Magistratura democratica

Le novità in tema di giudizio di legittimità. Cenni sulla revisione europea

di Raffaello Magi

La riforma del sistema delle impugnazioni penali (d.lgs n.150 del 2022), seppur con efficacia differita al 31 dicembre del 2023, tende a responsabilizzare gli attori del processo, specie sul terreno delle modalità di trattazione del giudizio. La funzione di controllo della decisione, anche in sede di legittimità, risulta affidata essenzialmente al contraddittorio cartolare, con le opportune eccezioni. L’Autore esamina le diverse forme procedimentali e si sofferma sul nuovo istituto della cd. revisione europea.

1. Ambito della riflessione / 2. Le modalità di trattazione del ricorso per cassazione / 3. Il rapporto tra improcedibilità e confisca / 4. Cenni sulla revisione europea

 

1. Ambito della riflessione

Il presente contributo mira, in prima battuta, a mettere in evidenza le variazioni apportate dal d.lgs n. 150 del 2022 alla disciplina legislativa della trattazione del giudizio di legittimità, e a spendere qualche prima riflessione sull’inedito istituto della cd. “revisione europea”. Nondimeno, in esordio, è utile introdurre qualche sintetica notazione su alcune modifiche che investono temi di portata generale in materia di impugnazioni. 

Come è noto, è stato modificato il testo dell’art. 581 cpp (forma dell’impugnazione). Orbene, pur trattandosi di disposizione sistematicamente inserita nel corpo delle disposizioni generali che regolano la disciplina delle impugnazioni, è da ritenere che le modifiche inerenti alle disposizioni generali in tema di modalità di redazione e deposito dell’atto di impugnazione (art. 581, commi 1-bis, 1-ter e 1-quater, cpp) non siano applicabili con certezza al giudizio di legittimità. 

Di certo non lo è il comma 1-bis, dedicato in modo espresso alla ipotesi di inammissibilità dell’atto di appello per genericità dei motivi (con traduzione dei principi elaborati in sede di legittimità). Di dubbia applicazione sono le altre due disposizioni (in tema di elezione di domicilio e mandato ad hoc conferito dall’assente), posto che le previsioni di legge fanno riferimento, in chiave di strumentalità, alla notifica del decreto di citazione a giudizio. Ora, non solo nel giudizio di cassazione non vi è alcuna “citazione a giudizio”, ma in presenza di nomina fiduciaria (ex art. 613 cpp) il domicilio ex lege delle parti è presso i rispettivi difensori, destinatari degli avvisi, il che determina una sensibile inutilità della disposizione in parola. Solo in ipotesi di difensore di ufficio l’imputato è destinatario dell’avviso, il che rende funzionale il contenuto delle citate disposizioni a tale limitata ipotesi.

Altra questione di carattere generale – che introduce temi potenzialmente rilevanti tanto per il giudizio di appello quanto per quello di legittimità – è relativa all’attribuzione del potere di decidere sui contenuti dell’impugnazione proposta per i soli interessi civili (art. 573, comma 1-bis, cpp).

Qui, la scelta del legislatore è stata quella di attribuire – previa la sola verifica di ammissibilità – la trattazione del giudizio di impugnazione al giudice o alla sezione civile competente, che decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile.

La competenza, a parere di chi scrive, va rapportata al grado in cui si trova il procedimento e, pertanto, la corte di appello penale, previa verifica di ammissibilità dell’atto di impugnazione, trasmetterà il fascicolo alla omologa sezione civile, così come la Corte di cassazione. Si tratta di un’opzione che mira, da un lato, ad alleggerire il carico degli uffici penali di secondo grado (e di legittimità); dall’altro, a realizzare un equilibrio di sistema correlato al fatto che il giudizio resta vivo per esclusiva volontà del titolare dell’azione civile, con attribuzione dei poteri valutativi sui contenuti dell’impugnazione al giudice civile (rendendo vieppiù concreto il contenuto della decisione Corte cost., n. 182/2021, intervenuta a delimitare l’ambito dei poteri decisori in riferimento all’ipotesi di cui all’art. 578, comma 1, cpp).

È il caso di segnalare che, in difetto di disposizioni transitorie, sin dalle prime applicazioni della disposizione citata si è registrato – in sede di legittimità – un contrasto, circa l’individuazione del regime intertemporale, tra coloro che ritengono la norma di immediata applicazione, anche in riferimento a sentenze emesse prima della vigenza del d.lgs n. 150/2022, non riguardando l’an del potere di impugnare (che resta garantito) ma il quomodo, ossia la trattazione del giudizio (in tal senso, sez. IV, sent. 11 gennaio 2023, n. 2854), e coloro che ritengono la disposizione applicabile alle sole decisioni emesse dopo il 31 dicembre 2022, trattandosi di variazione di assetto del giudizio tale da rientrare nell’ambito applicativo del principio di diritto espresso da sez. unite, lista del 2007 (in tal senso, sez. V, 20 gennaio 2023, n. 3990). Circa tale aspetto, è stata rimessa la soluzione del contrasto interpretativo alle sezioni unite penali.

Ciò che, però, desta maggiori perplessità sul piano sistematico, è – in ogni caso – la scissione tra valutazione sulla «ammissibilità» dell’atto di impugnazione (attribuita al giudice del procedimento penale) e «prosecuzione» del giudizio (attribuita al giudice civile), che realizza un inedito frazionamento dei poteri giurisdizionali tra giudici dell’impugnazione diversi. 

È verosimile ritenere che la specificazione sul “controllo di ammissibilità” in capo al giudice penale originariamente investito dalla parte impugnante sia figlia di una volontà di equiparazione tra l’ipotesi in trattazione e quella prevista in caso di improcedibilità per superamento dei termini di durata del giudizio d’impugnazione (vds. art. 578, comma 1-bis, cpp). In tale seconda ipotesi, tuttavia, il richiamo legislativo al previo controllo di ammissibilità dell’impugnazione (proposta avverso una decisione di condanna) ha un indubbio significato “politico” di prevalenza dell’opzione dogmatica che antepone la verifica di ammissibilità del ricorso per cassazione (sulla falsariga dei principi affermati da sez. unite, 2000, ric. De Luca, e successive sul tema) alla “presa d’atto” dell’improcedibilità, aspetto che non si rinviene nell’ipotesi in cui l’impugnazione sia ab initio proposta per i soli interessi civili.

 

2. Le modalità di trattazione del ricorso per cassazione

Al netto della premessa sviluppata nel paragrafo che precede, occorre affrontare ora le novità che – più da vicino – interessano lo svolgimento del giudizio di legittimità.

Il novum normativo prende spunto – in tutta evidenza – dalle semplificazioni introdotte nel periodo di emergenza pandemica, con valorizzazione della trattazione scritta anche nei casi in cui la tipologia di atto impugnato rende possibile la discussione orale, cercando di armonizzare l’assetto complessivo dei diversi “riti” che ormai affollano il giudizio di cassazione.

È dunque opportuno specificare cosa cambia e cosa resta inalterato, sì da realizzare una sorta di “mappa” delle possibili opzioni e modalità di trattazione del ricorso.

Va precisato, anzitutto, che nessuna variazione è intervenuta in riferimento a quanto previsto dall’articolo 610 del codice di rito.

Resta ferma, pertanto, la generale previsione per cui, se in sede di “verifica preliminare” del fascicolo il presidente della Corte di cassazione (o il magistrato a ciò delegato) individua una possibile causa di inammissibilità del ricorso, lo assegna ad apposita sezione (individuata tabellarmente nella sezione VII).

Come è noto, l’assegnazione alla sez. VII avviene sulla base dell’individuazione di una specifica ipotesi di inammissibilità, comunicata almeno trenta giorni prima dell’udienza camerale (fissata dal presidente di sezione) al procuratore generale e ai difensori. 

Si avvia, pertanto, un procedimento semplificato di contraddittorio cartolare, nell’ambito del quale possono essere prodotte memorie[1]

Dall’assegnazione preliminare alla sez. VII non deriva vincolo alcuno quanto alla “sorte” del ricorso, posto che il collegio può dissentire dall’opinione espressa in sede di prima verifica e trasmettere gli atti – con mero provvedimento interno - alla sezione tabellarmente competente[2].

 

2.1. Ma quello testé richiamato non è l’unico procedimento semplificato attivabile in sede di verifica preliminare del ricorso, posto che l’art. 610, al comma 5-bis (introdotto dalla l. n. 103/2017) prevede – tuttora – specifiche ipotesi che determinano una trattazione “super-semplificata” di taluni ricorsi[3]

In tal caso, la cancelleria non è tenuta a dare avviso alle parti, la trattazione de plano avviene in camera di consiglio (è indifferente se presso la sez. VII o quella competente in via ordinaria) e l’ordinanza decisoria è impugnabile con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 625-bis cpp . 

 

2.2. Operate tali doverose premesse, e precisato che la riforma – salvo un limitato aspetto[4] – non incide: a) sulla tipologia dei casi di ricorso; b) sulla cognizione della Corte di cassazione; c) sulla descrizione delle opzioni decisorie, può essere illustrata la parte innovativa, correlata essenzialmente alle modalità di trattazione dei ricorsi[5]

Al novellato articolo 611 viene rafforzato lo statuto “speciale” dell’udienza di legittimità (per i ricorsi trattati non presso la sez. VII e non de plano), solo in apparenza modellato su altre previsioni codicistiche[6]

Il modello “di base” è quello della cd. “udienza camerale non partecipata” (art. 611, comma 1), che prevede:

a) la fissazione dell’udienza con avviso dato alle parti almeno trenta giorni prima della data di trattazione;

b) il contraddittorio meramente cartolare, con deposito della requisitoria del procuratore generale fino a quindici giorni prima dell’udienza e deposito di motivi nuovi e memorie nel medesimo termine; le memorie di replica sono ammissibili se depositate fino a cinque giorni prima;

c) l’assenza delle parti all’udienza di trattazione. 

Quali le deroghe a simile modello?

La prima è correlata alle ipotesi di udienza sempre camerale, ma eventualmente partecipata (art. 611, comma 1-bis, lett. a).

Nelle ipotesi in cui la legge prevede la trattazione del ricorso «con l’osservanza delle forme previste dall’art. 127»[7], la disciplina è differente:

a) quanto ai termini, posto che l’avviso di fissazione è comunicato o notificato almeno venti giorni prima dell’udienza (comma 1-quinquies);

b) quanto alle modalità partecipative, posto che è consentita la richiesta del ricorrente di intervenire in udienza, entro cinque giorni – a pena di decadenza – dalla ricezione dell’avviso di fissazione;

c) ove la richiesta sia tempestiva, l’udienza si terrà nella forma della camerale partecipata (con avviso trasmesso dalla cancelleria alle parti) mentre, in caso contrario (mancata richiesta o rigetto della medesima)[8], il contraddittorio sarà meramente cartolare, con deposito della requisitoria scritta del procuratore generale entro i dieci giorni antecedenti l’udienza e memorie di replica entro i tre giorni;

d) residua il potere ufficioso della Corte[9] di disporre la trattazione camerale partecipata per la rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame, ai sensi del comma 1-quater.

La seconda ipotesi di udienza camerale riguarda la trattazione dei ricorsi avverso le sentenze di secondo grado emesse in camera di consiglio, non partecipata ai sensi del nuovo art. 598-bis, salva l’ipotesi in cui l’appello abbia avuto ad oggetto la specie o la misura della pena (vds. art. 611, comma 1-bis, lett. b).

In tal caso, tuttavia, resta ferma la notifica dell’avviso nel termine ordinario di trenta giorni, con possibile richiesta di “trattazione in presenza” nel termine di dieci giorni dalla ricezione dell’avviso di fissazione. 

All’ipotesi, inoltre, di trattazione in presenza disposta ex officio, per la rilevanza delle questioni oggetto del ricorso, va aggiunta la possibilità di disporre la trattazione partecipata (qui è da ritenersi, esclusivamente, con deliberazione collegiale)[10] nel caso in cui la Corte ritenga di dare al fatto (oggetto del giudizio di merito) una definizione giuridica diversa, ai sensi del comma 1-sexies

La terza deroga a quello che abbiamo definito il modello “ordinario” riguarda la eventuale trattazione in udienza pubblica per i ricorsi proposti avverso: a) le sentenze emesse in dibattimento; b) le sentenze emesse all’esito di rito abbreviato.

In questo caso si prescinde, è bene dirlo, dai punti della decisione oggetto di contestazione nel ricorso e la disciplina è correlata alla tipologia di decisione.

La richiesta di trattazione orale – qui in udienza pubblica – può avvenire entro dieci giorni, a pena di decadenza, dalla ricezione di avviso di fissazione[11]. In mancanza della richiesta o di sua inammissibilità, l’udienza rientra nel modello ordinario (art. 611, comma 1), salva l’ipotesi di fissazione in pubblica udienza dovuta all’esercizio dei poteri ufficiosi (rilevanza delle questioni o possibilità di una diversa qualificazione del fatto). 

 

2.3. Si tratta, come può notarsi a prima lettura, di una ragionata “messa a regime” delle disposizioni emesse durante l’emergenza pandemica, il cui impatto applicativo – quanto all’invocato recupero di efficienza – dipenderà, in larga misura, da scelte discrezionali dei diversi soggetti processuali.

Altamente condivisibile, in chiave di rispetto dei principi generali del giusto processo, appare l’ampia facoltà ex officio di fissazione in udienza pubblica di ricorsi tesi a “contestare” la regolarità dell’affermazione di responsabilità penale, con formula normativa (rilevanza delle questioni) opportunamente elastica. Si evoca il “giusto processo” perché la manifestazione esterna e percepibile dell’indipendenza e imparzialità della giurisdizione si invera anche attraverso la pubblicità delle udienze. In questa prospettiva, appare condivisibile la scelta per cui la trattazione in udienza pubblica possa anche prescindere dalla richiesta di una delle parti, trattandosi di aspetto che – ferma restando la particolare natura del giudizio di legittimità – realizza una delle condizioni di legittimazione democratica dell’intera giurisdizione. Sul punto, va evidenziato che se, da un lato, la garanzia della pubblicità si rapporta, anche secondo le decisioni della Corte di Strasburgo, essenzialmente alla fase del giudizio di primo grado (ove si elabora la prova), dall’altro l’esigenza di trasparenza e adeguata ponderazione degli argomenti introdotti negli atti di impugnazione determina l’opportunità di una trattazione “aperta” in tutte le occasioni in cui la complessità dell’affare trattato e le ricadute della decisione sollecitino l’attenzione dell’opinione pubblica[12].

Al contempo, va ricordato che il giudizio di legittimità attribuisce alla Corte suprema la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti (ferme restando le ipotesi di intervento ex officio cui all’art. 609, comma 2) e nessuna brillante discussione orale può rimediare a un ricorso privo di argomenti concreti. È dunque sperabile che le richieste di trattazione in presenza da parte dei ricorrenti – ove previste dalla legge – siano figlie di un responsabile esercizio di un potere teso a valorizzare il momento dialettico dell’argomentazione – in diritto – su ciò che è stato introdotto tramite il ricorso.

In chiave sistematica, la tendenza alla marginalizzazione della “presenza delle parti” nel momento di discussione dei ricorsi risulterebbe allora portatrice di un equo contemperamento tra le esigenze di efficienza e quelle di ponderazione delle questioni, in un contesto che, come è noto, vede il supremo organo nomofilattico assediato da sopravvenienze annuali di notevolissima entità numerica[13]

Sarà il futuro a dire quale sia il punto di equilibrio che la prassi applicativa saprà trovare tra esigenze – talora in frizione tra loro – di efficienza (cui si accompagna sempre il rischio di burocratizzazione) e di pubblicità delle forme di esercizio della funzione nomofilattica.

 

3. Il rapporto tra improcedibilità e confisca

Merita un cenno, in conclusione, la disciplina introdotta all’articolo 578-ter cpp in tema di rapporti tra improcedibilità e confisca[14]

La soluzione adottata in sede di attuazione del criterio di delega[15] prevede, in caso di sopravvenuta improcedibilità per superamento dei termini di cui all’art. 344-bis e in presenza di statuizione di confisca in primo grado: 

a) il mantenimento della confisca nei (soli) casi in cui la legge la prevede obbligatoriamente, anche quando non sia stata pronunziata condanna[16];

b) la trasmissione degli atti – in tutti i restanti casi – ad alcuni dei soggetti titolari del potere di proposta in sede di misure di prevenzione patrimoniali, con mantenimento di efficacia del sequestro in sede penale limitato a novanta giorni dall’emissione dell’ordinanza. 

Si tratta di un segmento della riforma che realizza un’inedita “trasmigrazione” della misura reale (con pretesa ablativa ritenuta fondata in primo grado e implicante l’accertamento di responsabilità penale) dal procedimento penale al procedimento di prevenzione e che, ferma restando le innegabili affinità tra i due sistemi, non appare di semplice lettura.

La matrice della soluzione adottata è facilmente rinvenibile nella volontà del legislatore delegato di evitare, da un lato, la reimmissione nel circuito economico di beni di probabile derivazione illecita (essendo intervenuta condanna e confisca in primo grado); dall’altro, l’attribuzione al giudice dell’impugnazione (una volta verificatasi l’improcedibilità dell’azione penale) di poteri valutativi penetranti sul merito delle questioni controverse (data l’esistenza di una critica al primo giudizio su punti correlati alla statuizione di confisca, che resta non valutata).

Si è ritenuto, in particolare, di differenziare il funzionamento concreto dell’improcedibilità rispetto alla sopravvenienza della prescrizione del reato nel giudizio di impugnazione[17] (posto che l’art. 578-bis, come è noto, resta immutato e prevede la sopravvivenza del potere decisorio del giudice dell’impugnazione «ai soli effetti della confisca»), non soltanto con esclusione di uno spatium deliberandi limitato alla domanda patrimoniale (in capo al giudice dell’impugnazione penale), ma anche con la radicale trasformazione della fisionomia del nuovo giudizio post-improcedibilità: gli atti vanno trasmessi al titolare di una “diversa” azione patrimoniale, che dovrà avviare ex novo il giudizio (di prevenzione) di primo grado. 

Gli aspetti problematici, qui solo da proporre come temi di discussione, sono essenzialmente i seguenti:

a) se l’improcedibilità, una volta dichiarata, sottrae in toto il potere di valutazione al giudice dell’impugnazione circa i contenuti della decisione impugnata, risulta incoerente la previsione che fa salvo il potere di disporre la confisca delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato;

b) a fronte di un primo giudizio già celebrato in ambito penale, l’attribuzione del potere di valutare i contenuti dell’atto d’impugnazione, stante la improcedibilità penale, ben poteva essere realizzata verso un giudice di secondo grado, trattandosi di statuire su una critica, lì dove la disposizione citata impone la trattazione di un nuovo “primo grado” di giudizio;

c) la disposizione non chiarisce quale sia la conformazione legale del potere decisorio del giudice cui può essere attribuita la cognizione del nuovo procedimento. L’assenza di indicazioni espresse porta, in prima battuta, a ritenere applicabili le sole regole tipiche del procedimento di prevenzione di cui al d.lgs n. 159/2011[18]. Da ciò la considerazione per cui l’esito della nuova procedura ben potrebbe essere quello di “assenza delle condizioni” per procedere all’ablazione patrimoniale, in ragione del fatto che la base legale è ontologicamente diversa, pur essendovi, nelle due partizioni ordinamentali (penale/prevenzione), istituti che rispondono alla medesima finalità di recupero del profitto illecito derivante da reato[19]

Si tratta di questioni dal rilevante impatto sia teorico che pratico, data l’elevata incidenza delle confische sul terreno della politica criminale sviluppatasi negli ultimi vent’anni, il cui sviluppo dipenderà tanto dalla messa in opera della riforma che da possibili, ulteriori interventi legislativi. 

 

4. Cenni sulla revisione europea

Con l’introduzione dell’articolo 628-bis cpp si conclude (almeno sul piano del paradigma normativo) un percorso storico lungo e controverso, aperto dalla Corte di cassazione con la storica decisione sul caso Dorigo (del 2006)[20] e caratterizzato da una forte presa di posizione del giudice delle leggi intervenuta nell’anno 2011[21]

Al di là degli aspetti di tecnica interpretativa, si tratta di uno dei passaggi “valoriali” di maggiore importanza dell’intera riforma del 2021/2022, trattandosi di regolamentare le ricadute – sul piano interno – di una violazione dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dalla Convenzione europea del 1950, accertata dalla Corte di Strasburgo. In ciò si rafforza la dimensione sovranazionale, attraverso l’osservanza dei trattati, dei principi di legalità e democrazia, e si realizza uno strumento di adeguamento effettivo[22] del sistema interno ai contenuti di una decisione che accerta la violazione di uno dei diritti o delle libertà riconosciute dalla Convenzione. 

Viene promosso, sia pure con le modalità che verranno descritte in seguito – tese a condizionare l’esito della procedura all’effettiva incidenza della violazione sulla decisione interna – il diritto alla restitutio in integrum, al di là della valutazione operata dalla Corte di Strasburgo medesima circa le conseguenze della propria decisione[23]

 

4.1. La collocazione dell’istituto in un apposito capo del libro IX e la stessa – ampia – rubrica della disposizione («Richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dei Protocolli addizionali») paiono tese a sottolineare l’autonomia del particolare rimedio de quo, che si rivolge avverso decisioni necessariamente definitive in forza del principio di sussidiarietà espresso dall’articolo 35 della Convenzione[24] e che può essere solo “assimilato” alle impugnazioni straordinarie (viene da dire “tipiche”) della revisione (art. 630 cpp) o della rescissione del giudicato (art. 629 cpp).

In comune con l’istituto della revisione vi è – di certo – la possibilità data al soggetto condannato[25] di “travolgere” il giudicato[26], ma la fonte di tale epilogo è ben diversa dalla sopravvenienza di nova dimostrativi dell’ingiustizia della condanna, né può rifarsi alla categoria giuridica della inconciliabilità di giudicati. 

Del resto, nella stessa pronunzia del giudice delle leggi (Corte cost., n. 113/2011) la scelta sistematica di incidere – con sentenza additiva – sull’istituto codificato della revisione fu dichiaratamente “imposta”, all’epoca, dalla… inesistenza di altra e più idonea sedes dell’intervento additivo. 

La fonte è esclusivamente rappresentata da una decisione[27] emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che accerti la violazione di uno dei diritti riconosciuti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli. 

Il catalogo è pertanto molto ampio, posto che in ambito penale possono venire in rilievo non soltanto le “tradizionali” ipotesi disciplinate dagli artt. 6 (diritto all’equità del processo) e 7 (principio di legalità) della Convenzione, ma anche altri diritti o libertà riconosciuti, a mero titolo di esempio, dagli artt. 3 (proibizione della tortura), 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione), 10 (libertà di espressione), 11, (libertà di riunione e associazione), 1 Prot. 1 (protezione della proprietà) e 2 Prot. 4 (libertà di circolazione). Il processo penale e l’eventuale sanzione possono lambire o comprimere – a vario titolo – ciascuno di tali aspetti, con modalità che esigono adeguata base legale e proporzionalità.

 

4.2. La titolarità del potere di promuovere il “rimedio”, in ossequio ai chiari contenuti della legge delega n. 134/2021[28], è stata riconosciuta solo in capo al soggetto che ha ottenuto il riconoscimento della violazione in sede di trattazione del proprio ricorso presso la Corte Edu.

Ciò pone il primo, serio problema di tenuta costituzionale del nuovo istituto in riferimento alle situazioni “tendenzialmente conformi”, vissute da soggetti che non hanno esperito il ricorso individuale di cui all’art. 34 della Convenzione. 

La condizione, in altre parole, dei cd. fratelli minori (i soggetti che, pur avendo vissuto un trattamento analogo, ritenuto dalla Corte di Strasburgo lesivo di un diritto riconosciuto dalla Convenzione, non hanno esperito il ricorso individuale) resta caratterizzata, in negativo, dall’assenza di uno strumento processuale teso a promuovere (ove realizzabile) l’estensione degli effetti di una pronunzia resa inter alios

È evidente, tuttavia, che la possibilità di rivalutazione del giudicato in simili casi nasce da una obiettiva esigenza di parità di trattamento di situazioni analoghe (art. 3 Cost.) e si ricollega alla “tipologia” di violazione individuata dalla Corte di Strasburgo. 

Ove si tratti di un “vizio sistemico” ricollegato al particolare assetto della legislazione interna, è verosimile ipotizzare che la stessa Corte di cassazione (cui è opportunamente affidato il vaglio della richiesta del soggetto vittorioso) promuova (come è accaduto nel noto caso Scoppola) le iniziative giuridiche[29] idonee a raggiungere l’obiettivo di estensione della tutela. 

 

4.3. Al di là delle formalità in rito, il secondo punto interpretativo di sicura complessità, su cui dovrà intervenire la concretizzazione giurisprudenziale[30], è correlato alla conformazione legislativa del potere di valutazione della domanda attribuito alla Corte di cassazione[31]

A fronte di domanda formalmente ammissibile, la Corte accoglie la richiesta (di eliminazione degli effetti pregiudizievoli) quando la violazione accertata per natura e gravità ha avuto un’incidenza effettiva sulla decisione interna.

La direzione della verifica – al di là delle diverse possibili forme di prosecuzione del giudizio – non pare dunque orientata a realizzare l’espressione di un “argomentato dissenso” dai contenuti della decisione definitiva emessa dalla Corte di Strasburgo (i quali appaiono, pertanto, vincolanti)[32], quanto piuttosto ad apprezzare il nesso causale tra “punto” della vicenda censurato dalla Corte Edu e integrità della decisione emessa.

Ciò appare diretta conseguenza dell’ampiezza del catalogo dei diritti potenzialmente violati, che non riguardano esclusivamente i profili dell’ingiustizia del processo (art. 6 Cedu) o della precarietà della base legale (art. 7 Cedu), ma si estendono ad aspetti che potrebbero aver riguardato una fase incidentale del giudizio, su cui la riparazione pecuniaria potrebbe risultare sufficiente.

Al contempo, anche la violazione di taluni profili in rito (si pensi al tema dell’udienza pubblica non tenuta) potrebbe essere ritenuta non già “grave” (tutte le violazioni di un diritto fondamentale tendono ad esserlo) quanto non incidente sulla decisione finale, lì dove non venga allegato un pregiudizio concreto all’idoneità della difesa comunque realizzata.

Sta di fatto che, tramite l’attivazione dello strumento tipico di adeguamento – molto atteso –, viene ad essere realizzato un reticolato normativo che non potrà che contribuire a migliorare, attraverso i casi concreti, il livello di quel “dialogo” tra le corti, che rappresenta il fronte avanzato della tutela dei diritti fondamentali della persona. 

 

 

1. Non sono ritenute necessarie, per detta udienza camerale, le conclusioni scritte del procuratore generale. Sul punto, il quinto periodo dell’art. 610, comma 1, compie un generico riferimento al comma 1 dell’art. 611, nel cui ambito si prevede tuttora il deposito delle conclusioni scritte del procuratore generale (così come nella disciplina previgente), ma il riferimento è stato sinora inteso – data la snellezza del procedimento in questione – esclusivamente alla modalità di esame del ricorso da parte del collegio. Sul punto, vds. ord. sez. VII, n. 22168/2015, rv 263624, secondo cui la partecipazione del procuratore generale al procedimento in camera di consiglio davanti all’apposita sezione istituita ai sensi dell’art. 610, comma 1, cpp è facoltativa, non avendo egli l’obbligo di formulare le conclusioni, in quanto trattasi di procedura caratterizzata da un contraddittorio cartolare in cui sono eventuali le memorie delle parti e la requisitoria del pubblico ministero.

2. La quale, a sua volta, si determina senza vincolo alcuno rispetto alla delibazione compiuta dal collegio della sezione VII – vds. sez. VI, sent. 8 ottobre 2015, n. 1073, dep. 2016, rv 266727.

3. Si tratta dei ricorsi affetti da particolari ipotesi di inammissibilità (difetto di legittimazione, non impugnabilità del provvedimento, erronea presentazione, tardività, rinunzia) o proposti avverso definizioni concordate (artt. 444 e 599-bis cpp). Anche in tal caso il collegio non è vincolato alla valutazione preliminare del magistrato addetto. 

4. Si tratta della particolare ipotesi di cui all’art. 623, comma 4, lett. b-bis, introdotta al fine di coordinare la disciplina dell’annullamento della sentenza impugnata con lo statuto dell’assenza. 

5. Menzione separata merita l’ipotesi di cui all’art. 578-ter cpp, cui si farà cenno infra (par. 3).

6. Il richiamo all’articolo 127 cpp (che disciplina in via generale il procedimento in camera di consiglio) non implica l’osservanza piena delle disposizioni in esso contenute (ampiamente derogate dall’art. 611, norma speciale), ma serve a identificare le ipotesi in cui, nei diversi momenti del procedimento, è prevista la ricorribilità (in tal modo) per cassazione del provvedimento emesso, e attribuisce alle parti la facoltà di chiedere di partecipare all’udienza camerale (vds., ad esempio, la nuova disciplina in tema di rinvio pregiudiziale per la decisione sulla competenza per territorio ai sensi dell’art. 24-bis, comma 3; la risoluzione del conflitto di giurisdizione o competenza ai sensi dell’art. 32; la decisione in tema di rimessione ai sensi dell’art. 48; il ricorso in tema di misure cautelari personali o reali ai sensi degli artt. 311 e 324). 

7. Vds. nota 8. 

8. Una questione interpretativa riguarda la titolarità del potere di delibazione della richiesta della difesa del ricorrente o del pg. La lettera della legge – «la Corte (...)» – pare alludere a una deliberazione collegiale, ma è ragionevole ritenere che l’intentio legis sia quella di attribuire la particolare competenza, quantomeno in fase preliminare, al presidente di sezione, sulla falsariga di quanto previsto in via generale dall’art. 610, comma 3, cpp. Ciò non toglie che diversa determinazione, rispetto alla decisione provvisoria presidenziale, potrà essere assunta in udienza dal collegio. 

9. Si ritiene, quanto alla titolarità del potere, di proporre la medesima soluzione di cui alla nota che precede.

10. Si tratta, a differenza delle ipotesi di mera presa d’atto della tempestività o meno della domanda di trattazione orale (cfr. le note che precedono), di una valutazione che non può che fondarsi su l’esame del ricorso e della decisione impugnata e che implica l’esercizio di prerogative tipicamente collegiali. Si rende necessario il contraddittorio preventivo sull’ipotesi di diversa qualificazione del fatto, in aderenza alle pronunzie della Corte Edu. 

11. La formulazione della norma porta a ritenere non ammissibile una domanda di trattazione orale proposta prima della ricezione dell’avviso di fissazione, indicato come dies a quo della domanda medesima. Ovviamente si tratta di una riflessione a prima lettura, trattandosi di un aspetto su cui dovrà formarsi la prassi applicativa. 

12. È il caso di evidenziare che, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 80/2011), è ragionevole che la pubblicità del giudizio venga modellata dal legislatore in rapporto all’oggetto del giudizio, posto che anche per la Corte Edu le restrizioni nelle fasi delle impugnazioni non si pongono in contrasto con i canoni del giusto processo: «Tale orientamento si esprime segnatamente nell’affermazione per cui, al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta. In specie, i giudizi di impugnazione dedicati esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto possono soddisfare i requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nonostante la mancata previsione di una pubblica udienza davanti alle corti di appello o alla Corte di cassazione (ex plurimis, sentenza 21 luglio 2009, Seliwiak contro Polonia; Grande Camera, sentenza 18 ottobre 2006, Hermi contro Italia; sentenza 8 febbraio 2005, Miller contro Svezia; sentenza 25 luglio 2000, Tierce e altri contro San Marino; sentenza 27 marzo 1998, K.D.B. contro Paesi Bassi; sentenza 29 ottobre 1991, Helmers contro Svezia; sentenza 26 maggio 1988, Ekbatani contro Svezia). La valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all’aula di udienza – uno degli strumenti di garanzia della correttezza dell’amministrazione della giustizia – si apprezza, difatti, secondo un classico, risalente ed acquisito principio, in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative». 

13. Le sopravvenienze in ambito penale, dopo la flessione del 2020 dovuta all’emergenza pandemica, sono di nuovo ritornate intorno alla quota dei 50.000 procedimenti annuali. Nel corso dell’anno solare 2022 risultano depositate (comprensive di motivazioni) ben 49.800 decisioni (dato che comprendono sia le sentenze che le ordinanze dichiarative di inammissibilità emesse presso la sez. VII). La media algebrica per ogni consigliere si posiziona intorno ai 450 provvedimenti depositati per anno. Non vi è dubbio alcuno circa la permanente necessità di intervenire non tanto e non solo sul rito, attraverso la flessibilità dei moduli procedimentali (come sinora avvenuto), quanto sul ruolo complessivo della Corte suprema e sulla sua collocazione ordinamentale, attraverso un ripensamento delle “condizioni di accesso” al giudizio di legittimità. Si tratta di un tema di estrema delicatezza, su cui sviluppare riflessioni più ampie in chiave di sostenibilità (o meno) di un controllo attivabile su ogni decisione che – in rapporto ai numeri di cui sopra – rischia di divenire formale. 

14. «Il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare l’azione penale improcedibile ai sensi dell’articolo 344-bis, dispongono la confisca nei casi in cui la legge la prevede obbligatoriamente anche quando non è stata pronunciata condanna.
2. Fuori dai casi di cui al comma 1, se vi sono beni in sequestro di cui è stata disposta confisca, il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare l’azione penale improcedibile ai sensi dell’articolo 344-bis, dispongono con ordinanza la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto o al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo competenti a proporre le misure patrimoniali di cui al titolo II del Libro I del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.
3. Il sequestro disposto nel procedimento penale cessa di avere effetto se, entro novanta giorni dalla ordinanza di cui al comma 2, non è disposto il sequestro ai sensi dell’articolo 20 o 22 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159».

15. Va segnalato che il testo della disposizione non corrisponde a quello della proposta elaborata dal Tavolo di lavoro istituito presso l’Ufficio legislativo del Ministero della giustizia, ove si prevedeva la prosecuzione del giudizio di impugnazione, con termine di durata ad hoc, ai soli fini del giudizio sulla misura patrimoniale. 

16. È da ritenersi che la disposizione si riferisca alle sole ipotesi di cui all’art. 240, comma 2, n. 2, cp (cose la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato), data la locuzione utilizzata. 

17. Anche rispetto alla nuova disciplina della improcedibilità in caso di statuizioni civili emesse nel grado precedente, posto che in tali casi, come si è notato (art. 578, comma 1-bis), la trasmigrazione del giudizio avviene al giudice civile del medesimo grado e vi è espressa menzione della previa verifica di ammissibilità del ricorso, aspetto che non viene qui ribadito. È tuttavia preferibile, sul piano sistematico, ritenere che, anche nell’ipotesi di improcedibilità di cui si parla nel testo, la verifica di ammissibilità del ricorso sia prioritaria (in quanto l’atto inammissibile determina una pendenza solo apparente del giudizio d’impugnazione, fino a quando il titolare del potere di rilevare la inammissibilità non provvede a dichiarala) e impedisca la declaratoria di improcedibilità. Si tratta, tuttavia, di questione interpretativa aperta, posto che la declaratoria di inammissibilità, come è noto, si spinge in sede di legittimità anche alla verifica di manifesta infondatezza del ricorso, aspetto che indubbiamente implica una valutazione dei suoi contenuti. Nel senso indicato in precedenza, in motivazione, vds. sez. VII, ord. n. 43883/2021.

18. In tale direzione, con considerazioni critiche, F. Menditto, La riforma penale (l. n. 134/2021): le disposizioni in materia di sequestro e confisca dello schema di decreto delegato presentato dal Governo, in Sistema penale, 14 settembre 2022. 

19. L’ambito ristretto della presente trattazione non consente di sviluppare le questioni poste nel testo. Di certo, l’applicazione della confisca di prevenzione non può dipendere da logiche sanzionatorie (il che porta ad escludere la possibilità di disporre in tal sede le ipotesi di confisca per equivalente, data la natura giuridica sanzionatoria riconosciuta a tale forma di ablazione) ed esige il previo inquadramento tipico della pericolosità soggettiva, secondo le indicazioni legislative e giurisprudenziali (vds. Corte cost., sent. n. 24/2019) maturate negli ultimi anni e relative al recupero di tassatività in tale settore dell’ordinamento. 

20. Nella sentenza emessa, il 1° dicembre 2006, dalla I sezione penale della Corte di cassazione (caso Dorigo), con ritenuta applicabilità dell’art. 670 del codice di rito, venne con forza evidenziata la «sofferenza sistematica» derivante dal fatto che, a fronte dell’accertata violazione del diritto fondamentale riconosciuto dalla Convenzione, non era stato introdotto nell’ordinamento interno uno strumento giuridico idoneo a determinare la riapertura del giudizio di cognizione, con piena elusione dell’art. 46 della Convenzione europea (come modificato dal Prot. 13 maggio 2004, n. 14, ratificato con l. 15 dicembre 2005, n. 280). Conviene, per la particolare efficacia della prosa utilizzata, rievocare uno stralcio di tale decisione (pres. Fazzioli; rel. Silvestri): «Eppure resta urgente e non più differibile la necessità di un intervento legislativo che renda azionabile il diritto al nuovo processo anche nei casi nei quali l’accertata violazione della Convezione riguardi non la questione della partecipazione al processo (risolta ormai con la disciplina del novellato art. 175 c.p.p. sulla restituzione nel termine nei processi contumaciali), ma la lesione di garanzie di ordine sostanziale, accertata da una decisione della Corte europea, che abbia avuto influenza decisiva sull’esito del giudizio. Proprio l’assenza di un mezzo processuale per la rinnovazione del processo ha indotto la Corte di Appello di Bologna, chiamata ad esaminare la richiesta di revisione del Dorigo, a ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., lett. a), nella parte in cui esclude dai casi di revisione l’impossibilità che i fatti posti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza definitiva della Corte europea che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, per contrasto con gli artt. 3, 10 e 27 Cost. L’incidente di costituzionalità, volto a provocare una sentenza additiva, non è stato ancora deciso, sicché persiste il vuoto normativo segnalato e, a distanza di oltre otto anni dalla pronuncia della decisione della Corte europea, non è stata adottata alcuna misura legislativa che consenta al Dorigo di esercitare il diritto alla rinnovazione del processo, nonostante le ricorrenti raccomandazioni e risoluzioni del Comitato dei Ministri e dell’Assemblea Parlamentare precedentemente ricordate. Nell’ordinanza impugnata l’impossibilità di dichiarare ineseguibile la sentenza di condanna è stata esplicitamente fatta derivare anche dalla mancanza di un mezzo processuale che renda realizzabile la rinnovazione del giudizio. L’argomento non può non ritenersi fallace e privo di pregio se si considera che la prolungata inerzia dell’Italia corrisponde alla trasgressione dell’obbligo previsto dall’art. 46 della Convenzione di conformarsi alla sentenza definitiva della Corte europea e, quindi, costituisce una condotta dello Stato italiano qualificabile come “flagrante diniego di giustizia” (“detti de justice flagrant”). Ne segue che la tesi accolta dal giudice dell’esecuzione si risolve, in buona sostanza, nell’ammettere che la persistenza della detenzione del Dorigo possa trarre titolo dal conclamato inadempimento degli obblighi sanciti dalla Convenzione, vincolanti anche nell’ordinamento interno, e che l’esecuzione della pena possa cessare soltanto se e quando verrà meno l’illecito diniego di giustizia. È evidente, tuttavia, che i principi di legalità, di coerenza e di razionalità, dai quali è permeato l’intero ordinamento, rendono assolutamente inaccettabile una siffatta proposizione, che ha finito per capovolgere diametralmente l’esatta prospettiva interpretativa col disconoscere la precettività delle norme della Convenzione e la forza vincolante della decisione della Corte per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».

21. Con la sentenza n. 113 del 2011 la Corte costituzionale ha, come è noto, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cpp, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1 della Cedu, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte Edu.

22. Ai sensi dell’articolo 46, comma 1 della Convenzione, le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti. 

23. Richiamando la giurisprudenza della Corte Edu, così la citata decisione n. 113/2011 della Corte costituzionale: «La finalità delle misure individuali che lo Stato convenuto è tenuto a porre in essere è, per altro verso, puntualmente individuata dalla Corte europea nella restitutio in integrum in favore dell’interessato. Dette misure devono porre, cioè, «il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza della Convenzione» (ex plurimis: Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, punto 151; 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia, punto 55; 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia, punto 86). In quest’ottica, lo Stato convenuto è chiamato anche a rimuovere gli impedimenti che, a livello di legislazione nazionale, si frappongano al conseguimento dell’obiettivo: «ratificando la Convenzione», difatti, «gli Stati contraenti si impegnano a far sì che il loro diritto interno sia compatibile con quest’ultima» e, dunque, anche a «eliminare, nel proprio ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo a un adeguato ripristino della situazione del ricorrente» (Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, punto 152; Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidzé c. Georgia, punto 198). 

24. La Corte di Strasburgo non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne (sempre che risultino adeguate ed effettive) entro sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva. Del resto, la qualità soggettiva che deve essere prospettata in sede di ricorso individuale alla Corte di Strasburgo è quella di “vittima” di una violazione ricollegabile all’agire della parte contraente. 

25. La disposizione si dirige al “condannato” e al soggetto “sottoposto a misura di sicurezza”. Sinora, nelle applicazioni giurisprudenziali posteriori a Corte cost., n. 113/2011, si è ritenuta pacifica l’esperibilità di domande di restitutio in integrum anche da parte dei soggetti cui è stata applicata in via definitiva una misura di prevenzione, vittoriosi in un giudizio correlato a Strasburgo (vds. Cass., sez. V, n. 4463/2012, ric. Labita).

26. La revoca della sentenza o del decreto penale di condanna è uno dei possibili epiloghi del particolare procedimento introdotto dalla domanda del soggetto che ha visto “accertata” la violazione. 

27. Alla decisione definitiva è equiparata la cancellazione del ricorso dal ruolo ai sensi dell’art. 37 Cedu, dovuta al riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato. In simili casi, sarebbe stato irragionevole escludere l’effetto di “necessario adeguamento” solo in riferimento alla diversa modalità di definizione del ricorso individuale (vds. Cass., sez. V, n. 16226/2022).

28. Nella parte di interesse: «introdurre un mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di cassazione al fine di dare esecuzione alla sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, proponibile dal soggetto che abbia presentato il ricorso».

29. Come l’incidente di legittimità costituzionale della disposizione legislativa interna da cui è derivato il pregiudizio. 

30. Già nei primi mesi di vigenza della nuova disposizione, posto che la disposizione transitoria rende esperibile il rimedio anche in riferimento alle decisioni emesse dalla Corte di Strasburgo prima del 31 dicembre 2022 (vds. art. 91 d.lgs n. 150/2022), con proponibilità della domanda entro 90 giorni da tale data. 

31. L’attribuzione dei poteri valutativi all’organo nomofilattico deriva dalla necessità di consentire l’apprezzamento – in modo adeguato alla delicatezza dei temi – della tipologia e delle ricadute della violazione riscontrata dalla Corte Edu, sì da evitare la proliferazione di decisioni contrastanti. Del resto, l’avvenuta introduzione e formalizzazione di uno strumento processuale “tipizzato” rende non più proponibile, in prima battuta, il mero incidente di esecuzione di cui all’art. 670 cpp. 

32. Interessante, sul punto, notare che anche il richiamo contenuto nell’ottavo comma della disposizione in commento, ove si conferma l’esperibilità del rimedio anche lì dove la violazione accertata riguardi il diritto dell’imputato di partecipare al processo, testimonia la prevalenza dell’opinione espressa dalla Corte di Strasburgo, posto che, in forza del principio del previo esaurimento dei rimedi interni, l’imputato condannato in assenza – vittorioso a Strasburgo – dovrà aver previamente esperito, con esito negativo, il rimedio interno della rescissione.