Magistratura democratica

La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre 2021, n. 134*

di Armando Spataro

La delega conferita al legislatore delegato in materia di criteri di priorità tocca temi di rilievo costituzionale: l’obbligatorietà dell’azione penale e il principio di separazione dei poteri, tra tutti. Nell’articolo si ripercorrono i termini dell’articolato dibattito – dalle esperienze pionieristiche alle recenti circolari date dal Csm – auspicando che, nell’attuazione della delega, si riesca a trovare un punto di equilibrio che stabilisca una ripartizione tra le responsabilità parlamentari e le responsabilità del sistema giudiziario, essendo da scongiurare il rischio di introdurre nell’ordinamento una obbligatorietà dell’azione penale in forma politicamente orientata.

1. Premessa / 2. Le ragioni della scelta delle priorità, partendo dalla crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale, principio irrinunciabile e attuale / 3. La “storia” del dibattito sui “criteri di priorità” e il succedersi di provvedimenti legislativi, consiliari e di procuratori della Repubblica / 4. Attribuzione al Parlamento della individuazione – con legge – dei criteri di priorità per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale: una scelta criticabile / 5. Una valutazione finale, ma anche un auspicio

 

1. Premessa

La riforma della giustizia approvata con la legge 27 settembre 2021, n. 134 prevede, come è noto, una serie di deleghe al Governo e altre norme immediatamente applicabili (rispettivamente indicate negli artt. 1 e 2), che nel loro complesso riguardano numerose modifiche al codice di procedura penale e al codice penale, nonché in materia di giustizia riparativa e per la celere definizione dei procedimenti giudiziari.

In questa sede, però, ci si occuperà di un solo tema della riforma, oggetto di dibattito tra i giuristi, quello disciplinato dall’art. 1, comma 9, lett. i, in base al quale «gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito di criteri generali indicati con legge dal Parlamento», dovranno individuare «criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle Procure» (e, dunque, da sottoporre al Csm come già ora previsto), «al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili».

È pure previsto che ciò avvenga allineando la procedura di approvazione dei suddetti progetti organizzativi a quella delle tabelle degli uffici giudicanti. 

La questione sul tappeto è dunque quella della elaborazione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’obbligatoria azione penale, con riferimento sia ai loro contenuti che alla procedura per la loro approvazione.

Chi scrive ha sempre svolto, per tutto l’arco della sua carriera professionale (salvo i quattro anni di attività fuori ruolo, quale componente del Csm, tra il 1998 e il 2002), funzioni di pubblico ministero presso le Procure della Repubblica di Milano (come sostituto e come procuratore aggiunto) e, negli ultimi quattro anni e mezzo, di Torino (come procuratore della Repubblica): la premessa è opportuna per spiegare come tale esperienza lo induca a formulare un giudizio negativo circa l’attribuzione al Parlamento della competenza a legiferare in ordine ai criteri generali cui le procure dovranno attenersi nell’elaborazione dei suddetti criteri di priorità, sia pure nell’ambito di una valutazione sostanzialmente positiva già più volte espressa in ordine alla riforma nel suo complesso[1].

 

2. Le ragioni della scelta delle priorità, partendo dalla crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale, principio irrinunciabile e attuale

Appare utile, per meglio spiegare tale valutazione critica, illustrare le ragioni e la storia ultratrentennale del dibattito sulle priorità, partendo però dalla innegabile incompatibilità concettuale tra le scelte di priorità nella trattazione degli affari penali e il principio di obbligatorietà dell’azione penale, non certo superata dalle ripetute assicurazioni, politically correct, secondo cui l’applicazione delle prime non violerebbe il secondo. 

Come è noto, però, a costo di ripetere l’ovvio, il principio di obbligatorietà dell’azione penale postula per il pm l’obbligo di avviare l’indagine preliminare per ogni tipo di reato di cui egli abbia comunque notizia, anche se l’azione penale in senso proprio è quella che si promuove alla fine delle indagini stesse, in presenza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio[2]. Secondo quanto previsto dall’art. 330 cpp, il pm è anzi abilitato a prendere notizia dei reati anche di propria iniziativa, senza limitarsi a ricevere le notizie che gli provengono dalla polizia giudiziaria o, sotto forma di denunce e querele, dai privati cittadini. 

Il significato letterale del termine “obbligatorietà”, riferito all’azione penale, indica dunque un dovere assoluto per il pm di procedere per ogni reato conosciuto. Egli non gode di alcuna discrezionalità “politica” che gli consenta di scegliere di non farlo per alcuni reati: il principio vale, naturalmente, sia per i reati più gravi, che per quelli di minima importanza e offensività.

Ciò discende direttamente da quanto previsto nell’art. 112 della Costituzione italiana («Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale») e non costituisce, quindi, una delle possibili scelte tecniche che il nostro sistema processuale potrebbe o meno adottare. Anzi, proprio il rango costituzionale del principio lo rende un cardine del nostro sistema giudiziario, tanto che ad esso fanno riferimento, nel codice di procedura penale, tutte le disposizioni in tema di “azione penale” a partire dall’art. 50. 

Sarebbe sufficiente, anzi, per spiegarne l’importanza e il valore di garanzia dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge che il principio conserva anche nell’attualità, ricordare che nel corso del confronto tenutosi nella fase preparatoria della Costituzione e in quella immediatamente preliminare alla sua approvazione, la discussione sul potere giudiziario investì anche il principio di obbligatorietà dell’azione penale, sostenuto e difeso da giuristi come Piero Calamandrei, Giovanni Uberti, Giuseppe Bettiol e Giovanni Leone, che lo ritennero centrale e irrinunciabile nell’ambito dello Stato di diritto, nonché principio fondamentale in uno Stato democratico moderno. E la Corte costituzionale, dal canto suo, ha ricordato che «il principio di obbligatorietà è punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale (...) talché il suo venir meno ne altererebbe l’assetto complessivo» (sent. n. 88/1991). Non è inutile ricordare ancora oggi queste citazioni: esse permettono di smentire che la difesa del principio di obbligatorietà sia di natura formalistica, quasi si parlasse di un feticcio, e di comprendere quanto sia delicata la questione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale.

Ma si obietta che, nonostante quanto previsto dall’art. 112 della Costituzione, soltanto una parte dei reati commessi vengono effettivamente perseguiti e l’obbligatorietà dell’azione penale, conseguentemente, non trova effettiva applicazione nella realtà: le notizie di reato pervenute al pm e le procedure d’indagine che si avviano sarebbero infatti troppo numerose e ingestibili, costringendo il pm stesso a operare una selezione. Egli, quindi, pur obbligato per legge a non scegliere, finirebbe per agire discrezionalmente scegliendo gli affari da trattare e quelli da trascurare, il tutto senza criteri predeterminati, anzi con criteri diversi tra procura e procura o, all’interno del singolo ufficio, perfino tra un pm e un altro. Con la conseguenza che, per i procedimenti non trattati, il destino finale sarebbe costituito dalla estinzione per prescrizione dei reati che ne sono oggetto o dall’archiviazione per avere lasciato trascorrere i termini massimi di durata delle indagini preliminari senza acquisire alcun elemento utile a promuovere l’azione penale. Verso la metà degli anni novanta, poi, a cavallo del periodo delle prime grandi inchieste sulla corruzione del mondo politico (a partire da quella denominata “Mani pulite”), iniziarono a manifestarsi nei confronti dei magistrati, soprattutto dei pubblici ministeri, persino accuse di violazione dolosa del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Secondo tali accuse, la cui valenza offensiva è evidente, il pm sarebbe indifferente all’esito dei procedimenti di cui è oberato, mentre in altri la scelta di procedere o meno per un reato finirebbe con l’essere politicamente orientata, al punto da indurre il pm a perseguire i reati in cui sono coinvolti personaggi di orientamento politico a lui non gradito e, contemporaneamente, a tralasciarne altri che pure destano grave allarme sociale e pericolo per la sicurezza dei cittadini. Si tratta di affermazioni che vengono ciclicamente reiterate persino nell’attualità: si ricordi, ad esempio, l’accusa di “giustizia a orologeria” che ritorna a proposito di inchieste che sarebbero avviate o concluse – si dice – in occasione di scadenze elettorali o per colpire personaggi politici sgraditi.

A questo punto, le proposte “costruttive” per la modifica del sistema esistente si differenziano in ordine all’individuazione dell’istituzione o autorità cui attribuire competenza e responsabilità di dettare periodicamente i criteri-guida uniformi per l’esercizio discrezionale dell’azione penale da parte dei pubblici ministeri.

Quale potrebbe essere tale istituzione o autorità? Il Governo, tramite indicazioni del Ministro della giustizia o il Ministro stesso, afferma taluno, con ciò aprendo la strada alla sottoposizione del pm all’esecutivo. Il Parlamento, previa discussione generale e trasparente, rispondono altri, così accettando la possibilità che l’azione penale sia condizionata dalle scelte della maggioranza politica di turno e che il dibattito parlamentare finisca inevitabilmente con l’investire il modo di operare di questo o quell’ufficio giudiziario. Ma c’è pure chi individua l’istituzione competente a regolare la presunta discrezionalità dei pm nel Consiglio superiore della magistratura (che mai, invece, si è ritenuto competente a orientare il merito delle scelte giurisdizionali), chi pensa al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, chi ai consigli giudiziari operanti su base distrettuale e così in grado di valorizzare esigenze territoriali, chi ai singoli procuratori della Repubblica (cui, anche per questo, dovrebbero essere riconosciuti ulteriori poteri di tipo gerarchico). E c’è pure chi pensa a una interlocuzione complessa tra tutte – o quasi tutte – queste istituzioni, ritenendole a vario titolo competenti.

In particolare, cresce il numero di quanti ritengono che, grazie a quanto previsto nel testo-base in materia di organizzazione degli uffici di procura (d.lgs 20 febbraio 2006, n. 106, come modificato con l. 24 ottobre 2006, n. 269), rientri tra i poteri del procuratore quello della selezione discrezionale delle priorità nella trattazione degli affari penali negli uffici dei pm, visto che gli è attribuita la «titolarità esclusiva dell’azione penale» (art. 1, comma 1, d.lgs n. 106/2006). In realtà, la indubbia accentuazione del ruolo del procuratore della Repubblica non ne ha affatto determinato una sovraordinazione gerarchica assoluta rispetto agli altri componenti dell’ufficio: egli, titolare dei poteri riconosciutigli in tema di organizzazione dell’ufficio (ex art. 1, comma 6, d.lgs n. 106/2006), deve ispirare la sua azione al dovere di assicurare il corretto, puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale (ex art. 1, comma 2, d.lgs n. 106/2006, che richiama pure il doveroso rispetto delle regole del giusto processo), ma non può certo impartire disposizioni tali da incrinare il principio di obbligatorietà della stessa azione penale. Del resto, tale obbligo viene riferito, nell’art. 112 Cost., al pubblico ministero come ufficio e dunque con tale principio devono armonizzarsi l’interpretazione e l’applicazione del d.lgs n. 106/2006. La norma, pertanto, non può che fare riferimento al dovere-potere del procuratore di organizzare e coordinare l’esercizio dell’azione penale nel rispetto della legge e dei criteri omogenei approvati, ma non certo in dipendenza dei suoi orientamenti soggettivi o di scelte contingenti, per quanto motivate. Egli, insomma, esercita solo una gerarchia di tipo organizzativo, mentre, in tema di selezione di eventuali criteri di priorità, è comunque tenuto ad adeguare l’organizzazione dell’ufficio alle scelte elaborate dai dirigenti degli uffici giudicanti.

Non si tratta – come il Csm ha più volte ripetuto – di selezionare regole per scegliere quali reati trattare e quali abbandonare, ma solo per decidere quali trattare prima degli altri, in difetto delle risorse e delle condizioni materiali per agire contemporaneamente su tutti.

Vi è poi un altro argomento, spesso utilizzato a sostegno delle ragioni sia dei giuristi “tecnici” che di quelli “politici”. Esso nasce da uno sforzo incolto di usare il diritto comparato a proprio uso e consumo, e consiste nell’affermare che il sistema italiano costituirebbe l’eccezione in un panorama internazionale asseritamente caratterizzato dal principio di discrezionalità dell’azione penale e da quello inevitabilmente connesso della dipendenza del pm dal potere esecutivo, che ne detta le linee d’azione. L’affermazione è sicuramente errata: esistono in Europa, infatti, sistemi in cui l’azione penale è obbligatoria, altri in cui è discrezionale, altri ancora in cui esistono temperamenti all’uno o all’altro principio (per cui l’obbligatorietà è talvolta condizionata all’effettiva gravità del reato e, dunque, all’“economicità” in senso lato del processo, mentre la discrezionalità è orientata dal prevalere dell’interesse delle vittime dei reati). Negli Stati Uniti, poi, le direttive per l’esercizio dell’azione penale sono periodicamente dettate dall’Attorney General (figura che racchiude in sé le funzioni tanto del nostro Ministro della giustizia che del Procuratore generale presso la Cassazione), ma lì – e questa è la principale differenza con l’Italia – nemmeno il Presidente protesta se il Prosecutor lo incrimina. Nei sistemi europei in cui le direttive dell’esecutivo regolano il principio della discrezionalità dell’azione penale, esiste comunque la figura del giudice istruttore indipendente (da noi abolita da ormai più di trent’anni), che può rimediare alle inerzie del pm.

Insomma, il significato del dato comparatistico non può essere enfatizzato né assunto come parametro di valutazione del nostro sistema. E le differenze ordinamentali esistenti tra uno Stato e l’altro spesso derivano da secolari differenze di cultura giuridica e politica. 

L’elencazione delle ragioni della crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei possibili rimedi (inclusi riferimenti al controverso tema delle priorità) richiederebbe il doppio dello spazio, già troppo ampio, occupato dalla presente relazione, ma sia permesso a chi scrive citare la propria esperienza professionale, che lo ha portato a partecipare a numerosi incontri di coordinamento investigativo e di studio a livello internazionale, anche extra-europeo, constatando dappertutto che il modello italiano, fondato su indipendenza dei pm e giudici dal potere politico, sul loro possibile mutamento di carriere e sull’assoluta obbligatorietà dell’azione penale, costituisce il modello ideale che si vorrebbe esistente in ogni sistema nazionale.

Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, in realtà, deve essere difeso con convinzione perché – come si è detto – garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: per questo è semmai «il malato da aiutare a guarire, non la malattia da cancellare»[3], come in molti vorrebbero! 

Ed è chiara la ragione per cui quel principio garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: essi sanno che, essendo il pm obbligato a perseguirli per i reati di cui abbia notizia, tutti i responsabili raggiunti da prove sufficienti saranno condotti dinanzi a un tribunale per essere giudicati, senza distinzione di razza, religione, censo e senza possibilità di influenza sull’esito delle indagini del loro eventuale potere economico o politico. 

Ci si deve domandare, allora, come mai esistano accaniti “detrattori” del principio affermato nell’art. 112 Cost., pronti a sostenere che si potrebbe rendere discrezionale l’azione penale senza necessità di trasformare il pm in un organo dipendente dall’esecutivo e senza compromettere altri principi costituzionali.

Le ragioni addotte a sostegno di questa posizione sono di duplice natura: tecniche, quelle di alcuni osservatori e giuristi che possono essere definiti “pragmatici”; politiche, quelle di chi – magari obliquamente – intende condizionare il ruolo del pubblico ministero, apparentemente preservandone l’indipendenza dall’esecutivo.

Entrambe le posizioni si fondano su un identico rilievo di partenza, quello concernente le note difficoltà che si oppongono all’effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.

È pur vero, però, che al fine di garantire lo “stato di salute” della giurisdizione, nonché la sua rapidità ed efficienza, è importante l’organizzazione delle procure della Repubblica, da cui dipende l’effettività dell’azione penale obbligatoria. Per tutti i pm, infatti, ma soprattutto per i dirigenti delle procure, non bastano più integrità morale e scienza giuridica: occorre anche saper coniugare i valori della propria indipendenza e professionalità con sperimentati modelli di efficienza.

In effetti, ormai da molti anni le difficoltà di gestione dell’elevato numero di procedimenti penali iscritti crea enormi problemi alle procure della Repubblica e, a seguire, ai giudici di primo grado e a quelli d’appello. 

Si rischia l’inutilità sostanziale del lavoro a monte dei pubblici ministeri ogni qualvolta non si tenga conto delle capacità recettive degli uffici giudicanti a valle, monocratici e collegiali. Questi, infatti, si troverebbero nell’impossibilità di gestire o definire, per le parti di rispettiva competenza, tutti i procedimenti oggetto di indagini o di promovimento dell’azione penale da parte della procura. Di qui le elaborazioni di direttive che i dirigenti degli uffici giudiziari devono impartire per una gestione razionale degli affari da trattare, quelle che hanno assunto la definizione tecnica di “criteri di priorità”.

 

3. La “storia” del dibattito sui “criteri di priorità” e il succedersi di provvedimenti legislativi, consiliari e di procuratori della Repubblica

Tecnicamente, il tema delle priorità cominciò a essere discusso ben prima delle inchieste di “Mani pulite”, che pure alimentarono veri e propri scontri tra politica e magistratura.

Saranno di seguito elencati e sintetizzati gli interventi normativi, le risoluzioni e delibere del Csm e alcune circolari dei dirigenti degli uffici giudiziari, il tutto evidenziandone l’ordine cronologico, gli eventuali nessi e distinguendoli per tipologia. Il numero di tali provvedimenti è talmente alto da rendere possibile, pur essendo stata utilizzata una delle principali fonti di tale classificazione (vds. il testo di V. Pacileo[4]), qualche omissione di cui l’autore si scusa sin d’ora.

Già in una circolare del Csm del 1977 si raccomandava la programmazione del lavoro degli uffici giudiziari «in modo tale da consentire in primo luogo la trattazione sollecita dei processi più gravi, intesi anche con riferimento alla tutela giurisdizionale dei beni collettivi» (Notiziario, n. 11/1977, p. 5). 

A quella appena citata seguirono altre delibere, tra cui la risoluzione del Csm 9 giugno 1981, con la quale si dettavano criteri di trattazione prioritaria relativamente ai reati commessi da magistrati.

Venendo da epoca più recente, in particolare al periodo fine anni ottanta - inizio anni novanta, in conseguenza della difficile situazione in cui si trovavano le procure presso le preture circondariali, destinatarie della stragrande maggioranza delle notizie di reato, fu emanata il 16 novembre 1990 la storica “circolare Zagrebelsky”, di Vladimiro Zagrebelsky, quale procuratore della Repubblica presso la Pretura di Torino. Probabilmente per la prima volta in un ufficio giudiziario del Paese, tale circolare dava luogo a un’articolazione di un programma di lavoro secondo linee di priorità nella trattazione degli affari che, come è stato ricordato[5], presentava un inquadramento generale del problema con ancoraggi costituzionali (come i principi di uguaglianza e di buona amministrazione) che giustificavano l’intervento regolatore proposto. Già in quella circolare, però, si sottolineava la delicatezza, rispetto alla più agevole selezione di priorità all’interno di identiche tipologie di reato, di quella tra fattispecie di reato diverse, «chiaro essendo che è impossibile un discorso che releghi intere categorie di fatti, individuati per il titolo di reato, nella condizione di non poter essere mai prese in considerazione».

In occasione dell’istituzione del giudice unico di primo grado, con l’art. 227 d.lgs 19 febbraio 1998, n. 51, collocato nelle disposizioni transitorie e finali del testo, fu poi previsto che, «[a]l fine di assicurare la rapida definizione dei processi pendenti alla data di efficacia del presente decreto [2 giugno 1999, ndr], nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza, anche indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella delle iscrizioni del procedimento, si tiene conto della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa» (comma 1), e che «Gli uffici comunicano tempestivamente al Csm i criteri di priorità ai quali si atterranno per la trattazione dei procedimenti e per la fissazione delle udienze» (comma 2). L’art. 227 indicava dunque, in via generale e astratta, i criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti al 2 giugno 1999, di fatto delegando, seppure con gli inevitabili margini di elasticità, i singoli magistrati (requirenti ma anche giudicanti) a individuare i casi in cui procedere subito senza accantonare i fascicoli: e cioè i casi di «gravità» e «concreta offensività», ovvero quelli in cui vi era «pregiudizio per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti» derivante dal ritardo o un «interesse» della persona offesa alla sollecita trattazione del procedimento. L’art. 227 citato, riguardando solo le citate pendenze, ha dunque esaurito la sua funzione. 

Con l’art. 132-bis disp. att. cpp – introdotto con dl 24 novembre 2000, n. 341 (conv. con modifiche in l. 19 gennaio 2001, n. 4), e poi sostituito con il cd. “decreto sicurezza”, cioè il dl 23 maggio 2008, n. 92 (conv. con modifiche in l. 24 luglio 2008, n. 125) – fu progressivamente assicurata (anche con ulteriori modifiche protrattesi fino al 2019) nella «formazione dei ruoli di udienza» e nella «trattazione dei processi» la «priorità assoluta» ai seguenti processi (elencati nel comma 1), con dovere per i dirigenti degli uffici giudiziari di adottare i provvedimenti organizzativi necessari per assicurarne la conseguente rapida definizione (comma 2).

L’originaria formulazione della norma prevedeva che:

«1. Nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi è assicurata la priorità assoluta:

a) ai processi relativi ai delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice e ai delitti di criminalità organizzata, anche terroristica;

b) ai processi relativi ai delitti commessi in violazione delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all’igiene sul lavoro e delle norme in materia di circolazione stradale, ai delitti di cui al testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonché ai delitti puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni;

c) ai processi a carico di imputati detenuti, anche per reato diverso da quello per cui si procede;

d) ai processi nei quali l’imputato è stato sottoposto ad arresto o a fermo di indiziato di delitto, ovvero a misura cautelare personale, anche revocata o la cui efficacia sia cessata;

e) ai processi nei quali è contestata la recidiva, ai sensi dell’articolo 99, quarto comma, del codice penale;

f) ai processi da celebrare con giudizio direttissimo e con giudizio immediato».

Con successivi interventi, venivano poi inserite nella norma le seguenti nuove previsioni in tema di priorità assoluta, sempre e solo per formazione del ruoli d’udienza e trattazione dei processi da assicurarsi:

«a-bis) ai delitti previsti dagli articoli 572 e da 609 bis a 609 octies e 612 bis del codice penale» (lettera inserita dall’art. 2, comma 2, dl 14 agosto 2013, n. 93, conv. con modifiche in l. 15 ottobre 2013, n. 119);

«a-ter) ai processi relativi ai delitti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale verificatisi in presenza delle circostanze di cui agli articoli 52, secondo, terzo e quarto comma, e 55, secondo comma, del codice penale» (lettera inserita dall’art. 9 l. 26 aprile 2019, n. 36);

«f-bis) ai processi relativi ai delitti di cui agli articoli 317, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321 e 322 bis del codice penale» (lettera aggiunta dall’art. 1, comma 74, l. 23 giugno 2017, n. 103, a decorrere dal 3 agosto 2017);

«f-ter) ai processi nei quali vi sono beni sequestrati in funzione della confisca di cui all’art. 12 sexies del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992 n. 356 e successive modificazioni» (lettera aggiunta dall’art. 30, comma 2, lett. c, l. 17 ottobre 2017, n. 161).

Il tema delle priorità, oggetto di questi plurimi interventi sull’art. 132-bis disp. att. cpp, era tornato d’attualità anche a causa della emanazione della legge 31 luglio 2006, n. 241, di concessione dell’indulto non accompagnata da provvedimento di amnistia, come invece era sempre avvenuto in precedenza. Si era così posto il problema di quale trattamento riservare ai procedimenti che con ogni ragionevolezza, in base al titolo del reato e ad altre circostanze di fatto, pur in caso di condanna, si sarebbero conclusi con l’irrogazione di una pena contenuta nei limiti (fino a tre anni di pena detentiva) dell’indulto. 

Per garantire effettiva precedenza ai processi indicati nel citato art. 132-bis, l’art. 2-ter della citata l. n. 125/2008 facoltizzava i dirigenti degli uffici a individuare i criteri per il rinvio (non superiore a diciotto mesi) dei processi per reati ricadenti sotto la previsione dell’indulto di cui alla l. n. 241/2006, tenendo peraltro conto della gravità e offensività del reato, del pregiudizio alla formazione della prova derivante dal ritardo, dell’interesse della persona offesa.

Intanto, alcuni procuratori intervennero dotandosi, sul piano organizzativo, di regole per decidere quali procedimenti mandare avanti e quali tralasciare in base al titolo del reato, all’interesse della persona offesa, all’esistenza di una particolare recidiva e così via. Della questione il Csm, non solo in quanto recettore di questi piani organizzativi, venne investito direttamente dal Ministro della giustizia, che ne sollecitava gli interventi razionalizzatori di eventuale competenza, evitando di promuovere il varo di un provvedimento di amnistia.

Il Csm, con risoluzione del 9 novembre 2006, ritenne allora di non poter dare una risposta risolutiva e uniforme al tema della selezione dei procedimenti da privilegiare, ritenendosene impedito dal riparto delle competenze costituzionali. Ribadiva, però, la doverosa percorribilità, sul piano tabellare, di una organizzazione razionale degli uffici per dare effettività all’amministrazione della giustizia, invitando i dirigenti degli uffici (inquirenti e giudicanti), nell’ambito delle loro competenze, ad adottare iniziative e provvedimenti idonei a razionalizzare la trattazione degli affari e l’impiego, a tal fine, delle risorse disponibili. 

Con successiva deliberazione del 15 maggio 2007, il Csm, «lungi dall’escludere in radice la definizione secondo giustizia di ogni procedimento o processo alla luce del principio di obbligatorietà dell’azione penale, dà corpo e sostanza ai richiesti criteri di priorità che necessariamente tengono conto delle scarse risorse disponibili». 

In questa cornice, a Torino, il 10 maggio 2007, il procuratore della Repubblica presso il locale Tribunale, Marcello Maddalena, emise direttive in tema di trattazione dei procedimenti in conseguenza dell’applicazione della l. 31 luglio 2006, n. 241 che aveva concesso il citato indulto. Tale importante provvedimento riguardava, però, solo un limitato numero di procedimenti, quelli per reati che consentono la citazione diretta a giudizio, dunque tendenzialmente meno gravi, e comunque commessi prima del 2 maggio 2006 (prima, cioè, della data fissata dal legislatore come data ultima di commissione dei reati ai fini dell’applicazione dell’indulto). All’interno delle singole fattispecie criminose veniva indicata tutta una serie di eccezioni e limitazioni, e vi si prevedeva inoltre che, in tutti i casi in cui vi fosse un interesse concreto alla celebrazione del processo da parte di qualsiasi soggetto processuale, la circolare non trovasse applicazione, così come in presenza di altre circostanze (ad esempio: se uno degli imputati o indagati fosse un recidivo reiterato o fosse stato dichiarato delinquente professionale o abituale o per tendenza, o in tutti i casi in cui il singolo magistrato ritenesse per qualsiasi ragione di procedere normalmente, etc.). Si trattava, insomma, di un provvedimento importante, ma con un oggetto estremamente limitato. 

Il Csm, peraltro, con risoluzione del 13 novembre 2008, esprimeva apprezzamento per le previsioni contenute nell’art. 132-bis disp. att. cpp, ritenute idonee a superare «l’eccesso di spontaneismo» di cui avevano dato prova in passato giudici e pubblici ministeri nella «valutazione pressoché arbitraria dei tempi di fissazione e di successiva trattazione dei processi». Nella delibera si sottolineava, accanto al parallelismo con la disposizione dell’art. 227 d.lgs n. 51/1998, che «l’attuale disciplina è però portatrice di una forza imperativa senz’altro diversa, rafforzata, com’è oggi, dalla copertura costituzionale del precetto della ragionevole durata del processo».

Occorre domandarsi – ha scritto V. Pacileo[6] – se i criteri di cui all’art. 132-bis disp. att. cpp siano applicabili o, addirittura, cogenti per gli uffici di procura. Il secondo quesito richiede una risposta negativa, poiché la disposizione riguarda i ruoli di udienza e i «processi» e ne è attribuita l’applicazione ai dirigenti degli uffici giudicanti. Viceversa, sembra senz’altro potersi riconoscere l’estensibilità dei criteri di priorità alla fase delle indagini preliminari, sia in ossequio a un generale principio di unitarietà della giurisdizione (o, in questo caso, di omogeneità) sia, per ragioni più pratiche e stringenti, per il fatto che la procura non potrebbe che adeguarsi, già a monte, alla modulazione cronologica dei procedimenti da portare davanti al proprio giudice. Questa interpretazione è stata avallata dalla stessa risoluzione del 13 novembre 2008 del Csm, allorché sono state sottolineate le implicazioni del nuovo dettato normativo anche sull’attuazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, conseguendone la evidenziata necessità che il dirigente dell’ufficio giudicante imposti la selezione delle priorità previo concerto con l’ufficio di procura.

Sono stati numerosi, comunque, gli ulteriori interventi del Csm in tema di priorità, deliberati negli anni 2009, 2014, 2016, 2017, 2018, 2020 e 2021:

• con la risoluzione dell’8 luglio 2009, il Csm ha rappresentato l’opportunità della trattazione sollecita dei reati di violenza familiare e di quelli in danno di soggetti deboli;

• con la risoluzione del 28 luglio 2009, ha raccomandato la pronta definizione dei procedimenti per infortuni sul lavoro;

• nelle delibere adottate in data 9 e 10 luglio 2014, si affermava che le procure devono conformarsi agli orientamenti degli uffici giudicanti e che il rischio di prescrizione non può essere criterio di «postergazione». In sostanza, in tali delibere consiliari si confermava che ogni eventuale scelta di priorità nella trattazione degli affari penali compete innanzitutto agli organi giudicanti e non alle procure della Repubblica, le quali, diversamente, rischierebbero di vanificare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e di dar spazio alla possibile discrezionalità delle loro scelte.

In particolare, in quella del 9 luglio 2014 sui «Criteri di priorità nella trattazione degli affari penali», il Csm aveva raccomandato ai procuratori, «in assenza di un sistema di tipizzazione delle priorità legislativamente predeterminato» (che non veniva certo auspicato), di tener conto dei criteri adottati dai corrispondenti uffici giudicanti nell’«individuazione di linee guida finalizzate a scongiurare l’insorgenza di ingiustificate disparità nel concreto esercizio dell’azione penale».

Nella delibera del 10 luglio 2014, inoltre, il Csm, rivolgendosi ai dirigenti degli uffici giudicanti e ribadendo ancora una volta l’impossibilità di adottare «provvedimenti che comportino un accantonamento di procedimenti per farne conseguire gli effetti estintivi per prescrizione», confermava la loro competenza a selezionare i criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti e ricordava che il procuratore della Repubblica di Roma (dei cui provvedimenti organizzativi in quella delibera si limitava a “prendere atto”) non aveva fatto altro che conformarsi, nelle proprie scelte, a quelle adottate in sede di variazione tabellare dal presidente del Tribunale di Roma;

• nella seduta dell’11 maggio 2016, il Consiglio superiore della magistratura – adottando una nuova delibera in tema di linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari – ha affermato che «è preciso compito del Presidente del Tribunale e del Procuratore della Repubblica individuare, in applicazione di principi di coordinamento e leale collaborazione, i moduli attuativi delle priorità e della gestione dei flussi di affari, con il comune obiettivo di evitare determinazioni unilaterali, anche tenendo conto delle valutazioni compiute in sede di conferenza distrettuale»;

• la circolare del Csm del 16 novembre 2017 in tema di «organizzazione degli Uffici di Procura» prevede, all’art. 4, lett. g, che il procuratore possa individuare i criteri di priorità nella trattazione degli affari, come previsto dall’art. 3 (sul cui contenuto si rimanda a quello identico, appresso specificato, in ordine alla circolare del 16 dicembre 2020); 

• la circolare del 16 novembre 2017 è stata aggiornata dal Csm con successive modifiche del 18 giugno 2018, che non hanno riguardato direttamente il tema di priorità. Tuttavia, nella relazione d’accompagnamento si legge che «appare evidente come la natura di scelta organizzativa propria del provvedimento con cui sono adottati i criteri di priorità, espressamente finalizzati a garantire la complessiva ragionevole durata del processo e il buon andamento della risposta di giustizia, imponga una valutazione che, pur nel rispetto tendenziale del principio di omogeneità di trattazione degli affari sul territorio nazionale, sia modulata sulle contingenti necessità operative del distretto. In altri termini, una volta chiarito che, allo stato della legislazione vigente, l’individuazione di criteri di priorità è legittima solamente quando abbia l’obiettivo di fornire un’adeguata risposta alla domanda di giustizia e non già quello di consentire al magistrato la scelta della tipologia di reati da perseguire, è evidente che tale individuazione, per risultare efficace, deve muovere dall’analisi di dati oggettivi su base territoriale, costituiti, quanto meno, della qualità e della quantità dei procedimenti pendenti. Consentire la trattazione prioritaria di una ben determinata tipologia di reati, difatti, non permetterà solo di affrontare con maggiore rapidità la richiesta di intervento più pressante proveniente dal territorio, ma assicurerà, altresì, una risposta a tutte le istanze degli utenti del servizio giustizia, attraverso diverse scelte organizzative capaci di differenziare le sole modalità di trattazione degli affari (per esempio privilegiando un rito rispetto a un altro, dedicandovi una diversa forza lavoro, unificandone la trattazione, etc.). Scelte, queste, ovviamente da condividersi con l’ufficio giudicante del Distretto e nell’ambito della più ampia conferenza distrettuale, suggerita dalla circolare vigente»; 

• il 9 maggio 2018, il Csm ha approvato la «Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica»;

• il 16 dicembre 2020, il Csm ha approvato la nuova e più recente circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura che, per quanto qui interessa, all’art. 3 prevede quanto segue:

- comma 2: «Il Procuratore della Repubblica, nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei parametri fissati dall’art. 132 bis disp. att. c.p.p. e delle altre disposizioni in materia, può elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti. Indica i criteri prescelti al fine dell’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili»;

- comma 3: «Nell’elaborazione dei criteri di priorità, il Procuratore della Repubblica cura l’interlocuzione con il Presidente del tribunale ai fini della massima condivisione, ed opera sia tenendo conto delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti, sia osservando i principi enunciati nelle delibere consiliari del 9 luglio 2014 e dell’11 maggio 2016 in tema, rispettivamente, di “criteri di priorità nella trattazione degli affari penali” e di “linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari - rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti”»;

• nell’art. 4, comma 1, lett. g, si ribadisce che il procuratore della Repubblica «può individuare i criteri di priorità nella trattazione degli affari, come previsto dall’art. 3»;

• infine, nell’odg del plenum del 15 dicembre 2021 è prevista la proposta di approvazione di una risposta (deliberata all’unanimità dalla VII commissione) a un quesito trasmesso il 12 febbraio 2019 al Csm dal procuratore della Repubblica di Verona, a seguito di contrasto interpretativo con alcuni sostituti. Nella proposta calendarizzata, dopo la ricostruzione cronologica e i contenuti dei provvedimenti del Csm in materia di priorità, si afferma quanto segue:

«a) l’adozione dei criteri di priorità ulteriori rispetto a quelli di legge da parte del dirigente dell’ufficio di Procura non lede il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 101 Cost.), essendo gli stessi funzionali alla tutela di interessi di pari rilevanza costituzionale, e, in particolare, dell’efficienza giudiziaria (art. 97 Cost.), del giusto processo e della sua ragionevole durata (art. 111 Cost.), purché ciò avvenga all’esito di un iter partecipato, quindi, previo confronto con i magistrati dell’ufficio, allo scopo di renderli partecipi e di acquisire i loro contributi; 

b) nel perseguimento dell’obiettivo di garantire uniformità ed omogeneità all’azione complessiva dell’ufficio, il dirigente dell’ufficio requirente, in materia di priorità, può non solo individuare i procedimenti a trattazione anticipata e quelli postergati, ma fornire ai magistrati dell’ufficio indicazioni generali circa gli astratti presupposti per l’applicazione di istituti processuali deflattivi; dette direttive costituiranno un necessario criterio di riferimento per i magistrati dell’ufficio relativamente all’indicazione dei procedimenti prioritari, ferma la possibilità per il singolo sostituto di valutare, con prudente apprezzamento, se le peculiarità del caso concreto giustifichino la deroga a tale criterio di riferimento, previa interlocuzione con il Procuratore della Repubblica, nell’ambito dei rapporti di leale collaborazione con la dirigenza dell’ufficio; per la residua parte varranno come criteri generali ed astratti di orientamento; 

c) i protocolli tra dirigenti degli uffici giudicanti e requirenti, contenenti la formalizzazione delle intese intervenute in materia di priorità, sono ammissibili, costituendo coerente attuazione del principio della condivisione e della necessaria interlocuzione tra uffici, espresso nell’art. 3, co. 3, della Circolare sulle Procure e nelle delibere del 2014 e del 2016, in esso richiamate. Tali accordi possono avere ad oggetto: 1) i criteri di priorità (in essi sempre incluse quelle indicate all’art. 132 bis cit.), intesi come graduazione temporale dell’ordine di trattazione dei procedimenti, con individuazione di quelli cui va attribuita precedenza e di quelli postergati [omissis];

d) le previsioni dei protocolli, nei limiti in cui contengono soluzioni rientranti nei poteri organizzativi del dirigente dell’ufficio, ove recepite nel progetto organizzativo o in un atto ad hoc, adottato nel rispetto dell’iter indicato nelle delibere del 2014 e 2016, richiamate all’art. 3, co. 3, della Circolare sulle Procure, sono efficaci nei confronti dei magistrati dell’ufficio requirente come necessario criterio di riferimento, nella parte in cui indicano le priorità, ferma la possibilità per il singolo sostituto di valutare, con prudente apprezzamento, se le peculiarità del caso concreto giustifichino la deroga a tale criterio di riferimento, previa interlocuzione con il Procuratore della Repubblica, nell’ambito dei rapporti di leale collaborazione con la dirigenza dell’ufficio; per la residua parte varranno come criteri generali ed astratti di orientamento; 

e) esorbitano dall’oggetto della concertazione ammessa e, ancor più a monte, dall’ambito dei poteri del dirigente in materia di criteri di priorità, l’indicazione di soluzioni processuali con diretta incidenza sul concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali sprovviste di adeguato supporto normativo di rango primario (quali ad esempio l’archiviazione c.d. processuale)».

Esaurito l’elenco dei provvedimenti consiliari in tema di priorità, vanno ora ricordati due progetti di riforma costituzionale che pure hanno riguardato, tra l’altro, il tema qui in discussione: il progetto di riforma del 1997 della Commissione bicamerale presieduta dall’On. D’Alema e la cd. “riforma epocale” approvata dal Consiglio dei ministri il 10 marzo 2011, poi finita su “binario morto”

In ogni parte del mondo, come è noto, si registrano contrasti tra giustizia, politica, economia, ma in nessuna parte del mondo il livello di tali contrasti ha portato, come in Italia, a una situazione di vero pericolo per l’indipendenza della magistratura e al rischio di violazione del principio della separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. 

Un rischio che aveva preso corpo con le proposte della mai abbastanza vituperata Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, nata nel 1997, presieduta da D’Alema e di cui Marco Boato era relatore per la giustizia. Il Sen. Marcello Pera, nella seduta del 13 febbraio 1997, aveva richiesto che si parlasse anche della non obbligatorietà dell’azione penale, oppure della combinazione dell’obbligatorietà dell’azione penale con le direttive approvate dal Parlamento. Un progetto che fortunatamente non ebbe seguito alcuno.

Negli anni successivi, comunque, si è continuato a discutere di riforme da attuarsi rapidamente in nome dell’efficienza e delle garanzie per i cittadini, discutendo anche della possibilità di attribuzione al Parlamento, su proposta del Ministro della giustizia, delle scelte delle priorità investigative (il che, secondo l’opinione sin qui già espressa da chi scrive, sarebbe stato sufficiente di per sé a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale e a depotenziare il ruolo del pm, senza neppure necessità di sottoporlo al controllo dell’esecutivo), nonché dello sganciamento dell’attività della polizia giudiziaria dalla direzione e dal controllo del pm (oggetto di un ulteriore progetto di riforma del procedimento penale, contenuto nel ddl n. 1440, approvato dal Consiglio dei ministri il 6 febbraio 2009 e poi non approvato). 

Ma il progetto di riforma più pericoloso in tema di priorità fu quello approvato dal Consiglio dei ministri il 10 marzo 2011 e pubblicamente presentato, dopo pochi giorni, dal Ministro della giustizia Alfano e dal Presidente del Consiglio Berlusconi.

Tale riforma, definita “epocale”, se fosse stata approvata, avrebbe fatto saltare l’equilibrio tra i poteri dello Stato e l’indipendenza della magistratura.

Era infatti una riforma decisamente più pericolosa di altre in precedenza progettate, a partire dal fatto che nella proposta di nuova formulazione degli articoli della Carta si faceva riferimento a ben undici future leggi ordinarie di attuazione, cui veniva affidato il compito di precisare i contenuti effettivi e concreti dei principi che si intendevano modificare. Si manteneva fermo, per esempio, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma si prevedeva che sarebbe stata esercitata «secondo i criteri stabiliti dalla legge». Con la conseguenza che non di obbligatorietà si sarebbe trattato, ma di priorità decise dalla maggioranza parlamentare di turno.

Nella relazione di accompagnamento del ddl costituzionale si affermava che, con le modifiche proposte, si intendeva allineare il nostro sistema «alle corrispondenti disposizioni di altri ordinamenti democratici e del cosiddetto Corpus juris per la istituzione di un pubblico ministero europeo (…) a significare che i margini di valutazione [dell’uso dell’azione penale] non possono essere affidati a determinazioni soggettive o casuali, ma devono trovare sempre, quale che sia il modello processuale, una regolamentazione obiettiva e predeterminata che solo la legge è in grado di garantire. Particolari esigenze storiche, sociali ed economiche, infatti, possono indurre il legislatore a fissare criteri in forza dei quali, ad esempio, debba esser data prioritaria trattazione ad indagini concernenti determinati reati; fermo restando l’obbligo, esaurite queste, di curare anche le indagini relative alle altre fattispecie penalmente rilevanti».

Anche questo progetto, con la fine dell’epoca berlusconiana, non ebbe fortunatamente seguito. 

Nella stessa direzione di quella “epocale” era orientata la proposta di legge costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere penali italiane (Ucpi), anch’essa contenente riferimenti all’obbligatorietà dell’azione penale e al tema delle priorità.

L’Ucpi, infatti, ha presentato alla Camera dei deputati nella XVII legislatura, il 31 ottobre 2017, una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, recante «Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura».

Tra le proposte di modifica costituzionale elaborate dall’Ucpi, si colloca quella di modifica dell’art. 112 della Costituzione, secondo cui, dopo le parole «Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale» dovrebbero essere aggiunte le seguenti: «secondo le forme previste dalla legge».

Questa opzione può essere meglio valutata se la si legge con quanto espresso nel cd. “punto dell’Unione” del 17 febbraio 2020 sul ddl di riforma penale (cd. “riforma Cartabia”), secondo cui è incostituzionale la scelta di consegnare all’Ufficio del pubblico ministero l’individuazione di criteri di priorità, al fine della selezione delle notizie di reato da trattare (art. 3, lett. h). Solo il Parlamento può essere legittimato a regolare il sistema penale con decisioni fondate su trasparenti criteri di politica giudiziaria. L’unico temperamento al principio di obbligatorietà dell’azione penale che il nostro ordinamento può recepire non può che essere quello che riserva al potere legislativo il compito di regolare il sistema penale con regole fondate su trasparenti criteri di politica giudiziaria.

Una proposta tanto indefinita quanto inaccettabile, almeno per chi scrive.

 

4. Attribuzione al Parlamento della individuazione – con legge – dei criteri di priorità per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale: una scelta criticabile

A questo punto, dopo avere illustrato le innegabili criticità che ostacolano l’effettiva realizzazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, le ragioni che hanno portato all’ingresso nell’ordinamento delle scelte di priorità ai fini dell’efficace promovimento dell’azione penale, nonché i provvedimenti legislativi, consiliari e alcune circolari di procuratori intervenute in materia, è utile tornare all’analisi dell’art. 1, comma 9, lett. i della legge delega n. 134/2021 e alla prospettazione dei rischi che, in concreto, potrebbero derivarne. 

La legge n. 134/2021, è bene ripeterlo, è costituita da due articoli:

• l’art. 1 (composto da 28 commi, spesso comprendenti, come l’art. 2, lunghi sottocommi, secondo una prassi criticabile ormai invalsa nelle scelte parlamentari), che prevede una serie di deleghe al Governo;

• l’art. 2 (composto da 24 commi, inclusi quelli relativi alle disposizioni di accompagnamento della riforma), che contiene novelle al codice penale e al codice di procedura penale, immediatamente precettive. 

In generale, le disposizioni del ddl sono quindi riconducibili a una serie di diverse finalità, tra le quali è preminente l’esigenza di accelerare il processo penale, che ben poco ha a che fare, però, con la selezione delle priorità, la quale non è peraltro compresa in alcun modo in ciò che “ci chiede l’Europa”, un’affermazione ormai di rito che rischia di trasformarsi in un alibi se non la si usa con attenzione.

Alla luce di quanto sin qui precisato, appare già evidente l’opinione di chi scrive, fortemente critica nei confronti della norma in questione. È bene, comunque, approfondire il tema anche con riferimenti alle opposte opinioni di chi apprezza la scelta del legislatore.

Con l’art. 1, comma 9, lett. i, si prevede – come si è detto – che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito di criteri generali indicati con legge dal Parlamento, individuino priorità trasparenti e predeterminate, da indicare nei progetti organizzativi delle procure (da sottoporre al Csm come già ora previsto), “allineandoli”, quanto alla procedura di approvazione, a quella delle tabelle degli uffici giudicanti.

La prima parte di questa previsione, a parere di chi scrive, non è in alcun modo condivisibile: la selezione delle priorità di intervento dei pubblici ministeri, anche solo nell’ambito di linee guida generali e non di un cogente catalogo di reati, non può essere materia di competenza del Parlamento (e, conseguentemente, delle maggioranze esistenti) perché ciò aprirebbe la strada a seri pericoli per l’autonomia della magistratura e dei pubblici ministeri in particolare, e finirebbe con il determinare seri rischi per il già illustrato principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale.

Le preoccupazioni, peraltro, non possono mancare se solo si volge lo sguardo indietro e ci si ricorda delle pessime riforme (spesso definite da giuristi autorevoli “leggi ad personam”) o pericolosi progetti di riforme che abbiamo conosciuto in anni recenti, inclusi – oltre quelli già ricordati – i “pacchetti sicurezza” che negli anni 2008-2009 favorirono l’estendersi di una xenofobia incontrollata come, esattamente dieci anni dopo, i “decreti-sicurezza” del 2018 (con abrogazione  della “protezione umanitaria” e ampliamento dei criteri di diniego e revoca della protezione internazionale) e del 2019 (con cui veniva rafforzata la “politica dei porti chiusi”).

Il punto di partenza, allora, è l’esame del contenuto delle leggi precedenti sin qui intervenute in materia di priorità: da quello che si è fin qui detto, risulta evidente che il Parlamento, nonostante progetti abortiti e intenzioni mal celate, non è sin qui mai intervenuto con scelte di merito per individuare un catalogo dei reati che le procure dovrebbero prioritariamente trattare.

Rimandando a quanto già precisato, Parlamento e Governo non lo hanno fatto né in occasione dell’istituzione del giudice unico di primo grado, con l’art. 227 d.lgs 19 febbraio 1998, n. 5 (che, come si è detto, non può più considerarsi in vigore), né con l’art. 132-bis disp. att. cpp – introdotto con dl 24 novembre 2000, n. 341, e oggetto poi di successive modifiche protrattesi fino al 2019, trattandosi in questo caso di norma che, pur inglobando indicazioni costituenti criteri di orientamento anche per l’azione dei pm, è indirizzata agli organi giudicanti ai fini della «formazione dei ruoli di udienza», fase che interviene successivamente al promovimento dell’azione penale. 

Si afferma, a sostegno di un giudizio positivo sulla riforma qui in discussione, che comunque, a seguito della delega contenuta nell’art. 1, comma 9, lett. i della l. n. 134/2021, l’adozione da parte degli uffici di procura dei criteri di priorità trasparenti e predeterminati da inserire nei progetti organizzativi diventerà obbligatoria, mentre ora non lo è. L’affermazione è discutibile, apparendo evidente che, anche se frutto di una normativa secondaria (le delibere del Csm), le soluzioni organizzative sin qui adottate dal Csm in tema di priorità rivestono carattere cogente e devono essere rispettate dagli uffici di procura.

La risoluzione dell’11 maggio 2016, ad esempio, parla di «Soluzioni necessitate, si auspica temporanee, concertate e rispettose delle rispettive competenze», e la risposta a quesito posta all’odg del Csm del 15 dicembre 2021 ricorda, in termini tassativi, che «non potranno essere ritenuti conformi alla normativa secondaria moduli organizzativi destinati a rinnovarsi tacitamente, risolvendosi in misure non temporanee, ma tendenzialmente stabili. È necessario, invero, che le iniziative intraprese siano effettivamente coerenti rispetto alle concrete condizioni degli uffici in un determinato momento e che vengano modificate e adeguate con il variare dei flussi, delle pendenze e delle sopravvenienze, da monitorare periodicamente».

Del resto, in assenza di un carattere cogente delle varie disposizioni del Csm, non si spiegherebbe il fatto che, per quanto noto a chi scrive, essendo cessato il periodo dei «procuratori “pionieri”»[7], nessun procuratore (da quelli delle principali sedi a quelli di sedi di piccola e media dimensione) si sottrae al conseguente dovere di elaborazione dei criteri di priorità, previa interlocuzione con i presidenti di Tribunale, e al conseguente loro inserimento nei criteri di organizzazione dell’ufficio. Tra l’altro, è significativo che sia già da tempo previsto l’intervento valutativo del Csm che, pur non potendo determinare modifiche o “bocciature” dei progetti organizzativi, può contenere osservazioni critiche che sollecitano i dirigenti delle procure a eventuali aggiustamenti e che, comunque, sono inserite nel fascicolo personale del dirigente anche ai fini delle valutazioni di professionalità e delle procedure di rinnovo dell’incarico direttivo dopo la prima scadenza.

Recentemente, con la nuova circolare sull’organizzazione delle procure approvata il 16 dicembre 2020, il Csm, pur nel rispetto del potere di organizzare gli uffici requirenti attribuito al procuratore della Repubblica con la riforma del 2006 – scelta funzionale a imprimere un’impronta unitaria all’ufficio –, ha ulteriormente affermato il suo ruolo di “garanzia” attraverso la possibilità di presa d’atto  “con rilievi” o con “osservazioni” dei progetti organizzativi di quegli uffici, onde verificare la trasparenza del corretto esercizio delle competenze dei procuratori accentuando, nel contempo, il proprio potere di “indirizzo” in funzione dell’uso uniforme di attribuzioni assai delicate che concorrono ad assicurare il rispetto delle garanzie costituzionali. Insomma, al ruolo e al “potere” del procuratore fa da contrappeso la responsabilità delle scelte organizzative, la cui rispondenza e funzionalità al corretto e imparziale esercizio dell’azione penale spetta vagliare al Csm, cui il progetto organizzativo deve essere inviato per l’art. 1, comma 7, d.lgs n. 106/2006[8]. Non sembra dunque che al procuratore sia oggi consentito evitare la selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale, che ormai costituisce un obbligo derivante dalla normativa secondaria.

Si afferma, però, che dall’esame della delega emerge con chiarezza che il compito del Parlamento non consisterà nel compiere scelte di merito e nell’individuare direttamente i settori prioritari dell’intervento penale, ma nell’indicare i parametri generali e le procedure che gli uffici dovranno seguire nell’enunciare le loro priorità, adeguate al territorio in cui operano[9]: ciò appare un auspicio condivisibile, pur se incompatibile con i contenuti di pubbliche prese di posizione, anche durante la fase di elaborazione delle riforme, di molti esponenti politici, che hanno affermato invece la necessità di interventi sul catalogo dei reati prioritari onde finalmente indirizzare l’azione delle procure.

Ed eccoci allora al “dunque” della questione: se il testo della riforma prevede una cornice stabile e vincolante di criteri generali fissata dal «Parlamento con legge», nel cui ambito gli uffici di procura saranno chiamati a predisporre i criteri di priorità, di quali “criteri” stiamo in concreto parlando o, meglio, qual è il significato dell’espressione «criteri generali e vincolanti»? Stiamo parlando di criteri organizzativi e procedurali o di un catalogo di tipologia di reati e/o di interessi prioritari tutelati dalle leggi penali?

La domanda non è banale poiché la normativa primaria possibile già esiste: quella di cui all’art. 132-bis delle norme di attuazione del cpp, che, pur diretta agli organi giudicanti, costituisce – come si è detto – anche criterio di indirizzo per le procure che devono elaborare i loro criteri di priorità sulla base di interlocuzione con i tribunali, come prevedono, anche sul piano procedurale, le citate molteplici delibere consiliari.

Diversamente, ove si intendesse far riferimento a una selezione di reati da deliberare con legge, ci si troverebbe di fronte a un’inammissibile invasione di competenze e a una grave violazione del principio costituzionale della separazione dei poteri e dell’indipendenza della magistratura. Nessun parlamento (con legge) o governo (anche sulla base di una delega del legislatore) potrebbe impartire ordini ai pubblici ministeri su come selezionare le priorità dei loro interventi che, evidentemente, non riguarderebbero solo la fase del promovimento dell’azione penale, ma anche quella prodromica delle investigazioni. Ne sarebbero condizionati anche i presidi di polizia giudiziaria, dipendenti dall’ag nelle indagini giudiziarie, ma dai vari ministeri sul piano amministrativo.

Ma il rischio più evidente rimane quello di vedere l’azione della magistratura dipendere, come già si è detto, da scelte del Parlamento e del Governo indirizzate dalle maggioranze politiche di turno, sempre più fluttuanti, instabili e persino divise nel periodo storico che il nostro Paese sta vivendo. Si pensi, ad esempio, al peso politico che hanno assunto l’utilizzo strumentale del diritto alla sicurezza e il populismo dilagante in tema di immigrazione. È logico ritenere, anzi, che se il Parlamento avesse dovuto indicare priorità nell’esercizio dell’azione penale nel periodo del primo Governo Conte, quello cd. “giallo-verde”, vi sarebbero state incluse quelle connesse ai reati in materia di immigrazione, introdotti con l’ormai noto primo “decreto sicurezza” del 2018 (e poi con il secondo del 2019), risultati spesso lesivi dei diritti fondamentali degli immigrati richiedenti asilo o protezione internazionale.

E se quanto previsto dall’art. 132-bis, comma 1, lett. b delle norme di attuazione del cpp fosse vincolante anche per i pm, magari attraverso una nuova norma di richiamo, diventerebbero prioritari ai fini delle indagini e dell’azione penale anche reati minori previsti dal d.lgs 25 luglio 1998, n. 286, tra cui quello di cui all’art. 10 («Respingimento») che, nel comma 2-ter (introdotto con il “decreto sicurezza” del 4 ottobre 2018, conv. in l. 1° dicembre 2018, n.132), prevede la punizione fino a quattro anni di reclusione dello straniero che abbia trasgredito al provvedimento di respingimento: reato da perseguire, certo, ma – viene da chiedersi – in via prioritaria?

E sia concessa anche la citazione di direttive – poi inserite nel successivo progetto organizzativo dell’ufficio – che chi scrive ha emesso il 9 luglio 2018 come procuratore di Torino per un più efficace contrasto dei reati motivati o aggravati da ragioni di odio e discriminazione etnico-religiosa, da trattare come prioritari, con qualunque rito applicabile, con conseguente rapido svolgimento di tutte le indagini necessarie e tendenzialmente evitando di richiedere l’archiviazione per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cp) dei procedimenti iscritti per i suddetti reati: quelle direttive sarebbero state compatibili con gli orientamenti della maggioranza politica di quel periodo? E cosa succederebbe se, di fronte a una non condivisa direttiva di legge sulle priorità, il pm si rifiutasse di rispettarla? 

La risposta di chi apprezza la norma citata in premessa è nota: il Governo sarebbe delegato a prevedere con decreto legislativo solo che le scelte di priorità effettuate dalle procure si collochino nella cornice dei criteri generali indicati dal Parlamento!

Tra l’altro, le scelte di priorità in questione non possono essere sempre omogenee tra i vari uffici di procura, in considerazione delle diverse necessità ed esigenze territoriali. E già esistono le elencate direttive del Csm (che non ha inteso mai arrogarsi il compito di scelte di merito), le quali obbligano i procuratori della Repubblica e i presidenti dei tribunali a elaborare insieme criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, tenendo conto di vari parametri (tra cui il grado di interesse delle parti offese dai reati). 

Non è azzardato ipotizzare che questa nuova previsione della l. n. 134/2021, se non ragionevolmente interpretata dal Governo delegato (con precisazione, ad esempio, del valore eventualmente solo indicativo - e non cogente - delle delibere parlamentari in tema di priorità dell’azione penale), finirà con l’essere sottoposta al vaglio della Corte costituzionale.

Ma qui si tocca un altro problema: ammesso che governi e parlamenti si adeguino a un ruolo meramente procedurale, appare evidente che le leggi in materia dovrebbero succedersi con una periodicità omogenea rispetto a quella che caratterizza la predisposizione – secondo la normativa consiliare – di tabelle dei giudicanti e progetti organizzativi delle procure[10]: si può essere certi che ciò avverrà?

È poi noto che tutti gli uffici giudiziari sono attinti da deficit di organico e strutturali e che selezioni di priorità e progetti organizzativi non possono che adeguarsi alle rispettive disponibilità di risorse, senza possibilità di omogeneità nazionale, neppure sul piano procedurale: come potrà, allora, una futura legge nazionale, per di più periodica, farsi carico di ciò? Forse allegando alla legge tabelle con previsioni diversificate per ogni distretto o – addirittura – per ogni circondario o quasi?

E altrettanto, a quel punto, dovrebbe dirsi rispetto all’ancor più grave problema delle diverse peculiarità che caratterizzano spesso la presenza di varie forme di criminalità in molte aree territoriali di competenza delle procure.

È corretta la definizione di “criteri di priorità dinamici” con riferimento alla relativa selezione delle priorità di competenza delle procure e ai suoi periodici aggiornamenti, ma non si può certo accettare che ciò riguardi anche le competenze che in materia verranno affidate al Parlamento.

Il legislatore, quanto alle valutazioni di politica criminale di sua competenza e prescindendo dai pur importanti e necessari interventi su personale e strutture, dispone ovviamente dello strumento del varo di leggi contenenti previsione di nuovi reati (pur se il panpenalismo, anche a seguito della normativa sanzionatoria europea, è ormai una delle cause della crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale), depenalizzazione di alcune secondarie fattispecie criminali, aumento o diminuzione delle pene, amnistia o indulto, etc., ma il Parlamento non può in alcun modo arrogarsi il compito di prevedere quali siano i reati su cui le procure debbano indagare prioritariamente.

Sostenere che tali ultime competenze debbano essere esclusivamente riservate agli uffici giudiziari, secondo direttive generali e procedurali previste nelle delibere del Csm (nei termini oggi previsti), non è per nulla frutto di autoreferenzialità, ma di attenzione alla doverosa tutela dell’indipendenza dell’ordine giudiziario.

Né significa attribuirle a un organo politicamente irresponsabile come il procuratore, per la semplice ragione che il procuratore non è in alcun modo organo politico.

 

5. Una valutazione finale, ma anche un auspicio

In conclusione, la formulazione della norma qui in discussione rischia di determinare equivoci e problemi non secondari.

È d’obbligo attendere con fiducia che il Governo predisponga il testo delegatogli, che – si augura chi scrive – potrebbe limitarsi a trasferire sul piano legislativo, se non le si ritenesse già vincolanti, alcune delle previsioni già contenute nelle citate delibere consiliari, quali, ad esempio:

• l’obbligo dei procuratori della Repubblica di selezionare le priorità nell’azione penale, valutando a tal fine risorse umane e strutturali dell’ufficio, nonché statistiche relative ai carichi di lavoro, tipologia ed evoluzione della criminalità locale, occasionali e particolari esigenze (ad esempio, emergenze ambientali), il tutto nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale e delle delibere del Csm;

• il dovere di interlocuzione interna con i magistrati dell’ufficio;

• quello di interlocuzione con i presidenti di tribunale, onde inserirle in omogenei assetti organizzativi;

• il coordinamento possibile in sede distrettuale, a fini di omogeneità dei progetti organizzativi da adottare nei circondari, da affidare ai procuratori generali presso le corti d’appello, purché tale compito non venga inteso in chiave gerarchica e di scelte cogenti per i singoli procuratori (il che sarebbe contrario al nostro assetto ordinamentale della figura del pubblico ministero).

Molto importante sarebbe anche la previsione di doverose interlocuzioni dei procuratori con i rappresentanti dei rispettivi organismi forensi e con i responsabili dei presidi di polizia giudiziaria operanti nel circondario, nonché quella di adottare motivati provvedimenti a seguito di osservazioni critiche eventualmente formulate dal Csm in sede di controllo dei piani organizzativi.

Tutto ciò senza alcuno sconfinamento da parte del Parlamento nelle competenze proprie degli uffici giudiziari e dei procuratori della Repubblica (il che aprirebbe la strada alla sottoposizione del pm all’esecutivo) e senza cedimento alcuno rispetto alla doverosa difesa e “cura” dell’obbligatorietà dell’azione penale, che non può esistere in forma politicamente orientata: per questo la selezione delle priorità di intervento dei pm, anche solo nell’ambito di linee guida generali e non di un cogente catalogo di reati, non può essere materia sottratta alla competenza dell’autorità giudiziaria. Ed è questo che costituisce la linea di confine tra il sistema ordinamentale-giudiziario italiano e quello di altri Paesi europei, per cui costituisce un modello.

Ha scritto Juanito Patrone, grande conoscitore dei sistemi giudiziari stranieri: «sono convinto che in Italia molte cose, nel rito penale e nella stessa organizzazione della magistratura, possano e debbano essere riviste, senza però cadere nella trappola di una maggiore influenza della politica sull’azione penale e sulla carriera dei magistrati»[11].

Sono totalmente d’accordo con queste parole.

 

 

*  Il presente contributo è stato pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 20 dicembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-selezione-delle-priorita).

1. Si rimanda, da ultimo, a La riforma del processo penale (legge 27 settembre 2021, n. 134), in Politica del diritto, n. 4/2021, pp. 639 ss.

2. In proposito, va ricordato che, con l’art. 1, comma 9, lett. a e m della l. n. 134/2021, si vuole introdurre un mutamento di prospettiva secondo cui il pm (lett. a) chiede il rinvio a giudizio solo quando gli elementi acquisiti consentono una «ragionevole previsione di condanna», e allo stesso modo (lett. m), con modifica dell’art. 425, comma 3, cpp, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una «ragionevole previsione di condanna».
Attraverso questa previsione, si intendono evitare giudizi superflui o inutili mediante una più approfondita prognosi di condanna per il rinvio a giudizio.
In realtà, ad avviso di chi scrive, si tratta di previsione inutile, di natura sostanzialmente lessicale. Attualmente, in luogo del principio citato, vige quello di richiesta di archiviazione da parte del pm e di obbligo di proscioglimento da parte del giudice quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti o non idonei a sostenere l’accusa in giudizio. 
Le due previsioni, pur se lessicalmente diverse, hanno lo stesso contenuto, essendo evidente che la possibilità di sostenere l’accusa in giudizio si fonda (o dovrebbe fondarsi) – per il pm – sulla ragionevole previsione dell’accoglimento della propria richiesta di condanna. E il ragionamento, con le ovvie differenze, si adatta anche al giudice che deve disporre o meno il rinvio a giudizio. 
Detto questo, pur se sostanzialmente ultroneo, può però essere accolto l’invito istituzionale a una valutazione più rigorosa degli elementi di prova disponibili, che include anche un maggiore sforzo del pm di acquisizione probatoria durante la fase delle indagini, senza alcuna concessione alla errata logica di quei magistrati che ritengono di poterla rinviare al dibattimento.

3. Affermazione condivisibile di Marcello Maddalena.

4. V. Pacileo, Pubblico ministero. Ruolo e funzioni nel processo, UTET Giuridica, Milano, 2011, nella parte intitolata I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Compatibilità costituzionale, pp. 206 ss. 

5. V. Pacileo, op. ult. cit.

6. Op. ult. cit.

7. Felice definizione di N. Rossi, I criteri di esercizio dell’azione penale. Interviene «il Parlamento con legge», in questa Rivista online, 8 novembre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/i-criteri-di-esercizio-dell-azione-penale-interviene-il-parlamento-con-legge, ora in versione aggiornata, con diverso titolo, in questo fascicolo – I “criteri di priorità” tra legge cornice e iniziativa delle procure.

8. Queste osservazioni sono sintesi di una comunicazione inviata il 23 dicembre 2020 da cinque componenti togati del Csm alla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati.

9. N. Rossi, op. cit.

10. Non a caso, nella Relazione della Commissione Lattanzi si parla di necessità di periodici atti di indirizzo parlamentare.

11. I.J. Patrone (già sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione), Il prosecutor negli Stati Uniti. Un esempio da seguire?, in questa Rivista online, 11 marzo 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/il-prosecutor-negli-stati-uniti-un-esempio-da-seguire. La frase qui riportata si riferisce, comunque, alla proposta di legge costituzionale della Unione delle Camere penali, in precedenza citata.