Magistratura democratica

La cd. “riforma Cartabia” e le trasformazioni impresse al giudizio di cognizione

di Andrea Natale

La riforma non stravolge le linee portanti del giudizio dibattimentale. Tuttavia, il momento dibattimentale si inserisce in un contesto procedimentale significativamente modificato. Le modifiche intervenute – “a monte” e “a valle” della fase del giudizio – finiscono necessariamente con l’influenzare la fisionomia del giudizio di cognizione, chiamando tutti gli attori processuali a un nuovo approccio su temi di assoluto rilievo, come la partecipazione al processo, l’organizzazione del giudizio, il metodo di ricerca della verità processuale, la decisione sull’imputazione e l’imposizione al colpevole della “giusta pena”. 

1. Le ragioni di una riforma / 2. La partecipazione delle parti al giudizio / 2.1. Cenni sul sistema di notificazione degli atti / 2.2. Cenni sul “nuovo” giudizio in absentia / 2.3. Cenni sulla partecipazione della persona offesa e del querelante al giudizio / 3. Prima del giudizio: udienza di comparizione predibattimentale (e richiami all’udienza preliminare) / 3.1. L’udienza di comparizione predibattimentale: disciplina dell’udienza, costituzione delle parti e questioni preliminari / 3.2. Igiene dell’imputazione / 4. Gli esiti dell’udienza di comparizione predibattimentale / 4.1. Le definizioni alternative al giudizio dibattimentale / 4.2. La sentenza di non luogo a procedere / 4.3. La fissazione dell’udienza per la prosecuzione del giudizio / 5. L’istruzione dibattimentale / 5.1. Ammissione delle prove e calendario del processo / 5.2. L’assunzione delle prove / 5.3. Le modifiche dell’imputazione / 6. La decisione e i riflessi sulla cautela / 7. Un cambio di occhiali

 

1. Le ragioni di una riforma

La riforma ha l’ambizione di porre rimedio ad alcune croniche criticità del nostro sistema penale[1]. Eccone alcune, limitando i riferimenti a quanto può interessare la fase dibattimentale: eccessiva durata dei processi; elevato numero di prescrizioni; scarso appeal dei riti alternativi; elevato numero di assoluzioni – non che l’assoluzione sia un fatto allarmante in sé, ovviamente; è uno dei possibili esiti del giudizio; esso diventa una criticità di sistema quando interessa circa la metà delle persone mandate a giudizio[2].

Per provare a rispondere a tali criticità, la riforma ha messo in campo alcuni rimedi. Senza pretese di completezza, limito qui il catalogo di interventi a quanto più da vicino interessa la fase dibattimentale (e quanto può renderla più efficiente): (i) si è prevista una semplificazione del sistema delle notificazioni e comunicazioni (privilegiando il canale telematico e responsabilizzando in modo molto significativo il difensore dell’imputato); (ii) si è inteso rafforzare l’apparato di garanzie volte ad assicurare la partecipazione (o l’assenza consapevole) dell’imputato al giudizio (intervenendo sulla disciplina del giudizio in assenza e introducendo la sentenza di improcedibilità ex art. 420-quater cpp); (iii) si è ampliato il perimetro delle possibilità di definizione del procedimento alternative alla celebrazione del dibattimento – con l’ampliamento delle possibilità di accesso ai riti alternativi; con l’ampliamento delle possibilità di definizione anticipata del procedimento con messa alla prova; con la accresciuta possibilità di dichiarare l’estinzione del reato (legata all’ampliamento del catalogo di reati perseguibili a querela e all’estinzione di alcune contravvenzioni per adempimento delle prescrizioni impartite dall’organo accertatore) – ; con l’innesto di percorsi di giustizia riparativa anche “dentro” il processo, con possibili riflessi sul suo esito; (iv) si è cercato di introdurre una serie di meccanismi funzionali a definire alcune questioni processuali in modo “più stabile” (ad esempio, per le questioni di competenza); (v) si è introdotta una nuova regola di giudizio per l’accesso al dibattimento (la discussa formula della ragionevole prognosi di condanna); (vi) si è introdotto un nuovo catalogo di pene sostitutive che possono limitare il numero di impugnazioni, ridurre il patologico fenomeno dei cd. liberi sospesi; (vii) si sono introdotti alcuni meccanismi che intendono favorire l’acquiescenza alle decisioni di primo grado inappellabili, se di condanna al lavoro di pubblica utilità sostitutivo; beneficiare di riduzioni di pena, se di condanna emessa all’esito di giudizio abbreviato non impugnato.

L’effetto – se tutti questi strumenti saranno davvero efficaci – dovrebbe essere, nelle ambizioni del riformatore, quello di ridurre la durata e il numero di dibattimenti da celebrare e, quantomeno negli auspici, il numero di impugnazioni.

Tutte le trasformazioni impresse al sistema processuale – a monte e a valle della fase del giudizio – fatalmente influenzano il momento dibattimentale e impongono a tutti gli attori processuali (giudici, pubblici ministeri, difensori, imputati e persone offese; ma non solo) un nuovo approccio (e nuove responsabilità).

 

2. La partecipazione delle parti al giudizio 

È di tutta evidenza che l’imprescindibile prerequisito perché un giudizio possa dirsi “giusto” è che, ad esso, possano partecipare tutte le parti coinvolte. Sono note le disfunzioni che hanno sino ad oggi afflitto il processo penale sotto il profilo dei meccanismi di coinvolgimento delle parti nel giudizio. 

Da un lato, il codice di rito ci consegnava un sistema di notificazioni “pre-moderno”, con ufficiali giudiziari, postini e polizia giudiziaria impegnati in estenuanti ricerche delle persone da citare a giudizio. Un sistema pre-moderno che generava spesso intoppi (con conseguenti doveri di rinnovazione delle notificazioni), dubbi interpretativi e che, nonostante ciò, non assicurava in modo adeguato il risultato che il sistema di notificazioni e comunicazioni è chiamato a raggiungere.

Dall’altro lato, il codice di rito ci consegnava una disciplina del processo in absentia che ha – dapprima e ripetutamente – condotto il nostro Paese alla sbarra, davanti alla Corte Edu per violazione dell’art. 6 della Cedu[3] e che – poi, dopo la riforma del giudizio in assenza introdotto con la legge n. 67/2014 – ha determinato dubbi interpretativi che hanno più volte reso necessario l’intervento delle sezioni unite[4].

Il legislatore ha inteso provare a risolvere gli aspetti disfunzionali del sistema previgente intervenendo su due versanti: da un lato, intervenendo sul sistema delle notificazioni; dall’altro lato, dando nuova fisionomia al processo in absentia. Si tratta di interventi complessi e densi di questioni interpretative che qui – per ragioni di sintesi – non possono che essere soltanto tratteggiati.

 

2.1. Cenni sul sistema di notificazione degli atti

Va anzitutto evidenziato che – come risulta chiaramente dalla lettura dell’art. 148 cpp – il legislatore ha inteso perseguire, come metodo privilegiato (sebbene non esclusivo) di notificazione degli atti, l’impiego di sistemi di notificazione telematica, capaci di offrire risposte certe sull’esito della notifica.

Sotto il profilo del sistema di notificazione degli atti in favore dell’imputato (limitando i cenni all’essenziale), il legislatore ha, anzitutto, attribuito centralità al momento di “primo contatto” tra persona sottoposta a indagini preliminari e la polizia giudiziaria o l’autorità giudiziaria. In quel momento di “primo contatto”, la persona sottoposta a indagini – informata, quando possibile, dell’oggetto delle indagini – sarà infatti chiamata a dichiarare o eleggere domicilio, o anche un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato (art. 161, comma 1, cpp). A quell’indirizzo – reale o virtuale – verranno notificati però solo gli atti introduttivi del giudizio (avviso di fissazione udienza preliminare, decreto di citazione a comparire al giudizio direttissimo, decreto di giudizio immediato, decreto di citazione all’udienza di comparizione predibattimentale, citazione per il giudizio di appello – art. 157-ter cpp)[5]. Tutti gli altri atti del procedimento penale verranno invece notificati mediante consegna al difensore di fiducia o di ufficio (art. 157-bis cpp). Ed è in questa prospettiva che la persona sottoposta a indagini – al momento del primo contatto con l’autorità procedente – deve essere avvertita: (i) della valenza dell’elezione o dichiarazione di domicilio (e della necessità di comunicare le successive modifiche del domicilio dichiarato o eletto – art. 161, comma 1, cpp); (ii) dell’onere di mantenere i contatti con il proprio difensore e di rendersi reperibile da questi (art. 161, comma 01, cpp).

È di tutta evidenza la semplificazione introdotta: le notificazioni in favore dell’imputato avverranno – nella stragrande maggioranza dei casi (art. 157-bis cpp) – mediante consegna al difensore, con notificazioni telematiche che assicureranno celerità di esecuzione e ragionevole sicurezza sul loro esito; solo per le notificazioni degli atti introduttivi (art. 157-ter cpp), invece, si dovrà procedere alle notificazioni in favore dell’imputato presso il domicilio dichiarato o eletto (che può anche essere telematico).

Ma è altrettanto evidente che l’innovazione introdotta ascrive oneri di particolare pregnanza ai protagonisti della vicenda: (i) la polizia giudiziaria e l’autorità giudiziaria dovranno assicurare effettività ai meccanismi informativi codificati, il che richiederà una somministrazione degli avvisi puntuale e predisposta in modo (e lingua) comprensibile alla persona sottoposta ad indagini; se la dichiarazione o elezione di domicilio è atto del procedimento penale (e sicuramente lo è), esso deve essere presidiato dalle garanzie (anche linguistiche) che l’ordinamento assicura a chi non è in grado di comprendere la lingua italiana (a pena di nullità della dichiarazione/elezione di domicilio, con le conseguenze sulla validità degli atti successivi che non è necessario qui ripercorrere); (ii) la persona sottoposta a indagini – a sua volta – avrà l’onere di “interessarsi” del procedimento penale che la vede coinvolta; non è più tratteggiata dal codice di rito come “complemento oggetto” del procedimento penale, ma è in esso coinvolta come soggetto e parte attiva (nei limiti in cui la persona sottoposta a indagini voglia essere parte attiva); (iii) i difensori – a loro volta – sono investiti di più pregnanti oneri di coltivazione della relazione professionale con il proprio assistito (nella misura in cui questi si renda diligentemente reperibile per il difensore).

Volendo dare un giudizio di sintesi: gli interventi sulle notificazioni sicuramente semplificano il sistema, ma, al tempo stesso, responsabilizzano i protagonisti processuali. E prassi negligenti possono determinare una diminuzione “secca” di garanzie per la persona sottoposta a indagini.

 

2.2. Cenni sul “nuovo” giudizio in absentia

Sotto il profilo della disciplina del processo in absentia, l’intervento riformatore coltiva obiettivi di rafforzamento delle garanzie per l’imputato, di semplificazione del sistema e, al tempo stesso, di deflazione processuale. Il legislatore coltiva l’obiettivo di assecondare – dandole esplicito riconoscimento normativo – l’idea di fondo che traspare da ripetuti arresti della giurisprudenza della Corte Edu[6], dalla normativa UE (direttiva comunitaria 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio) e dalla stessa giurisprudenza di legittimità: come recita l’art. 1, comma 7, lett. a della legge n. 134/2021, occorre assicurare che «il processo possa svolgersi in assenza dell’imputato solo quando esistono elementi idonei a dare certezza del fatto che egli è a conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza è dovuta a una sua scelta volontaria e consapevole». 

La novella interviene dunque modificando radicalmente la disciplina del processo in absentia. Trascurando le complesse questioni di diritto transitorio, si può qui tentare un quadro di sintesi: si conferma il dato (non controverso) per cui la regolarità delle notificazioni non necessariamente è indicativa della sussistenza dei presupposti per procedere in assenza (soprattutto, quando esse si sono perfezionate con modalità che surrogano la notificazione presso il domicilio dichiarato o eletto; cfr. art. 420-bis, comma 1, lett. a, cpp); si rende esplicito che la possibilità di procedere in assenza dell’imputato si àncora alla «prova» («risulta altrimenti provato») del fatto che l’imputato ha «effettiva conoscenza della pendenza del processo» (e non «del procedimento») e che la sua assenza è dovuta ad una scelta, che deve essere volontaria e consapevole (art. 420-bis, comma 2, cpp).

Riecheggiano – nelle parole usate dal legislatore – gli approdi interpretativi già raggiunti dalla giurisprudenza[7]; il che consente, per brevità, di rimandare a quelle analisi per la ricostruzione dei presupposti da assumere come base di decisione sul se procedere in assenza o meno.

Più interessante osservare quali sono le conseguenze tratteggiate dal legislatore in ragione dell’esito della valutazione sulla sussistenza dei presupposti per procedere in assenza.

Se non vi è «prova» del fatto che l’imputato sia a conoscenza della «pendenza del processo» o che la sua assenza non sia conseguenza di una scelta «volontaria e consapevole», il giudice pronuncia una «sentenza inappellabile di non doversi procedere». Una sentenza che impone un arresto all’azione penale la cui prosecuzione in tanto può essere obbligatoria (art. 112 Cost.) in quanto sia in grado di assicurare un’effettiva possibilità di esercitare il diritto di difesa (art. 24 Cost.). La sentenza di improcedibilità è una sentenza “in rito” e non si pronuncia sulla plausibilità o meno dell’ipotesi d’accusa (nemmeno per il vaglio dell’eventuale sussistenza di eventuali cause di proscioglimento ex art. 129 cpp; del resto, se funzionano i filtri collocati all’esito delle indagini preliminari, dovrebbe trattarsi di un’evenienza residuale). Essa assolve una funzione ricognitiva (l’esplicitazione delle ragioni per cui non si può procedere in assenza) e una funzione prescrittiva (con il mandato assegnato alla polizia giudiziaria di proseguire nelle ricerche dell’imputato sino a che non sarà spirato il termine di prescrizione). Laddove l’imputato sia rintracciato in tempo utile (cioè: prima dello spirare del termine di prescrizione), la sentenza assolverà anche una funzione informativa: la sentenza contiene, infatti, gli elementi necessari a informare l’imputato dell’accusa rivolta nei suoi confronti e contiene altresì una vocatio in iudicium (congegnata in modo invero piuttosto macchinoso), con l’avviso che – non comparendo – egli sarà giudicato in assenza (art. 420-quater, commi 2-4, cpp). Anche in questo caso è da ritenere necessario – dato che la sentenza contiene una vocatio in iudicium – che essa sia tradotta in lingua comprensibile a chi non comprende la lingua italiana. La sentenza di non doversi procedere è inappellabile (art. 420-quater, comma 1, cpp) e può essere revocata solo in caso di “rintraccio” dell’imputato, che rimetterà in moto la macchina giudiziaria (art. 420-sexies cpp). Tuttavia – una volta decorso il termine di prescrizione (il cui corso è sospeso nei limiti previsti dall’art. 159, ult. comma, cp)[8] – la sentenza diventerà irrevocabile.

Onde assicurare un contemperamento tra diritto di difesa, garanzie del giusto processo ed efficace tutela di alcune esigenze di carattere processuale (o di tutela delle esigenze cautelari), il legislatore ha opportunamente previsto che – sino a che non maturerà il termine di prescrizione – conserveranno efficacia le misure cautelari di carattere custodiale (le altre perderanno efficacia) e le misure cautelari reali (sequestri probatorio, preventivo e conservativo – art. 420-quater, comma 7, cpp); in pendenza del termine utile per il rintraccio dell’imputato, il giudice potrà assumere le prove urgenti (art. 420-quinquies cpp).

L’assetto così delineato coltiva l’ambizioso obiettivo di evitare di impegnare i complessi meccanismi del processo penale senza che vi sia l’effettiva certezza della “stabilità” della decisione che, all’esito del giudizio, potrebbe essere assunta. In assenza di tale certezza, si è ritenuto preferibile imporre un (momentaneo) arresto all’incedere dell’azione penale.

Laddove, invece, il giudice dell’udienza preliminare (o il giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale) ritenga la sussistenza dei presupposti per procedere in assenza dell’imputato (e laddove non vi sia una sentenza di non luogo a procedere o definizioni del giudizio alternative al dibattimento), il giudice indica «luogo, giorno e ora dell’udienza per la prosecuzione del processo davanti al giudice del dibattimento» (cfr. art. 429, comma 1, lett. f; vds. anche art. 554-ter, comma 3, cpp: «il giudice fissa per la prosecuzione del giudizio la data dell’udienza dibattimentale davanti ad un giudice diverso»). In tal caso – postulando un imputato assente autenticamente consapevole –, il legislatore non ha ritenuto necessario notificare tale rinvio (per la prosecuzione del processo o del giudizio) nelle forme “più garantite” codificate dall’art. 157-ter cpp.

Si è detto dell’intenzione del legislatore di assicurare stabilità della decisione assunta all’esito del giudizio (e quella di evitare la celebrazione di “dibattimenti” che, ex post, si rivelano inutili); essa – oltre che dalla disciplina della sentenza di improcedibilità – emerge da altre scelte compiute dal legislatore delegato.

Nel caso in cui il giudice abbia ritenuto la sussistenza dei presupposti per procedere in sua assenza e il giudizio di cognizione si sia concluso con sentenza, l’impugnazione potrà essere presentata solo in forza di uno specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza (art. 581-quater cpp). Il legislatore – con il pretendere uno specifico mandato ad impugnare rilasciato dopo la sentenza – intende, evidentemente, “blindare” la prova della conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato rimasto assente (e così evitare la celebrazione di giudizi di impugnazione potenzialmente esposti a rescissione). Nel caso non vi sia lo specifico mandato ad impugnare, la sentenza pronunciata nei confronti dell’imputato assente diventerà definitiva e potrà essere messa in esecuzione. Il rimedio per l’imputato che voglia dolersi della erroneità delle valutazioni compiute, in sede di cognizione, in ordine alla sussistenza dei presupposti per procedere in assenza sarà dato dalla possibilità di chiedere la rescissione del giudicato nelle forme e nei termini disciplinati dall’art. 629-bis cpp.

Si tratta di un assetto normativo estremamente delicato, che evidentemente responsabilizza al massimo grado i soggetti chiamati a valutare la (o ad offrire elementi di valutazione sulla) sussistenza dei presupposti per procedere in assenza. 

 

2.3. Cenni sulla partecipazione della persona offesa e del querelante al giudizio

Si premette che vengono qui trascurate le questioni relative alla partecipazione della vittima di reato nel processo che risultino legate al tema della giustizia riparativa, oggetto di altri contributi pubblicati in questo fascicolo.

La riforma ha introdotto altresì meccanismi processuali che intendono – da un lato – assicurare la tutela dei diritti delle vittime di reato[9] e – dall’altro lato – responsabilizzare la stessa persona offesa (tanto più nel caso sia il querelante), coinvolgendola in modo più pregnante nella vicenda giudiziaria. 

Si è, anzitutto, previsto che, quando la persona offesa propone querela, questa abbia l’obbligo di dichiarare o eleggere domicilio. L’art. 153-bis cpp stabilisce che il querelante, nella querela, abbia l’obbligo di dichiarare o eleggere domicilio per la comunicazione e la notificazione degli atti del procedimento. A tal fine, il querelante può dichiarare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

La previsione è funzionale ad agevolare le comunicazioni tra autorità giudiziaria e persona offesa dal reato, imponendo a quest’ultima un obbligo non particolarmente oneroso; ciò, da un lato, indubbiamente snellisce i meccanismi di comunicazione e ha intuitive ricadute sull’efficienza del sistema processuale; dall’altro lato, rende esplicita la volontà del legislatore di responsabilizzare la persona offesa che abbia sporto querela, nella prospettiva di renderla parte realmente attiva in un procedimento penale in cui l’ordinamento condiziona alla sussistenza e persistenza di un interesse della persona offesa la procedibilità dell’azione penale e la stessa punibilità dell’illecito. È da notare che – nel caso in cui il querelante non adempia tale obbligo legale – non si danno conseguenze sull’ammissibilità/validità della querela: da un lato, perché ciò sarebbe stato potenzialmente discriminatorio nei confronti di persone che – magari solo transitoriamente – non sono in grado (al momento della proposizione della querela) di dichiarare o eleggere domicilio; dall’altro lato, perché condizionare l’ammissibilità della querela – che ha anche natura di notizia di reato – all’assolvimento dell’obbligo di dichiarazione o elezione di domicilio avrebbe comportato il rischio di rendere impossibili approfondimenti investigativi da parte degli organi inquirenti (capaci, magari, di far emergere l’esistenza di reati procedibili d’ufficio).

La conseguenza del mancato assolvimento dell’obbligo di dichiarazione o elezione di domicilio da parte del querelante si riverbera pertanto sul piano delle modalità di successiva notificazione degli atti. Laddove il querelante non abbia dichiarato o eletto domicilio e non abbia un difensore o un idoneo recapito telematico, infatti, le notifiche avverranno mediante deposito dell’atto presso la segreteria o cancelleria dell’autorità giudiziaria procedente (art. 153-bis, comma 5, cpp).

E tale modalità semplificata di notificazione – che costituisce la conseguenza di un contegno processualmente poco diligente del querelante – si salda funzionalmente alla previsione delle conseguenze che si danno in caso di mancata comparizione del querelante all’udienza dibattimentale nella quale deve essere esaminato come testimone. Come noto, la mancata comparizione – quando ingiustificata – assume valore di remissione tacita di querela, con conseguente estinzione del reato.

Anche su tale versante, pertanto, si può leggere una sorta di filo rosso che informa molti aspetti della riforma del processo: da un lato, semplificazione delle modalità di comunicazione; dall’altro lato, impiego di mezzi che assicurino certezza dell’esito delle notificazioni; trasversalmente, però, ascrizione di oneri di diligenza a tutti i soggetti che, nel processo, sono chiamati a svolgere un ruolo.

E – quale corredo di tale responsabilizzazione – il legislatore ha opportunamente arricchito il catalogo delle informazioni che debbono essere somministrate alla persona offesa (cfr. artt. 90-bis, 90-bis.1 cpp, 142 disp. att. cpp).

 

3. Prima del giudizio: udienza di comparizione predibattimentale (e richiami all’udienza preliminare)

Come detto in premessa, uno degli strumenti immaginati dal legislatore per ridare efficienza al sistema processuale penale passa attraverso la riduzione del numero di dibattimenti da celebrare. 

In tale prospettiva, il legislatore ha arricchito il catalogo di strumenti di deflazione processuale collocati a monte della fase del giudizio (con l’ampliamento del catalogo di reati perseguibili a querela; con l’ampliamento delle ipotesi in cui è possibile archiviare il procedimento per particolare tenuità del fatto; con l’ampliamento delle ipotesi in cui è possibile definire il procedimento con messa alla prova; con l’introduzione di incentivi a definire il procedimento con riti alternativi prima del giudizio, e via seguitando).

Tra gli strumenti volti a contenere il numero di dibattimenti da celebrare figura, ovviamente, la modifica della regola di giudizio che il giudice è chiamato ad applicare in sede di udienza preliminare o in sede di udienza di comparizione predibattimentale. Il gup o il giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale potranno “aprire” le porte dell’aula del dibattimento solo nel caso in cui – sulla base degli atti disponibili al momento della valutazione – sia possibile formulare una «ragionevole prognosi di condanna». Di essa si tratterà in conclusione.

Le sedi giurisdizionali ove tali “filtri” all’accesso al giudizio dibattimentale saranno chiamati a operare sono due: da un lato, l’udienza preliminare (per i procedimenti in cui essa è necessaria); dall’altro lato (per i procedimenti a citazione diretta), la “nuova” udienza di comparizione predibattimentale.

Dell’udienza preliminare si tratta in altro contributo pubblicato in questo fascicolo. Qui ci si occuperà dell’udienza di comparizione predibattimentale.

Considerato che la parte statisticamente preponderante del carico giudiziario dibattimentale del nostro Paese è rappresentata da procedimenti per cui si procede con citazione diretta a giudizio (il cui catalogo è stato ulteriormente esteso)[10], è in quella sede che si misurerà l’efficacia dei meccanismi di razionalizzazione e deflazione introdotti con la riforma.

 

3.1. L’udienza di comparizione predibattimentale: disciplina dell’udienza, costituzione delle parti e questioni preliminari

L’art. 554-bis cpp detta la disciplina dell’udienza di comparizione predibattimentale, informandola a opportuna snellezza di forme.

Il procedimento si svolge in camera di consiglio (opportunamente, sotto due profili: non è ancora scontata l’evoluzione in giudizio dibattimentale con udienza pubblica, sì da assicurare la tutela dell’accusato dallo strepitus fori; si assicura celerità e snellezza di forme), con la presenza necessaria del pubblico ministero, dell’imputato e del suo difensore.

È in esordio all’udienza di comparizione predibattimentale – cui l’imputato è citato a comparire nelle forme “più garantite” codificate dall’art. 157-ter cpp – che il giudice dovrà verificare la sussistenza dei presupposti per eventualmente procedere in sua assenza; in difetto, emetterà sentenza di non doversi procedere ex art. 420-quater cpp (essendo la disciplina dell’assenza integralmente richiamata dall’art. 554-bis cpp).

Nel caso sia necessario procedere alla rinnovazione degli avvisi, delle citazioni, delle comunicazioni e della notificazione di cui dichiara la nullità, il giudice vi provvede direttamente, evitandosi così regressioni del procedimento[11].

Nel corso dell’udienza di comparizione predibattimentale deve – a pena di decadenza – costituirsi la parte civile (art. 79, comma 1, cpp). In relazione a tale ipotesi di decadenza potrebbe porsi un dubbio interpretativo: l’art. 79, comma 1, cpp impone la costituzione di parte civile in udienza preliminare o, quando essa manca – come è nel caso in esame –, «fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’articolo 484 o dall’articolo 554-bis, comma 2, c.p.p.», potrebbe indurre alla conclusione per cui sia possibile per la parte civile costituirsi in giudizio anche dopo l’udienza predibattimentale: l’uso della disgiuntiva «o» sembrerebbe porre su un piano di equivalenza i due momenti entro i quali imporre la costituzione a pena di decadenza. In senso contrario, si può però osservare che il dettato del successivo comma 3 dell’art. 554-bis cpp impone che le questioni indicate dall’art. 491, comma 1, cpp – e tra esse, come noto, figurano le questioni concernenti la costituzione di parte civile – «sono precluse se non sono proposte subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti». Il che sembra indicare in modo chiaro che – dopo il superamento della “barriera ideale” dettata dall’art. 491, comma 1, cpp (richiamato dall’art. 554-bis, comma 3) – non vi è più spazio per discutere della costituzione delle parti.

Nessuna modifica è stata invece introdotta alla disciplina della costituzione delle altre parti private (come, ad esempio, il responsabile civile): il che potrà creare qualche problema interpretativo o, comunque, seppur in un numero limitato di casi, frustrare le intenzioni acceleratorie perseguite dal legislatore.

Immediatamente dopo gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, debbono essere eccepite (o rilevate) le questioni preliminari indicate nell’art. 491, commi 1 e 2, cpp. Il catalogo è noto: si tratta delle questioni relative alla costituzione di parte civile, alla citazione o all’intervento del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e all’intervento degli enti e delle associazioni previsti dall’art. 91 (su questo tema, vds. supra); delle nullità indicate nell’art. 181, commi 2 e 3, cpp (nullità di atti relativi alle fasi precedenti o degli atti preliminari al dibattimento; sulle nullità concernenti il decreto che dispone il giudizio, vds. oltre); le questioni di competenza per territorio (art. 21, comma 2, cpp); le questioni relative all’omessa celebrazione dell’udienza preliminare (art. 550, comma 3, cpp); il difetto di attribuzioni del giudice monocratico (art. 33-quinquies cpp); le questioni concernenti il contenuto del fascicolo per il dibattimento; le questioni relative alla riunione o separazione dei giudizi (salvo che la possibilità di proporle sorga soltanto nel corso del dibattimento).

Il giudice è chiamato ad assumere decisioni nell’immediatezza: dette questioni sono decise immediatamente e – a mente del secondo periodo dell’art. 554-bis, comma 3, cpp – «non possono essere riproposte nell’udienza dibattimentale» (dato testuale che conforta l’osservazione sopra sviluppata sull’essere la costituzione di parte civile adempimento da curare a pena di decadenza nel corso dell’udienza predibattimentale).

Una nota sulla previsione del secondo periodo dell’art. 554-bis, comma 3, cpp. Il fatto che il giudice dell’udienza predibattimentale decida e che l’esito della decisione non possa essere rimesso in discussione dal giudice del dibattimento non determina una situazione priva di tutela: le decisioni sulle questioni preliminari potranno comunque essere oggetto di censura ai sensi dell’art. 586 cpp. Certo è che – in casi marginali – il giudice del dibattimento (ove non condivida le decisioni assunte dal giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale) – vivrà un qualche imbarazzo di coscienza a non potervi porre rimedio… ma, prevedibilmente, si tratterà di casi statisticamente marginali (ragionevolmente soccombenti rispetto alla necessità di cristallizzare tutte le questioni processuali prima che si giunga alla fase istruttoria).

In ordine alle questioni preliminari, è solo opportuno aprire un breve inciso su un dato di significativa novità inserito nel tessuto del codice di procedura penale. Si allude allo strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione per la decisione sulla competenza per territorio (art. 24-bis cpp). L’intenzione del legislatore è quella di limitare il rischio che una questione di competenza possa, una volta giunto il processo in sede di legittimità e ivi accolta, vanificare il lavoro svolto in ben due gradi di giudizio.

Con lo strumento del rinvio pregiudiziale, il legislatore intende proprio scongiurare che si determini questo secco spreco di risorse umane e di tempo. L’art. 24-bis cpp prevede, pertanto, che entro il termine previsto dall’art. 491, comma 1, cpp il giudice (d’ufficio o su istanza di parte) possa rimettere alla Corte di cassazione la decisione sulla questione concernente la competenza per territorio. Poche notazioni sul tema.

Il giudice non ha il dovere di rimettere la questione di competenza alla Corte di cassazione; nel caso la questione gli sembri sufficientemente chiara, potrà “fare da sé” e decidere autonomamente. Nel caso la questione sia stata eccepita da una parte e il giudice abbia “fatto da sé”, decidendo senza investire la Corte di cassazione, la questione di competenza non potrà comunque essere riproposta (se non in un caso: quando la parte che ha eccepito l’incompetenza per territorio ha contestualmente chiesto la rimessione della decisione alla Corte di cassazione; art. 24-bis, comma 7, cpp). 

Nel caso il giudice rimetta – d’ufficio o su istanza – la questione sulla competenza per territorio alla Corte di cassazione, il processo non sarà comunque sospeso (nulla dicendo sul punto l’art. 24-bis cpp); si tratta di soluzione che, del resto, risulta coerente con l’esplicita previsione legislativa per i casi di conflitto di competenza (cfr. art. 30, comma 3, cpp). La decisione della Corte di cassazione sarà ovviamente vincolante nel seguito del giudizio (art. 25 cpp). Laddove il processo (non sospeso) sia proseguito in pendenza della decisione della Corte di cassazione e questa abbia poi dichiarato l’incompetenza del giudice procedente, le prove acquisite conservano comunque efficacia, quantomeno nei limiti previsti dall’art. 26 cpp.

 

3.2. Igiene dell’imputazione

La seconda funzione che il legislatore ha attribuito all’udienza di comparizione predibattimentale è quella legata alla necessità di cristallizzare in modo il più stabile possibile il perimetro del giudizio. L’esigenza di “definire l’oggetto del giudizio” assolve diverse funzioni: anzitutto, una funzione di garanzia per l’accusato, essendo suo diritto confrontarsi e contraddire con una imputazione conforme alle prescrizioni dell’art. 552, comma 1, lett. c; in secondo luogo, l’esatta definizione del perimetro dell’imputazione (in punto di fatto e in punto di diritto) previene il rischio che, all’esito del giudizio, possano rendersi necessari provvedimenti di restituzione atti al pubblico ministero ex art. 521, comma 2, cpp; in terzo luogo, si persegue l’obiettivo di evitare che si determini durante il dibattimento la necessità di procedere a modifiche dell’imputazione ai sensi degli artt. 516 e 517 cpp (con l’allungamento dei tempi processuali che ne consegue).

Di qui gli interventi dettati dall’art. 554-bis, commi 5-7, cpp relativi alla formulazione dell’imputazione.

Il comma 5 e il comma 6 – seppure presentino analogie di disciplina (in uno con delle diversità) – hanno ad oggetto fenomeni diversi. 

L’art. 554-bis, comma 5, cpp considera l’ipotesi in cui – nell’imputazione – il fatto non sia enunciato «in forma chiara e precisa, con indicazione delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge»; come noto, si tratta di una nullità che riguarda il decreto che dispone il giudizio (art. 552, comma 1, lett. c, cpp). A differenza delle altre ipotesi di nullità che riguardano il decreto che dispone il giudizio – da eccepire entro i termini previsti dall’art. 491, comma 1, cpp – per tale specifica ipotesi di nullità, il legislatore ha previsto una disciplina ad hoc: in tal caso, il giudice anche d’ufficio, sentite le parti, invita il pubblico ministero a riformulare l’imputazione. Si tratta di una cristallizzazione normativa del metodo “dialogico” già caldeggiato dalla giurisprudenza di legittimità a partire dalla nota decisione delle sezioni unite Battistella (n. 5307/2007). Si badi: l’iniziativa può essere anche officiosa, ma, ovviamente, il giudice deve sollecitare – sul punto – il contraddittorio delle parti. Il superamento del vizio di nullità – in coerenza con la fisionomia del processo accusatorio (e del rito a citazione diretta in particolare) – è legata a un’iniziativa del pubblico ministero che, laddove condivida i rilievi del giudice dell’udienza predibattimentale, provvede a « riformulare l’imputazione », sanando così il vizio dell’originario atto d’accusa. Ove l’organo requirente non provveda (magari ritenendo l’imputazione sufficientemente chiara e precisa), il giudice, a questo punto, dichiara con ordinanza la nullità dell’imputazione e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero.

L’art. 554-bis, comma 6, cpp disciplina invece un fenomeno diverso, prossimo al tema delle modifiche dell’imputazione: nel caso considerato dal comma 6, non ci si trova di fronte a un’imputazione nulla – per mancata esposizione del fatto in forma chiara e precisa –, ma a un’imputazione che, per qualche suo aspetto, il giudice (che ha a sua disposizione il fascicolo del pm) ritiene non collimante con gli atti. Anche in questo caso, il giudice abbandona il ruolo di passivo spettatore e – anche di ufficio, seppur stimolando il contraddittorio delle parti – sollecita il pubblico ministero «ad apportare le necessarie modifiche» (anche in questo caso si positivizza il metodo dialogico tracciato in via pretoria a partire dalla sentenza delle sezioni unite n. 5307/2007). Anche in questo caso il dominus della modifica dell’imputazione resta il pubblico ministero – si tratta, nella sostanza, dello “sdoganamento” positivizzato, delle modifiche all’imputazione cd. patologiche (poiché fondate non su nuove emergenze, ma su atti già presenti nel fascicolo del pubblico ministero). 

Anche in questo caso, ove l’organo requirente non “riformuli” l’imputazione, si provvederà alla restituzione degli atti al pm.

Nel caso, invece, che il pubblico ministero provveda alla riformulazione dell’imputazione, si pone il tema della contestazione dell’imputazione riformulata all’imputato. Nessun problema se egli è presente (in aula o mediante collegamento a distanza); se, invece, egli non è presente, allora il verbale contenente la modifica dell’imputazione deve essere notificato all’imputato (nelle forme ordinarie, ex art. 157-bis cpp e non in quelle più garantite previste dall’art. 157-ter cpp).

Se a seguito di modifica dell’imputazione sorgono questioni sul difetto di attribuzioni del giudice monocratico, o sulla necessità di udienza preliminare, l’imputato presente dovrà formulare immediata eccezione sul punto; nel caso l’imputato sia non presente, invece, l’eccezione dovrà essere sollevata alla successiva udienza prima del compimento di ogni altro atto (art. 544-bis, comma 7, cpp).

La disciplina dettata dai commi 5-7 merita due ulteriori – per quanto brevi – notazioni.

C’è un’asimmetria di disciplina tra le ipotesi disciplinate dal comma 5 (riformulazione dell’imputazione nulla, per cui non è prevista la notifica del verbale in favore dell’imputato assente) e le ipotesi del comma 6 (modifica dell’imputazione per non aderenza della stessa agli atti; modifica da notificare all’imputato non presente). Si potrebbe immaginare di applicare le garanzie informative previste dall’art. 554-bis, comma 6, secondo periodo, cpp anche alle ipotesi disciplinate dal comma 5; si tratta di ipotesi forse anche sostenibile; essa, però, dal punto di vista testuale e sistematico – data la formulazione e collocazione delle garanzie disegnate dal comma 6 – risulta decisamente problematica. Ci si può limitare qui a segnalare questa asimmetria di disciplina, affidando agli interpreti di vagliarne la ragionevolezza.

In secondo luogo, si deve osservare che – in caso di modifica dell’imputazione (ai sensi del comma 6) – non è prevista, in funzione evidentemente acceleratoria, la possibilità per le parti private di ottenere un termine a difesa (come invece prevede l’art. 519 cpp, in caso di modifica dell’imputazione).

La mancata possibilità di poter usufruire di un termine a difesa renderà necessaria un’accurata riflessione sotto il profilo della ragionevolezza del diverso regime che si ha in caso di modifiche dell’imputazione ex art. 519 cpp e di modifiche dell’imputazione ex art. 554-bis, comma 6, cpp: infatti, se in udienza predibattimentale è escluso che il termine a difesa possa rivelarsi funzionale alla richiesta di nuove prove, è però certo che esso potrebbe essere funzionale per ben ponderate riflessioni dell’imputato sull’opportunità o meno di avanzare richiesta di definizione del procedimento con riti alternativi a fronte della modifica dell’accusa[12].

 

4. Gli esiti dell’udienza di comparizione predibattimentale

L’art. 554-ter cpp delinea – anche icasticamente – la funzione di “filtro” dell’udienza predibattimentale: il comma 1 disciplina la sentenza di non luogo a procedere; il comma 2 considera la definizione del giudizio con riti alternativi; il comma 3 declina l’ipotesi che – negli auspici del riformatore – dovrebbe assumere carattere quasi residuale (ossia: la prosecuzione del giudizio davanti al giudice dibattimentale).

 

4.1. Le definizioni alternative al giudizio dibattimentale

Partendo dalle definizioni processuali con riti alternativi, si deve anzitutto evidenziare che le richieste di definizione con riti alternativi (patteggiamento, giudizio abbreviato, sospensione del processo con messa alla prova, oblazione) debbono essere formulate a pena di decadenza entro il termine previsto dall’art. 554-ter, comma 2, cpp, cioè prima della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere.

L’estensione delle ipotesi in cui l’imputato potrà ottenere la sospensione del processo con messa alla prova promette effetti di deflazione processuale, così come altri interventi effettuati sulla disciplina del patteggiamento e del giudizio abbreviato.

Con riferimento all’applicazione pena su concorde richiesta delle parti, si osserva che tale rito risulterà più appetibile in ragione dell’ampliamento del catalogo di benefici ad esso conseguenti.

Con riferimento al giudizio abbreviato, potrà rivelarsi particolarmente incisiva – in chiave di deflazione del dibattimento – la modifica apportata all’art. 438, comma 5, cpp in materia di abbreviato condizionato: esso dovrà essere ammesso quando l’integrazione probatoria sia «necessaria» e se «il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale». I termini di confronto – rispetto al giudizio abbreviato condizionato previgente – sono significativamente modificati: ieri, la necessità dell’approfondimento istruttorio e la compatibilità con le finalità di economia processuale tipiche del rito; oggi, invece, una valutazione dell’economia processuale che si potrà realizzare in caso di ammissione del giudizio abbreviato condizionato (il che - si osserva per inciso - imporrà, però, al giudice una doppia prognosi: una sulla possibile entità dell’impegno istruttorio di un futuro dibattimento, in un momento in cui ancora non sono note le richieste di prova delle parti; l’altra sul risparmio che il giudizio abbreviato condizionato potrebbe assicurare). In ogni caso, è da ritenere che la modifica delle condizioni di ammissione del giudizio abbreviato potrà ridurre il numero di dibattimenti da celebrare, concentrando l’attività di assunzione di prove costituende a ciò che davvero è utile e necessario acquisire nel contraddittorio delle parti. Esempio: se in un dibattimento dovessero essere esaminati dieci testi (otto dei quali, però, chiamati a deporre su circostanze non particolarmente controverse), è evidente che l’assunzione di due sole testimonianze (su circostanze che, invece, l’imputato ritiene controverse e intende sottoporre a contraddittorio pieno) realizza un’economia processuale. Ove presa sul serio, l’indicazione del legislatore in tema di giudizio abbreviato condizionato potrà realizzare un’autentica deflazione senza imporre gravose compressioni del diritto al contraddittorio.

È inoltre il caso di aggiungere che tanto il giudizio abbreviato, quanto il patteggiamento contemplano la possibilità che – con tali sentenze – si debbano irrogare all’imputato delle pene sostitutive. 

In questo caso – quando non è possibile decidere immediatamente – potrà trovare applicazione lo schema bifasico tratteggiato dall’art. 545-bis cpp[13]. Con specifico riferimento al patteggiamento e all’applicazione di pene sostitutive, sebbene siano state anche ventilate opinioni contrarie[14], sembra preferibile ritenere che il combinato disposto degli artt. 448, comma 1-bis, e 545-bis, comma 2, cpp autorizzi la possibilità di proporre al giudice dell’udienza predibattimentale una prima ipotesi di accordo sull’applicazione della pena sostitutiva e, quindi, all’esito degli approfondimenti effettuati ex art. 545-bis, comma 2, cpp, “perfezionare”, modificare e perfino abortire il progetto di accordo inizialmente prospettato nella “prima” udienza. Del resto, il progetto di accordo formulato alla “prima” udienza – e prima degli approfondimenti istruttori – non poteva che essere un accordo delineato in termini “generali”[15]. Sembra dunque preferibile ritenere che – sino a che il giudice non abbia recepito l’accordo – ciascuna delle parti possa modificare la propria originaria posizione, revocando il consenso inizialmente manifestato o adoperandosi per stipulare un nuovo accordo. A quel punto, il giudice potrà rigettare la richiesta (con le conseguenze delineate dall’art. 448, comma 1, cpp) o ratificare l’accordo, applicando la pena sostitutiva. 

 

4.2. La sentenza di non luogo a procedere

Laddove il processo non sia stato definito con riti alternativi, il giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale si troverà a dover decidere su un’alternativa “secca”: o emissione di una sentenza di non luogo a procedere o fissazione di un’udienza per la prosecuzione del giudizio davanti al (diverso) giudice del dibattimento.

La sentenza di non luogo a procedere è dovuta in presenza delle consuete cause di proscioglimento: si allude alle cause di proscioglimento “in rito”, di norma relative alla (in senso lato) procedibilità dell’azione penale (per cause originarie o sopravvenute)[16] e alle consuete cause di proscioglimento nel merito (tra esse, anche l’assoluzione per essere il fatto non punibile per particolare tenuità ex art. 131-bis cp).

Anche la gerarchia delle formule di proscioglimento nel merito deve essere interpretata in modo coerente con la giurisprudenza tradizionale (che accorda priorità alle formule più “liberatorie”).

A tali prescrizioni – che poco aggiungono al sistema – si associa l’ulteriore precisazione contenuta nell’ultimo periodo dell’art. 554-ter, comma 1, cpp: «il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna».

È il caso di notare che si tratta della stessa regola di giudizio che deve essere seguita per l’archiviazione del procedimento pendente in indagini preliminari e che deve essere perseguita per l’emissione di sentenza di non luogo a procedere in udienza preliminare. 

Il riferimento alla ragionevole previsione di condanna intende superare la tradizionale interpretazione che la giurisprudenza aveva dato della regola di giudizio dell’udienza preliminare (sull’idoneità degli elementi raccolti a sostenere l’accusa in giudizio), interpretazione che postula che il proscioglimento in udienza preliminare possa trovare giustificazione solo all’esito di una valutazione che – ammoniva la giurisprudenza di legittimità – deve soffermarsi su valutazioni di ordine squisitamente processuale (la sostenibilità dell’accusa) e non di merito (la plausibilità o meno dell’ipotesi accusatoria). Si tratta di un orientamento giurisprudenziale consolidato e solo raramente messo in discussione[17].

Il riferimento alla ragionevole prognosi di condanna[18] impone – al pm prima e al giudice predibattimentale poi – di operare «una valutazione prognostica ragionevole sul risultato dell’azione»[19]

Non ci si può soffermare, in questa sede, sul valore sistematico di tale importante novità legislativa. Su essa, peraltro, sarà la giurisprudenza a trovare punti di equilibrio capaci di contemperare le esigenze di rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale con quelle di sostenibilità di tale principio (in termini di limitazione dei processi celebrati nei confronti di persone destinate a essere assolte, con conseguente sovraccarico giudiziario). Sarà inevitabilmente la prassi giurisprudenziale a dare corpo e interpretazione alla mutata regola di giudizio. Del resto – scriveva Franco Cordero, a proposito del «banale americanismo» della colpevolezza «al di là di ogni ragionevole dubbio», introdotto nel 2006 – che «la misura della probabilità sufficiente alla condanna non è codificabile, meno che mai in numeri: tipico argomento da clinica processuale; rende pessimi servizi il legislatore che vi metta becco»[20]

Con riferimento alla disciplina dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere emessa all’esito dell’udienza di comparizione predibattimentale, non si presentano novità particolarmente degne di nota. Il legislatore delegato ha infatti disegnato la disciplina sostanzialmente ricalcando la falsariga dell’attuale disciplina dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere emessa dal gup all’esito dell’udienza preliminare. Si pongono, pertanto, temi già largamente esplorati dalla giurisprudenza.

Con riferimento ai presupposti per emettere sentenza di non luogo a procedere, si debbono affrontare poche ulteriori questioni che, però, assumono rilievo sul piano dei principi coinvolti. 

Sebbene gli artt. 554-bis e 554-ter cpp non lo esplicitino, è da ritenere che – sul tema della ragionevole prognosi di condanna ai fini dell’emissione della sentenza di non luogo a procedere – le parti debbano interloquire, rassegnando le rispettive conclusioni. Una diversa interpretazione – pur trapelata in alcune opinioni circolate sul punto – sarebbe davvero singolare: ipotizzare che il tema della ragionevole prognosi di condanna possa non essere oggetto di discussione determinerebbe il singolare caso in cui un’udienza a partecipazione necessaria delle parti – con le parti che debbono poter interloquire su questioni preliminari et similia – vedrebbe quelle stesse parti rimanere silenti di fronte a uno dei temi cruciali che l’udienza predibattimentale è chiamata ad affrontare. Irragionevole e, molto probabilmente, lesivo del diritto delle parti al contraddittorio.

Va poi considerato un altro tema, di particolare delicatezza sul piano dei principi implicati. La regola di giudizio della «ragionevole prognosi di condanna» è la stessa utilizzata dal legislatore per indicare i casi in cui disporre l’archiviazione del procedimento pendente in indagini preliminari e che deve essere utilizzata per l’emissione di sentenza di non luogo a procedere in udienza preliminare.

Data questa premessa, è inevitabile registrare una vistosa asimmetria: allorché sono chiamati a valutare al metro della regola di giudizio della ragionevole previsione di condanna, il gip (per le richieste di archiviazione) e il gup (per valutare la sussistenza di ragioni per prosciogliere l’imputato in udienza preliminare) hanno una qualche possibilità di interferire sulla cd. piattaforma probatoria: il gip può respingere la richiesta di archiviazione, indicando le «ulteriori indagini» che ritenga «necessarie» (art. 409, comma 4, cpp); il gup, per parte sua, può: 1) emettere ordinanza con cui, rilevata l’incompletezza delle acquisizioni sino ad allora raccolte, fissa un termine per il compimento di ulteriori indagini (art. 421-bis cpp), ovvero, 2) provvedere direttamente all’«assunzione di nuove prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere» (art. 422 cpp). Viceversa, il giudice dell’udienza predibattimentale non ha alcuna possibilità di interferire con il perimetro degli atti da porre a sostegno della decisione. Il che – nel caso non siano state avanzate richieste di definizione con rito alternativo – pone il giudice dell’udienza predibattimentale di fronte a un’alternativa secca: emettere sentenza di non luogo a procedere oppure far proseguire il giudizio (anche quando la prognosi di condanna appare tutt’altro che ragionevole). Il tema – all’evidenza – è molto delicato e denso di implicazioni di rilievo costituzionale: il controllo del giudice sull’eventuale inazione del pubblico ministero (in questo caso manifestatasi con un’azione penale poco curata nel momento inquirente) costituisce uno dei fattori di presidio dell’effettività del precetto scolpito nell’art. 112 Cost. Il fatto che il giudice dell’udienza predibattimentale sia l’unica figura giurisdizionale privata di questa possibilità di controllo non può che suscitare qualche riserva.

 

4.3. La fissazione dell’udienza per la prosecuzione del giudizio 

Nel caso in cui – nel corso dell’udienza di comparizione predibattimentale – non vengano formulate richieste di definizione con riti alternativi né vi sia il proscioglimento per assenza di una ragionevole prognosi di condanna, il giudice non potrà che disporre la “prosecuzione del giudizio”, fissando udienza davanti a un “giudice diverso”.

La previsione per cui il giudice del dibattimento debba essere «diverso» da quello che ha celebrato l’udienza predibattimentale (e che, dunque, ha formulato la ragionevole prognosi di condanna) è, sul piano dei principi, del tutto condivisibile. Non si può tuttavia non evidenziare – ancora una volta – il fatto che una simile previsione farà sorgere – soprattutto nei tribunali di piccole dimensioni – serie criticità sotto il profilo organizzativo. Esse sono state efficacemente e crudamente messe in luce da R. Ianniello, in occasione del commento alla legge delega pubblicato su questa Rivista[21], e imporranno di adottare importanti accorgimenti organizzativi da parte di chi, dovendo distribuire le risorse all’interno dei tribunali, ha la responsabilità di dirigere gli uffici giudiziari.

Da segnalare una piccola questione anche se, verosimilmente, il suo impatto pratico sarà prossimo allo zero. La prescrizione normativa sulla necessaria diversità del giudice dibattimentale rispetto a quello che in sede predibattimentale ha formulato una prognosi “pregiudicante” (la ragionevole prognosi di condanna) è di doverosa osservanza (art. 124 cpp); tuttavia, la sua (eventuale) violazione non sembra assistita da una sanzione: il caso non rientra tra quelli di incompatibilità testuale (art. 34 cpp) né sembra riconducibile a una delle ipotesi in cui il giudice è ricusabile (art. 37 cpp). Eppure, il caso presenta serie analogie con quelli che, viceversa, sono incontrovertibilmente ritenuti casi di incompatibilità. Si tratta, probabilmente, di una svista del legislatore delegato. Non resta dunque che segnalare la lacuna, evidenziando che, in caso di mancato rispetto della regola sulla necessaria diversità del giudice dibattimentale rispetto a quello predibattimentale, non si potrà che sollevare incidente di legittimità costituzionale, evocando come parametri costituzionali potenzialmente compromessi – ricavabili dalle precedenti decisioni della Consulta – gli artt. 3, 24, comma 2, e 111, comma 2, Cost.[22].

La scelta del legislatore di concepire il dibattimento come “prosecuzione” dell’udienza predibattimentale ha un effetto di semplificazione non marginale, poiché solleva dall’onere di dovere nuovamente procedere a notificazioni e ricerche dell’imputato. Non si applica dunque l’art. 157-ter cpp; nemmeno si allude alla necessità di notificare il decreto di prosecuzione all’imputato non presente all’udienza predibattimentale (nemmeno ai sensi dell’art. 157-bis cpp). Non si tratta di una “diminuzione” di garanzie per l’imputato. Esse sono compiutamente assicurate “a monte” dal rafforzamento delle modalità di notifica dell’atto introduttivo dell’udienza predibattimentale e dal più rigoroso vaglio imposto al giudice nel valutare la sussistenza dei presupposti per procedere in assenza dell’imputato.

Nel fissare l’udienza dibattimentale, il giudice dell’udienza predibattimentale trasmetterà al giudice deputato alla celebrazione dell’istruzione dibattimentale il fascicolo del dibattimento (già formato dal pm), restituendo invece il fascicolo del pubblico ministero all’organo requirente (art. 554-ter, comma 3, cpp). L’art. 554-ter, comma 4, cpp prevede un termine dilatorio non inferiore a venti giorni tra la data del provvedimento di fissazione dell’udienza dibattimentale e l’udienza stessa. 

Nel lasso di tempo compreso tra l’udienza predibattimentale e quella dibattimentale, il giudice del dibattimento potrà, laddove se ne presentino le condizioni, adottare i provvedimenti previsti dall’art. 469 cpp[23].

Nel lasso di tempo intercorrente tra udienza predibattimentale e udienza dibattimentale, le parti già costituitesi nell’udienza predibattimentale hanno facoltà di depositare le liste testi previste dall’art. 468 cpp.

 

5. L’istruzione dibattimentale

Una volta “superato” il filtro dell’udienza preliminare o dell’udienza predibattimentale, trovano applicazione le regole dettate dal codice di procedura per la celebrazione del dibattimento (art. 470 ss. cpp; si evidenzia che esse si applicano anche al procedimento introdotto con citazione diretta ex art. 552 cpp, in forza della previsione dettata dall’art. 559 cpp). Le modifiche che interessano l’istruzione dibattimentale – dal punto di vista quantitativo – non sono particolarmente numerose. 

 

5.1. Ammissione delle prove e calendario del processo

Seguendo il filo cronologico lungo il quale si dipanano le varie scansioni processuali, occorre anzitutto evidenziare che risulterà notevolmente semplificata la fase che riguarda gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (in larga parte già decisi in udienza preliminare o in udienza predibattimentale e da espletare per lo più nell’ipotesi di dibattimento che si “apre” a seguito di emissione di decreto che dispone il giudizio immediato).

Sicché, al giudice dibattimentale non resterà che aprire il dibattimento e raccogliere le richieste di prova.

Il legislatore è intervenuto sul tema modificando l’art. 493 cpp e prevedendo che, nel formulare le richieste di prova, le parti debbano offrire al giudice («illustrare») gli argomenti per cui esse possono essere considerate ammissibili ai sensi degli artt. 189 e 190 cpp. Si è paventato che la riforma possa rappresentare una reintroduzione della (abrogata) «esposizione introduttiva». In realtà tale timore non sembra condivisibile: l’enfasi posta dal legislatore sullo stretto perimetro consegnato alle parti per illustrare le richieste di prova (esclusivamente sull’ammissibilità) sembra scongiurare i timori di chi paventa la surrettizia reintroduzione della «esposizione introduttiva», con costituzione di una posizione di “svantaggio” per le parti private e con rischio di pregiudicare la necessità di «mantenere il giudice psichicamente neutrale». A ben vedere, dunque, la novella si limita a responsabilizzare le parti nella fase di formulazione delle richieste di prova (nella prassi formulate in modo stancamente rituale); ciò al fine di consegnare al giudice strumenti che gli consentano di provare a governare sin dall’inizio l’istruzione dibattimentale, nella prospettiva di comprendere quanto – nel perimetro tracciato dalle parti processuali – sia davvero rilevante per la dimostrazione dei temi di prova e quanto, viceversa, sovrabbondante o, peggio, non pertinente. Ove ciò avvenisse davvero, potrebbero esservi intuitive ricadute positive sui tempi processuali. 

Una volta assunte le decisioni sulle richieste di prova, il giudice ha la possibilità di avere un quadro di quale potrà essere l’impegno che l’istruzione dibattimentale comporterà.

E qui viene in rilievo una seconda modifica impressa alla disciplina del dibattimento. Il legislatore, modificando l’art. 477 cpp, ha previsto che il giudice «dopo la lettura dell’ordinanza con cui provvede sulle richieste di prova, sentite le parti, stabilisce il calendario delle udienze, assicurando celerità e concentrazione e indicando per ciascuna udienza le specifiche attività da svolgere».

Si tratta di previsione che recepisce buone prassi già in uso presso quegli uffici che sono nelle materiali condizioni di metterle in campo. Si tratta, dunque, di una modifica che si limita a modificare la qualità di un provvedimento organizzativo adottato dal giudice ad inizio dibattimento che, originariamente indicato come eventuale, diventa oggi l’esercizio di un dovere di organizzazione del giudizio da parte del giudice. La norma non pone particolari questioni interpretative. Ci si limita ad osservare che non sembrano previste sanzioni processuali per il caso di mancata calendarizzazione del giudizio, né sono esplicitate conseguenze nel caso in cui – fissato un calendario – il giudice poi non lo rispetti. Al netto dell’ovvia considerazione in base alla quale le prescrizioni di legge debbono essere rispettate (art. 124 cpp), è ragionevole interrogarsi sulle possibili conseguenze derivanti dalla deviazione dal calendario fissato. Il principio di tassatività delle cause di nullità (art. 177 cpp) sembra escludere che possano determinarsi vizi per i casi di mancato rispetto del programma originariamente calendarizzato, a meno che non si ritenga possibile ricondurre il mancato rispetto del calendario di udienza con la programmazione delle attività da svolgere a un’ipotesi di mancato rispetto dei diritti di assistenza dell’imputato e del suo difensore, sussumibile nel perimetro applicativo dell’art. 178, comma 1, lett. c, cpp. Quello appena segnalato è un dato problematico che – in questa prima lettura – ci si permette di consegnare, senza la pretesa di offrire risposte.

 

5.2. L’assunzione delle prove

Molto si è discusso – in concomitanza con la pandemia, prima, e con i commenti sulla legge delega, poi – in ordine alla prevista possibilità di assumere prove di natura dichiarativa mediante esame a distanza[24]. Orbene, con l’introduzione del comma 2-bis nel corpo dell’art. 496 cpp, è oggi previsto che il giudice possa disporre, «con il consenso delle parti, che l’esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle persone indicate nell’articolo 210 e delle parti private si svolga a distanza». 

Si tratta, evidentemente, di un’innovazione che non sembra pregiudicare l’oralità e l’immediatezza nell’assunzione della prova, né compromettere il diritto a esercitare il contraddittorio nell’assunzione della prova; essa, poi, consentirà di ridurre i disagi per molte persone che oggi – per rendere una testimonianza (magari breve) – si trovano costrette ad attraversare l’Italia, con intuitivi disagi e costi. 

Tralasciando le questioni tecniche (pur rilevanti), si svolgono qui solo poche notazioni: è evidente che l’assunzione di una prova in presenza offre una gamma di “informazioni” – magari anche solo inconsciamente percepite – che l’esame a distanza non sempre può offrire[25]. Tuttavia, talora, il contatto immediato con il testimone non offre un autentico valore aggiunto; e, in questi casi, la testimonianza assunta da remoto può effettivamente costituire una semplificazione di non poco momento. È in questa prospettiva che il legislatore ha rimesso alla discrezionalità delle parti la scelta sulla possibilità di esaminare fonti di prova dichiarativa con esame da remoto: per l’assunzione a distanza è indispensabile il consenso delle parti; il provvedimento è legato a una valutazione discrezionale del giudice (che, anche in presenza di consenso delle parti, può ritenere opportuno che l’assunzione della prova avvenga in presenza e non da remoto), di cui deve dare conto con decreto motivato (art. 133-ter, comma 1, cpp). Per l’assunzione dell’atto “a distanza” assume rilievo il dettato dell’art. 133-ter cpp. Quanto alle modalità di documentazione, si prevede, in caso di assunzione della prova da remoto, che essa – come anche le prove assunte “in presenza” – sia documentata con registrazione, mediante mezzi di riproduzione audiovisiva (cfr. artt. 133-ter, comma 3, e 510, comma 2-bis, cpp)[26].

Da notare che è previsto che – una volta documentata l’assunzione della prova costituenda mediante mezzi di registrazione audiovisiva – la trascrizione dell’atto con cui è stata assunta la prova possa essere disposta solo su richiesta di parte (art. 510, comma 3, cpp). 

Quest’ultima previsione sembra “tradire” una certa sfiducia nei confronti degli organi decidenti, sul presupposto che essi – una volta in camera di consiglio – possano pigramente adagiarsi sulla lettura delle trascrizioni. Si tratta di una previsione che può ulteriormente aggravare il lavoro dei giudici di appello (che potrebbero essere costretti a esaminare ore di videoregistrazione senza potersi giovare delle trascrizioni). Il negativo impatto di tale previsione – in termini di efficienza – è evidente, ma sdrammatizzato dal fatto che, a richiesta di parte (e, dunque, anche del pm, ma, incomprensibilmente, non per effetto di decisione del giudice), la trascrizione può essere comunque disposta.

Con riferimento all’assunzione di prove costituende, occorre ancora dare conto delle novità relative all’esame dei consulenti e dei periti. Come noto, intervenendo sul testo dell’art. 501 cpp, il legislatore ha previsto che – nel caso debbano essere esaminati a dibattimento – i periti e/o i consulenti tecnici debbano depositare in cancelleria la relazione scritta «almeno sette giorni prima dell’udienza fissata» per il loro esame. Già commentando la legge delega, si era evidenziato che taluno ha paventato che una simile previsione rischia di pregiudicare la “verginità” del giudice e, al tempo stesso, di snaturare il momento dell’esame di periti e consulenti (che, nella sistematica del codice, è una prova orale, esposta ai tentativi di falsificabilità connaturali alla cross-examination)[27]. Come già notato commentando la legge delega, ci si limita a ribadire che vi sono ragioni che portano a guardare con favore a tale previsione. In primo luogo, essa non impedirà – a chi sappia farlo e ne abbia gli argomenti – di procedere, durante la successiva cross-examination, alla falsificazione della ricostruzione scientifica proposta negli elaborati scritti, di cui sia stato anticipato il deposito. In secondo luogo, è necessario abbandonare un’idea eccessivamente ingenua sul cosa debba essere la “verginità” del giudice: è fin troppo noto che, oramai, viviamo in un mondo sempre più complesso in cui l’accertamento giudiziario impone di accedere a saperi specialistici a elevato tasso di specializzazione, con approdi scientifici sempre più spesso esposti a controversia (non sempre disinteressata); in questo scenario, è inimmaginabile che l’organo che deve presiedere a un dibattimento – valutando l’ammissibilità di domande, ponendone a sua volta, in funzione di una decisione che graverà sulle sue stesse spalle – debba assistere all’esame di periti e consulenti senza aver avuto la preliminare possibilità di giungere adeguatamente informato delle prospettazioni (anche scientifiche) delle parti.

Si impongono sul tema solo due ulteriori notazioni. 

A una prima lettura, sembrerebbe darsi un’antinomia tra le previsioni ora codificate all’art. 501, commi 1-bis e 1-ter (sul deposito degli elaborati scritti) e il dato testuale dell’art. 511, comma 3, cpp (che, immutato, dispone che « la lettura della relazione peritale è disposta solo dopo l’esame del perito »). Si tratta, però, di un’antinomia forse solo apparente. Il riferimento operato dall’art. 511, comma 3, cpp alla “lettura” della relazione scritta solo dopo l’esame del perito è da intendersi effettuato alla lettura come acquisizione probatoria (e conseguente utilizzabilità ai fini della decisione). La “lettura-acquisizione” che fa riferimento all’utilizzabilità come elemento di prova è da distinguere rispetto alla lettura che, dopo il deposito della relazione scritta ex art. 501 cpp, le parti e il giudice potranno fare in vista del proficuo svolgimento dell’esame dibattimentale del perito o del consulente. Si tratta, dunque, di fenomeni diversi. Il preventivo deposito degli elaborati scritti predisposti dagli ausiliari del giudice o delle parti consentirà al giudice (e alle altre parti processuali) di esaminare preventivamente le argomentazioni di carattere tecnico-scientifico ritenute pertinenti rispetto al thema probandum da consulenti tecnici e/o periti. Ciò senza snaturare la natura di prova orale dell’esame di periti e consulenti[28].

Occorre, in secondo luogo, considerare che il legislatore non ha chiarito quali siano le conseguenze che possono darsi in caso di mancato deposito preventivo (o deposito intempestivo) degli elaborati scritti – se, cioè, tale deviazione dal modello legale abbia o meno conseguenze sulla validità della prova assunta a dibattimento a seguito di esame orale. Nella Relazione illustrativa si chiarisce che «si è scelto (...) di non introdurre alcuna sanzione per il tardivo od omesso deposito della relazione tecnica, ritenendo che lo stesso non possa pregiudicare la validità dell’esame orale del perito o del consulente tecnico». In altri termini: se l’esame di periti e consulenti conserva la natura di mezzo di prova dichiarativa, è da escludere che il mancato assolvimento del dovere informativo condizioni la validità del risultato probatorio che si ottiene a seguito dell’esame dibattimentale (che è e resta il mezzo di prova prediletto dal codice). L’inosservanza del termine per il deposito della relazione, in questa prospettiva riduttiva, avrebbe quale unica risposta un richiamo, spesso di stile, al dettato dell’art. 124 cpp. 

Ci si può chiedere se al nuovo testo dell’art. 501 cpp non possa essere attribuito un significato più pregnante. Appare non discutibile che il diritto al contraddittorio possa e debba essere esercitato anche sulla prova scientifica; appare altresì chiaro che la facoltà di esercitare il diritto al contraddittorio sulla prova scientifica postuli la facoltà di farsi assistere anche da consulenti tecnici (del resto, l’art. 225 cpp riconduce la facoltà di nomina al concetto di assistenza della parte privata). Posta questa premessa, e una volta preso atto che il codice di rito prevede che la relazione scritta debba essere depositata nella cancelleria del giudice almeno sette giorni prima dell’udienza fissata per l’esame, occorre allora interrogarsi sulla funzione che assolve il termine dilatorio. Si è detto che – secondo una ragionevole lettura – il preventivo deposito (e, con esso, il rispetto del termine dilatorio) è funzionale a consentire a tutte le parti processuali (e al giudice) di preparare in modo adeguato l’esame incrociato di periti e consulenti. Se questa è la funzione del termine dilatorio, il mancato rispetto dello stesso potrebbe riverberarsi in una lesione del diritto dell’imputato e delle parti private all’assistenza in giudizio (intesa come effettiva possibilità del difensore e di un eventuale consulente di parte di poter efficacemente prendere in esame l’altrui prospettazione scientifica nel termine che la legge ha stabilito essere «congruo»). Se questa lettura fosse plausibile, il deposito tardivo della relazione scritta potrebbe allora integrare una lesione del diritto di difesa sotto il profilo della lesione del diritto all’assistenza in giudizio, determinando un vizio riconducibile al dettato dell’art. 178, comma 1, lett. c, cpp (ossia nullità di ordine generale a regime intermedio da dedurre dalla parte che vi ha interesse, prima del compimento dell’esame orale del perito/consulente ex art. 182, commi 1 e 2, cpp; nullità che, ovviamente, è suscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 183 cpp). Non si hanno certezze sulla plausibilità di tale ricostruzione ermeneutica, che ci si limita qui a proporre come dato problematico. In un simile scenario interpretativo, occorre dunque chiedersi quali possano essere i possibili rimedi capaci di scongiurare l’ipotizzata nullità in caso di tardivo deposito dell’elaborato scritto. Si possono ipotizzare tre possibili percorsi: da un lato, si potrebbe ipotizzare la reintegrazione del diritto delle parti a fruire del termine dilatorio, rinviando l’esame del perito/consulente a un momento in cui il termine dilatorio di sette giorni potrà dirsi rispettato (e si tratta della via più lineare); dall’altro lato, potrebbe ipotizzarsi che il perito o il consulente incorso nel ritardo non possa utilizzare – nel corso dell’esame orale – l’elaborato tardivamente depositato (del resto, l’art. 501, comma 2, come novellato, consente di consultare durante l’esame orale «le relazioni depositate ai sensi dei commi 1-bis e 1-ter», ossia quelle depositate nel termine di sette giorni); da ultimo (con un aggiustamento in linea di prassi), si potrebbe ipotizzare una sorta di rimedio restitutorio, consistente nell’attribuzione alla parte che vi ha interesse di riesaminare il perito o il consulente (dopo che è stato celebrato l’esame all’udienza originariamente fissata), una volta che abbia avuto modo e tempo di esaminare la relazione scritta.

La riforma – intervenendo sul testo dell’art. 495 cpp – ha anche affrontato il tema sensibile del diritto alla riassunzione della prova in caso di mutamento del giudice. Si dà per noto l’assetto interpretativo raggiunto sul “vecchio” testo dell’art. 495 cpp[29]. Il legislatore delegato ha in parte confermato e, in altra – significativa – parte, superato gli assetti raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità con l’autorità della legge.

Le conferme, anzitutto: (1) viene confermata la necessità che il giudice che procede alla deliberazione sia lo stesso giudice che ha ammesso e assunto le prove nel corso del giudizio; (2) viene confermato, inoltre, che le prove già assunte sono validamente assunte e utilizzabili ai fini della decisione; (3) viene altresì confermato che il diritto alla nuova assunzione di prove già assunte dal giudice nella precedente composizione è condizionato da una esplicita richiesta probatoria formulata in tal senso dalle parti processuali che ne abbiano interesse.

Il superamento – non di poco conto – cade su un aspetto cruciale: laddove la parte processuale chieda di assumere nuovamente una prova dichiarativa già raccolta, il diritto alla riassunzione della prova soffre limitazioni meno stringenti: in tal caso, la parte «ha diritto di ottenere l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel medesimo dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate».

Quindi, il criterio di ammissibilità della prova dichiarativa da riassumere: (1) non sarà condizionato all’indicazione delle «specifiche ragioni» che sorreggono la richiesta (come affermato nella sentenza Bajrami); (2) sarà condizionato dalla mera presenza di una richiesta di assunzione della prova dichiarativa che risulti non vietata dalla legge o «non manifestamente» superflua o irrilevante. In tal caso, il diritto della parte a ottenere la riassunzione della prova è un diritto pressoché potestativo (ovviamente all’interno del perimetro delle prove ammissibili secondo gli ordinari criteri di valutazione).

Un temperamento all’ampiezza di tale diritto alla riassunzione della prova si ha nel caso in cui il precedente esame sia stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva. In questo caso, il diritto alla riassunzione della prova non è più incondizionato (e si ritorna, nella sostanza, all’assetto Bajrami). È da evidenziare che la modalità di documentazione audiovisiva delle prove dichiarative diventerà modalità elettiva di documentazione della prova (ma solo a decorrere dal 30 giugno 2023). Il che porta a ritenere che il diritto alla riassunzione della prova dichiarativa già assunta – allorché la riforma e l’apparato tecnologico che l’accompagna saranno pienamente operativi – saranno comunque un’evenienza residuale. 

È solo il caso di evidenziare che il legislatore (art. 93-bis dl n. 162/2022) è intervenuto dettando un regime transitorio sull’applicazione della nuova previsione di legge che solleva qualche perplessità sotto il profilo della ragionevolezza[30]. Infatti, esso prevede che il nuovo testo dell’art. 495, comma 4-ter, cpp si applicherà solo con riferimento alle prove testimoniali assunte dopo il 1° gennaio 2023 (con la precisazione che la registrazione audiovisiva delle testimonianze si avrà solo a decorrere dal 30 giugno 2023). 

E dunque: (i) in caso di mutamento del giudice, con prove assunte prima del 1° gennaio 2023, si applicherà il previgente testo dell’art. 495 cpp, come interpretato dalla sentenza Bajrami; (ii) in caso di mutamento del giudice, con prove assunte dopo il 1° gennaio 2023, si applicherà il vigente testo dell’art. 495, comma 4-ter, cpp, così superando la regola Bajrami (secondo le indicazioni sopra tratteggiate).

Qualche perplessità suscita il fatto che – in tal modo – si crea un disallineamento tra la disciplina che “impone” il dovere di documentazione audiovisiva (dal 30 giugno 2023) e l’entrata in vigore della nuova disciplina prevista dall’art. 495, comma 4-ter cpp (dal 1° gennaio 2023), che presuppone la modalità di documentazione audiovisiva dell’assunzione della prova. L’effetto è quello di introdurre un diverso regime di garanzie per imputati in situazioni in qualche misura paragonabili: (i) per gli imputati in processi in cui sono state assunte prove prima del 1° gennaio 2023 (quando non vigeva il dovere di documentazione audiovisiva dell’assunzione della prova) si applica il “vecchio testo” dell’art. 495 cpp e la regola Bajrami; (ii) per gli imputati in processi in cui sono state assunte prove nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2023 e il 30 giugno 2023 (quando comunque non v’è ancora il dovere di documentazione audiovisiva dell’assunzione della prova) si applica il “nuovo testo” dell’art. 495, comma 4-ter, cpp (con parziale superamento della regola Bajrami). 

 

5.3. Le modifiche all’imputazione

Gli interventi riformatori sul testo dell’art. 423 cpp e l’introduzione dell’art. 554-bis, commi 5-6, cpp dovrebbero limitare l’evenienza che – nel corso del giudizio – si renda necessario procedere a modifiche dell’imputazione. Nondimeno, tale evenienza non può essere esclusa e, pertanto, il legislatore delegato è intervenuto sul testo degli artt. 519 e 520 cpp. La disciplina relativa alle “nuove contestazioni” (sintagma che usiamo qui per comodità descrittiva e che comprende le modifiche ex artt. 516-517 cpp) non incide sui presupposti che autorizzano le “nuove contestazioni”. Sicché sul punto nulla è cambiato (né con riguardo alle “nuove contestazioni” fisiologiche, né con riferimento a quelle cd. tardive o patologiche).

Le modifiche, piuttosto, investono sia il profilo delle informazioni dovute all’imputato in caso di modifica dell’imputazione, sia il profilo dei diritti che competono alle parti in tale evenienza.

Sotto il profilo informativo, non si pongono novità di rilievo in caso di presenza (anche a distanza) dell’imputato al momento della modifica dell’imputazione. Nel caso, invece, l’imputato non sia presente, la modifica dell’imputazione dovrà essergli notificata (seppur con notifica dell’atto al difensore ex art. 157-bis cpp e non nelle forme previste per gli atti introduttivi del giudizio ex art. 157-ter cpp)[31].

In caso di modifica dell’imputazione ex artt. 516 ss. cpp, l’imputato ha diritto a richiedere il termine a difesa (a differenza di quanto previsto nel caso di modifica dell’imputazione in udienza predibattimentale) e il diritto – immediatamente o alla successiva udienza – di chiedere l’assunzione di nuove prove[32] o di definire il processo con richieste di riti alternativi.

In caso di modifica dell’imputazione, l’imputato – immediatamente o in caso di richiesta di termine a difesa, a pena di decadenza, entro l’udienza successiva – ha diritto di chiedere di definire il giudizio con riti alternativi. La novella recepisce dunque tutti gli interventi manipolativi operati negli anni dalla Consulta. Si può dunque chiedere di definire il giudizio con sentenza di patteggiamento, rito abbreviato, messa alla prova e oblazione. Resta però sul tappeto un’importante questione interpretativa. Il diritto ai riti alternativi è “assegnato” per la sola imputazione oggetto della modifica (o della nuova contestazione)? O – in caso di processo oggettivamente cumulativo – è assegnato per tutte le imputazioni?

È noto l’orientamento tradizionale affermato dalla giurisprudenza di legittimità e da quella costituzionale. Le sentenze additive della Consulta intervenute sull’art. 517 cpp hanno sinora (e con una sola eccezione per il caso della messa alla prova) attribuito all’imputato il diritto a chiedere di definire il giudizio con sentenza di patteggiamento o nelle forme del giudizio abbreviato «relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento»[33].

Vi sono, però, alcuni dati che possono portare a mettere in discussione questo approdo interpretativo, sì da ipotizzare che – a seguito della riforma – in caso di modifica dell’imputazione in un processo oggettivamente cumulativo sia assegnata all’imputato la possibilità di chiedere la definizione del giudizio con riti alternativi.

Un primo dato di novità è rappresentato dall’importante sentenza della Consulta in caso di possibile richiesta di sospensione con messa alla prova del processo (oggettivamente cumulativo) in cui la modifica dell’imputazione abbia riguardato solo una delle imputazioni (Corte costituzionale sentenza n. 146 del 2022). In quella decisione, la Consulta – senza sconfessare la propria giurisprudenza e segnalando come il caso della MAP sia diverso dagli altri riti alternativi (per le finalità più marcatamente risocializzanti in essa coinvolte) – ha infatti usato un argomento che, sul piano dei principi, non può essere trascurato. La Consulta ha infatti evidenziato che «la scelta del rito deve, in effetti, poter essere effettuata dall’imputato – assistito dal proprio difensore – con piena consapevolezza delle possibili conseguenze sul piano sanzionatorio connesse all’uno o all’altro rito, in relazione ai reati contestati dal pubblico ministero; sicché, di fronte a un mutamento dell’imputazione, ragioni di tutela del suo diritto di difesa e del principio di eguaglianza impongono che sia sempre consentito all’imputato rivalutare la propria scelta alla luce delle nuove contestazioni»[34]. L’argomento – esplicitamente usato per il caso della MAP richiesta dopo la modifica di un’imputazione in processo oggettivamente cumulativo – sembra poter assumere rilievo anche nel caso di richieste di definizione con riti alternativi diversi dalla MAP.

Vi è, poi, un secondo – rilevante – elemento di novità, questa volta rilevabile dal dato legislativo. La modifica dell’art. 519 cpp è stata effettuata in forza della delega attribuita dal legislatore delegante con l’art. 1, comma 10, lett. f della l. n. 134/2021; quest’ultima disposizione chiedeva al legislatore delegato di attribuire all’imputato la possibilità di «chiedere la definizione del processo ai sensi degli artt. 444 e seguenti e 458 e seguenti» (considerato: «i principi stabiliti dal delegante costituiscono non solo il fondamento e il limite delle norme delegate ma anche un criterio interpretativo delle stesse»)[35]

In questa prospettiva, dunque, a fronte di un dato testuale (artt. 519 e 520 cpp) non incompatibile con interpretazioni diverse da quella sinora affermatasi in giurisprudenza, è forse possibile valorizzare come criterio interpretativo il riferimento del legislatore delegante alla possibilità di definizione con riti alternativi di tutto il giudizio e non solo limitatamente alle imputazioni modificate (come chiaramente segnalato dal riferimento alla «definizione del processo»).

 

6. La decisione e i riflessi sulla cautela

Prima di concludere queste note sulle trasformazioni impresse al giudizio di cognizione con la riforma, occorre soffermarsi brevemente sul momento della decisione. 

Come è noto, l’innesto delle “nuove” pene sostitutive ha portato il legislatore a inserire nell’ordinamento un articolato meccanismo di sentencing, introducendo l’art. 545-bis cpp. Il tema è oggetto di un’articolata riflessione di Riccardo De Vito, pubblicata su questo stesso fascicolo[36]. Nel condividerne gli argomenti, non si può qui che rimandare a quel contributo.

La seconda notazione investe, invece, le interconnessioni che si possono dare tra la possibile applicazione di pene sostitutive e il mantenimento di misure cautelari. L’art. 1, comma 17, lett. c, l. n. 134/2021 ha delegato il Governo a «prevedere che le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi possano essere applicate solo quando il giudice ritenga che contribuiscano alla rieducazione del condannato e assicurino, anche attraverso opportune prescrizioni, la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati». Il principio direttivo ora in considerazione – con il riferimento alle opportune prescrizioni volte a prevenire il pericolo di commissione di altri reati – impone dunque di prendere atto che il legislatore delegante riconosce la possibilità concreta che siano applicate pene sostitutive a una persona colpita da una prognosi di sussistenza di pericolo di recidivanza. Ciò comporta che non si può escludere che una persona sottoposta a una misura cautelare coercitiva in corso di esecuzione chieda e ottenga l’applicazione di una pena sostitutiva. Il legislatore delegato si è fatto dunque carico di disciplinare questa eventualità[37]. La scelta è stata quella di ritenere compatibile la persistenza di un regime cautelare nel caso in cui sia stata applicata una pena sostitutiva; ciò sul presupposto che l’art. 57, comma 1, secondo periodo, l. n. 689/1981 dispone che «per ogni effetto giuridico, la semilibertà sostitutiva, la detenzione domiciliare sostitutiva e il lavoro di pubblica utilità sostitutivo si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita»[38].

L’intervento del legislatore delegato – oltre ad ammettere la persistenza di un regime cautelare in caso di applicazione di pene sostitutive – ha però introdotto un canone di proporzione tra misure cautelari in atto e pene sostitutive applicate (art. 300, comma 4-bis, cpp)[39]. Il legislatore ha, cioè, previsto che il mantenimento della custodia cautelare in carcere sia possibile solo in caso di applicazione della pena della semilibertà sostitutiva; in caso di detenzione domiciliare sostitutiva, la misura cautelare di massima afflittività consentita sarà quella degli arresti domiciliari; le misure coercitive non custodiali, invece, sono compatibili con qualsiasi pena sostitutiva; ciò seppur al netto di alcune perplessità sulla compatibilità tra misure coercitive e condanna a pena pecuniaria sostitutiva: la pena pecuniaria «si considera sempre come tale» (art. 57, comma 2, l. n. 689/1981); il che pone un problema di compatibilità tra mantenimento di misure coercitive in caso di applicazione di pena pecuniaria sostitutiva, alla luce del dettato dell’art. 280 cpp. Il problema – sul piano empirico – sarà verosimilmente sdrammatizzato dal fatto che ben difficilmente capiterà che il giudice ritenga di irrogare una pena pecuniaria sostitutiva a una persona colpita da una prognosi negativa in ordine al pericolo di recidivanza.

Nulla, ovviamente, vieta che il giudice possa decidere di sostituire le misure in atto con altre meno gravi (e financo di disporne la revoca). In tema di cautela, occorre solo evidenziare tre ulteriori aspetti. 

In primo luogo, occorre rilevare che il legislatore non è intervenuto sulla fisionomia delle misure cautelari. Le pene sostitutive consentono “spazi di libertà” non coerenti con la (più rigida) compressione della libertà personale tipica delle misure cautelari (si pensi ai contenuti della semilibertà sostitutiva rispetto alla custodia cautelare in carcere o alla detenzione domiciliare sostitutiva rispetto agli arresti domiciliari). Il disallineamento è verosimilmente legato al fatto che un intervento sulla fisionomia delle misure cautelari avrebbe comportato il rischio di incorrere in un eccesso di delega ed è forse anche spiegabile con la diversa funzione che assolvono le (diverse) misure privative della libertà personale: le misure coercitive debbono assicurare efficace tutela rispetto alle esigenze cautelari sussistenti nel caso concreto; le pene sostitutive, invece, adempiono il “mandato” costituzionale (e del legislatore) di contemperare le istanze retributive con quelle di reinserimento sociale (e si giovano di un corredo di prescrizioni e di programmi trattamentali che non è, invece, previsto per le misure cautelari). Si tratta di un tema che, in vista di futuri interventi riformatori, potrebbe essere opportunamente meditato.

In secondo luogo, occorre considerare un altro aspetto: nell’introdurre il canone di proporzione codificato dall’art. 300, comma 4-bis, cpp, il legislatore ha previsto che il giudice possa eventualmente applicare misure cautelari meno gravi. Nulla ha stabilito in ordine alla possibilità di aggravamento del regime cautelare, in caso di violazioni delle prescrizioni connesse alle misure ancora in atto. Si potrebbe ipotizzare che – in assenza di interventi sul punto – il legislatore abbia contemplato la possibilità per il giudice di disporre aggravamenti del regime cautelare in caso di aggravamento delle esigenze cautelari (art. 299 cpp) o di violazioni delle prescrizioni connesse alle misure in atto (art. 276 cpp). Tuttavia, tale interpretazione è problematica alla luce di un dato sistematico: l’art. 300, comma 4-bis, cpp introduce, come detto, un canone di proporzione che sembra imporre un limite alla risposta cautelare in presenza di determinate pene sostitutive. Orbene: non si può trascurare che – negli altri casi in cui il legislatore ha dettato canoni di proporzione – vi è stata una esplicita previsione di derogabilità di quel canone di proporzione, con indicazione dei casi in cui esso è derogabile (si pensi all’art. 275, comma 2-bis, secondo periodo, e all’art. 280, comma 3, cpp, i quali, nel dettare dei limiti al potere cautelare, prevedono esplicitamente la derogabilità degli stessi in casi tassativamente disciplinati).

In terzo luogo, si rende necessaria un’ultima notazione: la possibilità che al momento della decisione l’imputato sia ancora sottoposto a misura cautelare e che si possa comunque attivare il meccanismo di sentencing ha reso necessario un intervento sulla disciplina dei termini di fase, con l’introduzione dell’art. 304, comma 1, lett. c-ter, cpp, che prevede che, nell’ipotesi prevista dall’art. 545-bis cpp, il termine di custodia cautelare sia sospeso per la durata massima di sessanta giorni. La previsione, opportunamente, “contiene” la durata del periodo di sospensione a un periodo massimo di sessanta giorni, onde non far gravare sull’imputato sottoposto a misura cautelare i casi di mancato rispetto del termine ordinatorio previsto dall’art. 545-bis cpp. La causa di sospensione dei termini pare applicabile solo alle misure cautelari di carattere custodiale[40] e non alle ipotesi in cui il rinvio del procedimento sia disposto per verificare la possibilità di applicare una pena sostitutiva su concorde richiesta delle parti ex art. 448, comma 1-bis, cpp[41].

 

7. Un cambio di occhiali

Occorre concludere queste note. La riforma non stravolge l’impianto del giudizio di cognizione. Tuttavia – come detto in esordio –, le modifiche apportate alla disciplina del giudizio imporranno a tutti gli attori processuali di avere piena consapevolezza delle nuove responsabilità di cui ciascuno è investito.

Cambiano i meccanismi di verifica della consapevolezza dell’imputato sulla pendenza del processo. Cambia l’approccio delle parti (e del giudice) sulle scelte relative ai riti. Il giudice dovrà abbandonare pigre prassi sanzionatorie e interrogarsi seriamente – e sui singoli casi concreti – su senso e qualità delle pene. I difensori sono investiti di nuove responsabilità (non solo la difesa dal merito dell’imputazione, ma anche l’attività di supporto all’imputato già condannato, per aiutarlo ad ottenere una “giusta pena”; anche così si sta dalla parte dell’inquisito).

Si tratta di prospettive radicalmente nuove – su cui non si può che rimandare, ancora una volta, al contributo di Riccardo De Vito sulle pene sostitutive.

Ma queste note sarebbero monche se non si confrontassero nuovamente con una domanda (già affrontata al tempo del commento della legge delega, con riflessioni che qui non possono che essere ribadite): con il mutamento della regola di giudizio (la ragionevole previsione di condanna), il dibattimento sarà ancora il luogo ove «difendersi provando», o diventerà il luogo ove «provare a difendersi»?

È un timore che trapela dalle opinioni di diversi accademici, sentiti nel corso delle audizioni parlamentari svoltesi a partire dal deposito del ddl Bonafede; il mutamento della regola di giudizio – di cui si censura anche l’ambiguità semantica – costituirebbe infatti per l’imputato giunto a dibattimento «un’ipoteca molto seria»[42], perché caricherebbe il decreto che dispone il giudizio «di un significato accusatorio enorme», in conseguenza del quale l’imputato giungerebbe a dibattimento «con un macigno sulle spalle», con il rischio di porre in discussione la stessa presunzione di innocenza, costituzionalmente presidiata dall’art. 27 Cost.[43]. Ma le critiche non si fermano a questo aspetto: il mutamento della regola di giudizio, infatti, finirebbe anche con lo svilire l’idea del contraddittorio nella formazione della prova come tecnica di accertamento del fatto che la stessa Costituzione, all’art. 111, ha inteso identificare come la tecnica di accertamento «più affidabile»[44].

Si tratta, evidentemente, di osservazioni estremamente acute e da prendere in seria considerazione. Tuttavia, ogni analisi e valutazione della novella che si intende introdurre sarebbe riduttiva senza offrirsi al confronto con la realtà. 

E la realtà è che la regola di giudizio oggi vigente – quella della “sostenibilità dell’accusa in giudizio” – ha sostanzialmente fallito nella sua funzione di filtro di accesso al giudizio dibattimentale. 

La fotografia che la Relazione illustrativa redatta per la presentazione del progetto della Commissione Lattanzi tratteggia è un’immagine in cui, a prevalere, sono le tinte fosche; ivi si constata «l’inefficacia dell’udienza preliminare a svolgere il ruolo filtro attribuitole dalla sistematica del codice del 1988»; così prosegue la Relazione: «nonostante i plurimi interventi di modifica, dopo trent’anni i dati statistici sono impietosi e dimostrano che, nei casi in cui l’udienza preliminare si conclude con un rinvio a giudizio (ossia nel 63% dei casi), essa genera un aumento di durata del processo di primo grado di circa 400 gg. Complessivamente, l’udienza preliminare filtra poco più del 10% delle imputazioni per i processi nei quali è prevista e non incide peraltro in modo significativo sul tasso dei proscioglimenti in dibattimento. Va segnalato che, anche in Inghilterra, dove è nata come sbarramento delle imputazioni azzardate del privato, essa è stata trasformata in contraddittorio cartolare e alfine abbandonata, in favore di un filtro, a richiesta, davanti allo stesso giudice del trial». 

Su tale fallimento ha, evidentemente, inciso l’interpretazione estremamente riduttiva che la prassi giurisprudenziale ha dato del dettato dell’art. 425, comma 3, cpp; interpretazione che postula che il proscioglimento in udienza preliminare possa trovare giustificazione solo all’esito di una valutazione che – ammonisce oggi la giurisprudenza di legittimità – deve soffermarsi su valutazioni di ordine processuale (la sostenibilità dell’accusa) e non di merito (la plausibilità o meno dell’ipotesi accusatoria). 

Si tratta di un orientamento giurisprudenziale consolidato e solo raramente messo in discussione[45]. E della persistenza di tale diritto vivente il legislatore ha inteso prendere atto, provando a farsi carico – per ovviarvi – delle disfunzioni che da esso discendono.

Del resto – a richiedere un intervento sull’efficacia del filtro che seleziona l’accesso ai giudizi dibattimentali – sono esigenze di primario rilievo, anche costituzionale: altrimenti, oltre all’ingolfamento dei dibattimenti e al numero elevato di assoluzioni (che, oltre certi limiti, è sintomatico o di innocenti mandati a giudizio o di azioni penali male esercitate) si finirebbe – in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale – con il favorire un elevato tasso di assoluzioni dibattimentali (destinate a diventare irrevocabili), in luogo di sentenze di non luogo a procedere in udienza preliminare (potenzialmente suscettibili di revoca, ove emergano nuovi elementi utili a corroborare ipotesi accusatorie). 

Ma non ci si può sottrarre alle due questioni sollevate da chi critica la modifica della regola di giudizio nei termini ora in esame.

Prima questione: davvero il mutamento della regola di giudizio imprime una trasformazione del sistema processuale, marginalizzando il dibattimento fino a porsi in frizione con l’art. 111 Cost.?

Non credo. Il sistema che si intende introdurre mi sembra voglia perseguire un risultato: il contraddittorio nella formazione della prova è – e deve restare – il metodo ottimale per l’accertamento del fatto; esso, tuttavia – come tutte le risorse scarse –, deve essere utilizzato nei casi in cui sia davvero necessario e in grado di accrescere il livello di conoscenze (tant’è che si tratta di un metodo - che è anche una garanzia - che è rinunciabile con il consenso dell’imputato). 

Anche in ambito scientifico, determinati esperimenti di laboratorio – che hanno dei costi (in termini di denaro, tempo, anni di studio e mesi di preparazione) – vengono effettuati solo nel caso in cui le ipotesi scientifiche da sottoporre a sperimentazione siano connotate da una certa plausibilità. 

Così nel giudiziario: a fronti di ipotesi accusatorie che, all’esito di indagini preliminari informate al principio di completezza, risultano già intrinsecamente deboli, appare poco ragionevole esporre l’imputato alla sofferenza del processo, impegnando al tempo stesso una risorsa scarsa che rappresenta – e deve poter rappresentare efficacemente – un bene comune per il Paese.

Seconda questione: davvero il mutamento della regola di giudizio porrà un macigno sulle spalle dell’imputato? Davvero si introduce un’ipoteca seria, che pone a repentaglio la presunzione di innocenza dell’accusato?

La risposta è: dipende. Dipende dalla professionalità (e dalla deontologia) del giudice; dipende dalla professionalità di pubblico ministero e difensori. Anche dopo l’approvazione della riforma, le parti – ad onta di ciò che è stato deciso a monte (dal pm, dal gup o dal giudice dell’udienza filtro) – conservano, nel giudizio dibattimentale, la piena possibilità di confutare ipotesi accusatorie, introdurre elementi di prova, suggerire argomentazioni che spostino la iniziale prognosi di successo della prospettazione accusatoria sino alla soglia del dubbio ragionevole. 

Non è un’impresa impossibile e, alle parti, non sono sottratti gli strumenti per “giocare il gioco”.

È certamente innegabile la difficoltà di definire con esattezza i momenti del giudizio; la semantica non sempre è una scienza esatta. Come già detto, sarà allora (e inevitabilmente) l’esperienza giudiziaria – la viva prassi giurisprudenziale – a dare corpo e interpretazione alla mutata regola di giudizio; di cui – qui ed ora – è però importante cogliere il segno e la direzione.

 

 

*  Il testo riproduce, in forma di articolo, i contenuti dei materiali della relazione curata dal sottoscritto e da Simone Spina in occasione dei seminari sulla riforma del sistema penale organizzati, tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023, da Magistratura democratica e dall’Organismo congressuale forense.

1. Per una riflessione più accurata, tra le molte, si rimanda all’analisi svolta commentando i contenuti della legge delega; cfr. A. Natale, La cd. “riforma Cartabia” e la giustizia penale (Introduzione), in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, pp. 10-27, part. par. 2 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/983/4-2021_qg_natale-introduzione.pdf). Sui temi relativi al giudizio di cognizione posti dalla legge delega, vds. anche A. Natale, Il giudice di cognizione di fronte alla cd. Riforma Cartabia, ivi, pp. 143-155 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/995/4-2021_qg_14_natale.pdf).

2. Per un’analisi fondata sui dati, cfr. P. Curzio, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2022, pp. 51 ss. (www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Cassazione_Relazione_2023.pdf). 

3. Tra esse, in particolare, cfr. Corte Edu: Colozza c. Italia, 12 febbraio 1985; Somogyi c. Italia, 18 maggio 2004; Sejdovic c. Italia, 10 novembre 2004; Cat Berro c. Italia, 25 novembre 2008.

4. Cfr., per tutte, sez. unite, 28 novembre 2019 (dep. 17 agosto 2020), Rv. 279420 - 0; sez. unite, 28 febbraio 2019, n. 28912 (dep. 3 luglio 2019), Rv. 275716 - 0. Questa Rivista si è più volte occupata della questione del processo in absentia. Per tutti, in ordine di pubblicazione: L. Vignale, Domicilio dichiarato o eletto e processo in absentia, in Questione giustizia online, 26 giugno 2014 (www.questionegiustizia.it/articolo/domicilio-dichiarato-o-eletto-e-processo-in-absentia_26-06-2014.php); Id., Processo in assenza ed elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio. L’art. 162 comma 4-bis cpp e le ragioni di una riforma, ivi, 26 settembre 2017 (www.questionegiustizia.it/articolo/processo-in-assenza-ed-elezione-di-domicilio-press_26-09-2017.php); L. Fidelio, Il processo in assenza preso sul serio, ivi, 20 ottobre 2020 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-processo-in-assenza-preso-sul-serio); L. Vignale, Processo in assenza: ancora tanti i nodi problematici irrisolti, ivi, 12 ottobre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/processo-in-assenza-ancora-tanti-i-nodi-problematici-irrisolti); F. Filice, I “finti inconsapevoli” alla prova del caso Regeni: una questione centrale per il contemperamento delle garanzie dell’imputato e dei diritti delle vittime, ivi, 15 dicembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-finti-inconsapevoli).

5. Può suscitare qualche perplessità la mancata previsione della necessità di notificare le modifiche dell’imputazione nelle medesime forme previste per gli atti introduttivi. Rispetto alla modifica dell’imputazione, sembrano porsi esigenze conoscitive paragonabili a quelle che si danno in caso di notifica del decreto che dispone il giudizio. Per altro verso, però, occorre considerare che la riforma rafforza il momento di valutazione sulla sussistenza dei presupposti per procedere in assenza. Sicché si potrebbe ritenere che – per un imputato assente, ma sicuramente consapevole della pendenza del giudizio – vi sia adeguata garanzia che egli sappia del processo, sì da rendere “accettabile” che egli se ne interessi (e sì da rendere adeguato meccanismo informativo quello previsto dall’art. 157-bis cpp).

6. Vds. nota 3.

7. Cfr. sez. unite, 28 novembre 2019 (dep. 17 agosto 2020), Rv. 279420 - 0; sez. unite, 28 febbraio 2019, n. 28912 (dep. 3 luglio 2019), Rv. 275716 - 0.

8. Il tempo dell’oblio – oltre il quale il legislatore delegato dovrà prevedere la definitiva estinzione della pretesa punitiva – è fissato nel doppio dei termini di prescrizione stabiliti dall’art. 157 cp (si noti che non è richiamata la previsione dell’art. 161 cp).

9. Anche in ossequio alle prescrizioni contenute nella «Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI», esplicitamente richiamata nella Relazione illustrativa al d.lgs n. 150/2022.

10. Come noto, è stato modificato il testo dell’art. 550 cpp, ampliando il catalogo delle ipotesi per cui il giudizio è inaugurato dal decreto di citazione diretta a giudizio emesso dal pubblico ministero. Due sole notazioni: (i) il legislatore delegato si è mosso nel perimetro di un criterio di delega in effetti non troppo stringente e si è impegnato nell’individuazione di criteri selettivi, dando adeguatamente conto – nella Relazione illustrativa – delle ragioni delle scelte operate; in questa prospettiva è da ritenere che le scelte del legislatore delegato siano legittimo e ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa delegata e, quindi, difficilmente censurabili dalla Consulta; (ii) l’art. 550, comma 2, lett. b e f, cpp inserisce nel catalogo dei reati perseguibili con citazione diretta a giudizio alcuni delitti del testo unico immigrazione e in materia di armi per i quali, però, il legislatore ha già previsto che si proceda con giudizio direttissimo; è il caso di osservare che tali previsioni conservano comunque una loro funzione semplificatoria: esse consentiranno di procedere con citazione diretta a giudizio per le ipotesi in cui – giusta o sbagliata che sia stata la valutazione dell’organo di accusa – non si è proceduto con rito direttissimo.

11. Si tratta di una previsione che codifica un risultato interpretativo già raggiunto dalla giurisprudenza (Cass., sez. unite, n. 28807/2002). 

12. La Corte costituzionale – intervenendo sulla possibilità di chiedere la sospensione del processo con messa alla prova in caso di modifica di una sola imputazione in processo oggettivamente cumulativo – ha, tra i vari argomenti utilizzati, evidenziato che «la scelta del rito deve, in effetti, poter essere effettuata dall’imputato – assistito dal proprio difensore – con piena consapevolezza delle possibili conseguenze sul piano sanzionatorio connesse all’uno o all’altro rito, in relazione ai reati contestati dal pubblico ministero; sicché, di fronte a un mutamento dell’imputazione, ragioni di tutela del suo diritto di difesa e del principio di eguaglianza impongono che sia sempre consentito all’imputato rivalutare la propria scelta alla luce delle nuove contestazioni» (Corte cost., sent. n. 146/2022, considerato in diritto n. 2.2). Se questo è il “valore” assegnato allo spatium deliberandi sulle scelte relative al rito, è da interrogarsi sulla ragionevolezza di un regime che, a fronte di modifiche dell’imputazione, non favorisce meditate riflessioni e, per altro verso, tratta diversamente i casi considerati dall’art. 554-bis, comma 6, da quelli considerati dagli artt. 516 ss. cpp. 

13. Su cui si rimanda a quanto scritto da Riccardo De Vito in questo fascicolo (vds. anche infra).

14. In dottrina, altra opinione rispetto a quella qui proposta nel testo ritiene che, una volta raggiunto l’accordo sull’applicazione della pena principale, nell’ipotesi in cui si riveli – all’esito degli approfondimenti – impraticabile la sua sostituzione, il giudice debba emettere sentenza di applicazione della pena principale inizialmente concordata – vds. P. Di Geronimo, Procedimenti speciali, in A. Bassi e C. Parodi (a cura di), La riforma del sistema penale, Giuffrè, Milano, 2022, p. 189.

15. Come esplicitamente ammesso nella stessa Relazione illustrativa, p. 242.

16. Ad esempio: difetto di querela; estinzione del reato per remissione di querela (vds. anche art. 554-bis, comma 4) – si noti che non si applica, a questa fase del procedimento, la disciplina della remissione tacita di querela per mancata comparizione del querelante: essa si applica solo al caso della mancata comparizione del querelante citato a comparire come testimone per l’udienza dibattimentale –; cause estintive ex artt. 162-bis e 162-ter cp; prescrizione; azione penale che non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita (ad esempio: sopravvenuta - e irreversibile - incapacità dell’imputato ex art. 72-bis cpp); in tali casi sarà comunque necessaria una verifica dell’assenza di requisiti previsti per il proscioglimento nel merito ex art. 129 cpp; al riguardo, e per i relativi oneri motivazionali, vds. Cass., sez. unite, n. 35490/2009.

17. Tra essi, a commento di una sentenza di legittimità meno ortodossa, cfr. L. Semeraro, Con viva e vibrante soddisfazione, in Questione giustizia online, 14 dicembre 2015 (www.questionegiustizia.it/articolo/con-viva-e-vibrante-soddisfazione_14-12-2015.php).

18. Sulla cui interpretazione si concentrano Ezia Maccora e Giuseppe Battarino nel contributo pubblicato in questo fascicolo.

19. Csm, delibera del 22 settembre 2022, parere su «Schema di decreto legislativo recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», p. 37.

20. F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 2006 (VIII ed.), p. 1001.

21. Cfr. R. Ianniello, Osservazioni critiche in merito alla udienza filtro per i procedimenti a citazione diretta, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, pp. 156-158 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/996/4-2021_qg_ianniello.pdf). 

22. In Corte cost., sent. n. 16/2022, la Consulta ha ricordato che: «per costante giurisprudenza di questa Corte, le norme sulla incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste a tutela dei valori della terzietà e della imparzialità della giurisdizione, presidiati dagli artt. 3, 24, comma 2, e 111, comma 2, Cost., risultando finalizzate ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 183/2013, n. 153/2012, n. 177/2010 e n. 224/2001)». In Corte cost., sent. n. 18/2017, la Consulta ha precisato inoltre che: «affinché possa configurarsi una situazione di incompatibilità – nel senso dell’esigenza costituzionale della relativa previsione, in funzione di tutela dei valori della terzietà e dell’imparzialità del giudice – è necessario che la valutazione “contenutistica” sulla medesima regiudicanda si collochi in una precedente e distinta fase del procedimento, rispetto a quella di cui il giudice è attualmente investito» (vds. Corte cost., sentt. nn. 18/2017 e 66/2019). 

23. Al riguardo, la Relazione illustrativa evidenzia: «è solo il caso di precisare che non si è, invece, espressamente collocata nell’udienza predibattimentale la disciplina dell’art. 469 c.p., allo scopo di continuare a consentire l’operatività di quell’istituto anche nel rito a citazione diretta, anche per il caso in cui gli eventi lì indicati sopravvengano all’udienza predibattimentale, nella quale, invece, i medesimi esiti sono espressamente previsti e disciplinati. Il tutto in continuità con il rapporto esistente tra pronuncia ex art. 425 c.p.p. e ex art. 469 c.p.p. nei giudizi con udienza preliminare» (p. 154).

24. Sul tema, si rimanda a M. Guglielmi e R. De Vito, Lontano dagli occhi, lontano dal cuore? Il remoto e la giustizia, in Questione giustizia online, 24 aprile 2020 (www.questionegiustizia.it/articolo/lontano-dagli-occhi-lontano-dal-cuore-il-remoto-e-la-giustizia_24-04-2020.php), ove sono raccolti altri contributi, non solo penalistici. Nella loro riflessione, Guglielmi e De Vito, muovendo dal postulato per cui il «recupero di efficienza e di qualità» della giurisdizione non possa essere «mai indifferente ai suoi valori», ricordano che «in alcuni snodi essenziali della giurisdizione sia indispensabile “guardare in faccia” le persone, guardarsi in faccia tra diversi protagonisti della scienza giudiziaria». 

25. «Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato (...) abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico», dovendosi intendere il riferimento al giudice come «al giudice investito del potere di condannare»; tale esigenza si spiega anche «con ragioni epistemiche, legate alla corretta ricostruzione dei fatti: è noto quanto siano importanti per valutare la credibilità del teste, i tratti prosodici del discorso che escono pienamente valorizzati solo nel diretto contatto del giudice con la fonte probatoria»: così, P. Ferrua, La prova nel processo penale. Struttura e procedimento (vol. I), Giappichelli, Torino, 2017, p. 124. Da segnalare che l’Autore non ritiene il contatto diretto del giudice con la fonte probatoria surrogabile con altrettanta efficacia dalla videoregistrazione.

26. In base al dettato dell’art. 94 d.lgs n. 150/2022, le disposizioni in materia di videoregistrazioni si applicano decorsi sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto (vale a dire dal 30 giugno 2023).

27. Si è concentrata sul secondo aspetto S. Quattrocolo, nel corso dell’audizione del 5 novembre 2020 davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati in relazione all’analoga previsione già presente nel ddl Bonafede (AC 2435 - resoconto stenografico: XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it)). La Relatrice ha, per esempio, rimarcato che la perizia e la consulenza tecnica nell’attuale codice di rito sono prove orali, non scritte, che si formano nell’escussione dibattimentale del perito e del consulente tecnico; la “prova” dunque non sarebbe la relazione dell’esperto, bensì l’esame dibattimentale dell’esperto. In definitiva – pur reputando utile il deposito anticipato degli elaborati –, Quattrocolo ha evidenziato il rischio di trasformare le perizie e la consulenza tecnica in una prova scritta.

28. Da ciò consegue che – come già nel sistema previgente – il mancato esame orale del perito o dei consulenti determinerà una nullità di ordine generale a regime intermedio (a meno che le parti non abbiano concordemente rinunciato all’esame orale), posta la mancata possibilità per una delle parti di contro-esaminare il perito o i consulenti delle altre parti sull’esercizio del diritto di difesa, e assume dunque rilievo ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. c, cpp (in tal senso Cass., sent. n. 35497/2016).

29. Ci si limita qui solo a dar conto – come di un dato di fatto – dei principi di diritto raggiunti dalle sezioni unite nella cd. sentenza Bajrami. Le sezioni unite hanno affermato:
1) «Il principio di immutabilità di cui all’art. 525 c.p.p. richiede che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso che ha assunto la prova ma anche quello che l’ha ammessa, fermo restando che i provvedimenti sull’ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto conservano efficacia se non espressamente modificati o revocati»; 2) «La facoltà per le parti di richiedere, in caso di mutamento del giudice, la rinnovazione degli esami testimoniali presuppone la necessaria previa indicazione, da parte delle stesse, dei soggetti da riesaminare nella lista ritualmente depositata di cui all’art. 468 c.p.p.»; 3) «L’intervenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere sia prove nuove sia, indicandone specificamente le ragioni, la rinnovazione di quelle già assunte dal giudice di originaria composizione, fermi restando i poteri di valutazione del giudice di cui agli artt. 190 e 495 c.p.p. anche con riguardo alla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa»; 4) «In caso di rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice, il consenso delle parti alla lettura degli atti già assunti dal giudice di originaria composizione non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non richiesta, non ammessa o non più possibile» (Cass., sez. unite, n. 41736/2019).

30. Art. 93-bis dl n. 150/2022 (come modificato dal dl n. 162/2022): «1. La disposizione di cui all’articolo 495, comma 4-ter, del codice di procedura penale, come introdotta dal presente decreto, non si applica quando è chiesta la rinnovazione dell’esame di una persona che ha reso le precedenti dichiarazioni in data anteriore al 1° gennaio 2023».

31. È ragionevole questa diversità di regime? Rispetto alla modifica dell’imputazione sembrano porsi esigenze conoscitive paragonabili a quelle che si danno in caso di notifica del decreto che dispone il giudizio… Per altro verso, occorre tuttavia considerare che la riforma rafforza il momento di valutazione sulla sussistenza dei presupposti per procedere in assenza – cfr. supra, nota 5.

32. La modifica sopprime il riferimento all’art. 507 cpp. Il diritto all’ammissione di nuove prove in relazione alle “nuove contestazioni” non è condizionato alle più ristrette condizioni dettate dall’art. 507 cpp (cioè: quando è «assolutamente necessario»), essendo solo soggetto agli ordinari criteri di ammissibilità della prova (risultando cioè inammissibili le sole richieste di prova « vietate dalla legge, manifestamente superflue o irrilevanti »; art. 190 cpp). L’intervento recepisce sul piano delle fonti il risultato cui si era già giunti nel 1992 a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 519, comma 2, cpp (Corte cost., sent. n. 241/1992). Sennonché il legislatore delegato ha trascurato un’altra decisione della Consulta, che con la sentenza n. 50/1995 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 519, comma 2, cpp – per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. – «nella parte in cui, in caso di nuova contestazione effettuata a norma dell’art. 517 (...), non consente al pubblico ministero e alle parti private diverse dall’imputato di chiedere l’ammissione di nuove prove». Sul piano delle fonti, pertanto, il legislatore delegato ha ribadito una lacuna a suo tempo censurata dalla Consulta (e da questa colmata con una sentenza additiva).
Due possibili scenari interpretativi (che implicano ragionamenti sulla teoria delle fonti che qui non si possono approfondire): (i) si potrebbe ritenere che – semplicemente – persista una lacuna nell’ordinamento che, però, era già stata “colmata a monte” dalla Consulta con la sentenza n. 50/1995; il che potrebbe autorizzare un’interpretazione costituzionalmente orientata che porti a ritenere la lacuna già colmata dal precedente intervento additivo della Consulta; (ii) si potrebbe – per contro – ritenere insoddisfacente una simile ricostruzione e interpellare la Consulta (che «giudica su norme ma pronuncia su disposizioni» – Corte cost. n. 84/1996). In questo caso, allora, si dovrebbe ritenere necessario, per restituire il diritto alla prova al pm e alle altre parti private, sollecitare nuovamente la Consulta evocando gli stessi parametri (artt. 3 e 24 Cost.) a suo tempo valorizzati da Corte cost., n. 50/1995 (sul presupposto che al legislatore è precluso approvare disposizioni che riproducano norme già dichiarate illegittime dalla Consulta – tra le altre, Corte cost., sentt. nn. 72 e 73 del 2013 e n. 245/2010).

33. Tanto con riferimento alle “nuove contestazioni” fisiologiche quanto con riferimento a quelle patologiche; cfr. – per esempio e con riferimento alle declaratorie di illegittimità costituzionale dell’art. 517 cpp in caso di nuove contestazioni di reato concorrente – Corte cost., nn. 265/1994, 333/2009, 237/2012, 139/2015.

34. Corte cost., n. 146/2022, considerato in diritto 2.2.

35. Così, tra le altre, Corte cost., n. 15/1999.

36. La cui pubblicazione è già stata anticipata in Questione giustizia online: R. De Vito, Le pene sostitutive: una nuova categoria sanzionatoria per spezzare le catene del carcere, 21 febbraio 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/pene-sostitutive), part. par. 4.3., ora in questo fascicolo.

37. L’esercizio del potere normativo da parte del legislatore delegato trova copertura nella delega – conferita dall’art. 1, comma 3, legge n. 134 del 2021 – ad adottare «norme di attuazione (…) e di coordinamento», intervenendo su aspetti procedurali che – ancorché «non direttamente investit[i] dai principi e criteri direttivi di delega» – richiedono un intervento regolatore.

38. Al netto di quanto si dirà infra sulla compatibilità tra mantenimento di misure coercitive in caso di applicazione di pena pecuniaria sostitutiva.

39. Su cui vds. ancora R. De Vito, Le pene sostitutive, op. cit., par. 4.4.

40. Essendo richiamati solo i termini di custodia previsti dall’art. 303 cpp e non i termini previsti dall’art. 308 cpp. In senso conforme, sul dettato dell’analogo istituto disciplinato dall’art. 304, comma 1, lett. c, cpp, cfr. Cass., sez. IV, 25 giugno 2013, n. 30294, Rv. 255902 - 01.

41. L’art. 304, comma 1, lett. c-ter, cpp contiene dati testuali che rendono infatti problematica l’interpretazione che vorrebbe detta ipotesi di sospensione dei termini di custodia applicabile anche in caso di patteggiamento. L’art. 304, comma 1, lett. c-ter, cpp indica infatti che la sospensione del termine è prevista «durante il tempo intercorrente tra la lettura del dispositivo indicato [dall’art. 545-bis, comma 1] e l’udienza fissata per la decisione sulla eventuale sostituzione della pena». Il riferimento alla lettura del dispositivo (che, nel caso previsto dall’art. 448, comma 1-bis, cpp, non vi è ancora stata) e il richiamo operato dall’art. 304 al solo dettato dell’art. 545-bis, comma 1, cpp (che, viceversa, non è richiamato dall’art. 448, comma 1-bis, cpp) portano a ritenere che una stretta interpretazione letterale della causa di sospensione del termine ora in esame non operi in caso di applicazione concordata di una pena sostitutiva con le scansioni previste dall’art. 448, comma 1-bis, secondo periodo, cpp.

42. Così F. Caprioli, nel corso dell’audizione del 12 novembre 2020 davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati (resoconto stenografico: XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it)): «certamente irrigidendo in questo modo la regola di giudizio, cioè conformandola alla prognosi di condanna, il successivo dibattimento ne risulterebbe molto pregiudicato; cioè l’imputato arriverebbe al dibattimento con un’ipoteca molto più seria di quella che oggi gli deriva dal fatto che un giudice all’udienza preliminare ha ritenuto sostenibile l’accusa in giudizio».

43. Così, per esempio, S. Quattrocolo, nel corso dell’audizione del 5 novembre 2020 davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati (resoconto stenografico: XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it)).

44. Così F. Caprioli, nel corso dell’audizione del 4 novembre 2020 davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati (resoconto stenografico: XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it)): «Non dimentichiamo che il dibattimento è il luogo di formazione della prova nel contraddittorio delle parti. E non dimentichiamo che il contraddittorio non è solo una garanzia individuale ma è una tecnica di accertamento dei fatti che il nostro legislatore ha adottato e che poi la Costituzione, con la riforma dell’articolo 111, ha consacrato come la tecnica di accertamento più affidabile dei fatti di reato. (…) Quand’è che si va a giudizio? Quand’è che si va a dibattimento? Quando il dibattimento, grazie alle superiori risorse cognitive attivabili con l’impiego del contraddittorio nella formazione della prova, apporterebbe elementi rilevanti ai fini della decisione del merito. Questo è il criterio, che correttamente applicato non significa affatto, per citare la relazione del disegno di legge, “esperienze processuali destinate fin dall’origine a esiti assolutori”. Non c’è nulla di scontato; c’è una situazione dubbia che il dibattimento può risolvere, in un senso o nell’altro. Io faccio sempre un esempio ai miei studenti quando parlo di questo argomento. Nella vita le cose non vanno mai così semplicemente: immaginiamo tuttavia che al termine di un’indagine ci siano due testimonianze d’accusa da parte di persone informate sui fatti, credibili, lucide, disinteressate, coerenti nella loro ricostruzione dei fatti, ma ci siano anche due testimonianze d’alibi apparentemente allo stesso modo coerenti, disinteressate, precise. Qualcuno mente o qualcuno si sta sbagliando, o ricorda male. In una situazione come questa noi non diremmo che è probabile la condanna; diremmo il contrario, casomai. Potremmo dire che è superfluo il dibattimento. Ma non abbiamo sempre detto che è a questo che serve il dibattimento, che è a questo che serve l’esame incrociato, per capire tramite l’esame e il controesame qual è il testimone che dice la verità e qual è il testimone che mente, oppure che ricorda male? Se c’è un dibattimento non superfluo è proprio questo. Eppure, non possiamo fare una prognosi di condanna».
Anche E. Marzaduri, nel corso dell’audizione del 17 novembre 2020 (resoconto stenografico: XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it)) davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati, osserva che, sul piano sistematico, il mutamento della regola di giudizio può determinare uno “spostamento” del peso della fase delle indagini preliminari, a detrimento del luogo privilegiato di formazione e valutazione della prova, con il rischio di sminuire il principio del contraddittorio nella formazione della prova tutelato dall’art. 111 Cost.

45. Tra essi, a commento di una sentenza di legittimità meno ortodossa, cfr. L. Semeraro, Con viva e vibrante soddisfazione, op. cit.