’improcedibilità se ne annidano molti altri, che non è possibile qui esaminare.

Ciò su cui invece preme soffermare l’attenzione è una serie di effetti che la disciplina dell’improcedibilità potrebbe determinare sul sistema giudiziario.

Il primo effetto della disciplina dell’improcedibilità è particolarmente evidente: essa – nonostante il regime transitorio concepito dall’art. 2, commi 3-5, l. n. 134/2021 – determinerà l’estinzione di migliaia di processi. I dati nazionali relativi al disposition time riferiti ai giudizi di appello (956 giorni, come dato medio nazionale)[71] riportati al par. 2 sono eloquenti e dimostrano l’elevato grado di probabilità che il sistema non riesca a far fronte alla novella. Con un’aggravante: il dato sopra riportato è quello nazionale; scorporando i dati su base territoriale, il disposition time relativo ai giudizi di appello segna risultati ancora peggiori per molti distretti[72].

Un secondo effetto della disciplina del regime di improcedibilità indica un risultato quasi paradossale (per una riforma che intende accelerare i tempi processuali). Prendiamo il caso di un reato che, oggi, si prescrive in sei anni. Come noto – prima della riforma cd. “spazzacorrotti” – il corso della prescrizione poteva subire interruzioni; ma – in virtù di quanto disponeva l’art. 161, comma 2, cp – eventuali interruzioni del corso della prescrizione non avrebbero comunque potuto comportare «un aumento del tempo necessario a prescrivere» superiore a un quarto (nelle ipotesi normali); totale: sette anni e mezzo. Proviamo a immaginare lo stesso reato, commesso oggi. Tempo necessario a prescrivere: sei anni (come oggi); in presenza di atti interruttivi, «aumento del tempo necessario a prescrivere» non superiore a un quarto (come oggi). Ipotizziamo che l’imputato commetta il reato e che trascorrano cinque anni prima del rinvio a giudizio; ipotizziamo che la sentenza di condanna di primo grado intervenga dopo due anni e cinque mesi. Il reato non è prescritto e – con la novella – non si prescriverà più; ma l’imputato propone appello: e, perché si determini l’improcedibilità, dovrebbero trascorrere (salvo proroghe) due anni; ma ipotizziamo che la corte di appello ce ne metta meno (un anno e undici mesi); il processo non si estingue e, allora, l’imputato propone ricorso per Cassazione; ma la Cassazione riesce a decidere entro il termine di un anno (poniamo, in undici mesi); risultato: l’imputato viene irrevocabilmente condannato a distanza di oltre dieci anni dalla data di commissione del reato (quando con la “vecchia” e vituperata prescrizione, il reato si sarebbe estinto in sette anni e mezzo). Come detto, un risultato paradossale per una riforma che intendeva assicurare il principio di ragionevole durata del processo.

Un terzo effetto della disciplina del regime di improcedibilità attiene a un altro profilo: si è detto che la situazione delle corti di appello italiane è tale da non poter assicurare – in un rilevantissimo numero di casi – il rispetto dei termini previsti per i giudizi di impugnazione. Ciò, fatalmente, introdurrà l’obiettivo dell’improcedibilità nei calcoli che (giustamente) ciascun imputato fa per tutelare la propria posizione. Il rischio, dunque, è di alimentare in modo elevato il numero di impugnazioni proposte a scopo dilatorio, con il risultato di frustrare l’efficacia di molti istituti deflativi che, pure, la legge n. 134 del 2021 mira a introdurre nell’ordinamento.

Vi è poi un ulteriore effetto paradossale che la riforma potrebbe determinare. Come detto, la mannaia dell’improcedibilità rischia di determinare – in nome del principio di ragionevole durata del processo – l’estinzione di numerosi processi. Ma un simile esito estintivo, che negli auspici dovrebbe allineare il sistema giudiziario al dettato della Costituzione e della Cedu, rischia di esporre il nostro Paese a ulteriori procedure davanti alla Corte Edu per violazione dell’art. 6 della Convenzione. Il tema non può qui essere approfondito; è solo il caso di ricordare che, di recente, la Corte Edu ha condannato l’Italia per la violazione degli artt. 6 e 13 della Convenzione (sotto i profili della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e del diritto all’accesso a un giudice)[73] in un caso che – con l’improcedibilità di nuovo conio – minaccia di ripresentarsi non di rado[74]. Per il vero, la frizione con l’art. 6, § 1 della Cedu (diritto fondamentale di accesso a un giudice che deciderà in ordine alle controversie su diritti e obbligazioni di natura civile), che è stata ravvisata nel caso Petrella, potrebbe essere scongiurata dalle modifiche apportate all’art. 578 cpp, ove si prevede (comma 1-bis) che, in caso di improcedibilità maturata in appello o in cassazione, i giudici debbano «rinviare per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale». 

Ma si tratta di norma di non semplice e lineare interpretazione[75] che, comunque, non risolverebbe i profili di contrasto con il diritto alla ragionevole durata del processo volta a una soluzione nel merito.

Come a dire: oggi la Corte Edu ci condanna perché finiamo i processi troppo tardi; domani potrebbe condannarci perché non li finiamo proprio…

 

4. Alba o tramonto del processo penale?

Dovendo trarre le fila della sin troppo lunga disamina, si possono svolgere alcune considerazioni conclusive. Non ci si concentrerà qui su ciò che sarebbe stato auspicabile, ma non è stato fatto (una seria opera di razionalizzazione della disciplina sostanziale, con “ristrutturazione” di alcune fattispecie e alcuni possibili interventi di depenalizzazione); né su ciò che – a riforma approvata – sarebbe altrettanto auspicabile e necessario (un’amnistia) per garantire che la riforma inizi il suo cammino senza una zavorra capace di affossarla. 

Ambedue le ipotesi non sono nell’agenda politica e la composizione del Parlamento, le sue fluttuanti maggioranze e le imminenti scadenze elettorali ci dicono che, con ogni probabilità, ciò non avverrà.

Le considerazioni conclusive si debbono allora concentrare sul contenuto della riforma. Si sono messe in evidenza le ragioni che rendono indispensabile una incisiva riforma del sistema penale. E sono state esaminate le contraddizioni emerse nel cammino di approvazione della legge n. 134 del 2021 e si sono messi in luce alcuni dei nodi che il legislatore delegato dovrà provare a sciogliere. Si è anche dato conto dei possibili aspetti positivi e negativi della riforma.

Mi limito dunque a dire, in conclusione, che il successo della riforma – al di là di come saranno scritti i decreti delegati – è in larga parte legato a fattori ulteriori rispetto alla qualità del testo normativo. 

Alludo alle risorse umane e materiali con cui è indispensabile accompagnare il cammino della riforma: un sistema di inclusione sociale che non si limiti al mondo dell’amministrazione della giustizia, ma coinvolga i territori e le associazioni; un indispensabile rafforzamento degli uffici di esecuzione penale esterna; una efficace implementazione del processo penale telematico; un adeguamento degli organici del personale di magistratura[76].

Tutti interventi – quelli appena citati – che hanno un costo. 

Un costo che, però, è interesse del Paese sostenere; sia per il fatto che un efficace sistema processuale – che favorisca la riparazione del tessuto sociale lacerato e il reinserimento sociale del condannato – costituisce un fattore che previene l’insicurezza sociale, sia per il fatto che è dovere della Repubblica provare a vincere la scommessa rieducativa scritta nella Costituzione. 

Per dirla con Mario Sbriccoli, «un lungo lavoro strategico sembra realisticamente la sola via praticabile. (…) Un lavoro lungimirante che riorganizzi la presenza dei tutori dell’ordine nelle città, che impianti meccanismi di riparazione del danno e procedure di mediazione tra aggressore e vittima, che coinvolga i mezzi di informazione in un’opera di razionalità informativa, dissuadendoli dalla attuale funzione di allarme a intermittenza e dall’opera di cattiva informazione che nasce dalle enfasi, dalle metafore belliche, dai toni parossistici (…). Un lungo lavoro, comme toujours. La fuoriuscita dalla vendetta non è, da secoli, impresa da poco»[77].

Ma la riforma, per restituire efficacia ed effettività al sistema penale, favorendo anche la fuoriuscita dalla logica della vendetta, avrà bisogno anche di un deciso salto culturale da parte dei giudici e dei pubblici ministeri: da un lato, essi saranno chiamati a una diversa – direi più contemporanea – concezione del loro lavoro; dall’altro lato, essi saranno chiamati ad appropriarsi di una nuova visione della penalità.

In queste pagine si è molto – forse troppo – insistito sulla metafora delle luci e delle ombre. Per coerenza, insisto nella metafora: sebbene le ombre siano spesse, alcune luci – tra le pieghe della riforma – si intravedono. Può essere il chiaroscuro del tramonto o quello dell’alba. Quale sia il punto della notte è questione che dipende, almeno in parte, anche dagli occhi di noi operatori del diritto.

 

*  Si rende opportuna una precisazione di carattere personale (di cui mi scuso). Allorché fu depositato il progetto della Commissione Lattanzi e mentre era ancora in corso la discussione parlamentare che ha poi portato alla approvazione e promulgazione della legge n. 134 del 2021, questa Rivista ha deciso di dedicare una articolata riflessione alla riforma della giustizia penale, incaricandomi di curare la raccolta e la revisione dei vari contributi. Nei mesi successivi, sono stato – in modo inatteso – designato componente di uno dei gruppi di lavoro che dovranno curare l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo per l’attuazione della riforma. La precisazione che intendo qui formulare è la seguente: l’avvenuta designazione a componente dei gruppi di lavoro ministeriale non ha influito sulla linea editoriale – che già andava sviluppandosi – che attraversa i vari contributi qui pubblicati. Tantomeno le opinioni che qui esprimo impegnano il gruppo di lavoro di cui sono stato chiamato a far parte. Precisazioni forse ovvie e banali che, tuttavia, ho ritenuto opportuno rendere esplicite.

1. Il raffinato aforisma è attribuito ad Arthur Bloch, l’inventore della celebre “Legge di Murphy”. Il primo a ricorrere all’elegante metafora che accosta leggi e salsicce è stato tuttavia il Cancelliere Otto von Bismarck. Ne esistono – sul web – diverse varianti; una per tutte: “Meno le persone sanno di come vengono fatte le salsicce e le leggi e meglio dormono la notte”.

2. Cfr. M. Cartabia, Linee programmatiche sulla giustizia, 14 marzo 2021 (CARTABIA-LINEE-PROGRAMMATICHE-SULLA-GIUSTIZIA-15-MARZO-2021-2.pdf (penaledp.it)).

3. Sul sito del Ministero della giustizia sono pubblicati l’esito dei lavori e la Relazione finale della Commissione Lattanzi (Ministero giustizia).

4. Su cui si appuntano le inesorabili critiche di P. Ferrua, Improcedibilità e ragionevole durata del processo, in Penale diritto e procedura (Penale DP), 24 gennaio 2022 (www.penaledp.it/improcedibilita-e-ragionevole-durata-del-processo/?print-posts=pdf), testo della relazione svolta al convegno annuale dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale “G.D. Pisapia”, «Alla ricerca di un processo penale efficiente», 21-22 gennaio 2022. Sul sito di Penale DP si precisa che il lavoro sarà pubblicato sul fascicolo n. 2/2022 della rivista Cassazione penale.

5. Si allude al dettato dell’art. 2 della legge n. 134 del 2021 che, ai commi 8 e 9, prevede che l’identificazione a mezzo rilievi foto-dattiloscopici avvenga non solo per le persone prive di documenti d’identità, ma anche «quando si procede nei confronti di un apolide, di una persona della quale è ignota la cittadinanza, di un cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea ovvero di un cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea privo del codice fiscale o che è attualmente, o è stato in passato, titolare anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all’Unione europea»; l’elemento di possibile discriminazione è abbastanza facilmente individuabile nella necessità di sottoporre ad accertamento foto-dattiloscopico (che - si ricordi - può avvenire anche in maniera coattiva) un cittadino di altro Paese dell’Ue che rechi su di sé lo stigma di essere – o essere stato in passato – anche cittadino di altro Paese non appartenente all’Unione europea.

6. Vale la pena leggere il sarcastico commento di P. Ferrua, Improcedibilità, op. cit., par. 1: «Per quanto possa riuscire spiacevole, penso che qualsiasi discorso sulla improcedibilità obblighi anzitutto a ricordare la sua indecorosa origine nel nostro ordinamento, che ha visto la politica scendere al suo più basso livello. Questo è il solo modo per convertire la domanda dettata dallo stupore – “Com’è possibile che si sia scelta la prescrizione sostanziale in primo grado e quella processuale in sede di impugnazione?” – in spiegazione: “quale vantaggio offriva dopo il primo grado la improcedibilità rispetto alla prescrizione sostanziale?”. La risposta è di agghiacciante comicità: i ministri pentastellati, pur costretti dal timore delle elezioni anticipate ad accettare emendamenti alla riforma Bonafede, che aveva soppresso la prescrizione dopo il primo grado, intendevano proteggere quella riforma almeno sul piano linguistico, opponendosi a qualsiasi istituto che contenesse la parola “prescrizione”. La sventura della prescrizione sostanziale è stata di non potersi chiamare con un nome diverso da “prescrizione”; di qui la “luminosa” idea di ricorrere alla prescrizione processuale che aveva la fortuna di potersi anche designare come “improcedibilità”, attraverso uno slittamento metonimico dalla causa verso l’effetto. Consolati dalla prospettiva di proclamare ai quattro venti la sopravvivenza della legge Bonafede nella parte in cui aveva soppresso la “prescrizione”, i pentastellati si sono convinti ad accettare la proposta».

7. Si sofferma su questo aspetto – con riferimento ai criteri di delega che riguardano gli interventi di riforma che lambiscono la figura del pubblico ministero – G. Ruta, Verso una nuova istruzione formale? Il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, in questo fascicolo, già pubblicato in anteprima su Questione giustizia online, 20 gennaio 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/verso-una-nuova-istruzione-formale).

8. La giurisprudenza costituzionale ammonisce che, «ai sensi dell’art. 76 Cost., il legislatore delegante, nel conferire al Governo l’esercizio di una porzione della funzione legislativa, è tenuto a circoscriverne adeguatamente l’ambito, predeterminandone i limiti di oggetto e di contenuto, oltre che di tempo. A questo scopo, la legge delega, fondamento e limite del potere legislativo delegato, non deve contenere enunciazioni troppo generali o comunque inidonee a indirizzare l’attività normativa del legislatore delegato, ma ben può essere abbastanza ampia da preservare un margine di discrezionalità, e un corrispondente spazio, entro il quale il Governo possa agevolmente svolgere la propria attività di “riempimento” normativo, la quale è pur sempre esercizio delegato di una funzione “legislativa”» (così - tra altre di segno analogo - Corte cost., n. 104/2017, con richiami alle precedenti sentt. nn. 98/2008 e 158/1985).

9. Si sofferma su tale aspetto – a proposito della “scomparsa” dell’affidamento in prova al servizio sociale dal novero delle sanzioni sostitutive alla pena detentiva – R. De Vito, Fuori dal carcere? La “riforma Cartabia”, le sanzioni sostitutive e il ripensamento del sistema sanzionatorio, in questo fascicolo. 

10. Tema cui questo fascicolo dedica la indispensabile attenzione, con la pubblicazione di ben cinque contributi (con varietà di punti di vista) già anticipati su Questione giustizia online; in ordine di pubblicazione: G. Buonomo, La crescente procedimentalizzazione dell’atto parlamentare di indirizzo politico, 7 ottobre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-crescente-procedimentalizzazione-dell-atto-parlamentare-di-indirizzo-politico); F. Di Vizio, L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR, 13 ottobre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/l-obbligatorieta-dell-azione-penale-efficiente-ai-tempi-del-pnrr); N. Rossi, I criteri di esercizio dell’azione penale. Interviene «il Parlamento con legge», 8 novembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-criteri-di-esercizio-dell-azione-penale-interviene-il-parlamento-con-legge), contributo rielaborato e intitolato I “criteri di priorità” tra legge cornice e iniziativa delle procure; A. Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre 2021, n. 134, 20 dicembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-selezione-delle-priorita); S. Panizza, Se l’esercizio dell’azione penale diventa obbligatorio… nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, 5 gennaio 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/se-l-esercizio-dell-azione-penale).

11. Come ha seccamente chiarito la Ministra Cartabia – nel corso di un incontro pubblico tenutosi il 20 luglio 2021 a Napoli – in replica a molte critiche che si stavano levando da ambienti di accademia, avvocatura e magistratura nei confronti dell’emendamento governativo appena depositato alle Camere.

12. Cfr. P. Curzio, presidente della Corte di cassazione, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021, svolta all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022 (Roma, 21 gennaio 2022), Cassazione_Relazione_2022.pdf (cortedicassazione.it); i dati relativi alle pendenze e ai flussi di sopravvenienze e definizioni – ripartiti per uffici – è riportato nelle tabelle alle pp. 45 ss.

13. Ivi, pp. 49 ss. Nella relazione si ha cura di precisare che il metodo di calcolo del cd. “disposition time” è coerente con le indicazioni metodologiche fatte proprie dal CEPEJ del Consiglio di Europa.

14. Ivi, pp. 51 ss.

15. Cfr. European judicial systems. CEPEJ Evaluation Report – 2020 Evaluation cycle (dati del 2018), Consiglio d’Europa, settembre 2020, p. 129 (16809fc058 (coe.int)).

16. Cfr. P. Curzio, Relazione, op. cit., pp. 55-56. Estremamente interessante l’esame della tabella riportata a p. 55.

17. Per usare la felice espressione che si legge in Corte cost., n. 50/1980.

18. Per l’esame delle statistiche qui sinteticamente riportate si fa rinvio, sul sito del Ministero della giustizia, al link: www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&facetNode_2=0_2_10&contentId=SST365654&previsiousPage=mg_1_14.

19. Vds. i dati riportati sul sito del Ministero della giustizia (www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&facetNode_2=0_2_10&contentId=SST613897&previsiousPage=mg_1_14).

20. Che, quantomeno a livello statistico, hanno una maggior probabilità di essere sottoposti a custodia cautelare, come risulta dalla tabella riportata sul sito ministeriale (link alle note 18 e 19).

21. Cfr. M. Sbriccoli, Giustizia criminale, in M. Fioravanti (a cura di), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 163 ss., leggibile anche in M. Sbriccoli, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), tomo I, Giuffrè, Milano, 2009, p. 3 (consultabile a questo link: Biblioteca per la storia del pensiero giuridico moderno - volume 88 (unifi.it)).
Sul tema della “vendetta”, vds. anche M. Bortolato ed E. Vigna, Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, Laterza, Bari-Roma, 2020.

22. Sempre per usare la terminologia di Sbriccoli nel contributo citato alla nota che precede.

23. Il legislatore costituente – nel disporre che le pene debbono «tendere alla rieducazione del condannato» – non ha inteso fissare una norma programmatica; la formulazione ha inteso, invece, rendere evidente la necessaria «presa d’atto della divaricazione che, nella prassi, può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione» (Corte cost., n. 313/1990; vds. anche Corte cost., n. 306/ 1993).

24. Corte cost., n. 313/1990.

25. Corte cost., n. 282/1989.

26. Corte cost. n. 149/2018 (in materia di limitazione ai benefici penitenziari per i condannati all’ergastolo per i delitti di cui agli artt. 630 cp e 289-bis cp aggravati).

27. Su cui M. Bouchard e F. Fiorentin, Sulla giustizia riparativa, op. cit., in questo fascicolo.

28. Su cui R. De Vito, Fuori dal carcere?, op. cit., in questo fascicolo.

29. Le statistiche fotografano una realtà in cui una buona parte della popolazione carceraria condannata in via definitiva è detenuta (al 31 dicembre 2021) in esecuzione di una pena detentiva inferiore a tre anni di reclusione (7.171 detenuti). È il caso di precisare che le statistiche sinora pubblicate sul sito del Ministero non consentono, purtroppo, di avere il dato per tutti i condannati a pena detentiva non superiore a quattro anni (che è la soglia che la legge n. 134 del 2021 individua per disegnare il meccanismo di sostituzione di sanzioni detentive “brevi” – per i dati, vds. www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&facetNode_2=0_2_10&contentId=SST361915&previsiousPage=mg_1_14. 

30. Cfr. il lavoro – da alcuni fatto oggetto di critiche metodologiche – di F. Leonardi, Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva, in Rassegna penitenziaria e criminologica, n. 2/2007, pp. 7 ss. (www.rassegnapenitenziaria.it/cop/4825.pdf).

31. Si allude allo studio di G. Mastrobuoni e D. Terlizzese, Rehabilitation and recidivism: Evidence from an open prison (2014 – www.questionegiustizia.it/data/doc/1347/rehabilitation_and_recidivism_evidence_from_an_open_prison_g_mastrobuoni_d_terlizzese_september_2014.pdf), con nota di presentazione di D. Stasio, Il carcere e quell’assenza di empatia con la Costituzione, in questa Rivista online, 12 giugno 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/il-carcere-e-quell-assenza-di-empatia-con-la-costituzione_12-06-2017.php; vds. anche D. Stasio, Carcere e recidiva, l’offensiva contro le statistiche per fermare il cambiamento (vero), ivi, 28 maggio 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/carcere-e-recidiva-l-offensiva-contro-le-statistiche-per-fermare-il-cambiamento-vero_28-05-2018.php, nonché D. Terlizzese, Persone dietro i numeri. Un’analisi del rapporto tra sistemi penitenziari e recidiva, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2018, pp. 136 ss., www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/persone-dietro-i-numeri-un-analisi-del-rapporto-tra-sistemi-penitenziari-e-recidiva_569.php. 

32. Cfr. UEPE, Adulti in area penale esterna in misura alternativa alla detenzione (analisi statistica dei dati 2020), 25 marzo 2021, tabella 2, p. 3 (UEPE_misure_alternative_2020_1.pdf (giustizia.it)). Vds. anche la tabella 5, p. 13, ove il dato viene ripartito secondo la condizione (di libertà o di detenzione) in cui versava il condannato al momento dell’ammissione alla misura alternativa.

33. Quanto all’affidamento in prova: 1407 revoche nel 2018; 1212 revoche nel 2019; 544 revoche nel 2020; quanto alla detenzione domiciliare: 1706 revoche nel 2018; 1380 revoche nel 2019; 1039 revoche nel 2020; quanto alla semilibertà: 118 revoche nel 2018; 109 revoche nel 2019; 30 revoche nel 2020 – cfr. UEPE, Adulti, cit., tabella 10, pp. 24-25.

34. Cfr. i dati statistici elaborati dall’UEPE, Adulti in area penale esterna, analisi statistica dei dati aggiornati al 15 gennaio 2022 (www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/Adulti_in_area_penale_esterna_15.01.2022.pdf).

35. Si allude: (a) all’Ordine del giorno approvato dal Senato della Repubblica a margine dell’approvazione del disegno di legge sulla manovra di bilancio, che «impegna il Governo a potenziare ulteriormente il personale degli Uffici di servizio sociale preposti all’esecuzione penale esterna dei minori (Uffici di servizio sociale per minorenni) e degli adulti (Uffici per l’esecuzione penale esterna) anche valorizzando le misure straordinarie in materia di assunzioni previste nel disegno di legge c.d. concretezza in corso di approvazione» (www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Emendc&leg=18&id=1084969&idoggetto=1095592); (b) al passaggio dedicato al tema dalla Ministra della giustizia, Marta Cartabia, nella Relazione sull’amministrazione della giustizia illustrata il 19 gennaio 2022 davanti alla Camera dei deputati: «Il personale degli UEPE, cioè di questi uffici dell’esecuzione penale esterna, invece sono numeri bassissimi, in tutto sono 1.211 unità, ed è evidente la necessità di potenziare questo settore. Ringrazio chi ha sostenuto un ordine del giorno, a margine della legge di bilancio, per impegnare il Governo in questa direzione» (www.camera.it/leg18/410?idSeduta=0630&tipo=stenografico#sed0630.stenografico.tit00090.sub00010).

36. Cfr. l. n. 328/2000.

37. Cfr. il cd. “Codice del terzo settore”, approvato con d.lgs n. 117/2017.

38. Il tema è diffusamente trattato nei lavori degli Stati generali dell’Esecuzione penale (www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_3.page?previsiousPage=mg_2_19#a2u) e, più in particolare, nella relazione del Tavolo 17 – «Processo di reinserimento e presa in carico territoriale» (www.giustizia.it/resources/cms/documents/sgep_tavolo17_relazione.pdf).

39. Inserendo in questo ellittico riferimento le previsioni in materia di probation, di sanzioni sostitutive e di giustizia riparativa.

40. Così M. Donini, Efficienza e principi della legge Cartabia. Il legislatore a scuola di realismo e cultura della discrezionalità, in Politica del diritto, n. 4/2021, p. 592.

41. Da ultimo, E. Maccora, La specializzazione per materia negli uffici gip-gup di grandi dimensioni, in Questione giustizia online, 10 febbraio 2022, par. 1, www.questionegiustizia.it/articolo/la-specializzazione-per-materia.

42. Così superando la ristretta visione che circoscriveva la valenza del principio rieducativo alla sola fase trattamentale; vds. Corte cost., n. 313/1990. Analoga puntualizzazione si legge in Corte costituzionale, sentenza n. 282 del 1989, laddove – in materia di disciplina di revoca della liberazione condizionale – la Consulta rilevò che «l’idea di “scopo” della pena, della quale idea è massima espressione lo stesso art. 27, terzo comma, Cost., comporta, oltre al ridimensionamento delle concezioni assolute della pena, la valorizzazione del soggetto, reo o condannato, in ogni momento della dinamica penal-sanzionatoria (previsione astratta, commisurazione, soltanto in senso ampio od anche in senso stretto, ed esecuzione)».

43. Quanto alla fase delle indagini preliminari, cfr. G. Ruta, Verso una nuova istruzione formale?, op. cit., e L. D’Ancona, Riforma del processo penale e giudice per le indagini preliminari, già anticipato su Questione giustizia online, 9 novembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/riforma-del-processo-penale-e-giudice-per-le-indagini-preliminari); quanto all’udienza preliminare, G. Battarino ed E. Maccora, Il giudice dell’udienza preliminare nella riforma, già anticipato ivi, 10 gennaio 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-giudice-dell-udienza-preliminare-nella-riforma); quanto alla fase del giudizio, A. Natale, Il giudice di cognizione di fronte alla cd. “riforma Cartabia” e R. Ianniello, Osservazioni critiche in merito alla udienza filtro per i procedimenti a citazione diretta, già anticipato su Questione giustizia online, 21 gennaio 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/osservazioni-critiche-in-merito-alla-udienza-filtro-per-i-procedimenti-a-citazione-diretta); quanto al giudizio di appello, G. Ichino, “Riforma Cartabia” e processo d’appello, già anticipato ivi, 29 novembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/riforma-cartabia-e-processo-d-appello).

44. Si concentrano, in modo particolare, sugli aspetti disfunzionali della riforma G. Ruta, Verso una nuova istruzione formale?, op. cit., e R. Ianniello, Osservazioni critiche, op. cit.

45. Cfr. supra, par. 2 e nota 16.

46. Anche se si tratta di un intervento che, per la verità, recepisce un orientamento giurisprudenziale già esistente e che, secondo la ragionevole valutazione di G. Ichino (“Riforma Cartabia” e processo d’appello, op. cit.), avrà un modesto effetto di deflazione.

47. Sentenze di condanna alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità; sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa; sentenze di condanna all’esito di giudizio di primo grado celebrato in absentia, ove al difensore non sia stato conferito dopo la pronuncia della sentenza di primo grado uno specifico mandato all’impugnazione.

48. Vds. B. Galgani, Il processo penale in “ambiente” digitale: ragioni e (ragionevoli) speranze, già pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 17 gennaio 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-processo-penale-in-ambiente-digitale-ragioni-e-ragionevoli-speranze).

49. Cfr. M.G. Civinini, Il “nuovo ufficio per il processo” tra riforma della giustizia e PNRR. Che sia la volta buona!, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2021, pp. 173 ss., www.questionegiustizia.it/articolo/il-nuovo-ufficio-per-il-processo, già anticipato su Questione giustizia online, 8 settembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-nuovo-ufficio-per-il-processo).

50. Cfr. G. Buonomo, La crescente procedimentalizzazione, op. cit.; F. Di Vizio, L’obbligatorietà, op. cit.; N. Rossi, I criteri (e I “criteri di priorità”), op. cit.; A. Spataro, La selezione, op. cit.; S. Panizza, Se l’esercizio dell’azione penale diventa obbligatorio, op. cit.; vds. anche N. Zanon e F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Zanichelli, Bologna, 2019 (V ed.), cap. 6.

51. F. Di Vizio, L’obbligatorietà, op. cit.

52. A. Spataro, La selezione, op. cit.

53. N. Rossi, I criteri (e I “criteri di priorità”), op. cit.

54. A. Spataro, La selezione, op. cit.

55. G. Buonomo, La crescente procedimentalizzazione, op. cit.

56. S. Panizza, Se l’esercizio dell’azione penale diventa obbligatorio, op. cit. 

57. A. Nappi, Appunti sulla disciplina dell’improcedibilità per irragionevole durata dei giudizi di impugnazione, in questo fascicolo, anticipato su Questione giustizia online, 9 dicembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/appunti-sulla-disciplina-dell-improcedibilita-per-irragionevole-durata-dei-giudizi-di-impugnazione).

58. G. Ichino, “Riforma Cartabia” e processo d’appello, op. cit.

59. Cfr. Commissione Lattanzi, Relazione finale, 24 maggio 2021, par. 3, pp. 50-56 (www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/commissione_LATTANZI_relazione_finale_24mag21.pdf).

60. Cfr. supra, note 4 e 6.

61. Per una completa disamina, cfr. P. Ferrua, Improcedibilità, op. cit. 

62. Cfr. P. Ferrua, op. ult. cit., p. 7.

63. La ragionevole durata del processo è, evidentemente, un diritto soggettivo delle persone in esso coinvolte, come nitidamente chiarito dalla giurisprudenza della Corte Edu consolidatasi sull’interpretazione dell’art. 6 della Convenzione; tuttavia, nella sua dimensione costituzionale, esso funziona come un principio. Sul punto, vds. P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, Zanichelli, Bologna, 2012 (III ed.), pp. 108 ss.; sulla natura di principio e sulle conseguenze che tale natura determina in termini di possibilità di bilanciamento con altri principi di rilievo costituzionale, vds. pp. 111-115; a p. 117 si definisce come «impensabile» la prescrizione del processo.

64. D. Negri, Dell’improcedibilità temporale. Pregi e difetti, in Sistema penale, n. 2/2022, p. 53, con richiami a Corte cost., nn. 460/1995 e 26/2007 (www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1645393666_negri-2022a-improcedibilita-temporale-riforma-cartabia.pdf).

65. Cfr. P. Ferrua, Improcedibilità, op. cit., p. 9. 

66. Così M. Daniele - P. Ferrua - R. Orlandi - A. Scalfati - G. Spangher, Sulla disciplina della improcedibilità. Una posizione critica, in Questione giustizia online, 30 agosto 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/improcedibilita; vds. anche P. Ferrua, Improcedibilità, op. cit., p. 10: «si consegnano così alla giurisdizione scelte di politica criminale che non le competono». Anche D. Negri, Dell’improcedibilità temporale, op. cit., pp. 56 ss., ritiene «dubbia» – sotto più profili – la costituzionalità dei meccanismi di proroga appena sintetizzati.

67. Per tutte, si rimanda alle pronunce rese nel contesto della cd. “Saga Taricco”: Corte cost., ord. n. 24/2007 e sent. n. 115/2018; si vedano anche Corte costituzionale, sentt. nn. 278/2020 e 140/2021 (sulla regolamentazione della sospensione del corso della prescrizione dettata dall’art. 83, commi 4 e 9, dl n. 18/2020, in conseguenza della situazione epidemica in atto nel Paese).

68. Così M. Donini, Efficienza e principi della legge Cartabia, op. cit., p. 599.

69. P. Ferrua, Improcedibilità, op. cit., p. 14.

70. Cfr. – con riferimento al principio di retroattività in mitius – Corte Edu, Guida sull’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, 30 aprile 2020 (www.echr.coe.int/Documents/Guide_Art_7_ITA.PDF), punto 17: «Per quanto riguarda più in particolare la prescrizione, la Corte ha ritenuto che l’articolo 7 non impedisca l’applicazione immediata, ai procedimenti in corso, delle leggi che allungano i termini di prescrizione, quando i fatti ascritti non sono mai caduti in prescrizione (Coëme e altri c. Belgio, § 149), e in assenza di arbitrarietà (Previti c. Italia (dec.), §§ 80-85). Perciò, essa ha definito le disposizioni in materia di prescrizione come norme processuali, in quanto non definiscono i reati e le pene, e possono essere interpretate nel senso che pongono una semplice condizione preliminare affinché la causa sia esaminata (ibidem, § 80; Borcea c. Romania (dec.), § 64). Peraltro, quando i reati per i quali la persona è stata condannata erano puniti dal diritto internazionale, la questione del termine di prescrizione applicabile deve essere decisa sulla base del diritto internazionale pertinente all’epoca in cui sono stati commessi (Kononov c. Lettonia [GC], §§ 229-233, in cui la Corte ha constatato che il diritto internazionale pertinente all’epoca dei fatti non aveva fissato alcun termine di prescrizione per i crimini di guerra, ritenendo dunque che il procedimento a carico del ricorrente non fosse mai caduto in prescrizione; cfr. con Kolk e Kislyiy c. Estonia (dec.) e Penart c. Estonia (dec.), in cui la Corte ha affermato che i crimini contro l’umanità erano imprescrittibili)».
Cfr. anche – con riferimento al diritto a un processo equo – Corte Edu, Guida sull’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, 30 aprile 2020 (www.echr.coe.int/Documents/Guide_Art_6_criminal_ITA.pdf), punto 246: «Infine, una questione di certezza del diritto si può porre anche nel caso di un intervento legislativo durante il procedimento penale in corso. Nella causa Chim e Przywieczerski c. Polonia, §§ 199-207, basandosi sulla propria giurisprudenza relativa all’articolo 7 della Convenzione, la Corte ha dichiarato che non vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 in riferimento ad alcuni emendamenti legislativi che estendevano i termini di prescrizione alla causa del ricorrente».

71. Cfr. P. Curzio, Relazione, op. cit., pp. 49 ss. 

72. Meno catastrofica – perché rimediabile con un accurato monitoraggio delle pendenze e un’accorta selezione delle priorità nella trattazione – è la lettura che, di tale aspetto, dà G. Canzio, Il modello “Cartabia”. Organizzazione giudiziaria, prescrizione del reato, improcedibilità, in Sistema penale, 14 febbraio 2022, pp. 12 ss. (www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1644746927_canzio-2022a-modello-cartabia-riforma-organizzazione-giudiziaria-prescrizione-improcedibilita.pdf).

73. Sotto diverse forme, ovviamente; nel caso Petrella, infatti, si trattava di una persona offesa che lamentava di non aver potuto costituirsi nel giudizio penale come parte civile, in ragione del fatto che il termine di prescrizione era maturato durante la fase delle indagini preliminari.

74. Corte Edu, sez. I, Petrella c. Italia, ric. n. 24340/07, 18 marzo 2021 (PETRELLA v. ITALY - [Italian Translation] by the Italian Ministry of Justice (coe.int)). La sentenza a è divenuta definitiva il 6 settembre 2021, dopo che il ricorso alla Grande Chambre della Rappresentanza italiana è stato dichiarato inammissibile. 

75. Sul punto, si rimanda a G. Ichino, “Riforma Cartabia” e processo d’appello, op. cit., par. 6, e P. Ferrua, Improcedibilità, op. cit., pp. 11-12. 

76. Stando al rapporto CEPEJ 2020 – European judicial systems (dati del 2018), cit. –, il numero di giudici professionali in Italia è pari a 11,6 giudici/100.000 abitanti; la media dei Paesi membri del Consiglio d’Europa è pari a 21,4; la mediana è pari a 17,7. Lo stesso documento riporta che il numero di pubblici ministeri in Italia è pari a 3,7 PM/100.000 abitanti; la media dei Paesi membri del Consiglio d’Europa è pari a 12,13; la mediana è pari a 11,25.

77. Cfr. M. Sbriccoli, Storia del diritto penale e della giustizia, op. cit., p. 44 (Biblioteca per la storia del pensiero giuridico moderno - volume 88 (unifi.it)).