Magistratura democratica

La riforma penale e la stretta sui tempi delle indagini

di Linda D’Ancona

La cd. "riforma Cartabia" ha investito la fase delle indagini preliminari di significative novità che, secondo molti operatori, determineranno problemi operativi e rilevanti incertezze interpretative, con il rischio tangibile di una sua burocratizzazione. Nel presente contributo ci si sofferma sulle “ragioni” della riforma e, senza trascurare le difficoltà sollevate – in termini sia di lettura sia di concreta attuazione – dal mutamento del sistema delle indagini preliminari, si affrontano le ricadute organizzative che essa potrà avere. 

1. Primum vivere, deinde philosophari / 2. Un giudice per il controllo sui tempi del procedimento / 3. Excursus: l’impatto della riforma sotto il profilo organizzativo / 4. La notizia di reato / 5. Il momento dell’iscrizione della notizia di reato / 6. Le ricadute in materia di attività di intercettazione / 7. Il sindacato sul momento dell’iscrizione della notizia di reato / 8. La proroga delle indagini preliminari / 9. L’archiviazione del procedimento / 10. La riapertura delle indagini / 11. Il controllo sulla legittimità della perquisizione / 12. L’opposizione alla richiesta di archiviazione / 13. Alcune novità che sarebbe stato utile introdurre (e che non sono state introdotte) / 14. Conclusioni: il giudice per le indagini preliminari come garante

 

1. Primum vivere, deinde philosophari

Primum vivere, deinde philosophari. La frase, attribuita a Thomas Hobbes, ben si adatta allo spirito con cui va affrontata la “riforma Cartabia”. Inutile perdersi in lamentazioni, additare come indebite le novità normative, ovvero assumere un atteggiamento oppositivo e sostenere che lo scopo della riforma è ridimensionare il ruolo del pubblico ministero, per spirito di rivalsa del legislatore nei confronti della magistratura: nonostante le polemiche emerse all’indomani della pubblicazione del decreto legislativo n. 150/2022, il decreto-legge n. 162/2022 – con cui è stata posticipata l’entrata in vigore della riforma – non ha modificato affatto (salvo alcune disposizioni transitorie) l’impianto e il meccanismo di operatività concepito dalla riforma dettata dal d.lgs n. 150/2022, così che il nuovo assetto normativo si deve considerare ormai consolidato. 

Insomma, la riforma che porta il nome della Ministra Cartabia delinea quasi un nuovo codice di rito, con cui da questo momento in poi ci si dovrà confrontare, possibilmente evitando di assumere un atteggiamento di resistenza al cambiamento, umanamente comprensibile vista la quantità di interventi subiti dal “codice Vassalli” in poco più di trent’anni, ma che certo non aiuta l’interprete nell’approccio alle nuove disposizioni, e rischia di condizionarlo al punto da indurlo a prospettare soluzioni esegetiche finalizzate a sterilizzare innovazioni che, invece, dovrebbero essere accolte favorevolmente poiché presentano aspetti di razionalità e coerenza, e costituiscono attuazione di principi costituzionali, tra cui quello dell’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento e quello di soggezione del giudice alla legge, principio quest’ultimo che va riferito anche al pubblico ministero, a meno di non volerlo già considerare appartenente a un “corpo” separato. 

 

2. Un giudice per il controllo sui tempi del procedimento

Se si traccia un filo ideale tra le norme introdotte dalla riforma, si potrà notare che tutte le disposizioni relative alla fase delle indagini preliminari sono caratterizzate dall’obiettivo di contingentarne e renderne effettivi i termini di durata, evitando eventuali inerzie del pubblico ministero circa le determinazioni inerenti alla definizione del procedimento. 

Emerge con chiarezza che il giudice per le indagini preliminari non è più chiamato soltanto a decidere sul merito delle indagini, ma anche sui tempi di inizio dell’attività investigativa, nonché di conclusione e definizione del procedimento, come una sorta di “guardiano” del rispetto della tempistica da parte dell’organo inquirente. 

Si tratta di una novità assoluta: il ruolo del gip era stato finora caratterizzato da poteri di verifica di alcune attività del pubblico ministero, non solo con riferimento alle richieste di misure cautelari personali e reali, alle intercettazioni e ai sequestri probatori, ma anche in relazione alle altre attività procedimentali a impulso dell’organo inquirente, tra cui le richieste di incidente probatorio; anche la richiesta di proroga delle indagini, formulata per la prima volta, richiedeva semplicemente l’individuazione di una “giusta causa” di prosecuzione dell’attività investigativa, senza ulteriori precisazioni circa il contenuto delle ragioni che consentivano al pubblico ministero di continuare a indagare. In sostanza, e salvo il caso di ulteriori indagini ordinate al pubblico ministero in un termine stabilito, il giudice non aveva il controllo dei tempi delle indagini preliminari.

La scelta del legislatore, da alcuni percepita come di eccessivo controllo dell’attività del pubblico ministero[1], è caratterizzata dall’esigenza di non lasciar spazio alla dilatazione dei tempi dei procedimenti in fase di indagini, affidandone il controllo al giudice, eventualmente anche su impulso di parte, come nel caso della richiesta di retrodatazione dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato. Tale opzione, determinata dalla necessità di ridurre la durata del processo, soddisfa contestualmente anche l’esigenza di garantire i diritti dell’indagato, che non deve restare sottoposto a indagini inutilmente e per un tempo non ragionevole. 

Sotto tale ultimo profilo, il contingentamento dei tempi delle indagini preliminari soddisfa il diritto dell’indagato a vedere la sua posizione processuale definita in tempi ragionevoli: è noto che, nel corso delle indagini preliminari, è attribuito all’indagato il potere di svolgere indagini difensive (titolo VI-bis del libro V del codice di rito) e quello di nominare consulenti di parte nel corso di accertamenti tecnici non ripetibili (art. 360 cpp) nonché durante l’espletamento di incidenti probatori; ma è a partire dalla conclusione delle indagini (art. 415-bis cpp) e ancor più nella fase del giudizio che la difesa può dispiegare appieno il suo ruolo. 

Invero, nel corso delle indagini, la posizione dell’indagato rimane pur sempre soggetta alle determinazioni circa l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero: la certezza sui tempi delle indagini preliminari costituisce un’ulteriore concretizzazione del diritto costituzionale di difesa in ogni stato e grado del procedimento. 

Non si tratta soltanto di una perimetrazione dei tempi entro i quali si possono acquisire elementi indiziari utilizzabili nelle successive fasi del procedimento, ma di una nuova concezione del procedimento penale: nel ribadire alcune ovvietà, come la nozione di notizia di reato di cui al nuovo art. 335, comma primo, cpp, e nel richiedere l’indicazione specifica delle ragioni a fondamento della richiesta di proroga delle indagini, si vuole probabilmente ridurre il ricorso eccessivo alla giustizia penale, evitando che il pm “si perda” in indagini che non potranno portare alcun frutto laddove non vi sia una notizia di reato contenente «la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice». Un pragmatismo comprensibile, considerata la mole dei procedimenti pendenti, che però avrebbe dovuto essere accompagnato da una più incisiva depenalizzazione, da una più pregnante delimitazione dei casi di ammissibilità dell’opposizione alla richiesta di archiviazione, da una normativa transitoria analitica e coerente, che consentisse di avere chiarezza sui tempi di applicazione della nuova normativa, e da riforme delle piante organiche degli uffici giudiziari che adattassero le realtà giudiziarie attuali alle necessità organizzative dettate dall’introduzione di quello che non si stenta a definire come un “nuovo rito”.

 

3. Excursus: l’impatto della riforma sotto il profilo organizzativo

In questa sede si esamineranno i possibili risvolti pratici delle norme introdotte dalla riforma, cercando di immaginare le vicende processuali che si potranno verificare e quale impatto potranno avere i nuovi istituti. 

Si anticipa fin d’ora che non sembrano emergere criticità circa la corretta attuazione della delega: le norme del decreto legislativo appaiono conformi ai dettami della delega, che in alcuni casi era anche troppo specifica. Il vero problema del d.lgs n. 150/2022 è, invece, l’assenza di una normativa transitoria: l’auspicio, già formulato da altri[2], di norme transitorie da introdurre in sede di conversione del dl n. 162/2022[3], è stato recepito dal legislatore; tuttavia, il semplice slittamento dell’entrata in vigore della normativa di appena due mesi, disposto con decretazione d’urgenza, realisticamente non produrrà giovamento per i tribunali, non consentendo di ottenere il risultato di una riorganizzazione degli uffici giudiziari attraverso modifiche tabellari che rafforzino gli organici delle sezioni gip/gup, sulle quali graverà l’onere di sostenere una mole di lavoro ben maggiore rispetto al passato. In proposito, si osserva che la ragione giustificativa del posticipo dell’entrata in vigore del d.lgs n. 150/2022 è stata quella di «consentire una più razionale programmazione degli interventi organizzativi a supporto della riforma». Tuttavia, in soli due mesi non è possibile stabilire, quantomeno per gli uffici giudicanti, quali modifiche organizzative devono e possono essere apportate: potrebbero essere necessari interventi sulle tabelle organizzative dei tribunali e delle corti di appello, che anche se emanate in via d’urgenza – e, quindi, con l’esigenza di “fare presto” – presuppongono studio e valutazione circa l’impatto delle modifiche tabellari sul ragionato equilibrio nella distribuzione dei carichi di lavoro. In realtà, oltre alla disposizione relativa agli oneri finanziari, contenuta nell’art. 99 del d.lgs n. 150/2022 e secondo cui le nuove norme si applicheranno a risorse finanziarie invariate, sarebbe stato utile che prima dell’entrata in vigore della riforma fosse promosso ed attuato uno studio relativo alla riorganizzazione degli uffici e alla valutazione dell’impatto della riforma sui tempi dei procedimenti, quantomeno in primo grado. Il rinvio di due mesi può soltanto consentire uno studio più approfondito della riforma, ma non permetterà di procedere a variazioni tabellari ragionate ed efficaci: nei tribunali, specie di grandi dimensioni, l’equilibrio numerico tra giudici per le indagini preliminari e giudici del dibattimento si fonda sull’analisi dei flussi dei procedimenti e sulla comparazione dei tempi di definizione; con l’entrata in vigore della riforma si modificheranno il tipo e la qualità delle valutazioni poste a carico del gip, del gup e, in quest’ultimo ambito, anche del giudizio abbreviato. Sembra quindi indispensabile una nuova analisi dei flussi per comprendere come ridistribuire risorse umane e strumenti a supporto. L’assenza di una disciplina transitoria, specificamente finalizzata a dettare i tempi dell’entrata in vigore delle nuove norme, al di là delle poche disposizioni contenute negli artt. 85 ss. d.lgs n. 150/2022, e di quelle introdotte con la l. 30 dicembre 2022, n. 199, di conversione del citato decreto-legge e collegata allo studio delle modifiche tabellari da introdurre, determinerà molto probabilmente uno squilibrio nei carichi che, al di là della disparità tra i ruoli dei giudici, potrà produrre un rallentamento nei tempi di definizione dei procedimenti pendenti, ossia determinerà proprio l’inconveniente che la riforma vuole scongiurare. 

Ad avviso di chi scrive, sarebbe necessario modificare la proporzione nel rapporto tra numero di gip/gup e numero di pubblici ministeri, che attualmente è di un gip per ogni tre pm, in base al combinato disposto dell’art. 7-ter o.g. e della circolare del Csm sulla formazione delle tabelle, mentre d’ora in poi dovrebbe essere di un giudice per ogni due pm, ovviamente sempre nel rispetto del criterio di casualità nelle assegnazioni degli affari ai giudici. 

 

4. La notizia di reato

Ciò posto, si passa ad esaminare nel dettaglio le norme che riguardano l’iscrizione e la sua retrodatazione, la proroga delle indagini, l’archiviazione e l’opposizione al decreto di perquisizione. 

Il sistema ideato dal legislatore ha il suo incipit nell’iscrizione della notizia di reato: risulta, infatti, modificato l’art. 335 cpp. L’art. 1, comma 9, lett. p, conteneva la delega al Governo a «precisare i presupposti per l’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale della notizia di reato e del nome della persona cui lo stesso è attribuito, in modo da soddisfare le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni». Il comma 1, lett. a dell’art. 15 del d.lgs modifica il primo comma dell’art. 335 cpp, specificando che le notizie di reato iscrivibili nel relativo registro devono contenere «l’indicazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi ad una fattispecie incriminatrice. Nell’iscrizione sono indicate, ove risultino, le circostanze di tempo e di luogo del fatto». Se ne deduce che il legislatore ha sentito l’esigenza di definire la notizia di reato, inserendosi nella linea tracciata dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 40538/2009 (Lattanzi): «in tema di iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen., il pubblico ministero, non appena riscontrata la corrispondenza di un fatto di cui abbia avuto notizia ad una fattispecie di reato, è tenuto a provvedere alla iscrizione della “notitia criminis” senza che possa configurarsi un suo potere discrezionale al riguardo. Ugualmente, una volta riscontrati, contestualmente o successivamente, elementi obiettivi di identificazione del soggetto cui il reato è attribuito, il pubblico ministero è tenuto a iscriverne il nome con altrettanta tempestività». La giurisprudenza aveva già fornito un’esauriente nozione di notizia di reato, e forse la scelta del legislatore è fondata più sull’esigenza di garantire uniformità alle iscrizioni che sulla necessità di definire in che cosa consistesse una notizia di reato. Come si è già notato[4], la formulazione richiama alla mente il testo della «bozza di delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale», ed è probabilmente l’unica possibile definizione di notizia di reato. La definizione appare utile a evitare iscrizioni nel registro di cui all’art. 335 cpp (modello 21) di esposti o informative del tutto privi di rilevanza penale, ovvero di denunce che descrivono situazioni, prospettano dubbi sui comportamenti di soggetti pubblici o privati (tipico è il caso di esposti nei confronti di organi della pubblica amministrazione, con cui i privati denunciano comportamenti o atti amministrativi, indicati come illeciti, sviluppando lunghissime cronistorie da cui spesso non si riesce a comprendere quale sia il fatto – reato addebitato a uno o più organi della p.a.) senza che si possano oggettivamente desumere una o più specifiche condotte astrattamente illecite da porre come oggetto delle investigazioni. 

Con il nuovo primo comma dell’art. 335 cpp dovrebbe essere scongiurata anche l’ipotesi dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato a carico, genericamente, di “noti da identificare” ovvero a carico di ignoti, quando i fatti non sono sussumibili in alcuna ipotesi di reato. In tal modo dovrebbero essere evitate iscrizioni inutili, che determinano soltanto una lievitazione del numero dei procedimenti pendenti in fase di indagini e un conseguente, inevitabile, aumento del volume di affari da trattare per gli uffici di procura. Sembra proprio che la finalità della riforma sia anche quella di scongiurare l’avvio di procedimenti inutili, e riservare l’impegno del pubblico ministero alle indagini su notizie di reato concrete e realistiche: concentrarsi solo su fatti effettivamente riconducibili a fattispecie incriminatrici e delimitare rigorosamente i tempi delle indagini preliminari rappresentano i meccanismi con cui il legislatore ha inteso dare attuazione agli obiettivi del PNRR. Pertanto, appare doveroso interpretare le nuove norme secondo la ratio ispiratrice della riforma, al di là dei pronunciamenti e delle prese di posizione di singoli esponenti politici o di organi istituzionali; peraltro, il criterio ispiratore della riforma risulta in linea con l’art. 111 della Costituzione e con l’art. 6 della Cedu, norma quest’ultima sulla cui base si sono fondate numerose pronunce di condanna dell’Italia. 

 

5. Il momento dell’iscrizione della notizia di reato

Il decreto legislativo introduce, poi, il comma 1-bis dell’art. 335, secondo cui il pubblico ministero provvede all’iscrizione del nome della persona a cui il reato è attribuito non appena risultino, contestualmente o successivamente, indizi a suo carico. Nel commentare la legge delega in parte qua[5], si era già messa in luce la necessità di specifici elementi indizianti quale presupposto per l’iscrizione della notizia di reato a carico di uno o più soggetti. 

Resta da capire se debbano ricorrere più indizi (almeno due) oppure sia sufficiente un solo indizio, ma sembra che la formula consenta, ed anzi induca per doverosa cautela, a iscrivere la notizia di reato anche in presenza di un solo indizio, qualora chiaro e sufficientemente preciso: infatti, anche un solo indizio, qualora grave, può essere posto a fondamento di una misura cautelare, così che il presupposto per l’iscrizione nel registro delle notizie di reato, che appartiene alla medesima categoria processuale “indizi di colpevolezza”, può essere costituito anche da un solo elemento indiziario, purché preciso (non anche grave, ovviamente). Inoltre, una lettura sistematica del nuovo art. 335 cpp impone un coordinamento interpretativo dei primi due commi: se un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile a una fattispecie incriminatrice, emerge con sufficiente chiarezza da un unico indizio, il pubblico ministero è tenuto a iscriverlo nel registro delle notizie di reato, a carico della persona alla quale il reato è attribuito. Diversamente opinando, si otterrebbe un’interpretazione restrittiva delle norme, non autorizzata da un sistema la cui finalità consiste nell’impedire iscrizioni ritardate nel tempo. 

Anche la disposizione che prevede l’ordine di iscrizione della notizia di reato a carico di persona determinata da parte del gip (nuovo art. 335-ter cpp) ha il medesimo scopo di indurre il pm a iscrivere tempestivamente la notizia di reato, in modo da rendere stringenti i termini delle indagini preliminari. La prassi secondo cui il gip poteva ordinare l’iscrizione di uno o più nominativi nel registro delle notizie di reato era già esistente, in quanto prevista dall’art. 415 cpp nel caso di procedimenti contro ignoti; a volte, infatti, in fase di opposizione a richiesta di archiviazione, può accadere che il giudice individui come indiziabili uno o più soggetti, e li indichi al pubblico ministero per la relativa iscrizione nel registro delle notizie di reato. Non vi è nulla di nuovo, quindi, salvo il fatto che il giudice per le indagini preliminari può ora ordinare l’iscrizione di un indagato nel registro delle notizie di reato qualora debba compiere qualsiasi atto del procedimento, sentendo prima il pubblico ministero. In sostanza, quando il gip riceve una qualsiasi richiesta dal pm (di proroga delle indagini, di autorizzazione alle intercettazioni, di sequestro preventivo, di incidente probatorio, di archiviazione), può, incidentalmente, ritenere che sussistano indizi anche a carico di uno o più soggetti non iscritti nel registro di cui all’art. 335 cpp: a questo punto, il gip deve avviare un’interlocuzione con il pm al fine di comprendere la posizione dell’organo inquirente rispetto al fatto o al soggetto che non è stato ancora iscritto nel registro delle notizie di reato; il pm può quindi decidere di iscrivere autonomamente il soggetto indicato dal gip, senza attendere le determinazioni di quest’ultimo ed eventualmente retrodatando l’iscrizione, oppure può restituire gli atti al gip esplicitando le ragioni per cui non ha ritenuto di iscrivere l’ulteriore, ipotetica notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 cpp. All’esito dell’interlocuzione, il gip può: considerare valide le argomentazioni del pm, ritenendo non sussistenti i presupposti per la nuova iscrizione e desistendo quindi dal proposito di ordinare la nuova iscrizione; oppure, mantenere ferma la propria determinazione e ordinargli di provvedere. Il decreto dev’essere motivato, nel senso che il giudice deve indicare le ragioni per cui, a suo giudizio, esistono indizi a carico del soggetto non ancora iscritto e l’atto da cui risultano; sembra doveroso ritenere che, una volta innescato il procedimento di verifica, il gip debba emettere un provvedimento anche nel caso in cui ritenga di accogliere le osservazioni del pm e non ordinargli l’iscrizione. 

La valutazione del giudice non potrà che rifarsi ai parametri fissati nel nuovo primo comma dell’art. 335 cpp: dagli atti dovrà emergere la rappresentazione di un fatto determinato e non inverosimile, riconducibile a una fattispecie incriminatrice e attribuibile a una persona determinata. Anche in questo caso, occorre trovare un baricentro: l’iscrizione nel registro delle notizie di reato risulta giustificata soltanto se gli indizi individuati dal gip sono idonei a imporre ulteriori accertamenti, o comunque profilano una concreta responsabilità a carico del soggetto individuato dal giudice. 

Resta ferma la facoltà dell’indagato di chiedere la retrodatazione dell’iscrizione (art. 335-quater cpp): in sostanza, l’indagato ha sempre diritto a ottenere un controllo sulla tempestività dell’iscrizione a suo carico.

Alla luce di tali considerazioni, e valutando le novità normative nel loro complesso, emerge con chiarezza la necessità che il pubblico ministero indichi, in ogni richiesta formulata al gip, i nominativi di tutti i soggetti iscritti nel registro delle notizie di reato: in caso di più indagati, non si potrà più indicare soltanto il primo accompagnato dal numero di coindagati, ma dovranno essere indicati i nominativi di tutte le persone iscritte nel registro con le rispettive date di iscrizione, allo scopo di consentire il doveroso controllo dell’organo giudicante, e anche per evitare inutili interlocuzioni tra pm e gip sull’iscrizione a carico di taluno o più soggetti. Diversamente opinando, si giungerebbe all’assurdo di provocare inutilmente l’avvio del sub-procedimento previsto dall’art. 335-ter cpp, in quanto il gip, ignaro dei nominativi degli indagati effettivamente iscritti nel registro delle notizie di reato, potrà sollevare la questione dell’iscrizione e sentirsi rispondere che il soggetto in questione è già da tempo iscritto nel registro in esame. Né si può obiettare che, in base all’art. 7-ter o.g., il giudice per le indagini preliminari è assegnatario di tutti i provvedimenti relativi al medesimo procedimento, e quindi è sempre a conoscenza dei nominativi degli indagati: in primo luogo perché le indagini preliminari sono caratterizzate da un continuo divenire e le iscrizioni di nuove notizie di reato sono eventualità frequenti, così che in assenza di una doverosa conoscenza del panorama dei fatti-reato per cui si procede, il gip finirebbe per emettere i suoi provvedimenti, se non proprio “al buio”, quantomeno avvolto in una fitta coltre di nebbia; in secondo luogo, perché il magistrato assegnatario del ruolo di gip può essere assente per ferie, malattia o altro, e il sostituto tabellare dev’essere nelle condizioni di provvedere, previa adeguata conoscenza e studio degli atti emessi in precedenza e dei soggetti nei cui confronti hanno avuto effetto.

 

6. Le ricadute in materia di attività di intercettazione

Le considerazioni che precedono offrono lo spunto per analizzare le ricadute del nuovo art. 335 cpp sul regime delle intercettazioni: sebbene non sia indicato nell’art. 267 cpp, il contenuto minimo della richiesta di autorizzazione alle intercettazioni (e della richiesta di convalida del decreto d’urgenza) non può che essere rappresentato: dall’indicazione dei nominativi degli indagati, ora anche con la data della rispettiva iscrizione; dall’indicazione delle notizie di reato per cui si procede con specificazione – sia pur minimale – del fatto o dei fatti oggetto dell’iscrizione; dall’esposizione degli indizi di reità e dalla prospettazione delle concrete ragioni per cui si deve procedere all’intercettazione. Si ritiene che anche l’indicazione di una o più aggravanti, nell’iscrizione delle notizie di reato, debba essere sorretta da sufficienti indizi di reità: il giudice, al momento della richiesta di autorizzazione o di convalida del decreto d’urgenza, deve verificare che la notizia di reato sia sufficientemente “abbozzata” nei suoi elementi costitutivi; che le aggravanti, specie quella di cui all’art. 416-bis.1 cp, che incide in modo significativo sul regime delle intercettazioni, siano supportate da un qualche elemento che ne giustifichi l’iscrizione nel registro delle notizie di reato; che il fatto non sia indicato semplicemente riferendosi al titolo di reato poiché, specie nei reati a forma libera (come l’associazione per delinquere, delitto per il quale frequentemente si ricorre alle intercettazioni) e pur essendo di fronte a un materiale indiziario fluido e in divenire, il fatto per cui si procede non può continuamente mutare nei suoi caratteri essenziali: si può assistere a un’ipotesi di reato di associazione per delinquere con un certo programma criminoso intuibile dagli atti, che poi si “tramuta” in tutt’altro, e tuttavia il pubblico ministero, nelle richieste di autorizzazione e di proroga delle intercettazioni, continua a non mutare né la qualificazione giuridica del fatto né la sua descrizione. 

Peraltro, poiché sin d’ora il gip, nell’esaminare gli atti che pervengono dall’ufficio di procura, ha l’obbligo di rilevare l’esistenza di nuove notizie di reato, dovrà giocoforza aprire un’interlocuzione con il pm in tutti i casi in cui nel registro delle notizie di reato sia iscritto il solo reato associativo, e tuttavia emergano anche elementi per iscrivere i reati-fine, ovvero nel caso contrario. A corollario di tale breve disamina, è evidente che d’ora in poi il pubblico ministero dovrà indicare i nominativi di tutti i soggetti iscritti nel registro di cui all’art. 335 cpp e, a fortiori, dovrà osservare tale adempimento nelle richieste in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali; tale corollario vale ancor più nel caso di intercettazioni “a microfono aperto” effettuate mediante inoculazione di un virus informatico nel telefono cellulare di uno o più soggetti. Inoltre, posto l’onere di un più penetrante controllo del giudice sulle richieste di autorizzazione alle intercettazioni (di qualsiasi tipo esse siano), sembra possibile dubitare che sia sufficiente l’invio al gip della sola richiesta di autorizzazione corredata con la singola informativa di polizia, da cui deriverebbe l’esigenza di ricorrere a un mezzo di ricerca della prova così invasivo. Se è vero, infatti, che la disciplina delle intercettazioni è diretta attuazione dell’art. 15, comma 2, Cost., è altrettanto indubitabile che il controllo dell’organo giudicante circa l’indispensabilità o la necessità del ricorso allo strumento captativo di comunicazioni non può consistere soltanto nel validare quanto prospettato dalla polizia giudiziaria e poi dal pm, ma occorre consentire una verifica dell’effettiva esistenza delle condizioni per utilizzare tale mezzo investigativo, specie nell’ipotesi in cui alle intercettazioni si possa ricorrere solo se assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini. Diversamente opinando, l’intercettazione, configurata dal legislatore come strumento cui ricorrere in casi estremi, non sarebbe soggetta a quel controllo di legalità richiesto dal secondo comma dell’art. 15 della Costituzione. Ed anche nei casi in cui le intercettazioni siano “semplicemente” necessarie alla prosecuzione delle indagini (art. 13 l. n. 203/1991), la verifica del presupposto della necessità non dovrebbe, verosimilmente, essere limitata alla richiesta del pubblico ministero e all’informativa di polizia da cui trae origine la richiesta, ma dovrebbe estendersi a ulteriori atti del fascicolo delle indagini preliminari, in modo da verificare se sia effettivamente necessario attivare lo strumento captativo. Le medesime considerazioni valgono anche per la valutazione circa la sussistenza del presupposto per le intercettazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile: le specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità, per lo svolgimento delle indagini, non possono essere valutate dal gip esclusivamente alla stregua di quanto gli viene prospettato dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria (nell’informativa in cui profila all’organo inquirente di fare ricorso a tale strumento), ma il giudice dovrebbe rendersi autonomamente conto della sussistenza di significativi e importanti ragioni su cui fondare l’autorizzazione all’uso di uno strumento investigativo che invade pesantemente la sfera privata dell’indagato. Non si tratta di esternare una sorta di sfiducia nell’organo inquirente; più razionalmente, si tratta di rispettare concretamente, e non in modo formale, i limiti previsti dalla Costituzione. Concludendo su tale punto, il vivace dibattito che anima giuristi e non, circa la necessità di mantenere in vita le norme che autorizzano il ricorso al captatore informatico anche nei procedimenti per reati contro la pubblica amministrazione, puniti con pene non inferiori nel massimo a cinque anni di reclusione, dovrebbe avere come incipit la constatazione dell’avvenuta introduzione di più penetranti controlli da parte del gip e dei giudici che valuteranno il materiale probatorio e i suoi presupposti nelle successive fasi o gradi del giudizio, e la conseguente necessità di consentire e agevolare tali controlli[6] per concentrare, solo in un momento successivo, sulla valutazione – strettamente politica (ma non per questo vietata ad alcuno, né tantomeno inopportuna in un contesto democratico) –, la riflessione sull’opzione circa il mantenimento o l’abrogazione delle norme che autorizzano l’uso del captatore informatico nei procedimenti per reati contro la p.a. Mentre, infatti, la decisione di abrogare eventualmente la disposizione contenuta nella seconda parte del comma 2-bis dell’art. 267 cpp appartiene alla sfera della discrezionalità nelle scelte di politica criminale, al pari di quella che ha impedito il ricorso al giudizio abbreviato nei processi per reati puniti con l’ergastolo[7], la necessità di dare corpo e rendere concreto il principio costituzionale di cui all’art. 15, comma 2, appartiene alla sfera dell’obbligatorietà del rispetto e dell’attuazione della Costituzione.

 

7. Il sindacato sul momento dell’iscrizione della notizia di reato

Il pubblico ministero può ora autonomamente retrodatare l’iscrizione della notizia di reato, ai sensi del nuovo art. 335, comma 1-ter, cpp, qualora si accorga che indizi precisi relativi a uno o più soggetti erano in suo possesso in data anteriore al momento di formale iscrizione. La disposizione appare coerente con il sistema, tenuto conto che il pm è il dominus dell’iscrizione. A tale proposito, si segnala una questione di diritto intertemporale, che non sembra completamente risolta dall’art. 88-bis d.lgs n. 150/2022, introdotto con la l. n. 199/2022, secondo cui:

«1. Le disposizioni degli articoli 335-quater, 407-bis e 415-ter del codice di procedura penale, come introdotte dal presente decreto, non si applicano nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto in relazione alle notizie di reato delle quali il pubblico ministero ha già disposto l’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale, nonché in relazione alle notizie di reato iscritte successivamente, quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 12 del codice di procedura penale e, se si procede per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, del codice di procedura penale, anche quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 371, comma 2, lettere b) e c), del medesimo codice. Tuttavia, le disposizioni dell’articolo 335-quater del codice di procedura penale, come introdotte dal presente decreto, si applicano in ogni caso in relazione alle iscrizioni che hanno ad oggetto notizie di reati commessi dopo la data di entrata in vigore del presente decreto. 2. Nei procedimenti di cui al comma 1 continuano ad applicarsi le disposizioni degli articoli 405, 406, 407, 412 e 415-bis del codice di procedura penale e dell’articolo 127 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, nel testo vigente prima della data di entrata in vigore del presente decreto».

Da una prima lettura di tale norma, sembra che alle iscrizioni nel registro delle notizie di reato già effettuate e ai procedimenti già pendenti alla data di entrata in vigore della l. n. 199/2022 non si applichino le nuove norme in materia di iscrizione della notitia criminis e in materia di retrodatazione; tuttavia, sono prevedibili eccezioni processuali o questioni che saranno sollevate nell’arco del procedimento, e anche nelle successive fasi, tenuto conto della formulazione non propriamente cristallina della norma transitoria.

Anche il procedimento di accertamento della effettiva data di iscrizione della notizia di reato sembra ben rispondere ai criteri dettati dalla legge delega. In primo luogo, il termine per la proposizione dell’istanza non poteva essere rigido, in quanto l’indagato può venire in vari momenti a conoscenza degli atti dai quali risulti il ritardo nell’iscrizione: in genere, dopo l’emissione di una misura cautelare, dopo la conclusione delle indagini, oppure all’atto dell’opposizione alla richiesta di archiviazione. 

Nella richiesta di retrodatazione devono essere indicati gli atti del procedimento dai quali è desunto il ritardo, nonché le ragioni a sostegno della richiesta. La sanzione dell’inammissibilità è prevista al fine di scongiurare richieste generiche e non ancorate a elementi oggettivi. Il ritardo dev’essere ingiustificato, oltre che inequivocabile: si presume, quindi, che un ritardo di qualche giorno sia del tutto fisiologico, specie in caso di corpose annotazioni di polizia giudiziaria che contengono una pluralità di notizie di reato e che devono essere esaminate con la dovuta attenzione. In caso di accoglimento della richiesta, il giudice indica la data nella quale deve intendersi iscritta la notizia di reato e, conseguentemente, il termine iniziale delle indagini preliminari: la decisione è rilevante poiché, in caso di retrodatazione, il termine finale delle indagini si sposta all’indietro rispetto a quello di sei mesi, di un anno, o di un anno e sei mesi (art. 405, comma 2, cpp) che risultava in base all’iscrizione errata, e ciò può comportare l’inutilizzabilità di uno o più atti d’indagine compiuti in un tempo successivo alla scadenza del termine correttamente stabilito dal giudice all’esito del procedimento di verifica disciplinato dall’art. 335-quater cpp. Come è noto, l’effetto della dichiarazione di inutilizzabilità consiste nel divieto, per il giudice, di porre l’atto di indagine, produttivo di una o più prove, a fondamento della decisione; l’atto è formalmente corretto, ma il suo contenuto probatorio diviene tamquam non esset a seguito della dichiarazione di inutilizzabilità. L’interesse, ora giuridicamente protetto, dell’indagato è soddisfatto con la pronuncia del giudice che stabilisce la giusta data di iscrizione della notizia di reato, e anche nel caso in cui la richiesta di retrodatazione viene respinta si è comunque offerta all’indagato la possibilità di ottenere un controllo sufficientemente approfondito circa la corretta data di decorrenza delle indagini a suo carico. Ne consegue che la forma del provvedimento del giudice è l’ordinanza, poiché la decisione è sempre assunta nel contraddittorio tra le parti, che si può svolgere in modo anche soltanto cartolare (art. 335-quater, comma 6, cpp). 

In tal modo, il legislatore ha colmato una lacuna esistente nel codice di rito, attribuendo all’indagato un diritto che prima non aveva, e che ha una rilevanza non di poco conto, in quanto il suo esercizio influisce direttamente sul compendio probatorio che il giudice può porre a fondamento della decisione: eliminare un atto dal bagaglio delle prove che il giudice porta in camera di consiglio può significare modificare, se non addirittura ribaltare, l’esito del processo. 

Il diritto di chiedere la retrodatazione dell’iscrizione della notizia di reato sembra, pertanto, anch’esso espressione nonché diretta forma di applicazione dell’art. 24 Cost. 

Appare assai difficile che un pubblico ministero ometta l’iscrizione della notizia di reato a carico di un indagato per un tempo apprezzabile e in presenza di indizi chiari, e specie dopo l’entrata in vigore della riforma, l’ipotesi sembra ancor più improbabile. In proposito, appare utile richiamare la circolare del procuratore della Repubblica di Bologna (n. 9116 del 19 ottobre scorso) in cui si tracciano le linee del potere di iscrizione delle notizie di reato e della loro eventuale retrodatazione, con indicazioni anche sul procedimento davanti al giudice per le indagini preliminari. 

Dal punto di vista dell’iter procedimentale, corretta appare la formulazione della norma di cui al comma 6 del nuovo art. 335-quater cpp: il procedimento è cartolare, introdotto dalla richiesta dell’indagato, con conseguente termine di sette giorni concesso al pm per interloquire, e con eventuale – ma non necessaria – udienza camerale solo se il giudice la ritiene necessaria. Sotto tale profilo, la scelta legislativa appare del tutto logica, dal momento che la richiesta di retrodatazione dell’iscrizione deve fondarsi su elementi oggettivi specificamente indicati nell’istanza, quindi non vi è necessità di contraddittorio orale a meno che il giudice non intenda richiedere chiarimenti su questioni specifiche. Ai sensi del comma 5 del nuovo art. 335 cpp, nel corso delle indagini preliminari la richiesta di retrodatazione può essere presentata in ogni fase o attività che preveda la presenza di entrambe le parti, e decisa nell’ambito di quella specifica fase, sempre con ordinanza. 

Non è prevista alcuna impugnazione del provvedimento del giudice per le indagini preliminari: si è scelta la strada di consentire la riproposizione della questione in ogni successiva fase del procedimento. In sostanza, una volta aperto il contraddittorio sulla data dell’iscrizione, la questione può essere oggetto di valutazione da parte di una pluralità di giudici: può essere proposta nella medesima fase con riferimento ad atti ed elementi sempre diversi, o può essere riproposta nelle fasi successive, sia dalla parte la cui richiesta di retrodatazione è stata respinta, sia dalle altre parti. Un proliferare di possibili istanze e questioni che appesantiscono il procedimento, e che conviene al pubblico ministero eliminare in radice stabilendo con esattezza i riferimenti oggettivi, ossia gli elementi indiziari su cui l’iscrizione si fonda. Sebbene si possa temere l’insorgere di questioni strumentalmente formulate e riproponibili a ogni passaggio di fase del processo, in effetti la questione di una eventuale retrodatazione si giocherà nelle prime fasi di quest’ultimo, perché l’interesse dell’indagato è quello di rendere al più presto inutilizzabili attività di indagine produttive di elementi indiziari che si trasformeranno in prove, così da impedire “a cascata” anche l’utilizzo degli atti di indagine generati da quelli inutilizzabili.

 

8. La proroga delle indagini preliminari

Con riferimento alla durata delle indagini, il pubblico ministero sarà chiamato a utilizzare al meglio possibile il primo termine: sei mesi se si procede per una contravvenzione e un anno se si procede per i delitti, fatta eccezione per quelli di cui all’art. 407, comma 2, cpp. Se infatti si considera l’intero meccanismo ideato dal legislatore, si potrà notare che il pubblico ministero deve decidere tempestivamente quali indizi emergono, chi indagare, e quali altri elementi ricercare; il pm sarà spinto a proseguire le indagini soltanto se, dagli accertamenti delegati alla polizia giudiziaria, emergeranno elementi concreti. La richiesta di proroga delle indagini dovrà poggiare su un sostrato indiziario sufficientemente consistente, altrimenti non avrebbe senso proseguire nelle investigazioni; tale valutazione spetta al pm, e il giudice non può che verificarla in un momento successivo, ossia all’atto della richiesta dell’organo inquirente. L’allungamento del termine iniziale per la conclusione delle indagini consente al pubblico ministero di avere maggiore consapevolezza circa l’idoneità degli elementi raccolti a formulare un giudizio di ragionevole probabilità di condanna: se è vero che la richiesta di proroga deve essere fondata sulla complessità delle indagini, è altrettanto vero che il pm, pur senza indicarlo nella richiesta, dovrà avere un quadro preciso di quali elementi saranno necessari per prevedere la condanna dell’indagato e valutare la concreta possibilità di acquisirli: soltanto in tal caso sarà utile chiedere la proroga delle indagini. 

Può essere concessa una sola proroga, per un tempo non superiore a sei mesi: pertanto, il termine massimo per le indagini preliminari sarà di un anno per le contravvenzioni, di un anno e sei mesi per i delitti, e di due anni per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, cpp. Il termine di durata delle indagini si riduce soltanto per le contravvenzioni, come già evidenziato[8]. Orbene, occorre mettere in correlazione il termine massimo di durata delle indagini con la richiesta di proroga e la motivazione che ne viene posta a fondamento. 

La nuova formulazione dell’art. 406, comma 1, cpp prevede che il pubblico ministero possa chiedere la proroga delle indagini non più per «giusta causa» bensì «quando le indagini sono complesse». Il legislatore ha quindi limitato la «giusta causa» all’ipotesi di complessità delle indagini. Orbene, mentre la giusta causa è nozione astratta e omnicomprensiva, che si può dedurre anche, semplicemente, dal titolo di reato per cui si procede (un procedimento contro ignoti, per il reato di omicidio volontario, può contenere in re ipsa la giusta causa di prosecuzione delle indagini, essendo indispensabile continuare a ricercare il colpevole), la complessità delle indagini implica una valutazione della notitia criminis, degli elementi acquisiti e del tipo di indagini ancora da svolgere per arrivare a formulare un giudizio di ragionevole probabilità di condanna a carico di uno o più indagati. Per formulare un esempio, un’indagine per crimini informatici può essere di per sé complessa, tenuto conto del tipo di accertamenti da svolgere; ma non tutte le indagini saranno complesse, e la complessità non potrà desumersi dal fatto che per i primi sei mesi/un anno non si è giunti ad alcun risultato concreto. La norma sembra voler limitare i casi di ricorso alla proroga di indagini, ed escludere richieste avanzate a fini dilatori o per cercare genericamente altri ipotetici percorsi investigativi. 

Il problema, a questo punto, si incentra sul tipo di controllo che può esercitare il giudice per le indagini preliminari. Occorre comprendere fin dove può spingersi il giudice nel valutare che le indagini sono effettivamente complesse, tenendo presente che il pm deve offrire una motivazione sintetica, peraltro non accompagnata dalla discovery di alcun documento. Si ritiene che il pm dovrà indicare semplicemente le ragioni per cui le indagini risultano complesse, ma non anche elencare quali indagini debba ancora svolgere: tenuto conto che la richiesta di proroga dev’essere notificata all’indagato, e che quindi non vi sarebbe più segretezza delle indagini se la richiesta di proroga contenesse indicazioni che possono avvertire l’indagato su quali investigazioni si profilano all’orizzonte (si pensi alla necessità di richiedere l’autorizzazione a intercettazioni telefoniche o ambientali), la verifica del giudice sembra limitata alla sussistenza del requisito della complessità. Non sembrano possibili motivazioni tautologiche da parte del pubblico ministero; dubbia è la possibilità di giustificare la complessità delle indagini con la necessità di attendere gli esiti degli accertamenti delegati alla polizia giudiziaria. 

Ciò posto, si pone un problema di non facile soluzione: premesso che l’art. 41, comma 1, lett. a del d.lgs n. 150/2022 introduce il nuovo art. 3-bis disp. att. cpp, secondo cui nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio, non è chiaro cosa accadrà alle notizie di reato che devono essere postergate, secondo il progetto organizzativo, e per le quali i termini delle indagini potrebbero decorrere, in tutto o in parte, inutilmente. 

A prescindere dai casi di complessità delle indagini, per i quali può essere concessa la proroga, e tenendo presenti le riflessioni di Armando Spataro in questa Rivista[9], non sembra possibile che il pubblico ministero possa omettere di svolgere indagini su notizie di reato che non rientrano tra le priorità dell’ufficio, ma può soltanto postergarle rispetto alle notizie di reato prioritarie. Il delicato equilibrio tra obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità implica che, comunque, anche le notizie di reato relative a reati di importanza non prioritaria debbano essere esaminate e trattate dal pm, con investigazioni finalizzate alla verifica della loro fondatezza, sempre nel rispetto dei termini di durata delle indagini. 

Ai sensi del terzo comma dell’art. 406 cpp, l’indagato e la parte offesa (che abbia chiesto di essere informata) possono presentare memorie, il primo per contrastare la richiesta di proroga e la seconda, evidentemente, per supportarla. La decisione del giudice di prorogare le indagini è emanata con ordinanza; sotto tale profilo, nulla è cambiato rispetto all’attualità: il giudice dovrà motivare il suo provvedimento sulla base di quanto indicato dal pubblico ministero, ritenendo congrue le ragioni dedotte dall’organo inquirente. Ci si può aspettare un aumento dei casi di contraddittorio sulla richiesta di proroga delle indagini: l’indagato può avere interesse a un provvedimento con cui non si autorizzi la proroga, poiché in tal caso ogni ulteriore attività investigativa sarebbe inutilizzabile e aumenterebbe, quindi, la probabilità di una richiesta di archiviazione. Dal punto di vista del giudice per le indagini preliminari, il controllo non sarà particolarmente impegnativo, ma ad avviso di chi scrive il giudice dovrà esigere l’indicazione concreta, da parte del pubblico ministero, dei motivi di complessità dell’indagine, evitando di avallare richieste contenenti la ripetizione tautologica della formulazione normativa.

 

9. L’archiviazione del procedimento

Appare possibile immaginare che, invece, la funzione del gip sarà più pregnante al momento della richiesta di archiviazione, e che vi sarà un aumento delle opposizioni da parte delle persone offese. Per i procedimenti relativi ai reati indicati nell’art. 405, comma 5-bis, cpp, non sembrano emergere problemi di sorta: la richiesta di proroga non deve essere notificata agli indagati e alle parti offese, e comunque il requisito della complessità sembra maggiormente dimostrabile. 

Il sistema ideato per disciplinare le indagini preliminari è completato dai presupposti per la richiesta di archiviazione. L’art. 9, comma 1, lett. a della l. n. 134/2021 ha delegato il legislatore a modificare la regola di giudizio per l’archiviazione. Il presupposto dell’infondatezza della notizia di reato non si è rivelato idoneo a fungere da filtro: anche con l’introduzione dell’art. 125 disp. att. cpp e con l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, il numero di casi di rinvio a giudizio produttivi di assoluzioni o di proscioglimenti in udienza preliminare è stato ritenuto eccessivo[10]; il numero elevato di procedimenti non “filtrati” della fase preliminare e dibattimentale grava sul complessivo carico di lavoro dei giudici e determina indirettamente ritardi nello svolgimento dei processi che potrebbero concludersi con la condanna degli imputati; tale effetto è ancor più dirompente se riferito a procedimenti per reati gravi (ad esempio, reati di cd. “codice rosso”, di criminalità organizzata o in materia ambientale). 

La nuova formulazione obbliga, quindi, il pubblico ministero a formulare una prognosi tenendo presenti gli elementi emersi dalle indagini preliminari e a verificare se, effettivamente, vi sono probabilità ragionevoli per una condanna. 

Nel richiamare quanto già evidenziato nel commento alla legge delega[11], si rileva la necessità di una maggiore consapevolezza da parte del pubblico ministero circa il compendio di elementi indiziari necessari per la condanna, e a contrario l’obbligo, a carico dell’organo inquirente, di valutare compiutamente l’eventuale assenza di elementi probatori sufficienti a chiedere il rinvio a giudizio degli imputati. In sostanza, fino a questo momento il pubblico ministero non sembrava essere responsabilizzato circa l’esito del dibattimento, e il suo compito si esauriva con la valutazione circa la “non superfluità del processo”. Ora il criterio della ragionevole probabilità di condanna, pur non coincidendo con il giudizio di colpevolezza «al di là di ogni ragionevole dubbio» (art. 533 cpp), impone una prognosi accurata, specie nei casi di citazione diretta a giudizio in cui non vi è il filtro dell’udienza preliminare: il pubblico ministero dovrà mettere in campo una più stringente capacità di valutazione prospettica della prova, incrementare la cultura del ragionamento probatorio, verificando se esiste almeno il nucleo essenziale degli elementi probatori che consentono di affermare la penale responsabilità degli imputati, al di là dell’esclusione di eventuali aggravanti. 

Anche il giudice per le indagini preliminari sarà chiamato a una valutazione più pregnante circa le richieste di archiviazione, di cui è prevedibile un aumento in termini quantitativi e qualitativi (aumenteranno le fattispecie relative ai procedimenti per i quali si chiederà l’archiviazione), specie se si considera che i presupposti per l’eventuale riapertura delle indagini risultano molto più stringenti rispetto al passato. 

 

10. La riapertura delle indagini

In proposito, si osserva che in base alla precedente formulazione dell’art. 414 cpp la riapertura delle indagini si fondava semplicemente sull’esigenza di nuove investigazioni; era dunque sufficiente un qualsiasi elemento (ad esempio, la dichiarazione di un nuovo collaboratore di giustizia) che suggerisse di procedere a nuove indagini, prescindendo dal loro esito. 

Con la nuova formulazione cambia la prospettiva del pubblico ministero: le indagini si possono riaprire soltanto se le nuove fonti di prova, da sole o unite alle precedenti, possono determinare l’esercizio dell’azione penale. Ciò obbliga l’organo inquirente e, poi, il giudice a: prospettarsi i mezzi di prova da ricercare; rappresentarsi il possibile scenario processuale; infine, formulare una prognosi circa la ragionevole probabilità di condanna laddove l’elemento probatorio che si intende acquisire con la richiesta di autorizzazione alla riapertura delle indagini abbia la valenza che, ex ante, l’organo inquirente ipotizzava potesse avere. 

Pertanto il pubblico ministero, per riaprire le indagini, dovrebbe avere assicurazione circa la possibilità di acquisire specifiche fonti di prova, e prevedere che con tali nuovi elementi si potrà disporre o richiedere il rinvio a giudizio dell’indagato. 

Ne consegue che il provvedimento di archiviazione (decreto o ordinanza all’esito dell’opposizione) ha carattere più stabile rispetto al passato, e la riapertura delle indagini diviene ipotesi abbastanza remota. 

Ciò detto, quid iuris nell’ipotesi di richiesta di riapertura di procedimento contro ignoti? Come è possibile sapere sin dall’inizio che un nuovo elemento, e nuove investigazioni, potranno condurre a individuare il colpevole fino a quel momento rimasto ignoto, e preconizzarne la condanna? In realtà, la risposta sembra più facile di quanto appare: la norma richiede che, una volta acquisiti i nuovi elementi, anche uniti ai precedenti, sia possibile e non probabile l’esercizio dell’azione penale. Il range del criterio di possibilità è ben più ampio di quello di probabilità, ragion per cui sarà sufficiente prospettare che il rinvio a giudizio rientrerà nelle possibilità di esito del procedimento da riaprire.

 

11. Il controllo sulla legittimità della perquisizione

Del tutto priva di conseguenze processuali appare, infine, la previsione contenuta nel nuovo art. 252-bis cpp: l’opposizione al decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero introduce la possibilità di controllo del giudice, per la verifica della legittimità della perquisizione che abbia avuto esito negativo. 

La norma è stata introdotta in ossequio a una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo[12], e non sembra possa determinare ripercussioni sul procedimento nel cui ambito è stata disposta la perquisizione: l’esclusione della perquisizione, da cui sia scaturito un sequestro, dal potere d’impugnazione – rectius: opposizione – fa salva ogni attività di ricerca della prova che abbia dato esito positivo. 

Si prevede, pertanto, uno scarso ricorso a tale istituto, a meno di non utilizzare l’opposizione in esame per indurre indirettamente il pm a chiedere l’archiviazione del procedimento. Non è prevista alcuna sanzione per il caso in cui il gip accolga l’opposizione; il decreto di accoglimento non può dunque influire sulla posizione processuale dell’indagato ingiustamente e inutilmente perquisito. Tuttavia, tale provvedimento potrebbe essere utilizzato in caso di archiviazione del procedimento e conseguente apertura di un procedimento per calunnia a carico del denunciante. Più difficile, ma non del tutto improbabile, l’uso del decreto per supportare un esposto al Consiglio superiore della magistratura contro il pubblico ministero assegnatario del procedimento. 

La futura casistica consentirà anche di comprendere se dal decreto del gip possa derivare una qualche conseguenza in materia di risarcimento del danno: attestato come ingiusto il fatto e, quindi, anche il decreto che ha ordinato la perquisizione, occorrerà stabilire caso per caso se sia produttivo di un danno risarcibile; inoltre, a una prima analisi, e salva l’ipotesi di decreto di perquisizione assolutamente privo di motivazione, non sembra che il decreto che dichiara ingiusto l’atto di indagine in questione possa fondare una pronuncia di responsabilità disciplinare, poiché è evidente che non si versa in ipotesi di grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile (art. 2, comma 1, lett. g, d.lgs n. 109/2006). 

 

12. L’opposizione alla richiesta di archiviazione

Infine, la nuova disciplina sembra poter influire anche, indirettamente, sul procedimento camerale di opposizione alla richiesta di archiviazione. 

Si prevede un aumento delle opposizioni alle richieste di archiviazione, atteso l’aumento del numero di archiviazioni che il pubblico ministero si determinerà a richiedere, in base alla nuova regola di giudizio della non ragionevole probabilità di condanna. 

Appare tuttavia ipotizzabile un aumento dei casi di rigetto delle opposizioni, sempre alla luce dell’introduzione della nuova regola di giudizio della non ragionevole probabilità di condanna; ancor più scarse appaiono le probabilità di accogliere un’opposizione alla richiesta di archiviazione per un procedimento contro ignoti, a meno di evidenti carenze investigative. 

A proposito dell’opposizione alla richiesta di archiviazione, sarebbe stata “cosa buona e giusta” eliminare l’obbligo di celebrare l’udienza camerale, e rendere cartolare il contraddittorio anche in questo caso, al pari del caso di richiesta di retrodatazione dell’iscrizione della notizia di reato. Come previsto in quest’ultimo caso, si poteva stabilire che il giudice fissasse l’udienza camerale soltanto nel caso dell’avvertita necessità di sollecitare il contraddittorio orale. In tal modo si sarebbe evitato un inutile appesantimento del lavoro del gip, e si sarebbe eliminato un ostacolo a una più rapida definizione del procedimento. Del resto, in sede di controllo all’esito di una prima applicazione della nuova normativa, si potrebbe introdurre il semplice contraddittorio orale anche qualora il gip intenda respingere d’ufficio la richiesta di archiviazione: anche in questo caso sarebbe possibile alle parti un termine per depositare memorie al giudice, e consentire a quest’ultimo di fissare udienza camerale solo ove necessario. 

 

13. Alcune novità che sarebbe stato utile introdurre (e che non sono state introdotte)

Proseguendo sulla scia delle novità che, a parere di chi scrive, il legislatore ha omesso di introdurre, e che invece potrebbero costituire ulteriori rimedi per accelerare la durata dei procedimenti in fase di indagini, si osserva che non si è pensato di prevedere una durata massima del sequestro preventivo, in particolare del sequestro a fini di confisca, di cui all’art. 321 cpp, commi 2 e 2-bis. Tale misura cautelare è spesso applicata nell’ambito di procedimenti per reati di criminalità organizzata, in particolare in ipotesi di riciclaggio (648-bis cp) o trasferimento fraudolento di valori (art. 512-bis cp): oltre a sequestri di beni immobili e mobili registrati, la casistica giudiziaria è ricca di misure reali applicate ad aziende e società, con contestuale nomina di amministratori giudiziari. Orbene, a prescindere dalle ipotesi in cui è applicata una misura cautelare personale unitamente al sequestro preventivo, la misura reale permane anche dopo la fase delle indagini, potenzialmente fino alla pronuncia definitiva. Lo strumento è analogo al sequestro ai fini di prevenzione di cui all’art. 20 d.lgs n. 159/2011 e successive modificazioni; per quest’ultimo vige la disposizione di cui all’art. 24, comma 2, secondo cui «il provvedimento di sequestro perde efficacia se il tribunale non deposita il decreto che pronuncia la confisca entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario. Nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti, il termine di cui al primo periodo può essere prorogato con decreto motivato del tribunale per sei mesi. Ai fini del computo dei termini suddetti, si tiene conto delle cause di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare, previste dal codice di procedura penale, in quanto compatibili». È lo stesso legislatore a equiparare il termine di durata del sequestro di prevenzione ai termini di durata della custodia cautelare; la norma è stata parzialmente modificata dalla l. n. 161/2017, ma la sanzione della perdita di efficacia del sequestro in caso di mancata pronuncia del decreto di confisca entro il termine stabilito era già prevista nell’originario testo del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. Non sembra peregrino il dubbio di legittimità costituzionale dei commi 2 e 2-bis dell’art. 321 cpp, nella parte in cui non prevedono un termine massimo di durata del sequestro preventivo a fini di confisca; l’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai soggetti che subiscono sequestri di prevenzione appare evidente, avuto riguardo all’identica finalità dei due sequestri, di spossessare definitivamente l’indagato, o il proposto, del bene illecitamente conseguito. A tanto deve aggiungersi che con la fissazione di un termine massimo di durata dei sequestri preventivi di beni al fine di confisca si introdurrebbe una misura acceleratoria dei relativi procedimenti, che frequentemente hanno una durata eccessiva, tenuto conto che è improbabile la scelta di un rito alternativo da parte degli imputati e che l’amministrazione giudiziaria ha costi elevati e, invece, non elevate probabilità di conservare integra la capacità produttiva dell’azienda sequestrata. 

A tale ultimo proposito è appena il caso di richiamare l’art. 41 Cost, secondo cui l’iniziativa economica privata è libera, anche al fine di produrre ricchezza; è vero che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, ma nemmeno sembra possibile non tutelare il lavoro che essa genera (art. 35, comma 1, Cost.) e non proteggere i lavoratori dipendenti, che in caso di chiusura delle attività produttive sarebbero licenziati. 

Sarebbe pertanto necessario evitare di mantenere il sequestro per un tempo eccessivo prima della confisca definitiva o dell’eventuale revoca per assoluzione dell’imputato: nel primo caso il ritardo nella confisca produce una stasi nell’amministrazione dei beni, che ha finalità solo conservative, mentre nella seconda ipotesi si priva ingiustamente l’imputato, poi assolto, del bene o dei beni a lui intestati, con possibilità di provocargli un danno patrimoniale irreversibile. 

Infine, il legislatore non ha ritenuto di intervenire sulle norme relative all’incidente probatorio: ai sensi dell’art. 398, comma 1, cpp, il giudice pronuncia ordinanza con cui accoglie, dichiara inammissibile o respinge la richiesta di incidente probatorio, ma non è previsto alcun rimedio nell’ipotesi di irragionevole rigetto della richiesta. È noto che l’incidente probatorio è forma di acquisizione anticipata della prova; se accolto, sicuramente riduce i tempi del dibattimento; ma non se ne è forse colto un ulteriore aspetto, quello di contribuire, a volte in modo decisivo, a illuminare l’orizzonte probatorio del procedimento, consentendo alle parti di rappresentarsi con maggiore chiarezza il probabile esito e scegliere consapevolmente la strada da imboccare. Se il giudice respinge la richiesta, pur in presenza dei presupposti che la legittimano, provoca un effetto negativo non solo per l’inevitabile allungamento del tempo del dibattimento di primo grado, ma impedisce anche alle parti di avere più chiaro il quadro probatorio. Eventuali riti alternativi, o eventuali richieste di archiviazione, sono solo gli estremi di una gamma di scelte che possono derivare dall’esito dell’incidente probatorio. Sarebbe, perciò, utile prevedere una qualche forma di impugnazione del provvedimento negativo del giudice, prevedendo un potere di opposizione[13] avverso l’ordinanza di inammissibilità o di rigetto. 

 

14. Conclusioni: il giudice per le indagini preliminari come garante

A conclusione della disamina, sembra possibile affermare che i meccanismi processuali introdotti dalla riforma Cartabia non rappresentano mere formalità e non riducono il pubblico ministero e il giudice a semplici burocrati – pignolo verificatore della correttezza delle sue indagini il primo, e occhiuto controllore dell’iter procedimentale il secondo –, ma sono espressione di garanzie costituzionali, direttamente ricollegabili al diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento e al diritto alla ragionevole durata del processo (artt. 24 e 111 Cost.). Come ha segnalato il regista Giuseppe Tornatore con un suo film del 1994[14], le formalità sono tali solo all’apparenza; e il ruolo del magistrato, sia esso pubblico ministero o giudice, diviene burocratico solo se lo si interpreta in tal guisa, dal momento che anche un provvedimento in apparenza banale, come una proroga dei termini delle indagini (art. 406 cpp), presuppone analisi e consapevolezza delle norme processuali e studio degli atti del procedimento, allo scopo di dare corpo alle garanzie poste a presidio di diritti di rango costituzionale. 

Peraltro, l’aver sfruttato norme a garanzia del diritto di difesa, declinato in varie forme a seconda della fase o del subprocedimento da espletare, per accelerare la durata dei procedimenti e quindi i tempi della “macchina giudiziaria” nel suo complesso, non è operazione scorretta di torsione degli istituti processuali a fini diversi da quelli per cui sono previsti, ma intelligente intuizione[15] fondata sul presupposto di un’accresciuta rilevanza dell’art. 111 della Costituzione e dell’appartenenza di tale norma alla costellazione dei diritti umani fondamentali, insieme all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e agli articoli da 7 a 11 della Dichiarazione universale dei diritti umani approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. 

 

 

1. Un atteggiamento critico circa l’intero impianto della “riforma Cartabia” sembra fare da sfondo alle considerazioni di E. De Franco, La riforma c.d. “Cartabia” in tema di procedimento penale. Una pericolosa eterogenesi dei fini, in Questione giustizia online, 19 dicembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/cartabia-penale).

2. Cfr. M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della Riforma Cartabia (profili processuali), in Sistema penale, 2 novembre 2022, pp. 38 ss. 

3. Come in effetti è avvenuto: la legge 30 dicembre 2022, n. 199, di conversione del dl 31 ottobre 2022, n. 162, contiene modifiche agli artt. 85 ss. del d.lgs 10 ottobre 2022, n. 150; provvede anche, con nuove disposizioni, a introdurre una disciplina transitoria in materia di deposito degli atti (art. 87-bis), di indagini preliminari (art. 88-bis), di inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere (art. 88-ter), di udienza predibattimentale (art. 89-bis), di giustizia riparativa (comma 2-bis dell’art. 92), di mutamento del giudice nel corso del dibattimento (art. 93-bis), di disciplina transitoria per le videoregistrazioni (comma 5-undecies dell’art. 94), di disciplina transitoria per i giudizi di impugnazione (modifica del comma 2 dell’art. 94), e di iscrizione nel casellario giudiziale delle condanne a sanzioni sostitutive (art. 97-bis).

4. M. Gialuz, Per un processo, op. cit.

5. L. D’Ancona, Riforma del processo penale e giudice per le indagini preliminari, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, pp. 127 ss. (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/993/4-2021_qg_dancona.pdf).

6. L’art. 110 Cost. pone a carico del Ministro della giustizia «l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia»: si auspica, pertanto, che il Dipartimento per la transizione digitale, e in particolare la Direzione generale dei sistemi informativi automatizzati, quali articolazioni dell’organo statale, apportino le modifiche ai registri informatici e al trattamento informatico degli atti processuali (TIAP) necessarie a dare corretta attuazione alle norme del codice di rito.

7. Cfr. Corte cost., 18 novembre 2020, n. 260.

8. L. D’Ancona, Riforma del processo, op. cit., pp. 127-128.

9. A. Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre 2021, n. 134, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, pp. 82 ss. (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/988/4-2021_qg_spataro.pdf).

10. Cfr. P. Curzio, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021, Roma, 21 gennaio 2022, pp. 55-56 (www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Cassazione_Relazione_2022.pdf): «circa il 50% dei processi di primo grado introdotti dalla citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero (54,8% nell’anno giudiziario 2020/2021; 50,5% nell’anno giudiziario 2019/2020) si conclude con l’assoluzione, sicché, tenuto conto che la citazione diretta rappresenta, a sua volta, oltre i due terzi del carico di lavoro del tribunale monocratico (262.085 nell’anno giudiziario 2020/2021; 297.650 nell’anno giudiziario 2019/2020), deve concludersi per la necessità di un rinnovato impegno dell’ufficio del pubblico ministero nello svolgimento di indagini complete e di un serio ed effettivo filtro giurisdizionale per evitare un inutile dispendio di energie e di costi, oltre che, in primis, la pena derivante dal semplice fatto di essere sottoposti a processo». Estremamente interessante l’esame della tabella riportata a p. 55 del documento.

11. L. D’Ancona, Riforma del processo, op. cit., pp. 131 ss.

12. Corte Edu, sez. I, 27 settembre 2018, Brazzi c. Italia, che ha ritenuto l’Italia responsabile della violazione dell’art. 8, par. 2, Cedu, in una fattispecie in cui il ricorrente aveva lamentato di non aver potuto beneficiare di alcun controllo giurisdizionale preventivo, o a posteriori, circa la legittimità di una perquisizione disposta in indagini a seguito della quale non era stato sequestrato alcun bene. Vds., in proposito, la relazione illustrativa al d.lgs n. 150/2022, pp. 100-103 (www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1666216475_relazioneill-pulito-barrato-181022.pdf).

13. Si potrebbe mutuare il sistema di opposizione previsto, nel rito del lavoro, dall’art. 28 l. 300/1970: in base a tale norma, contro il decreto che decide sul ricorso dell’organizzazione sindacale è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione del decreto alle parti, opposizione davanti al giudice monocratico in funzione di giudice del lavoro, che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Mutatis mutandis, avverso l’ordinanza con cui il gip respinge o dichiara inammissibile la richiesta di incidente probatorio potrebbe ammettersi opposizione davanti ad altro gip della medesima sezione, che potrebbe decidere con un provvedimento (ordinanza) conclusivo della fase endoprocedimentale e non ulteriormente impugnabile. Se, a seguito di opposizione, l’incidente probatorio viene ammesso, il gip dell’opposizione potrebbe rimettere le parti dinanzi al giudice per le indagini preliminari titolare del procedimento, così da consentirgli di raccogliere la prova ammessa. 

14. Una pura formalità, film presentato in concorso al 47° Festival di Cannes, interpretato da Gérard Depardieu, Roman Polanski e Sergio Rubini. 

15. Con ciò non si vuole affermare che la riforma contenga tutte novità da apprezzare positivamente e di cui essere entusiasti; significa soltanto che occorre analizzare le innovazioni con spirito laico, al di là di ogni dichiarato intento del legislatore e di ogni eventuale atteggiamento dell’interprete di paura o di stizza verso le novità, per verificarne l’effettiva portata e le concrete ripercussioni sul sistema preesistente. Solo in tal modo si potranno valutare, una per una, le nuove norme, ed esprimere una critica ragionata, priva di pregiudizi e di riserve mentali, a volte generate nei magistrati da conservatorismo o, meglio, corporativismo.