Magistratura democratica

I “criteri di priorità” tra legge cornice e iniziativa delle procure*

di Nello Rossi

Nel panorama di chiaroscuri della legge delega di riforma del processo spicca, come nota positiva, la soluzione adottata in tema di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. In luogo del modello autoreferenziale proposto nel ddl Bonafede, nel quale la definizione dei criteri di priorità avveniva tutta nell’ambito del giudiziario, e dell’opzione della Commissione Lattanzi in favore di “periodici” atti di indirizzo parlamentare e di criteri di priorità “dinamici”, il testo della riforma prevede una cornice stabile e vincolante di criteri generali fissata dal «Parlamento con legge», nel cui ambito gli uffici di procura saranno chiamati a predisporre i criteri di priorità. Nell’articolo si elencano i nodi che il legislatore delegato dovrà sciogliere e ci si interroga sulla meta della complessa procedura di predisposizione dei criteri di priorità delineata nella riforma del processo penale, nella quale saranno coinvolti il Ministro della giustizia, il Parlamento, gli uffici giudiziari e il Csm.

1. La legge di riforma del processo penale disciplina i criteri di priorità: le contrastanti reazioni all’innovazione / 2. Tre modelli diversi nel percorso di elaborazione della legge delega / 2.1. Il modello autoreferenziale del ddl Bonafede: la definizione dei criteri di priorità nell’ambito esclusivo del potere giudiziario / 2.2. Lo schema disegnato dalla Commissione Lattanzi: “periodici” atti di indirizzo del Parlamento e criteri di priorità “dinamici” / 2.3. La riforma approvata: una stabile cornice dettata dal «Parlamento con legge» per regolare l’iniziativa delle procure / 3. I nodi che il legislatore delegato dovrà sciogliere / 4. La meta della “operazione criteri”

 

1. La legge di riforma del processo penale disciplina i criteri di priorità: le contrastanti reazioni all’innovazione

L’adozione da parte degli uffici di procura di «criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi (…) al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre» è ora prevista come adempimento obbligatorio dalla legge delega di riforma del processo penale. 

Come è noto, il legislatore si è indotto a intervenire in questa materia, delicata e spinosa, pressato da una duplice esigenza. 

Da un lato è forte il bisogno di razionalizzare e rendere trasparenti l’assegnazione e la trattazione dell’enorme carico di notizie di reato affluenti agli uffici di procura, grazie all’impegnativa adozione di criteri di selezione predeterminati delle notitiae criminis

Dall’altro lato, è stata raccolta la diffusa insoddisfazione per lo stato delle cose esistenti, nel quale, in assenza di criteri, il puro e semplice richiamo all’obbligatorietà dell’azione penale finisce con il celare una più o meno ampia discrezionalità, esercitata di fatto e non accompagnata da una chiara assunzione di responsabilità per le inevitabili scelte compiute dai capi degli uffici e dai singoli magistrati del pubblico ministero. 

Di qui lo stimolo a introdurre una disciplina delle priorità, riproponendo e generalizzando gli esperimenti realizzati da alcune procure che – invocando una sorta di stato di necessità scaturente dal rapporto tra i mezzi disponibili e i fini raggiungibili – avevano scelto di esporre in apposite circolari i criteri di priorità adottati nell’esercizio dell’azione penale. 

Se all’origine del recente intervento legislativo stanno sostanzialmente motivazioni identiche o analoghe a quelle dei procuratori “pionieri”, il passaggio dalle circolari d’ufficio a una regolamentazione per legge suscita reazioni di segno molto diverso e solleva numerosi interrogativi, destinati ad avere maggior rilievo quando i tratti dell’iniziativa del Governo e del Parlamento acquisiranno una fisionomia compiuta e definitiva in sede di attuazione della delega. 

Accanto ai fiduciosi nelle virtù dell’innovazione stanno numerosi scettici, che dubitano della effettiva incisività di una normativa sui criteri di priorità e della sua idoneità a modificare realmente la situazione attuale. 

Ci si divide, in sostanza, tra chi sostiene che cambierà poco o nulla e chi dall’innovazione attende una svolta non solo sul piano dell’efficienza ma anche, e forse soprattutto, sul piano della trasparenza e della assunzione di responsabilità nell’esercizio dell’azione penale. 

Inoltre, sul piano teorico sono molti, in particolare tra i magistrati, a interrogarsi sulla compatibilità del novum legislativo con i principi costituzionali e sulla possibilità che le disposizioni della delega e del successivo decreto legislativo entrino in rotta di collisione con il canone della obbligatorietà dell’azione penale. 

L’impressione di chi scrive è che, sino ad ora, ci si sia confrontati e divisi più sulla formula riassuntiva «criteri di priorità» – che ciascuno ha riempito di contenuti, graditi o sgraditi – che non sul procedimento di enucleazione dei criteri e sulla loro natura. Atteggiamento comprensibile e inevitabile[1] sino a quando non vi era ancora una legge e si rimaneva nel campo fluido delle ipotesi più o meno plausibili e delle proposte suscettibili di mutamento e di emenda; ma non più accettabile ora che la legge delega contiene una formulazione impegnativa e ha ormai tracciato il percorso del legislatore delegato. 

Per promuovere il confronto ravvicinato di cui vi è bisogno[2] e per porre su di una solida base ogni ragionamento, è utile prendere le mosse dal raffronto tra le successive versioni della norma sui criteri di priorità contenute in tre testi distinti, l’ultimo dei quali è divenuto legge. 

Occorre cioè ricorrere alla sinossi, disponendo su tre colonne i passi relativi ai criteri di priorità contenuti nell’originaria proposta Bonafede, nell’articolato normativo della Commissione Lattanzi e nella legge delega infine approvata dal Parlamento, cogliendone le diversità – che non sono di sfumature – tra i testi e valutando il punto di approdo finale raggiunto.

 

2. Tre modelli diversi nel percorso di elaborazione della legge delega 

Dall’esame sinottico emergono differenti percorsi di individuazione dei criteri di priorità.

 

2.1. Il modello autoreferenziale del ddl Bonafede: la definizione dei criteri di priorità nell’ambito esclusivo del potere giudiziario 

Il primo quadro era stato delineato dal Ministro della giustizia del secondo Governo Conte. 

L’art. 3, lett. h del ddl Bonafede (AC 2345) assegnava al legislatore delegato il compito di: «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre; prevedere che nell’elaborazione dei criteri di priorità il procuratore della Repubblica curi in ogni caso l’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale e tenga conto della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti». 

È agevole notare che, nel ddl Bonafede, l’intero circuito di individuazione, di adozione e di controllo sull’attuazione dei criteri di priorità era collocato nell’ambito del giudiziario. 

Innanzitutto si prevedeva che l’inserimento, nei progetti organizzativi delle procure, di criteri di priorità trasparenti e predeterminati – finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre – non fosse più rimesso alle scelte dei procuratori della Repubblica ma divenisse “obbligatorio”. 

Inoltre, la doverosa elaborazione dei criteri di priorità era affidata ai capi degli uffici di procura, chiamati a svolgerla seguendo due ordini di indicazioni, procedurali e di contenuto. 

Sul piano procedurale, il testo sottolineava l’esigenza che i criteri venissero formulati attraverso l’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale, e prevedeva che i dirigenti degli uffici tenessero conto delle indicazioni condivise emerse nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti . 

Sul versante dei contenuti era previsto che, nella redazione dei criteri, venissero prese in considerazione la specifica realtà criminale e territoriale e le risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili, in una valutazione combinata di mezzi e fini. 

Infine, nella relazione al ddl si aggiungeva che i criteri, «confluendo nei progetti organizzativi», avrebbero dovuto «tenere conto dei princìpi elaborati in materia dal Consiglio superiore della magistratura». 

L’organo di governo autonomo della magistratura risultava così investito di una funzione di controllo di conformità dei progetti alle indicazioni legislative, controllo che – esercitato secondo principi generali individuati dallo stesso Consiglio superiore – avrebbe dovuto assicurare anche una relativa uniformità della trama organizzativa delle diverse procure. 

In definitiva, l’iniziativa partiva dagli uffici di procura (meglio: dai loro dirigenti), si snodava in un confronto tutto interno al contesto giudiziario ed era sottoposta al controllo del Consiglio superiore della magistratura, che grazie al sistematico esercizio di tale funzione sulla base di principi assumeva su di sé anche una funzione di indirizzo. 

Il tutto in chiave di totale autoreferenzialità del giudiziario[3], senza alcuno spazio per l’intervento del Parlamento nel delineare la cornice della relativa discrezionalità riconosciuta agli uffici di procura e ai loro dirigenti.

 

2.2. Lo schema disegnato dalla Commissione Lattanzi: “periodici” atti di indirizzo del Parlamento e criteri di priorità “dinamici”

Profonda la distanza culturale e tecnica di questo modello – tutto interno al potere giudiziario – da quello proposto dalla Commissione Lattanzi. 

La Commissione individuava in questi termini il compito del legislatore delegato: «prevedere che il Parlamento determini periodicamente, anche sulla base di una relazione presentata dal Consiglio Superiore della Magistratura, i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi; prevedere che, nell’ambito dei criteri generali adottati dal Parlamento, gli uffici giudiziari, previa interlocuzione tra uffici requirenti e giudicanti, predispongano i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, tenuto conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché del numero degli affari e delle risorse disponibili». 

Dunque, nello schema disegnato dalla Commissione spettava al Parlamento determinare i «criteri generali» necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, mentre in tale quadro dovevano successivamente muoversi gli uffici giudiziari nel predisporre «criteri di priorità» nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi. 

E ciò – si scriveva nella relazione – in «piena coerenza con un’architettura costituzionale nella quale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento». 

Alla “periodicità” degli interventi parlamentari – presumibilmente posti in essere tramite lo strumento fluido dell’atto di indirizzo politico parlamentare – avrebbe perciò fatto riscontro la “dinamicità” dei criteri degli uffici giudiziari, rispondenti agli impulsi di natura politica provenienti dal Parlamento. 

A un indubbio merito della Commissione – aver ribadito la centralità dell’intervento parlamentare nella materia – si accompagnava un tratto fortemente problematico, rappresentato dalle caratteristiche degli atti attraverso cui il Parlamento avrebbe dovuto pronunciarsi. 

Non si era di fronte a una legge – destinata a fissare una stabile e vincolante cornice di “criteri generali” per gli uffici giudiziari –, ma a periodici atti di indirizzo politico parlamentare, contenenti valutazioni di politica criminale. 

Atti, questi, per loro natura fluidi nel contenuto e nelle forme, e per questo maggiormente esposti alle fluttuazioni derivanti dalle mutevoli congiunture politiche, alle occasionali spinte emotive provenienti dall’opinione pubblica e recepite dai parlamentari, nonché agli sconfinamenti dal terreno della fissazione di “criteri generali” alla diretta indicazione di aree di azione da privilegiare e di obiettivi specifici da realizzare. Con la possibilità, tutt’altro che remota, che un tale assetto divenisse fonte di attriti e conflitti tra il potere legislativo e quello giudiziario o, all’opposto, venisse interpretato dai protagonisti della vicenda istituzionale, e segnatamente dagli uffici giudiziari, solo come un fondale vago e indistinto, scarsamente influente sulle loro attività e inidoneo a vincolarle. 

Più in generale, si sarebbe riproposto il problema, non nuovo, dell’intarsio tra legge e atti di indirizzo politico del Parlamento[4] nella materia dell’esercizio dell’azione penale. 

 

2.3. La riforma approvata: una stabile cornice dettata dal «Parlamento con legge» per regolare l’iniziativa delle procure 

Il terzo – e ormai definitivo quadro – è quello contenuto nella legge n. 134 del 27 settembre 2021, recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari».

Nella legge di delegazione si assegna al legislatore delegato una traccia notevolmente diversa da quelle sin qui esaminate, consistente nel «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti». 

Leggendo il testo definitivo, che differisce sensibilmente dai primi due, si constata come la griglia di «criteri generali» – che sta a monte della successiva individuazione dei «criteri di priorità» da parte degli uffici di procura – dovrà essere indicata dal «Parlamento con legge». 

Una formulazione, questa, che sembra ispirata dal desiderio di sottolineare il carattere particolarmente solenne e impegnativo dell’atto di determinazione dei «criteri generali», evitando percorsi che, pur rimanendo nel quadro della legalità costituzionale, sminuiscano di fatto il ruolo dell’organo di rappresentanza (come nel caso di approvazione dei criteri generali in sede di conversione di un decreto legge o di inserimento delle relative previsioni in uno dei tanti provvedimenti omnibus). 

Una legge di cornice, dunque, vincolante per tutti i soggetti che dovranno poi concorrere a definire e verificare l’attuazione dei criteri di priorità, e tendenzialmente stabile, salvo eventuali nuovi interventi legislativi.

Un ulteriore aspetto su cui vale la pena di richiamare l’attenzione è che la legge delega attribuisce l’iniziativa di individuazione dei criteri di priorità agli uffici del pubblico ministero (ricalcando sul punto il testo del ddl Bonafede e discostandosi dalla proposta della Commissione Lattanzi, che imperniava l’iniziativa «sugli uffici giudiziari, previa interlocuzione tra uffici requirenti e giudicanti»). 

Naturalmente, ciò non significa che gli uffici di procura possano operare le loro scelte sui criteri in solitudine o, peggio, in una chiave solipsistica, giacché le interlocuzioni interne agli uffici (con il tribunale e con la procura generale presso la corte di appello) restano assolutamente indispensabili per il buon esito dell’operazione. Ma l’espressa menzione della procura come soggetto motore e responsabile del procedimento si rivela utile per evitare situazioni di stallo nelle ipotesi di valutazioni divergenti, e potenzialmente paralizzanti, tra gli uffici requirenti e giudicanti, mentre al legislatore delegato resta un ampio spazio per disciplinare le interrelazioni tra uffici, fermo restando il potere di iniziativa delle procure. 

Infine, la norma della legge delega in tema di criteri si chiude stabilendo che, in sede di redazione del decreto legislativo, «la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica» venga allineata «a quella delle tabelle degli uffici giudicanti». 

Un siffatto “allineamento” – rispettoso delle radicali differenze di natura e di scopi dei progetti organizzativi e delle tabelle – sembra destinato, da un lato, a creare le migliori condizioni per il necessario dialogo tra gli uffici e, dall’altro, a consentire al Consiglio superiore di svolgere efficacemente il suo compito di verifica della corretta organizzazione e di un corretto modus operandi degli uffici requirenti e giudicanti. 

In questo schema, infatti, è il Consiglio a chiudere il cerchio dell’opera di individuazione e applicazione dei criteri nel momento in cui approva gli schemi organizzativi delle procure e degli organi giudicanti, prendendo in considerazione tanto le esigenze di uniformità dell’azione degli uffici giudiziari quanto le motivate ragioni di differenziazione delle singole realtà organizzative. 

In conclusione, sul punto: la sequenza disegnata dalla legge delega prende l’avvio con la legge di criteri generali approvata dal Parlamento, prosegue con la predisposizione entro tale cornice legislativa degli specifici criteri di priorità degli uffici di procura e si chiude con il controllo e l’approvazione, da parte del Csm, dei documenti organizzativi sottoposti al suo esame. 

 

3. I nodi che il legislatore delegato dovrà sciogliere

Il sintetico schizzo qui tracciato sulla scorta della legge di riforma lascia aperte non poche questioni, rimesse alle valutazioni e alle scelte del legislatore delegato. 

Proviamo a elencarne alcune. 

Chi proporrà la legge sui “criteri generali” menzionata nella delega ? 

Quali dovranno essere i contenuti – per così dire, necessari e imprescindibili – dell’atto che il Parlamento sarà chiamato a discutere e approvare? 

Quanto potrà essere penetrante il controllo del Csm in sede di approvazione dei documenti di organizzazione? 

Che debba essere il Ministro della giustizia a proporre al Parlamento la legge cornice sui criteri generali sembra risposta così naturale e fisiologica da risultare scontata. 

È il Ministro infatti, anche nella sua veste di presentatore al Parlamento della relazione annuale sull’amministrazione della giustizia, a disporre di un quadro completo dell’assetto organizzativo e delle dotazioni di personale e di mezzi degli uffici giudiziari, nonché dei dati statistici su reati e procedimenti penali. 

Ed è solo a partire da tale patrimonio di conoscenze che si possono individuare le coordinate generali, riguardanti le realtà criminali e le strutture del giudiziario, sulle quali si può chiamare il Parlamento a deliberare. 

Più problematica la risposta al secondo interrogativo posto, concernente la fisionomia della legge cornice emanata dal Parlamento. 

Dalle considerazioni sin qui svolte sul modello prescelto, emerge che al Parlamento non si chiede di individuare “direttamente” priorità comunque motivate riguardanti tipologie di reati o fenomeni criminali, ma di enunciare “parametri” da prendere necessariamente in considerazione e “procedure” da osservare, disegnando il perimetro obbligato e vincolante entro cui gli uffici di procura dovranno successivamente muoversi per definire i concreti criteri di priorità. 

Tra i “parametri” ineludibili rientrano i dati quantitativi e qualitativi sui reati e sui fenomeni criminali, le specificità dei territori e degli ambienti sociali ed economici, le forme di risposta a emergenze temporanee[5]

Sul versante delle “procedure”, invece, si collocano le previsioni in tema di trasparenza e di assunzione di responsabilità per le scelte compiute, non solo con riferimento al circuito del giudiziario ma anche verso l’esterno, nei confronti delle collettività di riferimento (ad esempio, attraverso la istituzionalizzazione e la generalizzazione dell’esperienza dei bilanci sociali degli uffici di procura). 

Una legge di “parametri” relativamente flessibili e di “procedure” in grado di produrre decisioni impegnative, ma anche correzioni di rotta per fronteggiare situazioni nuove e impreviste, dovrebbe scongiurare il rischio che i criteri di priorità divengano sinonimo di una impropria, implicita e silenziosa depenalizzazione delle fattispecie di reato non ritenute prioritarie; così che non venga aprioristicamente cancellata nei loro confronti ogni forma di deterrenza. 

 

4. La meta della “operazione criteri”

Qual è il punto di approdo, quale la desiderabile meta di questa complessa operazione organizzativa e procedurale in cui saranno coinvolti il Governo, il Parlamento, gli uffici giudiziari, il Csm? 

Ad avviso di chi scrive, l’obiettivo da raggiungere sta nel promuovere la transizione – culturale e istituzionale insieme – da un’obbligatorietà dell’azione penale postulata in astratto, ma di fatto scarsamente controllabile e deresponsabilizzata, a un’obbligatorietà temperata e realistica[6] e, proprio per questo, esercitabile secondo canoni di trasparenza e corredata da assunzione di responsabilità sociale e istituzionale per le scelte compiute[7]

Come è noto, nei Paesi di democrazia avanzata è in atto da tempo un processo di avvicinamento tra i due modelli, in teoria antitetici, della obbligatorietà e della discrezionalità dell’azione penale. 

Un tale avvicinamento è reso possibile dal parallelo affermarsi di un’obbligatorietà realistica, capace di rendere conto delle sue modalità di esercizio, e di una discrezionalità non arbitraria, non capricciosa ma attuata secondo rigorose linee guida e sulla base di standard omogenei, in conformità al principio di eguaglianza delle persone di fronte alla legge penale. 

Su questo terreno la legge delega promuove un importante passo in avanti. 

Abbandonando l’autoreferenzialità del ddl Bonafede e le tentazioni di impulso politico diretto e contingente che potrebbe derivare dai periodici atti di indirizzo parlamentare contemplati nel testo Lattanzi, la riforma assegna al Parlamento il compito che gli è proprio di disegnare con legge una cornice stabile, chiara e vincolante per la successiva opera degli uffici.

Favorendo così l’affermarsi di una cultura della discrezionalità, della responsabilità, della rendicontazione del pubblico ministero italiano, di cui vi sono non pochi segni nella realtà del nostro Paese, ma che certo non può dirsi generalizzata. 

 

 

*  Il presente contributo è una rielaborazione del precedente I criteri di esercizio dell’azione penale. Interviene «il Parlamento con legge», pubblicato in anteprima su Questione giustizia online l’8 novembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-criteri-di-esercizio-dell-azione-penale-interviene-il-parlamento-con-legge).

1. Sul confronto, da tempo in atto, sul tema dei criteri di priorità, cfr. L. Verzelloni, Il lungo dibattito sui criteri di priorità negli uffici giudicanti e requirenti, in Arch. pen., n. 3/2014, pp. 815 ss. (https://archiviopenale.it/il-lungo-dibattito-sui-criteri-di-priorita-negli-uffici-giudicanti-e-requirenti/articoli/5018); M.N. Galantini, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale tra interesse alla persecuzione penale e interesse all’efficienza giudiziaria, in Dir. pen. cont., 23 settembre 2019 (https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/3900-galantini2019b.pdf), e in R. Sacchi (a cura di), Conflitto di interessi e interessi in conflitto in una prospettiva interdisciplinare, Giuffrè, Milano, 2021, pp. 173-194; L. Russo, I criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: confini applicativi ed esercizio dei poteri di vigilanza, in Dir. pen. cont., 9 novembre 2016, pp. 4 ss. (https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/RUSSOLUCIA_2016a.pdf). Sulla concreta applicazione dei criteri, cfr. G. Grasso, Sul rilievo dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali nelle delibere del Csm e nelle pronunce della sezione disciplinare, in Foro it., 2015, III, cc. 259 ss., e L. Forteleoni, Criteri di priorità degli uffici di procura, in Magistratura indipendente (web), 8 aprile 2019. 

2. A tale confronto questa Rivista ha già dato un primo importante contributo con l’ampio saggio di F. Di Vizio, L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR, pubblicato in anteprima su questa Rivista online il 13 ottobre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/l-obbligatorieta-dell-azione-penale-efficiente-ai-tempi-del-pnrr), ora in questo fascicolo, che, nel quadro di una più vasta analisi della riforma, dedica al capitolo dei criteri di priorità considerazioni particolarmente attente e puntuali. 

3. Analoghe considerazioni critiche sulla autoreferenzialità del ddl del Ministro Bonafede sono state svolte da M. Gialuz e J. Della Torre, Il progetto governativo di riforma della giustizia penale approda alle Camere: per avere processi rapidi (e giusti) occorre un cambio di passo, in Sistema penale, 21 aprile 2020. Per gli Autori, «il principale difetto della proposta Bonafede» sta nel fatto che essa «non affronta il nodo fondamentale che sta al fondo della tematica, ossia l’esigenza di attribuire una legittimazione democratica alle scelte del pubblico ministero. L’errore di fondo è quello di attribuire a un organo politicamente irresponsabile – qual è il procuratore della Repubblica – una delega in bianco a compiere opzioni di politica criminale. I criteri di priorità elaborati dalle procure e avallati dal CSM hanno rappresentato una forma di supplenza rispetto all’incapacità del Parlamento di assumersi la responsabilità di scelte ineludibili. In altre parole, davanti all’inerzia della politica nell’esercitare queste opzioni, alcuni procuratori e l’organo di autogoverno hanno tentato di fissare delle regole. Ora, però, nel momento in cui la politica si incarica di affrontare finalmente una delle tematiche decisive della giustizia penale ci si sarebbe aspettati che fosse attribuito un ruolo centrale al Parlamento nella definizione delle priorità. Ciò non è accaduto nella proposta del Governo. Non resta che auspicare che sia lo stesso Parlamento a rivendicare a sé la responsabilità di dettare le direttive generali in tema di criteri di priorità, le quali potrebbero poi essere specificate, tenuto conto delle peculiarità territoriali, a livello di procure. È evidente la difficoltà di tale prospettiva, ma sarebbe certamente la più rispettosa dell’architettura costituzionale. Ove una tale strada non sia considerata politicamente percorribile, quantomeno è auspicabile che venga chiarito in modo esplicito nel testo della delega, per come oggi configurato, l’obbligo in capo alle procure delle Repubblica di rispettare nella stesura dei criteri di priorità le indicazioni del Consiglio superiore della magistratura, onde assicurare così almeno una certa uniformità tra i parametri adottati a livello locale». 

4. Sul tema è intervenuto di recente G. Buonomo, La crescente procedimentalizzazione dell’atto parlamentare di indirizzo politico, pubblicato in anteprima su questa Rivista online il 7 ottobre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-crescente-procedimentalizzazione-dell-atto-parlamentare-di-indirizzo-politico), ora in questo fascicolo. Nell’articolo sono contenuti ampi riferimenti al dibattito sviluppatosi sul tema della relazione del Ministro della giustizia nella Commissione parlamentare per le riforme costituzionali presieduta dall’On. Massimo D’Alema, nonché alle posizioni assunte dal Sen. Marcello Pera che, nella seduta del 13 febbraio 1997, «aveva richiesto che si parl[asse] anche “della non obbligatorietà dell’azione penale oppure della combinazione dell’obbligatorietà dell’azione penale con le direttive”, invocando gli insigni giuristi che “ancora nel 1993” in un convegno avevano parlato di “direttive approvate dal Parlamento, in sede di esame del bilancio del Ministero della giustizia oppure della relazione del Consiglio superiore della magistratura, di direttive date dal Parlamento alle Procure”». L’Autore ricorda inoltre che «quando la “bozza Boato” (sul sistema delle garanzie) affacciò per la prima volta il tema della “relazione al Parlamento” del Ministro della giustizia, la discussione in Commissione si sviluppò lungo il delicato crinale del rapporto tra la pronuncia delle Camere e l’obbligatorietà dell’azione penale sancita dall’articolo 112 Cost.».

5. In questo reticolato occorrerà comunque lasciare aperti gli spazi perché gli uffici rispondano con adeguate motivazioni alle specificità ambientali e locali (ad esempio, quelle di una procura transfrontaliera) e per motivare opzioni particolari, magari solo temporanee, indotte da emergenze improvvise o da situazioni impreviste ed eccezionali (ad esempio, in un’area colpita da un disastro e abbandonata, i furti in appartamento, assurti al rango di fenomeno di sciacallaggio, potrebbero meritare un impegno maggiore di quanto avviene in un contesto di normalità).

6. Nell’ampia letteratura sul tema, cfr. da ultimo P. Borgna, Esercizio obbligatorio dell’azione penale nell’era della “pan-penalizzazione”, in questa Rivista online, 31 ottobre 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/esercizio-obbligatorio-dell-azione-penale-nell-era-della-ldquopan-penalizzazionerdquo_31-10-2019.php. Vds. anche l’importante contributo di R. Kostoris, Per un’obbligatorietà temperata dell’azione penale, in Riv. dir. proc., n. 4/2007, pp. 875 ss. Mi sia consentito, infine, rinviare a un mio lontano scritto: Per una concezione realistica dell’obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/1997, pp. 309-318. 

7. Nel parlare di concezione realistica dell’azione penale, ci si riferisce a un approccio all’esercizio dell’azione penale caratterizzato da una pluralità di fattori, tra cui: a) una ben calibrata valutazione, nell’ambito di ciascun ufficio di procura, dei mezzi disponibili per operare efficacemente nell’area di competenza, accompagnata da una esplicita determinazione di “criteri di priorità” nella trattazione degli affari, giustificata in nome dell’efficacia operativa, di un impiego oculato delle risorse disponibili e del rapporto tra il numero di procedimenti e il personale e i mezzi di cui dispone l’ufficio; b) una valutazione di sostenibilità dell’accusa particolarmente rigorosa nel discernere i procedimenti di cui chiedere l’archiviazione e quelli per i quali sollecitare il giudizio, sulla scorta di indicazioni del capo dell’ufficio e/o di orientamenti maturati a seguito di confronti collegiali tra magistrati (in particolare, dei gruppi specializzati) e di confronti con altri uffici (criterio di selezione oggi reso dalla riforma più stringente, con la previsione che sia richiesta, e disposta, l’archiviazione o che non sia disposto il giudizio, ma emessa sentenza di non luogo a procedere, quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio; con l’effetto di sostituire alla sostenibilità dell’accusa in giudizio, quale parametro per l’esercizio dell’azione penale o per il rinvio a giudizio, una ragionevole previsione del pubblico ministero e del giudice dell’udienza preliminare che il giudizio dibattimentale si concluda con una sentenza di condanna del responsabile dei fatti addebitati); c) una attenta valutazione sull’effettiva offensività di determinate condotte – astrattamente riconducibili a fattispecie di reato – oggi istituzionalmente reclamata dall’introduzione dell’istituto dell’archiviazione per tenuità del fatto per reati che si collocano entro limiti di pena legislativamente prefissati; d) la ricerca di una linea di condotta comune e coerente in ordine a soluzioni patteggiate dei procedimenti. Per più ampie considerazioni sul tema, rinvio al mio scritto: Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021 (Stato di diritto e pubblico ministero in Europa), pp. 16 ss., www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/933/2-2021_qg_rossi.pdf.