Magistratura democratica

La crescente procedimentalizzazione dell’atto parlamentare di indirizzo politico*

di Giampiero Buonomo

La legge delega di riforma del processo penale assegna al legislatore delegato il compito di prevedere che gli uffici del pubblico ministero individuino – nell’ambito di criteri generali indicati dal Parlamento con legge – priorità trasparenti e predeterminate di selezione delle notizie di reato. A fronte di tale previsione, lo scritto esplora una tematica posta a monte delle discussioni e dei confronti che scaturiranno dalla nuova normativa, ma che è imprescindibile per coglierne la valenza e le implicazioni: le caratteristiche dell’atto parlamentare di indirizzo politico e la sua crescente procedimentalizzazione. 

1. L’antica controversia sul confine tra funzione di controllo e funzione di indirizzo politico ha origine, come assai spesso il diritto parlamentare, nella storia delle istituzioni: è dipeso meno dalla lettera del regolamento, e più dalla successiva evoluzione della prassi, se e quale atto si sia nel tempo trasformato, da strumento rivolto al Governo per chiedergli conto del passato, a indirizzo del cui adempimento tenerlo responsabile per il futuro. Tra mozione, risoluzione e ordine del giorno si sono andati raffinando criteri discretivi spesso dettati dalle torsioni del precedente, cui solo in un secondo momento si è data consacrazione positiva nella modifica regolamentare.

Se l’elemento estrinseco della fase procedurale può offrire un appiglio per cogliere realtà così proteiformi, in linea di massima può dirsi – con la relazione della Giunta del regolamento sul progetto di nuovo regolamento del Senato del 1971 – che la risoluzione si distingue dall’ordine del giorno perché non ha carattere accessorio rispetto a un iter principale, mentre si distingue dalla mozione perché può soltanto concludere una discussione e non anche introdurla. Se dunque una relazione (governativa, e non solo) viene posta all’ordine del giorno, le valutazioni che essa sollecita possono dare luogo alla presentazione e al voto di una proposta di risoluzione; alla stessa stregua, la stessa mozione (o il gruppo di mozioni) messa all’ordine del giorno può dare luogo a una discussione, al termine della quale venga invece proposta una risoluzione.

La differenza tra i due regolamenti parlamentari non aiuta a districarsi dal ginepraio delle definizioni: quello del Senato mantiene la sedes materiae tradizionale, in cui la sola mozione resta nel capo XIX, procedendo quasi per gemmazione dagli atti di sindacato ispettivo; quello della Camera, invece, colloca le mozioni nel capo delle risoluzioni e ambedue nella parte III (procedure di indirizzo, di controllo e di informazione) che contiene – in altro capo – pure il sindacato ispettivo.

Basti indicare – nella reviviscenza della risoluzione, operata nei regolamenti del 1971 – una comune coloritura di indirizzo politico più definita rispetto agli altri atti: a fianco della risoluzione in assemblea, infatti, emergeva la nuova modalità della risoluzione in commissione. Nel relativo esame, sia l’art. 117 RC che l’art. 50 RS prescrivono la presenza dell’Esecutivo, con ciò chiaramente ricollegandosi al nesso fiduciario, che la dottrina richiede debba essere mantenuto – lungo tutto il percorso di vita dell’Esecutivo – mediante “aggiornamenti” del programma di governo o sue precisazioni in rapporto ed eventi sopravvenuti. La risoluzione approvata dalla commissione – con cui indicare al Governo indirizzi più puntuali, rispetto all’iniziale mandato programmatico contenuto nella mozione di fiducia – comporta l’ulteriore problema che la Costituzione contempla il nesso fiduciario direttamente col plenum di ciascuna Camera e non con le sue articolazioni interne.

Al pericolo di una frammentazione della visione unitaria propria della politica generale del Governo pone, perciò, rimedio la requête all’assemblea, conferita (anche) al Governo in “appello” rispetto al voto della commissione; dall’altro, la necessità che l’esame in commissione si sviluppi rispetto a un “affare assegnato” dalla presidenza (art. 50, comma 2, RS) previene “autoattribuzioni” che la commissione stessa dovesse operare nel generico ambito delle materie di sua competenza. Rispetto alla rigidità del disegno di legge, l’affare assegnato dalla presidenza è svincolato dall’imperatività della clausola di entrata in vigore (a contenuto prettamente normativo) e, pertanto, segue una vastissima tipologia: al suo interno si annoverano «relazioni, documenti e atti pervenuti al Senato» (secondo periodo del comma 1 dell’art. 34 RS) e questo, nella strutturazione istituzionale pluri-livello degli ultimi anni, ha significato anche fuoriuscire dalla classica dicotomia Governo/Parlamento.

Nelle prime esperienze di contatto con le nuove autorità indipendenti, ad esempio, il problema del confine del sindacato parlamentare e del riparto tra i poteri era affrontato con molta circospezione. Per l’art. 23 l. 10 ottobre 1990, n. 287, la relazione annuale dell’Autorità per la tutela della concorrenza e del mercato perveniva al Parlamento in via mediata, trasmessa al Presidente del Consiglio dei ministri. Così pure la relazione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni di cui all’art. 1 l. 31 luglio 1997, n. 249. Ma già il testo unico della radiotelevisione, di cui al d.lgs 31 luglio 2005, n. 177, saltava il passaggio e, all’art. 35, prevedeva che l’Autorità presenta al Parlamento una relazione annuale sulla tutela dei diritti dei minori; addirittura, una relazione informativa semestrale è direttamente inviata dall’Autorità alla Commissione parlamentare per l’infanzia.

La Corte dei conti godeva pur da prima di un trattamento nominato, grazie alle norme regolamentari in cui la risoluzione compariva come possibile sbocco di esame di atti tipici, da essa trasmessi alle Camere: l’art. 132 RS la contempla come esito in commissione dell’esame dei decreti registrati con riserva dalla Corte dei conti; l’art. 131 RS, per l’esame delle relazioni della Corte dei conti sugli enti sovvenzionati dallo Stato, addirittura la prevede come proposta della Commissione di merito, da veicolare – mercé la Quinta Commissione – nella relazione generale che questa porta in assemblea prima dell’esame del bilancio dello Stato.

Ma è stata la presidenza Violante alla Camera che ha positivamente disposto, il 24 novembre 1997, un criterio di ammissibilità che circoscrive al rapporto Governo-Parlamento l’impiego di «mozioni, interpellanze e interrogazioni» e, «in quanto compatibili», degli «altri atti di iniziativa parlamentare»: per l’articolo 139-bis RC il presidente ne valuta l’ammissibilità con riguardo alla coerenza tra le varie parti, alla competenza e alla connessa responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento (nonché alla tutela dell’onorabilità dei singoli e del prestigio delle istituzioni).

Certo, l’ammissibilità va modulata in rapporto allo strumento prescelto, e per esempio un’interrogazione ha senza dubbio potenzialità, lesiva del riparto, assai minore rispetto a un atto di indirizzo: il Governo può non rispondere o eccepire nella risposta l’inappropriatezza della domanda, laddove essa richieda una valutazione (o, peggio, un intervento) su attività di un’autorità indipendente[1]. Ecco perché – nonostante la precettistica, di cui alla circolare del presidente della Camera 21 febbraio 1996 – nell’ammissibilità degli atti di sindacato ispettivo si può giustificare una maggiore tolleranza delle presidenze, sensibili al controvalore rappresentato dagli artt. 67 e 68 Cost.; trovarsi vincolato in un voto che integra il mandato fiduciario, invece, è senza dubbio più serio e potenzialmente irrimediabile per il Governo. L’art. 97, comma 1, RS – nell’attribuire al presidente il giudizio sulle proposte scritte – consente anche al Senato di ergere una barriera contro questi tentativi, alla stessa stregua della Camera[2]; del resto, nella sentenza n. 379 del 2003 la Corte costituzionale espressamente menziona «il vaglio di ammissibilità attribuito al Presidente» come prius rispetto all’annuncio e alla pubblicazione degli atti che esprimono la funzione ispettivo-politica del parlamentare.

La domanda è se basti affidarsi alla soft law delle Camere o se, nel prevedere una relazione al Parlamento, non si debba anche più precisamente procedimentalizzarne l’esame: se una comunicazione (scritta o orale che fosse) di un componente del Governo legittima l’assemblea elettiva – o una sua sede ristretta, salvo appello alla maggiore – ad assumere una delibera, occorre sceverare esattamente le potenzialità di questa delibera e i suoi possibili effetti.

 

2. Proprio a strettissimo ridosso della modifica regolamentare della Camera del 1997 si era sviluppato un dibattito che – sebbene temporaneamente bloccato dallo stallo in cui cadde la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali presieduta da Massimo D’Alema – sollecitava la riflessione sull’argomento. Era abbastanza oscuro, infatti, quale fosse il punto esatto in cui un atto di indirizzo incrocia il riparto competenziale tra i poteri dello Stato, soprattutto quando siano esterni al circuito democratico che – nella definizione di Alessandro Pizzorusso – delinea il continuum corpo elettorale-Parlamento-Governo.

In rapporto alle proposte di revisione costituzionale attinenti a un potere diffuso come la magistratura, il senatore Marcello Pera aveva richiesto «che si parli anche della non obbligatorietà dell’azione penale oppure della combinazione dell’obbligatorietà dell’azione penale con le direttive» (seduta del 13 febbraio 1997), invocando gli insigni giuristi che «ancora nel 1993» in un convegno avevano parlato «in sede di esame del bilancio del Ministero della giustizia oppure della relazione del consiglio superiore della magistratura, di direttive date dal Parlamento alle Procure». In sede di audizione, poi, il procuratore generale della Cassazione del tempo, Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, aveva giudicato «quanto mai opportuna» la previsione di una «relazione annuale del ministro della giustizia al Parlamento sull’esercizio dell’azione penale; non invece del procuratore generale della Cassazione, non solo perché egli non ha alcun rapporto con l’azione penale e dovrebbe assumere un’ulteriore funzione aggiuntiva di cui non sarebbe chiara la natura, ma perché la funzione di raccordo con il Parlamento ha carattere politico e a me pare che debba essere svolta da un’autorità politica» (seduta del 15 aprile 1997).

Quando la “bozza Boato” (sul sistema delle garanzie) affacciò per la prima volta il tema della “relazione al Parlamento” del Ministro della giustizia, la discussione in Commissione si sviluppò lungo il delicato crinale del rapporto tra la pronuncia delle Camere e l’obbligatorietà dell’azione penale sancita dall’art. 112 Cost. La proposta, il 27 maggio 1997, riscosse ben tre interventi contrari, sia pur diversamente modulati: i senatori Fausto Marchetti e Giovanni Russo ne chiesero lo spostamento all’art. 110 (relativo alle competenze del Ministro) e la limitazione contenutistica al solo “stato della giustizia”, per evitare che fosse concepita come «strumento di specifico controllo sullo stesso esercizio dell’azione penale». Più sfumata fu la posizione della senatrice Ersilia Salvato, che riteneva comunque necessario superare la discrezionalità evitando di attribuire «un potere troppo vasto a magistrati di carriera burocratica, che sono privi della necessaria legittimazione democratica per esercitarla»; la strada dell’assoggettamento del pubblico ministero al potere politico non è «la strada che abbiamo intrapreso e che vogliamo intraprendere. Le strade sono altre: quella della relazione del Ministro di grazia e giustizia al Parlamento è sicuramente interessante. Un’altra strada potrebbe essere quella del coinvolgimento nell’amministrazione della giustizia di una platea più ampia, che non sia composta soltanto da chi lavora quotidianamente in tema di giustizia (magistrati, avvocatura) ma che veda una sorta di partecipazione popolare».

In ogni caso, com’è noto, non se ne fece niente. Ma il dibattito non fu senza effetti. Il più noto fu la novella all’articolo 86 dell’ordinamento giudiziario (di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12), con cui la legge 25 luglio 2005, n. 150 introdusse l’istituto della relazione ministeriale al Parlamento sullo stato della giustizia: da allora la si presenta sotto forma di comunicazioni alle Camere, da rendere «entro il ventesimo giorno dalla data di inizio di ciascun anno giudiziario»; essa si diffonde «sull’amministrazione della giustizia nel precedente anno nonché sugli interventi da adottare ai sensi dell’articolo 110 della Costituzione e sugli orientamenti e i programmi legislativi del Governo in materia di giustizia per l’anno in corso».

In fase preparatoria, la strada preclusa da Galli Fonseca fu in parte tentata dai senatori Tommaso Sodano e Luigi Malabarba, i quali nel novembre 2004 chiesero che fosse il primo presidente della Cassazione a comunicare al Ministro, per ogni anno giudiziario, la relazione generale sull’amministrazione della giustizia: ma l’emendamento 1.103 al ddl n. 1296-B della XIV legislatura fu dichiarato improponibile, mentre prevalse il testo che un maxiemendamento del Governo Berlusconi II aveva proposto in assemblea alla Camera sin dal 29 giugno 2004.

Approvata la legge di novella all’ordinamento giudiziario, nacque il problema dell’intarsio tra leggi e delibere delle Camere: i precedenti non soccorrevano granché. L’unico precedente in termini – la relazione presentata il 23 aprile 1970 dal Ministro alle Camere, allegata a una relazione del Consiglio superiore della magistratura su «realtà sociale e amministrazione della giustizia» – riposava su un ordine del giorno delle Camere, per cui era tutto costruito sul versante endo-parlamentare: stavolta, invece, il fondamento verteva direttamente su un obbligo di legge.

Quanto ai precedenti eterogenei, già l’art. 31 della legge 27 aprile 1982, n. 186 prevedeva che il Presidente del consiglio riferisse «annualmente al Parlamento con una relazione sullo stato della giustizia amministrativa e sugli incarichi conferiti» ai sensi dell’art. 29, terzo comma della stessa legge. Ma quella relazione (Doc. LXI) è meramente deferita alla commissione competente (Affari costituzionali) e segue la normale trattazione degli affari assegnati: mera eventualità di discussione in sede ristretta e di votazione di una risoluzione.

Invece, la scelta legislativa di prevedere «comunicazioni alle Camere» del Ministro, sull’amministrazione della giustizia, innalzava la procedura alla massima sede di trattazione parlamentare, l’Aula: ciò pur in presenza della prassi, subito affermatasi, per cui le comunicazioni del Ministro della giustizia, di fatto, si riducono a una versione in prosa della relazione, comunque ritualmente presentata per iscritto e depositata agli atti del Parlamento (Doc. IX). La rilevanza della questione è attestata dal dibattito che ne è seguito e che, da tre lustri, porta addirittura i presidenti dei gruppi parlamentari a firmare per primi le proposte di risoluzione: per quanto la relazione alla modifica regolamentare della Camera del 1971 precisasse che lo strumento della risoluzione era reintrodotto in via ordinaria per consentire alle commissioni di formulare il proprio orientamento su aspetti della politica settoriale di loro competenza, qui si versa in quell’ambito residuale per il quale la risoluzione può essere proposta direttamente in assemblea dal singolo parlamentare. Se la relazione del Ministro non viene neanche deferita come affare alle commissioni di merito, evidentemente l’atto di indirizzo assurge a livello di politica generale del Governo: esaminata direttamente dall’assemblea di ciascun ramo del Parlamento, si conclude con il voto di una o più proposte di risoluzione, avanzate ai sensi degli artt. 105 RS e 118 RC.

Si versa, pertanto, in uno dei procedimenti parlamentari tipizzati per legge, che vanno sempre più affacciandosi nella normazione più recente e che scuotono le consolidate convinzioni intorno all’autosufficienza del regolamento parlamentare in virtù del procedimento stesso. Quella del 2005 era ancora una fase di elaborazione abbastanza rudimentale, in cui la questione del rapporto tra legge e delibere parlamentari (previste dai regolamenti di cui all’art. 64 Cost.) era lungi dall’essere sceverata. Nei tre lustri successivi, la situazione è sostanzialmente mutata.

È quindi dirimente un esame della legislazione, per cogliere come la sua ricaduta – in termini di relazioni interistituzionali – si sia andata atteggiando rispetto agli strumenti previsti dal diritto parlamentare.

 

3. Il primo punto di contatto tra legge e procedura parlamentare è senza dubbio la legge 5 agosto 1978, n. 468: ma le parti più rilevanti di quella disciplina, che riformava alcune norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio, furono piuttosto foriere di una importante revisione regolamentare (che al capo XV del regolamento del Senato fu compiuta sotto la sapiente guida del compianto Paolo De Ioanna); eccezione che conferma la regola era l’art. 11-ter, sulla relazione quadrimestrale della Corte dei conti al Parlamento sulla tipologia delle coperture adottate nelle leggi di spesa (nonché «su richiesta delle Commissioni parlamentari competenti nelle modalità previste dai Regolamenti parlamentari», sulla congruenza tra le conseguenze finanziarie dei decreti legislativi e le norme di copertura recate dalla legge di delega).

Solo in sede di successiva revisione e sostituzione di quella legge, alla nuova e più dettagliata determinazione dei contenuti del DEF («Documento di economia e finanza») la legge 31 dicembre 2009, n. 196 ha aggiunto un elemento di compartecipazione parlamentare che potremmo dire “coacervato”: l’art. 10, comma 1, dichiara che il DEF è definito «come risultante dalle conseguenti deliberazioni parlamentari». Non si tratta quindi soltanto di un affare assegnato alla Commissione bilancio (articolo 125 RS), che riferisce all’assemblea in un esame che si conclude con una risoluzione (emendabile e votabile non secondo ordine di presentazione, come di norma, ma a partire da quella accolta dal Governo: art. 125-bis RS): questa risoluzione entra nella sequenza contenutistica che fissa gli obiettivi della successiva legge di bilancio, tanto è vero che, qualora si renda necessaria in corso d’anno una modifica degli obiettivi di finanza pubblica, la nota di aggiornamento al DEF segue la stessa procedura di trasmissione alle Camere e di successivo esame (art. 10-bis).

Ancor più illuminante è la sorte che riceve l’indicazione, in allegato al DEF, dei disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica: qui l’intarsio funziona in senso doppio perché – al di là della previsione secondo cui «i regolamenti determinano le procedure e i termini per l’esame dei disegni di legge collegati» (ultimo periodo del comma 6 dell’articolo 10 citato) – l’art. 126-bis, comma 2-bis, RS prevede che il presidente del Senato accerta se i disegni di legge collegati rechino disposizioni estranee al proprio oggetto come definito dalla legislazione vigente «nonché dal documento di economia e finanza come approvato dalla risoluzione parlamentare». Il sinolo perfetto che si consegue – per convergenza tra la relazione governativa recante il DEF (Doc. LVII) e la risoluzione parlamentare – diviene addirittura parametro di proponibilità di ulteriori atti parlamentari: e che atti! Il disegno di legge, il principe degli atti parlamentari, è costretto a soccombere dinanzi a un atto di indirizzo, sia pur provocato dall’esame di un affare assegnato sul quale la Commissione bilancio è tenuta a riferire all’assemblea.

Ma, forse, è più interessante ancora cogliere l’evoluzione ulteriore che la materia ha ricevuto, a partire dal meccanismo di correzione degli scostamenti rispetto all’obiettivo programmatico strutturale (di cui il DEF indica la misura e l’articolazione temporale): con legge costituzionale n. 1 del 2012, il nuovo art. 81 Cost. ha previsto che la maggioranza assoluta dei componenti delle due Camere possa autorizzare lo scostamento temporaneo del saldo strutturale. La legge 24 dicembre 2012, n. 243 non si è limitata a definire gli eventi eccezionali in presenza dei quali l’autorizzazione può essere data. Il suo art. 6, comma 3, ha anche prescritto la trasmissione di una relazione alle Camere «per le conseguenti deliberazioni parlamentari»: esse consisteranno nell’autorizzazione richiesta, uno actu con l’approvazione del piano di rientro contenuto nella relazione (ultimo periodo del comma 3 citato), e possono anche comportare la sospensione del predetto meccanismo di correzione (comma 3 dell’art. 8). Nel caso più recente, la relazione sullo scostamento è stata presentata dal Governo Draghi il 15 aprile 2021 nella veste di annesso al DEF (Doc. LVII, n. 4) e il 22 aprile 2021 ha dato luogo all’approvazione delle risoluzioni di maggioranza in ciascuna Camera.

La delibera parlamentare ha qui la copertura massima, quella della Costituzione (e di una legge di attuazione particolarissima come la n. 243/2012): ma resta un caso di continuum Governo-Parlamento dal quale discende anche un intarsio legge-delibera, i cui effetti sono ancora tutti da sceverare. Se infatti il legislatore ordinario di spesa si è finora trovato vincolato da una legge di contabilità dei bilanci pubblici “a resistenza passiva rafforzata” – perché per la prima volta di essa la Carta prescrive l’approvazione a maggioranza assoluta dei componenti delle due Camere –, sarebbe da comprendere se, seguendo lo stesso principio, la medesima prevalenza riverberi dalla delibera di autorizzazione allo scostamento a favore delle successive leggi di spesa.

L’altra procedura parlamentare con effetti tipizzati ex lege si riscontra nella più recente legislazione nazionale in materia unionale europea, frutto della sedimentazione delle leggi “La Pergola”, “Buttiglione” e “Moavero Milanesi”. La legge 24 dicembre 2012, n. 234 contempla una panoplia di informative e consultazioni del Governo nei confronti del Parlamento, per garantire la partecipazione delle assemblee rappresentative al processo decisionale dell’Unione europea. Le «Relazioni annuali al Parlamento» sulla partecipazione italiana all’Unione europea (Doc. LXXXVI la programmatica e Doc. LXXXVII la consuntiva) sono il più tradizionale degli strumenti, ma anche quello le cui ricadute in termini di esame parlamentare sono disciplinate meno: l’art. 13 si limita a tipizzarne il contenuto, ma di fatto la prassi parlamentare ne svolge un esame congiunto – che nella sede referente del Senato si conclude, ai sensi dell’art. 142 RS, con una relazione della XIV Commissione all’assemblea – con la (assai più rilevante) legge di delegazione europea, corredando l’approvazione di questa in assemblea con una “coda” consistente nel voto di una risoluzione sulle due relazioni.

Piuttosto, all’art. 7 sono espressamente previsti «atti di indirizzo delle Camere» al Governo sui progetti e sugli atti riguardanti la fase “ascendente” della normazione europea; a lato dei più dettagliati pareri sulla sussidiarietà (art. 8), trasmissioni di documenti utili alla definizione delle politiche europee (art. 9), richieste di apporre la «riserva di esame parlamentare» (art. 10), la residuale categoria degli “atti di indirizzo” parrebbe continuare a riposare sul generale rinvio all’autonomia regolamentare parlamentare. Per il comma 1 dell’art. 7, infatti, sono i «competenti organi parlamentari» che «possono adottare ogni opportuno atto di indirizzo al Governo, secondo le disposizioni dei Regolamenti delle Camere» (peraltro arricchiti, nelle ultime revisioni, di norme ad hoc: la risoluzione dell’art. 144 RS e il documento di cui all’art. 127 RC). In realtà, ingerenze della legge non mancano neppure qui: il “meccanismo del freno di emergenza” per l’art. 12 opera, come vincolo per il Governo, solo se «entrambe» le Camere adottino un atto di indirizzo «in tal senso».

Ancora più interessante è come la “legge Moavero” declina la clausola unionale europea, che subordina l’entrata in vigore di una decisione «alla previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali» (art. 11): le Camere ricevono la decisione dal Governo «ai fini delle opportune deliberazioni» e si considerano approvate «in caso di deliberazione positiva di entrambe le Camere»; nel caso in cui si tratti di procedure semplificate di revisione dei trattati che estendano le competenze dell’Unione, è comunque necessaria la legge. Qui si colgono due interessanti linee di intervento: da un lato, l’utilizzo del voto parlamentare per precostituirsi un’acquiescenza del legislativo dinanzi a casi dubbi (pertanto, il voto deve riguardare ambedue le Camere e deve essere nel medesimo senso); dall’altro lato, la legge n. 234 reca una vera e propria actio finium regundorum, a valle della quale l’atto di disposizione parlamentare non può invadere la competenza dello stesso legislatore e, men che meno, il riparto di competenze tra poteri dello Stato fissato dalla Costituzione.

Certo, che una legge ordinaria si pretenda vera e propria “norma sulle fonti” si presta ad antiche e irrisolte obiezioni. Ma è altrettanto innegabile che quando la norma primaria riproduce o esplicita un assetto degli interessi delineato direttamente in Costituzione, non solo il suo fondamento è stato affermato positivamente dalla Corte costituzionale[3], ma la sua qualità è stata invocata anche al di fuori del contenzioso costituzionale[4].

Tutto sta, quindi, ad acclarare se la “norma sulle fonti” dettata per legge ordinaria rispecchi pedissequamente l’assetto tra i poteri dello Stato delineato dalla Costituzione: anche a prescindere dalla possibilità di invocare una resistenza passiva rafforzata, rispetto all’applicazione della seconda parte del primo comma dell’art. 15 delle preleggi, l’intarsio con le deliberazioni parlamentari pone un problema, semmai, diverso: esso emerse in tutta la sua virulenza nel terzo e più controverso caso di contatto tra legge e atto d’indirizzo parlamentare, verificatosi nel 2013.

 

4. Quale sia l’assetto dei poteri costituzionali in materia di politica estera e di difesa è un problema annoso, intorno al quale si sono cimentati non soltanto i giuristi. Il punto di caduta politico più solido – il primo che non derivasse da produzioni difensionali di generali felloni, da apodittici statement amministrativi o da assiomatiche relazioni di commissioni nominate dal Presidente Cossiga – resta l’art. 1, comma 1, lett. a della legge 18 febbraio 1997, n. 25, secondo cui il Ministro della difesa attua le deliberazioni in materia di difesa e sicurezza adottate dal Governo, sottoposte all’esame del Consiglio supremo di difesa e approvate dal Parlamento.

Anche qui la modalità di approvazione parlamentare coinvolge in guisa binaria le Camere, nella doppia veste di legislatore (a letture convergenti) e di autrici (uti singuli) di atti di indirizzo.

La ricaduta meglio procedimentalizzata di quello schema decisionale fu la risoluzione n. 7-01007 “Ruffino”, con cui la Commissione difesa della Camera dei deputati il 16 dicembre 2001 delineò il coinvolgimento sinergico dei massimi poteri dello Stato nell’assunzione delle determinazioni inerenti l’impiego delle Forze armate previsto dalla legge n. 25 del 1997: il Governo ha l’obbligo di porre il Presidente della Repubblica nelle condizioni di conoscere e valutare tempestivamente ogni determinazione relativa all’impiego di Forze armate all’estero; il Governo adotta le deliberazioni di carattere generale in materia di difesa e sicurezza, in sede di Consiglio dei ministri, e ne informa tempestivamente le Camere; il Parlamento (entrambe le Camere o anche una sola di esse, oppure le sette competenti Commissioni parlamentari, nel regime di autonomia previsto dalla Costituzione per gli organi parlamentari), sulla base delle comunicazioni del Governo, approva, in tempi compatibili con l’adempimento dei previsti impegni internazionali, le determinazioni da questi assunte; il Governo, acquisita la posizione delle Camere o anche una sola di esse, può emanare un decreto-legge recante la copertura amministrativa o finanziaria della missione, ovvero proporre un disegno di legge; il Ministro della difesa attua le deliberazioni adottate dal Governo, impartendo le necessarie direttive al Capo di stato maggiore della difesa.

Con la legge 21 luglio 2016, n. 145, quella modalità è stata ulteriormente semplificata, nel comprensibile desiderio di superare il sistema dei decreti-legge annuali di rifinanziamento delle missioni internazionali: ciò è avvenuto sospingendo verso una procedura autorizzatoria parlamentare di tipo non legislativo le missioni Onu, Nato o Ue, nonché tutto ciò che comporta spostamento di personale e assetti, civili e militari, nell’ambito di operazioni militari o di polizia fuori del territorio nazionale conformi alla legalità internazionale. La ricca procedimentalizzazione dell’atto d’indirizzo parlamentare fa tesoro delle precedenti esperienze: per l’art. 2 le deliberazioni del Consiglio dei ministri sono soggette a un obbligo di trattazione delle Camere («tempestivamente le discutono»); pur innestandosi nei regolamenti esistenti («secondo le norme dei rispettivi regolamenti»), questi «atti di indirizzo» hanno per legge un contenuto nominato («autorizzano (…) ovvero ne negano l’autorizzazione»). Gli effetti interinali, previsti dal comma 4-bis per le deliberazioni governative, decorrono dalla data di presentazione alle Camere e lo stesso è disposto per la relazione analitica annuale sulle missioni in corso: anch’essa, per l’art. 3, presentata alle Camere per la discussione «e le conseguenti deliberazioni parlamentari»; è di inizio agosto 2021 la trattazione dell’assemblea del Senato della relazione, proposta ai sensi dell’art. 50, comma 3, RS, sulla risoluzione Doc. XXIV, n. 48, approvata dalle Commissioni riunite esteri e difesa sulla proroga delle missioni per il 2021.

Si tratta di un ambito di applicazione che sfiora, in più punti, l’assetto dei poteri definito dalla Costituzione in tema di politica estera e di difesa: non a caso, la procedura delineata ricalca la decisione delle due Camere per la deliberazione dello stato di guerra, di cui all’art. 78 Cost., coinvolgendo con una comunicazione preventiva il Capo dello Stato (titolare del potere declaratorio di cui all’art. 87, comma 9, Cost.). Ai sensi del comma 1 dell’art. 1, la disciplina dello stato di guerra è esplicitamente salvaguardata (e, per l’effetto, relegata all’ipotesi più residuale, troncando l’antica richiesta di estendervi per analogia le measures short of war): ma ai presenti fini è rimarchevole anche la riserva che, all’ultimo periodo del comma 2 dell’articolo 2, prevede che sia comunque necessaria la presentazione di un disegno di legge, in ossequio alla riserva di cui all’articolo 103, comma 3, primo periodo della Costituzione, quando si intenda prevedere l’applicazione a una specifica missione delle norme del codice penale militare di guerra.

Sia pure in altro ambito, quello del cd. “diritto parlamentare amministrativo”, il parere n. 2016/2018 di una Commissione speciale del Consiglio di Stato ha indicato proprio nella preesistenza di una riserva di legge i limiti entro cui opera l’“intarsio” tre le due fonti, legislativa e regolamentare. Laddove la Costituzione riservi espressamente una determinata materia alla legge, ci potrà essere – non trattandosi di riserva assoluta – un concorso, variamente atteggiato, tra legge e regolamento parlamentare, negli alternativi e plausibili sensi: (a) della regolazione esclusivamente per legge; (b) del concorso tra legge e regolamento parlamentare, quest’ultimo tipicamente in funzione esecutiva, attuativa o integrativa; laddove, infine, la Costituzione non formuli alcuna espressa riserva o preferenza, sarà altresì possibile (c) l’integrale rimessione alla fonte regolamentare (§ 2.2, pp. 4-5).

Non solo, quindi, lo schema “compartecipato” – tra tutte le istituzioni, per “accontentarsi” di una delibera parlamentare – non può violare il riparto tra i poteri dello Stato; esso non può neppure contrapporsi alla previsione di una riserva assoluta di legge prevista in Costituzione. Certo, la lettura di questi limiti non è sempre univoca e il soccorso del contenzioso costituzionale può essere invocato quando i vari attori la vedano diversamente. Ma, per il momento, nella ricognizione della scarsa prassi pre-contenziosa, ci si deve limitare alla più chiassosa delle scaramucce, quella sviluppatasi nel luglio 2013 intorno alla risoluzione parlamentare sugli F35.

Tutto ebbe origine da una indebita commistione tra funzione di indirizzo e funzione consultiva, operata in sede di approvazione della l. 31 dicembre 2012, n. 244, recante la delega al Governo per la revisione dello strumento militare nazionale. Già in fase preparatoria fu accolto un ordine del giorno che impegnava il Governo – «tenendo conto del prossimo scioglimento delle Camere e dei tempi di ricostituzione delle Commissioni parlamentari» (che avrebbero dovuto esprimere il parere non vincolante sugli schemi di decreto legislativo delegato al Governo) – ad adottare i decreti legislativi «in modo da consentire che il nuovo Parlamento possa pienamente esplicare i propri poteri di indirizzo e di controllo in relazione agli atti attuativi della delega conferita».

La commistione era ancor più evidente nella procedura con cui l’art. 4 l. n. 244 disciplinava i «programmi di ammodernamento e rinnovamento dei sistemi d’arma, delle opere, dei mezzi e dei beni direttamente destinati alla difesa nazionale». La relativa “pianificazione” era oggetto della consueta relazione ministeriale al Parlamento (novella dell’art. 536, comma 1 del predetto codice), semmai integrata da apposito allegato laddove contenga «piani di spesa gravanti sugli ordinari stanziamenti di bilancio, ma destinati al completamento di programmi pluriennali finanziati nei precedenti esercizi con leggi speciali, se non richiedono finanziamenti integrativi» (comma 4 della citata novella).

A valle della pianificazione (e della sua eventuale trattazione, con gli usuali strumenti regolamentari di indirizzo), si bipartivano due possibili effetti: approvazione per legge dei programmi che «richiedono finanziamenti di natura straordinaria» (comma 3, lett. a); approvazione con decreto del Ministro della difesa (comma 3, lett. b) «se si tratta di programmi finanziati attraverso gli ordinari stanziamenti di bilancio, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze se tali programmi sono di durata pluriennale». Mentre la prima fattispecie era frutto di un evidente riguardo alla riserva di legge di cui all’art. 81 Cost., la seconda entrava nel proprium delle attività governative di esecuzione di leggi già vigenti: pur tuttavia, il citato comma 3 statuiva che «gli schemi di decreto di cui al periodo precedente sono trasmessi alle Camere per l’espressione del parere delle Commissioni competenti. I pareri sono espressi entro quaranta giorni dalla data di assegnazione. Decorso inutilmente il termine per l’espressione del parere, i decreti possono essere adottati. Il Governo, qualora non intenda conformarsi alle condizioni formulate dalle Commissioni competenti, ovvero quando le stesse Commissioni esprimano parere contrario, trasmette nuovamente alle Camere gli schemi di decreto corredati delle necessarie controdeduzioni per i pareri definitivi delle Commissioni competenti da esprimere entro trenta giorni dalla loro assegnazione. In tal caso, qualora entro il termine indicato le Commissioni competenti esprimano sugli schemi di decreto parere contrario a maggioranza assoluta dei componenti, motivato con riferimento alla mancata coerenza con il piano di impiego pluriennale di cui al comma 1, il programma non può essere adottato. In ogni altro caso, il Governo può procedere all’adozione dei decreti» (corsivo aggiunto).

Varie erano le criticità di questa previsione e, forse, era inevitabile che esplodessero a livello politico-istituzionale: è avvenuto dopo appena sei mesi, quando venne in discussione alla Camera la “mozione Marcon ed altri” per la cancellazione della partecipazione italiana al programma di realizzazione dell’aereo Joint Strike Fighter. Per ottenere la reiezione della mozione, il punto di mediazione interno alla maggioranza fu raggiunto – il 24 giugno 2013 all’aula della Camera – votando la mozione 1-00125: invocando al Parlamento la competenza a sindacare sulla coerenza dell’adozione dei programmi dei sistemi d’arma con l’evoluzione geopolitica (che, invece, nel comma 3 era una mera conformità alla relazione governativa del comma 1), la mozione proclamava «lo scopo di garantire al Parlamento di esercitare le proprie prerogative». In considerazione dell’indagine conoscitiva deliberata dalle commissioni competenti in funzione di tale sindacato, la Camera impegnava il Governo «relativamente al programma F35, a non procedere a nessuna fase di ulteriore acquisizione senza che il Parlamento si sia espresso nel merito, ai sensi dell’articolo 4 della legge 31 dicembre 2012, n. 244».

La trattazione della “sede consultiva su atti del Governo” veniva, grazie alla mozione, convertita in ostacolo politico-parlamentare alla prosecuzione del già finanziato programma F35: la forzatura era evidente anche rispetto alla semantica legislativa, perché la trasmissione del programma, secondo l’art. 536, comma 3, lett. b, attivava un sub-procedimento consultivo «salvo quanto disposto al comma 4 (e sempre che i programmi non si riferiscano al mantenimento delle dotazioni o al ripianamento delle scorte)». Qui subentra – in senso decisivo per valutarne l’acquiescenza o meno – l’esistenza di un interesse ad agire dei poteri che si assumono invasi: nella fattispecie, essi si espressero in una sede peculiare, di collegamento di tutta la verticale istituzionale che governa la politica militare della Repubblica, quale il Consiglio supremo di difesa (CSD).

Lo stesso codice dell’ordinamento militare aveva riconosciuto il ruolo del Consiglio supremo di difesa (art. 2 d.lgs 15 marzo 2010, n. 66), per l’esame dei «problemi generali politici e tecnici attinenti alla difesa nazionale» e per la determinazione dei criteri e la fissazione delle direttive «per l’organizzazione e il coordinamento delle attività che comunque la riguardano»: un ruolo la cui atipicità («è inoltre convocato, tutte le volte che se ne ravvisi la necessità») è statuita dall’art. 8, comma 2 del medesimo codice, salvaguardato dall’art. 2, comma 1 della citata l. 21 luglio 2016, n. 145.

Il 3 luglio 2013, dopo la convocazione del CSD sotto la presidenza del Capo dello Stato, fu diramato un comunicato del Quirinale assai esplicito nella ripulsa dell’atto di indirizzo parlamentare: primo, «si è rilevato come l’attuazione della legge 244/2012 debba riflettere indirizzi strategici»; secondo, «tale facoltà del Parlamento non può tradursi in un diritto di veto su decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’Esecutivo». Il Presidente Giorgio Napolitano volle così richiamare ciascun organo della Repubblica a esercitare le proprie funzioni nel rispetto del principio della separazione dei poteri. Quest’ultimo viene qui in rilievo in una doppia accezione: un Parlamento che non sia soddisfatto di come il Governo si stia conducendo, nella “normazione a cascata”, ha – in un sistema che, a differenza di quello francese, non conosce la “riserva di regolamento” – il rimedio ordinario di modificare la legge e disciplinare direttamente la res controversa; se poi l’assetto dei poteri, individuato dall’art. 1, comma 1, lett. a, l. 18 febbraio 1997, n. 25, è realmente di attuazione costituzionale, allora la ricognizione effettuata dal CSD riconosce un ruolo autonomo al Quirinale (ancor più che al Governo) e il Parlamento non può invaderla, pena un conflitto “giustiziabile” a Palazzo della Consulta.

La successiva baruffa mediatica con il vice-presidente della Camera (che non aveva mancato di rimbrottare anche i titolari delle presidenze dei due rami del Parlamento) è affidata alle note di colore di una decorsa stagione del populismo istituzionale: quello che qui interessa, come precedente parlamentare, è il monito a non intersecare i due piani dello strumento di indirizzo parlamentare (che poteva coacervarsi, sul modello del DEF, nella pianificazione governativa dei «programmi di ammodernamento e rinnovamento dei sistemi d’arma, delle opere, dei mezzi e dei beni direttamente destinati alla difesa nazionale») e quello di controllo sul corretto esercizio della delega (o dell’autorizzazione a emanare decreti attuativi). È intorno a questo pericolo, e alle modalità per prevenirlo, che potrebbe essere costruita una previsione legislativa che dovesse regolare – sottraendola alla soft law del diritto parlamentare – l’indicazione di “criteri generali” nell’ambito dei quali gli uffici del pubblico ministero predeterminino la selezione delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre.

 

5. Non è solo la “baruffa chiozzotta” sugli F35 a sconsigliare di lasciare alla disciplina di diritto parlamentare la predeterminazione dei criteri di selezione delle priorità nell’esame delle notizie di reato. È anche, e soprattutto, la fuoriuscita dallo stretto ambito del nesso fiduciario – per la presenza di poteri dello Stato ad esso estranei, a partire da quello del pubblico ministero, le cui attribuzioni riposano sugli artt. 109 e 112 Cost. – che sconsiglia l’atto di indirizzo: esso, nella sua formulazione classica di «impegna il Governo a… », rischierebbe di andare fuori centro, sia che si tratti di mozione che di risoluzione.

Anche quando una proposta di risoluzione – sotto il vigente regime delle comunicazioni del Governo sull’amministrazione della giustizia – si è dilungata sull’azione penale, il testo era inevitabilmente generico: l’atto 6-00027 del 20 gennaio 2010, a firma D’Alia ed altri, al § IV, a) dichiarava che «si impone, tuttavia, una riflessione sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, oggi sostanzialmente discrezionali». Confinata solo alle premesse, la considerazione “invasiva” era stata comunque posta ai voti e respinta, ma non dichiarata inammissibile dalla presidenza.

Una legge che dovesse regolare questo tipo di selezione potrebbe ben individuare – secondo il modello delle leggi citate – modalità di indirizzo parlamentare nei confronti del Governo; così come potrebbe ben essere riutilizzato il ricco compendio conoscitivo, messo a disposizione con la relazione annualmente oggetto delle comunicazioni del Governo, meglio dettagliando i dati riferiti all’attuazione dell’art. 132-bis disp. att. cpp e richiedendo che la relazione enunci le strategie organizzative per il rientro da scostamenti giudicati anomali o inaccettabili. Ma dovrebbe essere sempre salvaguardato ciò che attiene all’attività giurisdizionale e che (come già avvenuto per il codice penale militare di guerra, citato nella legge sulle missioni militari) è oggetto di riserva assoluta di legge: pena un vizio di legittimità costituzionale della legge che detta i criteri generali (ma anche un conflitto di attribuzione, in caso di sua attuazione mercé una statuizione parlamentare espressa in modo tale da alterare l’assetto tra poteri dello Stato), mai potrebbe un atto di indirizzo entrare nello specifico della giurisdizione (nella sua doppia versione di funzione requirente e funzione giudicante).

Semmai, una legge che consacrasse – anche per gli uffici di procura – quanto previsto dalla circolare Csm 9 luglio 2014 per gli uffici giudicanti, potrebbe trarne l’occasione per procedimentalizzare un monitoraggio degli effetti, del quale il Parlamento è di sicuro parte in causa, e non soltanto sotto il profilo finanziario. Facendo confluire nel citato Doc. IX anche una disamina dello stato dell’arte nei singoli uffici giudiziari, in riferimento all’esercizio del potere di selezione e agli effetti delle priorità indicate sulla durata dei procedimenti (e sulla improcedibilità, laddove l’istituto processuale dovesse essere introdotto anche da noi), l’atto di indirizzo potrebbe “orientare” l’amministrazione (della giustizia, ma anche le altre investite della prevenzione dei comportamenti socialmente pericolosi) a investire risorse (umane, finanziarie, investigative) in senso più “mirato”: si potrebbe anche indicare ai servizi di prevenzione, rieducazione e cura sul territorio l’ambito lasciato “scoperto” dalla persecuzione penale, indirizzando le pubbliche amministrazioni competenti a supplire – mediante un rafforzamento degli strumenti loro propri – alla minore probabilità di esercizio dell’azione penale.

Un possibile effetto indiretto, di diritto parlamentare, sarebbe anche quello di “riappropriazione” della materia da parte delle Commissioni permanenti: se anche si mantenesse – per l’espressione dell’atto di indirizzo – l’aulica (e, spesso, solo simbolica) sede di trattazione dell’assemblea per le comunicazioni di cui all’art. 86 ord. giudiziario, si potrebbe valorizzare l’istituto ispettivo già contemplato dai vigenti regolamenti parlamentari, e non solo in riferimento allo stato di attuazione delle leggi. Per il comma 2 dell’art. 46 RS, ad esempio, le Commissioni permanenti possono richiedere ai rappresentanti del Governo di riferire, anche per iscritto, in merito all’attuazione data a «ordini del giorno, mozioni e risoluzioni approvati dal Senato o accettati dal Governo». Si ristabilisce qui l’unitarietà teleologica dei tre atti di indirizzo politico da cui siamo partiti, al di là della loro diversa procedimentalizzazione e differente evoluzione storica: chiedere conto al Governo dell’impegno di cui è stato onerato e di cui il Parlamento, mercé il nesso fiduciario, ha titolo e ragione per investire il suo primo interlocutore istituzionale.

 

 

*  Il presente contributo è stato pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 7 ottobre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-crescente-procedimentalizzazione-dell-atto-parlamentare-di-indirizzo-politico).

1. Cfr. Senato della Repubblica, resoconto stenografico del 23 maggio 2012, allegato B, pp. 64 e 80. 

2. Sull’eterointegrazione dei regolamenti parlamentari, vds. R. Ibrido, L’uso dei precedenti da parte dei presidenti d’assemblea: il metodo storico-casistico di interpretazione del diritto parlamentare, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2012, www.osservatoriosullefonti.it/mobile-saggi/speciali/seminario-i-precedenti-nel-diritto-parlamentare/572-r-ibrido/file. 

3. Vds. la normativa contenuta nell’art. 3 l. n. 140/2003, che «può considerarsi di attuazione, e cioè finalizzata a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano processuale il disposto dell’art. 68, primo comma» della Costituzione: sent. 7-16 aprile 2004, n. 120.

4. Vds. la lettera trasmessa il 22 febbraio 2011 ai presidenti di assemblea e al Presidente del Consiglio, con cui il Presidente della Repubblica segnalava che l’inserimento nei decreti di norme non omogenee e «spesso» prive del carattere di straordinarietà e urgenza si poneva «in contrasto con i principi sanciti all’art. 77 della Costituzione e dall’articolo 15, comma 3, della legge di attuazione costituzionale n. 400 del 1988 recepiti dalle stesse norme dei regolamenti parlamentari» (corsivo aggiunto).