Magistratura democratica

La riforma Cartabia: la disciplina organica della giustizia riparativa. Un primo sguardo al nuovo decreto legislativo

di Marcello Bortolato

Con il decreto legislativo in attuazione della legge delega 27 settembre 2021, n. 134 è stata definitivamente approvata la “disciplina organica” della giustizia riparativa.
L’idea di un modello di giustizia fondato essenzialmente sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro, nella sua contrapposizione alla tradizionale giustizia punitiva, ha un che di indubitabilmente rivoluzionario. Nel mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa già presenti nell’ordinamento in forma sperimentale – che stavano mostrando esiti fecondi –, la scelta italiana è stata quella di un percorso “parallelo” volto alla ricomposizione del conflitto: non una giustizia alternativa alla giustizia tradizionale (con superamento del paradigma punitivo), e nemmeno un modello sussidiario, bensì complementare, volto alla ricomposizione del conflitto poiché compito dello Stato è anche quello di promuovere la pacificazione sociale.
Anche il ruolo del giudice muta: egli si mette non sopra il conflitto ma dentro di esso per risolverlo, non si limita ad assolvere o a condannare e, senza perdere la sua neutralità, compie il difficile cammino verso una ricomposizione che riqualifica sia il senso di un processo giusto che il senso stesso della pena inflitta.

Il decreto legislativo in attuazione della legge delega 27 settembre 2021, n. 134 è stato definitivamente approvato anche per quanto riguarda la “disciplina organica” della giustizia riparativa (art. 1, comma 18, lett. a della legge).

Quando parliamo di “giustizia riparativa” parliamo di “diritto”? Una domanda tanto importante quanto più a porsela sono i magistrati che il diritto devono applicare.

Interrogarsi sull’idea di giustizia, cioè su quell’insieme di premesse culturali e di strumenti normativi che sovrintendono all’equilibrio delle relazioni sociali, significa rendere conto dell’idea di giustizia che storicamente circola nel “clima sociale” di un’epoca e che è alimentata dal coinvolgimento culturale ed etico di ciascuno di noi. Allora, se il diritto è prima di tutto una dimensione dell’uomo e poi anche un prodotto sociale performato da quell’insieme di pensieri, sentimenti e impulsi con cui l’uomo orienta le relazioni sociali, possiamo dire che quando parliamo di giustizia riparativa parliamo di diritto. 

Oggi un ambizioso senso di onnipotenza scientifico-tecnologico sembra aver pervaso anche i territori del diritto (efficienza, celerità, processi telematici, giustizia predittiva), ma non dobbiamo dimenticare che il diritto è invece sempre intriso di eticità sociale.

Veniamo dunque alla “grande” idea di giustizia riparativa che, grazie a questo intervento normativo, riprende fiato e consistenza, riaffiorando da un antico passato sempre presente. Perché quello che dobbiamo dire, prima di tutto, è che la giustizia riparativa esiste già, è un fatto sociale, non la si può sopprimere (ed anzi, disseminati qua e là, vi sono già nei codici e nelle leggi degli istituti in senso lato ascrivibili alla restorative justice) e dunque si tratta solo di regolamentarne gli (eventuali) effetti giuridici nel processo (anche e soprattutto a garanzia dell’imputato, del condannato e della vittima), darvi insomma una regolamentazione, in qualche modo “istituzionalizzare”. Compito dello Stato è anche quello di promuovere la pacificazione sociale richiedendo a tutti, come recita l’art. 2 Cost., l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà («politica, economica e sociale»), e pacificare i conflitti rientra certamente tra i doveri inderogabili di solidarietà.

Dico subito che l’idea di una giustizia della riparazione, nella sua contrapposizione sostanziale alla tradizionale giustizia punitiva, ha un che di indubitabilmente rivoluzionario, in quanto modello di giustizia fondato essenzialmente sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro. Sappiamo, invece, quanto la giustizia tradizionale sia spersonalizzata perché molto lontana – pensiamo proprio alla vittima, marginalizzata nel processo in quanto costretta nel ruolo unico di testimone o di parte civile richiedente un risarcimento in denaro (che ancora non significa riparazione) – da quel groviglio di sentimenti, emozioni, paure e angosce originate dal reato. Se la giustizia riparativa è un modello compiutamente articolato per la trattazione e la soluzione di conflitti sociali, la giustizia punitiva invece quasi mai risolve il conflitto, anzi lo alimenta con quel perverso meccanismo che conosciamo del “raddoppio del male”. In questo, il modello riparativo è rivoluzionario perché non “restituisce il colpo” come la giustizia tradizionale che è dura, punitiva (raffigurata, come sappiamo, con la spada, una giustizia dalla quale bisogna in qualche modo difendersi), ma offre uno spazio di dialogo, rigorosamente volontario, che non toglie il reo dallo sguardo delle vittime. Pensiamo alla pena di morte, l’espressione più estrema di giustizia punitiva: essa toglie del tutto il colpevole dallo sguardo delle vittime e impedisce l’incontro, il contrario della giustizia riparativa. 

La giustizia della riparazione introduce nel sistema una dialettica “tripolare”: non c’è più solo lo «Stato-guardiano» (nell’accezione di Massimo Donini), da un lato, che punisce e l’autore del reato, dall’altro, che subisce la pena; c’è anche la vittima, che è sparita dal processo a causa della tradizione del garantismo, ispirato com’è giusto allo scopo di impedire la vendetta privata e che vede bensì la vittima sostituita e protetta dallo Stato ma neutralizzata nel processo, spettatrice e spesso vittima due volte. Merito di una giustizia restorative è dunque, innanzitutto, recuperare la vittima e renderla protagonista della possibile riparazione che non si esaurisce, come si è detto, nel risarcimento economico.

Dal lato del reo – e questo è certamente l’aspetto più controverso –, la riparazione può far ripensare la pena, cioè la risposta punitiva, perché sottrae ad essa qualcosa: la pena tendenzialmente non può più essere quella che era originariamente se è intervenuta la riparazione. Diventa quella che Donini chiama «pena agita», nel senso di una pena che promuove comportamenti attivi. La pena subita, una pena come mezzo che sanziona senza aggiungere nulla, che infligge un male aggiuntivo raddoppiando il male commesso senza preoccuparsi di risanare la frattura prodotta dai comportamenti, rimane invece per chi non vuole avvalersi dei programmi di giustizia riparativa, è una sua scelta, al pari di quella del condannato che rifiuta il trattamento rieducativo perseguendo unicamente il riconoscimento della propria innocenza anche in sede esecutiva ovvero subendo la pena come mera espiazione.

Dobbiamo allora chiederci perché e in che misura lo Stato interviene ponendo una «disciplina organica», come ha imposto la legge delega 27 settembre 21, n. 134.

Interviene perché la riparazione, sebbene resti volontaria e mai imposta, viene favorita, sostenuta e affiancata alla pena anche eventualmente allo scopo – se raggiunta – di sottrarre ad essa qualcosa. In questa ottica vanno letti i timidi tentativi, nel decreto, di collegare all’esito riparativo raggiunto alcuni effetti sulla risposta sanzionatoria (si vedano gli interventi sulle circostanze del reato ex art. 62 cp, sulla determinazione della pena ex art. 133 cp - seppur solo richiamata nell’ambito dei poteri valutativi del giudice, art. 58 -, sulla sospensione condizionale ex art. 163 cp, sulla remissione di querela ex art. 152 cp). Deve, tuttavia, rimanere chiaro che la giustizia riparativa è una prassi (un fatto sociale) che nasce fuori sia dello Stato sia del processo, che lo Stato può solo regolare e promuovere e di cui giudice, pubblico ministero e difensore sono solo testimoni.

Da quanto detto, emerge già in parte la risposta alla domanda del perché una disciplina organica della giustizia riparativa anche in Italia. 

L’importanza di introdurre una normativa in materia è stata espressa una prima volta nelle «Linee programmatiche» della Ministra Cartabia, che raccolgono e sintetizzano le molteplici indicazioni internazionali, vincolanti e di soft law: il tempo era ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa già presenti nell’ordinamento in forma sperimentale, che stavano mostrando esiti fecondi.

Le più autorevoli fonti europee e internazionali (citiamo qui le tre più importanti: la risoluzione Onu n. 12/2002, la raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2018 e la cd. “direttiva vittime” 2012/29/UE, queste due ultime richiamate nella stessa legge delega) ormai da tempo hanno stabilito principi di riferimento comuni e indicazioni concrete per sollecitare gli ordinamenti nazionali a elaborare paradigmi di giustizia riparativa che permettano alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale (definizione tradotta quasi testualmente nell’art. 42, lett. a del decreto). Non mancavano in Italia ampie – benché non sistematiche – forme di sperimentazione di successo e non mancavano neppure proposte di testi normativi (come quello uscito dagli stati generali dell’esecuzione penale del 2015) che si facevano carico di delineare il corretto rapporto di complementarietà fra giustizia penale tradizionale e giustizia riparativa. 

Ecco, questo è il primo punto: la complementarietà.

La scelta italiana è stata quella di un percorso “parallelo”, volto alla ricomposizione del conflitto: non una giustizia alternativa alla giustizia tradizionale (con conseguente superamento del paradigma punitivo, con “rinuncia” cioè da parte dello Stato alla pretesa sanzionatoria), e nemmeno un modello di sussidiarietà (la pena, cioè, si applica solo se non si raggiunge l’esito riparativo, paradigma peraltro sperimentato con successo in alcuni Paesi e in alcuni momenti storici particolari - pensiamo al Sudafrica), entrambi modelli sussumibili sotto l’ampia categoria della cd. “diversion”, che risponde, del tutto lecitamente, a un’esigenza di economia della giustizia prevalentemente orientata verso modelli non custodiali, ma applicabile o solo a reati “bagatellari” (quelli della probation propriamente detta) o a grandi conflitti politico-sociali (apartheid, guerre civili, terrorismo).

Non è stata questa la scelta del legislatore nazionale, e chi pensa che con questo decreto avremo meno carcere e/o più premialità non è sulla buona strada. Il sistema punitivo tradizionale continuerà a costituire il presupposto dei programmi di giustizia riparativa e, del resto, l’imprescindibile volontarietà del ricorso ai programmi comporta inevitabilmente che il sistema penale non possa essere soppiantato dal nuovo modello di giustizia, anche perché le esigenze di prevenzione generale e di prevenzione speciale rimangono intatte. 

La complementarietà, invece, significa percorso parallelo che deve fare i conti, prima di tutto, con il modello riabilitativo dell’art. 27 Cost. (che, come si sa, opera o dovrebbe operare, compatibilmente con la presunzione di innocenza, fin dalla fase cognitiva) e che ha come obiettivo la ricollocazione sociale del reo, un obiettivo difficile da raggiungere, come è noto, che stride con una giustizia naturalmente più orientata alle vittime quale quella riparativa (ma attenzione: la restorative è una giustizia solo orientata alle vittime, non una giustizia che abbia la vittima al centro). Tuttavia, il legislatore delegato ha ritenuto, anche quando ha cercato di regolamentarne gli effetti in sede esecutiva, che la giustizia riparativa possa promuovere indirettamente quell’adesione al precetto – attraverso l’incontro nei programmi riparativi e la riparazione materiale o simbolica – che è, in definitiva, il reale scopo della minaccia di pena. Si prevede una sanzione per imporre l’obbedienza a un precetto, e cioè a quei valori di solidarietà che sono proprio la farina con cui è impastata la giustizia riparativa. Quindi, riparazione e rieducazione in realtà si saldano: l’esperienza ci insegna, del resto, quanto positivi siano nel campo dell’esecuzione della pena gli effetti dei programmi di giustizia riparativa sui percorsi di reinserimento dei condannati.

Ve detto subito che la giustizia riparativa va oltre il modello riparatorio in senso stretto (forme di condotte riparative successive al reato, che portano già degli effetti sostanziali anche nel modello di giustizia tradizionale: d.lgs n. 231/01, oblazione nelle contravvenzioni, indulto tributario, art. 163 cp, indulto urbanistico, sanatorie, etc.). Nel paradigma riparatorio si parla di condotte “prestazionali” in cui hanno un ruolo fondamentale il giudice, il pm e il difensore. Nella giustizia riparativa, invece, che attiene a una riparazione “interpersonale” (cioè senza giudice, senza pm, senza difensore), non è richiesta l’integrale riparazione (nel decreto vi è la definizione di “esito riparativo”), non è una prestazione definita e determinata, è solo l’esito di un percorso. È il passaggio da una pena classica a una “pena interrelazionale” e, così, anche il paradigma rieducativo dell’art. 27 Cost. è rinnovato perché il giudice deve capire che solo la pena agìta rieduca veramente.

Anche il ruolo del giudice muta totalmente: egli si mette non sopra il conflitto, ma dentro di esso per risolverlo, non si limita ad assolvere o a condannare. Ciò dà una speranza nuova al suo lavoro quotidiano. Il giudice non perde la sua neutralità, anzi la rafforza, riconoscendo pari dignità ai protagonisti del conflitto, un conflitto che esiste (il processo lo è già) tra chi è «indicato come autore dell’offesa» e la vittima, ma la riparazione “interpersonale”, promossa e non imposta, si svolge fuori dal processo. Nulla che non sia aderente alla libera scelta volontaria degli interessati. Il giudice, all’esito, ne raccoglierà gli effetti, solo se positivi. 

Una disciplina organica della giustizia riparativa era indispensabile: a livello normativo, consente di adempiere alla direttiva 2012/29/UE; a livello operativo, dà impulso alla costituzione di centri di giustizia riparativa sul territorio; a livello di funzionalità dei programmi di giustizia riparativa, contribuisce a individuare lo standard di formazione degli operatori di giustizia riparativa e di erogazione dei programmi di giustizia riparativa.

Adottare una normativa generale in materia di giustizia riparativa consente, inoltre, di allineare l’Italia a ordinamenti giuridici che hanno già da tempo optato in tal senso – citiamo, a titolo di esempio, il Criminal Justice (Victims of Crime) Act 2017 irlandese che, in particolare alla sezione 26 (Restorative justice), prevede una norma generale lineare e completa sulla giustizia riparativa.

Introdurre disposizioni puntuali, che aprano canali di accesso ai percorsi di giustizia riparativa nell’ambito di istituti già esistenti, consente inoltre di incoraggiare l’invio dei casi ai centri di giustizia riparativa (appositamente creati con questa legge in tutti i distretti di corte d’appello) e di agevolare la gestione a livello processuale degli esiti dei percorsi restorative.

Una disciplina organica esige un ambito definitorio, che è quello contenuto nell’art. 42 dello schema di decreto. Sono tutte definizioni direttamente ispirate ai principi di giustizia riparativa sanciti dalle fonti internazionali sopra richiamate, così come i principi e gli obiettivi stessi, tutti contenuti nell’art. 43.

Non vi è spazio per illustrare una per una le definizioni, ma val la pena osservare intanto che:

- nella definizione della «giustizia riparativa», lungi da ogni idealizzazione e astrattismo, si è fatto riferimento concreto al “programma”, strumento che, da solo, è idoneo a consentire la risoluzione delle questioni derivanti dal reato e dove già si evidenzia il carattere principale della restorative, la volontarietà: nulla di imposto, coercitivo, passivo e che non sia aderente alla libera scelta volontaria degli interessati; manca la “spontaneità” (in questo senso, e solo in questo, va letto il potere officioso del giudice di invio ai centri di giustizia riparativa ex art. 129 bis cpp). Non si può pensare che lo Stato, per quanto già detto, possa venir meno al suo compito di promozione della risoluzione dei conflitti (la legge delega addirittura sembrava riservare al giudice un potere esclusivo di iniziativa che, viceversa, nell’esercizio della delega è stato eliminato). Non si può pretendere che le parti spontaneamente aderiscano ai programmi anche senza una qualche sollecitazione pubblica (o privata, ben s’intende), che deriva dal generale favor per la giustizia riparativa, collocata tra l’altro all’interno di un complessivo disegno di riforma del processo penale volto a rendere più efficiente (leggasi: “più efficace”) la definizione dei procedimenti giudiziari. Non si può trascurare, infatti, il dato oggettivo per cui il raggiungimento di un esito riparativo conformante può determinare effetti favorevoli sulla definizione dei procedimenti penali; bisogna solo prenderne atto. Questo forse può far storcere il naso non solo ai cultori del processo (nella contrapposizione che si sta profilando fra “processualisti” arroccati a una difesa ad oltranza del cognitivismo del processo accusatorio, e dunque contrari a qualunque innesto riparativo, e “sostanzialisti” che sarebbero, invece, meglio disposti nei confronti di un nuovo paradigma che mette in discussione il concetto tradizionale di sanzione), ma anche ai “puristi” della giustizia riparativa, secondo i quali essa dovrebbe stare lontana dal processo e da ogni rischio di strumentalità. Ma il treno da prendere, peraltro collegato a un massivo investimento economico legato al PNRR, era questo;

- la definizione di «vittima del reato» (una novità) discende direttamente dalla norma vincolante contenuta nella direttiva 2012/29/UE e non coincide esattamente con le figure note dell’ordinamento nazionale (persona offesa, danneggiato, parte civile); essa è dunque applicabile solo nell’ambito dei programmi di giustizia riparativa. Da notare subito che l’art. 53, lett. a, estende i programmi riparativi anche alla vittima cd. “aspecifica”, la vittima cioè di un reato differente da quello per cui si procede, la quale non è un sostituto della vittima diretta, ma non è meno vittima di questa: essa è la vittima di un reato e non del reato. La possibilità di offrire la partecipazione a programmi di giustizia riparativa, sussistendone l’interesse, la volontà e il consenso libero e informato, anche alla vittima di un reato diverso – magari della stessa specie di quello per cui in ipotesi si procede – è uno specifico valore aggiunto della giustizia riparativa rispetto alla giustizia penale “convenzionale”: un esempio per tutti è la possibilità di coinvolgere in programmi la persona offesa di un reato che resta a carico di ignoti, persona alla quale, di tutta evidenza, la giustizia penale “classica” non ha nulla da offrire (si capisce qui come si tratti sempre di un percorso “parallelo”, indipendente dal processo);

- la definizione di «persona indicata come autore dell’offesa»: la scelta lessicale contempera il doveroso rispetto della presunzione di innocenza fino all’eventuale condanna definitiva da un lato e, dall’altro, l’esigenza di mantenere l’uguale considerazione della vittima e di colui che, pur ritenuto responsabile in via definitiva del reato, non sia sminuito per sempre dall’esperienza della colpa e dell’offesa. Essa ricomprende l’ampio ventaglio di soggetti che possono partecipare ai programmi di giustizia riparativa in materia penale, in qualità di: persona sottoposta alle indagini, imputato, persona sottoposta a misura di sicurezza, persona condannata con pronuncia irrevocabile e persona nei cui confronti sia stata emessa una sentenza di non luogo a procedere o non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’art. 344-bis cpp, o per intervenuta causa estintiva. Ai fini della disciplina organica della giustizia riparativa, la persona indicata come autore dell’offesa può essere sia una persona fisica sia un ente con o senza personalità giuridica (ciò anche in virtù dell’estensione all’ente delle disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili, ai sensi dell’art. 35 d.lgs 8 giugno 2001, n. 231). La vocazione organica della disciplina e il divieto di preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità, prescritto dal legislatore delegante, impongono di rendere fruibili i programmi di giustizia riparativa anche agli enti nei casi di responsabilità amministrativa da reato di cui al d.lgs n. 231/2001;

- fondamentale, per gli effetti che avrà nel processo, è la definizione di “esito riparativo”, nozione cruciale nell’economia della disciplina organica. Essa si ispira a quella di «restorative outcome» fornita dalle Nazioni Unite (par. I.3); la definizione si muove tra due opposte esigenze, non facilmente conciliabili: da un lato, l’esigenza di tassatività, determinatezza e precisione della materia penale; dall’altro, l’esigenza di cogliere nel testo normativo la flessibilità, e financo la creatività, della giustizia riparativa. La definizione ruota attorno ai lemmi «accordo», «riparazione dell’offesa», «riconoscimento reciproco» e «relazione», concetti mutuati dalla scienza della giustizia riparativa, i quali assumono qui la natura di “risultato” del metodo riparativo stesso. La nozione è da correlarsi strettamente con l’art. 56, dove l’esito riparativo è tassativamente disciplinato come esito “simbolico” o “materiale” (o entrambi), nonché con le disposizioni di modifica del codice penale, dell’ordinamento penitenziario e del d.lgs 2 ottobre 2018, n. 121 (ordinamento minorile). Se, in particolare, la “riparazione dell’offesa” è nozione già nota alla dottrina e alla cultura penalistiche, nuova e più ricca è la specifica incurvatura data dal programma di restorative justice alle condotte di riparazione, le quali possono essere, appunto, sia materiali che simboliche. Nuovo è, altresì, il riferimento all’idoneità dell’accordo che scaturisce dall’incontro a significare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti: concetti indispensabili a esprimere la tipica vocazione relazionale della giustizia riparativa, necessariamente aperta e flessibile e purtuttavia ricondotta nei confini della materialità, tassatività e determinatezza negli artt. da 56 a 58, dove la formulazione delle disposizioni è particolarmente attenta a tipizzare indicatori concreti, specialmente per le ipotesi in cui essi sono offerti all’apprezzamento dell’autorità giudiziaria per gli effetti processuali e sostanziali previsti dalla disciplina organica. Anche gli obiettivi di cui all’art. 43, comma 2, sono da leggersi nello specchio della nozione di esito riparativo.

Nell’art. 43 sono elencati i principi generali che governano la giustizia riparativa e gli obiettivi verso cui tende. Essi sono:

- la partecipazione attiva e volontaria (si è già detto);

- l’eguale considerazione dell’interesse della vittima e della persona indicata come autore dell’offesa: è il punto di equilibrio tra il “reocentrismo” della giustizia punitiva tradizionale e l’“orientamento alle vittime” che è tipico della restorative justice; questa è una caratteristica propria della disciplina italiana, che ne costituisce un elemento caratterizzante anche per il rispetto dovuto ai dettami costituzionali (artt. 3 e 27 Cost.); il punto è delicato e, per alcuni, “indigesto”: come si può attribuire pari dignità a reo e vittima? Innanzitutto perché lo impone la Costituzione, che non distingue (art. 3) i cittadini tra colpevoli e innocenti. Poi perché lo stesso processo, assistito dal garantismo, non attribuisce minore dignità all’imputato né al condannato, tant’è che esistono il giudice terzo e il ruolo costituzionale del difensore;

- il coinvolgimento della comunità (l’art. 45 consente la partecipazione ai programmi anche dei familiari della vittima e dell’autore del reato, di persone “di supporto”, di enti e associazioni e di enti pubblici e servizi sociali), poiché gli effetti del conflitto spesso si riverberano in ambiti più ampi di quelli reo-vittima;

- il consenso alla partecipazione (di cui si è già detto);

- la riservatezza: è la condizione indispensabile che assicura, da un lato, la genuinità dei percorsi riparativi (elemento caratterizzante di ogni programma di giustizia riparativa in quanto spazio di dialogo libero, protetto dalla confidenzialità) e, dall’altro, rende compatibile l’esperimento di un programma anche nella fase della cognizione, facendo salva in primo luogo la presunzione d’innocenza che, unita alla inutilizzabilità, assicura la genuina acquisizione della prova sia nella fase delle indagini che nella fase del processo;

- l’indipendenza dei mediatori e la loro equiprossimità rispetto ai partecipanti: principio cardine delle pratiche di giustizia riparativa. Mentre il giudice è terzo in quanto “neutrale”, il mediatore è terzo in quanto “sta nel mezzo”, né più in alto né più in basso, ma accanto a ogni partecipante (il termine “mediatore” non deve essere inteso come colui che cerca di “mediare” tra le parti in vista di una conciliazione, ma come colui che, appunto, nel conflitto “sta nel mezzo”).

Ritengo importante segnalare infine due importanti criteri che, soprattutto per i magistrati, dovranno guidare i loro interventi: 

1) l’accesso ai programmi di giustizia riparativa può essere limitato soltanto in caso di pericolo concreto per i partecipanti derivante dallo svolgimento del programma stesso (art. 43, comma 4); il principio internazionale di libera accessibilità ai programmi riparativi è tendenzialmente assoluto, ma vede come unico limite il pericolo per l’incolumità dei partecipanti e, dunque, il giudice potrà impedire l’accesso ai centri allorché dalla partecipazione stessa al programma possa derivare un qualche concreto pericolo all’autore del reato (si veda, in questo senso, anche il nuovo art. 129-bis, comma 3, cpp);

2) la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa (art. 58, comma 2); questo significa che, nell’ambito del procedimento penale, solo il raggiungimento di un “esito riparativo” può svolgere alcuni effetti a favore dell’imputato e del condannato, essendo l’intera disciplina organica della giustizia riparativa innestata nel procedimento penale pervasa dal divieto di valutazione in malam partem dell’eventuale fallimento del programma, colpevole o incolpevole che possa essere (sia nel senso della mancata partecipazione che nel senso del mancato raggiungimento di un esito riparativo); credo che questa traduzione normativa di un principio fondamentale già a livello sopranazionale renda perfettamente compatibile l’innesto della giustizia riparativa con i principi regolatori del procedimento penale italiano, primo fra tutti quello della presunzione di innocenza.

Vi è poi tutta la disciplina che riguarda i diritti, le garanzie e i doveri dei partecipanti, i doveri dei mediatori, la disciplina sullo svolgimento dei programmi, quella sulla valutazione dell’esito dei programmi da parte dell’autorità giudiziaria, gli innesti processuali e sostanziali, le leggi speciali, la fase esecutiva (con l’introduzione di un nuovo articolo nell’o.p.) e, infine, la formazione e i requisiti dei mediatori esperti.

Restano, in conclusione, due brevi osservazioni.

In primo luogo, con questa disciplina organica possiamo finalmente affermare, chiarendo un diffuso equivoco ancora esistente, che cosa “non è” giustizia riparativa. Non lo sono il risarcimento del danno, i lavori di pubblica utilità, le attività di volontariato sociale (in questi due ultimi casi si tratta, anche nel sentire comune, più di un peso inflitto al condannato per attenuarne il senso di libertà che di un fattivo impegno volto a promuoverne individualmente il senso di responsabilità, e dunque essi si inscrivono oggi ancora in un’ottica retributiva o di coercizione, che sono l’antitesi della giustizia riparativa), la probation propriamente detta (quella processuale della messa alla prova e quella in executivis dell’affidamento in prova al servizio sociale). La giustizia riparativa non è la retribuzione del terzo millennio né un alleggerimento della risposta sanzionatoria, non è un contrappasso che risponde a una logica tutta retributiva. Dovremo dunque abituarci sempre più alla distinzione terminologica tra “riparativo” e “riparatorio”, tenendo presente che se il risarcimento del danno lo può attuare solo chi ha mezzi economici sufficienti, la riparazione invece la può attuare chiunque. Quindi, innanzitutto, la riparazione non è di classe.

Infine il giudice, che da distributore di pene inflitte e subite si colloca, anche grazie alla giustizia riparativa, su un piano diverso, compiendo – senza perdere minimamente la sua neutralità – il difficile e prezioso cammino verso una ricomposizione che riqualifica sia il senso di un processo giusto che il senso stesso della pena inflitta.