Magistratura democratica

Apparire imparziali: ma agli occhi di chi?

di Livio Pepino

Ad un severo esame critico la richiesta ai giudici di apparire imparziali si mostra, in realtà, assai prossima a un disegno di omologazione alla maggioranza e al pensiero dominante. Un inganno, dunque, più che un chiarimento. Conviene, allora, rovesciare il paradigma e agire non sull’apparenza ma sulla sostanza, chiedendo ai giudici non di conformarsi all’immagine gradita alla maggioranza, ma di essere “trasparenti”.

1. Cominciamo dai fondamentali.

L’imparzialità è la cifra irrinunciabile della giurisdizione. Senza imparzialità il giudice non è semplicemente un cattivo giudice; è un non giudice, così come l’arbitro di una partita di calcio che tifa per una delle squadre in campo non è più un arbitro, ma, casomai, il dodicesimo giocatore della squadra prescelta. A maggior ragione, se un giudice appartiene a una qualche realtà collettiva (che sia un partito politico, l’Azione Cattolica o la bocciofila di quartiere) non può occuparsi di vicende che vedono coinvolti, direttamente o indirettamente, quella realtà e i suoi componenti o chi è con loro in conflitto di interessi. Se gli capita in sorte di esservi preposto, non può partecipare al giudizio, ma se ne deve astenere.

Attenzione, però, a non confondere – involontariamente o a ragion veduta – le carte in tavola e i concetti. “Imparzialità” significa disinteresse personale, estraneità agli interessi in conflitto, distacco dalle parti. Non altro. In particolare, l’imparzialità non ha niente a che fare con l’indifferenza ai princìpi e ai valori che attraversano la società. Non esiste infatti – non può esistere – un giudice senza idee (guai se esistesse, ché, se ci fosse, sarebbe solo il portavoce di decisioni prese altrove). Ci sono giudici credenti e altri che non lo sono, magistrati di estrazioni diverse (che hanno respirato e introiettato la cultura del proprio ambiente), giudici sensibili o, al contrario, disinteressati ai temi sociali, giudici uomo e giudici donna (con le diverse sensibilità che il genere porta con sé) e ci saranno presto magistrati con la pelle nera a fianco di colleghi con la pelle bianca, giudici di fede islamica a fianco di colleghi di fede cristiana o atei, e via seguitando... Ciò incide, inevitabilmente, sul loro bagaglio culturale, sul loro approccio professionale e sulle loro (legittime) scelte interpretative (che, semplicemente, devono essere coerenti con l’ordinamento, rigorose e argomentate in modo logico e razionale). È così da sempre in ogni parte del mondo e ciò, di per sé, non ne intacca l’imparzialità. 

Fin qui il consenso – tra chi guarda alla giurisdizione in buona fede – è generalizzato, almeno di massima.

 

2. Ma c’è un passaggio ulteriore. Essere imparziali – si dice – non basta: occorre anche apparire tali. L’espressione ha avuto fortuna ed è diventata una sorta di leitmotiv a destra e a sinistra. Con essa, peraltro – giova sottolinearlo –, non si fa riferimento alla (ovvia) necessità che i giudici evitino di pronunciarsi pubblicamente sugli affari di cui sono investiti e si astengano da ogni forma di collateralismo con l’una o l’altra delle parti coinvolte nelle controversie sottoposte al loro esame. E neppure ci si riferisce alla necessità (altrettanto ovvia, pur se meno recepita e praticata) che i comportamenti dei giudici siano equilibrati e rispettosi dei diritti delle parti, posto che – come scrive Luigi Ferrajoli – «ciascuna delle migliaia, dei milioni di persone che (come imputati, come parti offese, come testimoni, come attori o convenuti) incontrano un giudice, ricorderà quell’incontro come un’esperienza esistenziale, indimenticabile. Indipendentemente dal fatto che abbia avuto torto o ragione, ricorderà e giudicherà il suo giudice, ne valuterà l’equilibrio o l’arroganza, il rispetto oppure il disprezzo per la persona, la capacità di ascoltare le sue ragioni oppure l’ottusità burocratica, l’imparzialità o il pregiudizio. Ricorderà, soprattutto, se quel giudice gli ha fatto paura o gli ha suscitato fiducia. Solo in questo secondo caso ne avvertirà e ne difenderà l’indipendenza come una sua garanzia, come una garanzia dei suoi diritti di cittadino. Altrimenti, possiamo esserne certi, avvertirà quell’indipendenza come il privilegio di un potere odioso e terribile».

Sin qui siamo – lo si ripete – nei fondamentali, indiscutibili e indiscussi, e non metterebbe conto parlarne. Ma con l’espressione “apparire imparziali” ci si riferisce in realtà, nel dibattito pubblico, soprattutto (se non esclusivamente) ad altro, e cioè agli interventi e ai comportamenti dei giudici lato sensu politici, come dimostra l’esperienza antica e recente (sino all’ultimo episodio, che ha riguardato la Dottoressa Apostolico, rea di aver partecipato, anni prima di assumere una decisione sgradita al Governo, a una manifestazione tesa ad ottenere lo sbarco di migranti trattenuti sulla nave da cui erano stati soccorsi). Una cosa – si dice – è avere delle idee, altro è manifestarle pubblicamente; quel che è visibile in sé (il genere, il colore della pelle, le abitudini più naturali di vita... ) passi, ma le convinzioni occultabili vanno occultate o, almeno, non ostentate. Perché, altrimenti, come può un imputato, una parte offesa, l’attore o il convenuto di una causa civile avere fiducia in un giudice che gli appare un “avversario politico”?

L’affermazione è suggestiva ma, a ben guardare, infondata, fuorviante e pericolosa. Basta scomporla.

Primo. Apparire imparziali, nell’accezione ora precisata, è, per i giudici, come per qualunque pubblico funzionario o per qualunque cittadino, impossibile. A meno di rinchiuderli in una torre d’avorio e costringerli all’isolamento e al silenzio, impedendo loro la frequentazione di funzioni religiose (perché, altrimenti, gli atei li vedrebbero come “parziali” o avversari), l’impegno in attività solidaristiche (non solo con pericolose Ong, ma anche con la “San Vincenzo” o il Banco alimentare), l’acquisto di giornali o riviste (idonei a svelarne le simpatie politiche e culturali), la partecipazione a eventi di impegno e mobilitazione civile (per esempio, contro le mafie o contro la violenza di genere o contro le morti sul lavoro), etc. Cosa evidentemente impraticabile in base al comune buon senso, anche senza scomodare le regole della democrazia. Può darsi che la partecipazione di giudici alla vita sociale, culturale e anche politica (nel senso lato del termine) possa, in casi limite (peraltro assai rari e spesso montati ad arte), provocare reazioni negative in potenziali imputati, parti offese, attori o convenuti. Ma non c’è alternativa, e, comunque, l’introduzione di specifiche limitazioni al riguardo veicolerebbe non già un’immagine di imparzialità ma, nella migliore delle ipotesi, un segnale di separatezza e di conformismo coatto.

Secondo. A ben guardare, la pretesa che i giudici appaiano imparziali non ha a che fare con l’apparenza, ma con la sostanza, e altro non è che un aspetto della più generale questione, anch’essa continuamente quanto impropriamente evocata, della deprecata politicizzazione dei magistrati. Più delle parole valgono i fatti. Il pensiero dominante è tranchant nell’affermare che, tra le cause principali della caduta di credibilità della giustizia, ci sono l’esposizione mediatica e la politicizzazione (non a caso associate) di giudici e pubblici ministeri. E l’affermazione è accompagnata dall’evocazione di un’epoca felice – quella liberale – nella quale i magistrati erano riservati e apolitici e, per questo, circondati da un’aura di imparzialità, autorevoli e circondati da generale consenso. Se questo è il modello, è chiaro quel che si vorrebbe. In quel “bel tempo antico” la magistratura – prescindendo qui dalla questione del consenso, affermato in modo tanto drastico quanto indimostrato – era un’articolazione della classe politica di governo tout court e la maggior parte degli alti magistrati era di nomina governativa, spesso di estrazione direttamente politica, con frequenti passaggi dall’ordine giudiziario al Parlamento e al Governo (al punto che, fra il 1861 e il 1900, metà dei ministri della giustizia e dei relativi sottosegretari proveniva dai ranghi della magistratura). Superfluo aggiungere che la situazione restò inalterata nel ventennio fascista (con l’8% dei senatori reclutato tra i magistrati), quando – come noto – nessun giudice partecipava a manifestazioni di opposizione, ma la commistione tra magistratura e regime fu pressoché totale: per obbligo di iscrizione al partito e per spontaneo adeguamento, tanto da consentire al Guardasigilli Alfredo Rocco di affermare, già nel 1929, che «lo spirito del Fascismo [era] entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Sono davvero questi i magistrati da rimpiangere per la loro apparente imparzialità?

 

3. Si arriva così al cuore del problema. L’affermazione che i giudici devono apparire imparziali elude, in realtà, un punto decisivo, ineliminabile, se le si vuol dare un senso compiuto e consentire di valutarne il fondamento: agli occhi di chi i giudici devono apparire imparziali? La mancanza di una precisazione al riguardo vizia irrimediabilmente la regola proposta. Anche qui è preferibile procedere per gradi.

L’indicazione implicita è che i giudici devono apparire imparziali al cittadino medio. Ma è proprio qui che la regola si infrange: per la decisiva ragione che il cittadino medio non esiste o, meglio, è una astrazione espressiva del pensiero dominante e, dunque, della maggioranza. Sempre, ma a maggior ragione nelle società complesse, il cittadino lascia il posto ai cittadini: ai lavoratori e agli imprenditori (che qualcuno si ostina ancora a chiamare “padroni”), ai sani e ai malati, ai poveri e ai ricchi (spesso smisuratamente ricchi), ai nativi e agli emigrati, ai giovani e ai vecchi, agli intellettuali e agli analfabeti, alle donne e agli uomini, a chi si cura dell’ambiente e a chi privilegia il profitto, e via elencando potenzialmente all’infinito. Davvero qualcuno pensa che tutti abbiano, a fronte della giustizia, le stesse aspettative, le stesse richieste, le stesse speranze? E che, per tutti, l’“apparenza di imparzialità” si coniughi alla stesso modo? Davvero qualcuno pensa che il comportamento pubblico richiesto al giudice per considerarlo imparziale sia lo stesso per tutti? E che non si atteggi in modo diverso a seconda delle condizioni e dello status di chi formula il giudizio? La risposta non è difficile, ed è, del resto, confermata dall’esperienza storica.

Sino agli anni settanta, quando ebbe inizio la deprecata esposizione mediatica dei magistrati, giudici e pubblici ministeri erano prevalentemente – e non a torto – visti, per le loro decisioni e per i loro atteggiamenti, come i tutori acritici di una società ingiusta e disuguale: una parte (forse prevalente) del Paese li viveva come ostili, anche se – essendo la parte meno uguale della società – questa frattura non trovava audience sulla grande stampa e nel dibattito pubblico, ma solo in ambiti di opposizione e nelle parole di alcuni artisti capaci di dar voce a diffusi sentimenti popolari (come non ricordare canzoni di Fabrizio de André come “Il gorilla” o pagine indimenticabili come quelle del racconto di Italo Calvino sul disprezzo – ricambiato – del giudice Onofrio Clerici per i suoi quotidiani “clienti”?). Così, con maggiore fondamento di quanto faccia oggi il pensiero dominante, è lecito chiedersi come potessero i meno protetti considerare imparziali quei magistrati e avere fiducia in loro. E non si può ignorare che sono state proprio alcune prese di posizione pubbliche e presenze nel corpo sociale di magistrati (proprio quelle che - si dice - attentano all’apparenza di imparzialità) ad avvicinare alla giustizia settori tradizionalmente ad essa ostili, contribuendo a un rapporto diverso – di fiducia anziché di contrapposizione – tra ampie fasce di popolazione e i loro giudici. 

 

4. Alla luce di quanto precede, la richiesta ai giudici di apparire imparziali si mostra, in realtà, assai prossima a un disegno di omologazione alla maggioranza e al pensiero dominante. Un inganno, dunque, più che un chiarimento. Conviene, allora, rovesciare il paradigma e agire non sull’apparenza ma sulla sostanza, chiedendo ai giudici non di conformarsi all’immagine gradita alla maggioranza, ma di essere trasparenti. Facendo, cioè, esattamente l’opposto di quanto vorrebbe il pensiero dominante: esplicitare, anziché occultarle, le proprie idee, le proprie convinzioni, la propria cultura con i soli limiti – quelli sì, stringenti – della correttezza, dell’equilibrio e dell’astensione da giudizi e valutazioni sui propri processi.

Avere come stella polare la trasparenza ha, ovviamente, dei risvolti diversi e impegnativi. Richiede, in particolare, un onere di motivazione moltiplicato. Il “buon giudice” deve occuparsi di tutti con eguale attenzione e assoluto disinteresse personale: i suoi orientamenti culturali naturalmente incidono sulle sue decisioni, la cui fondatezza è data dal rigore della motivazione e dalla resistenza negli ulteriori gradi di giudizio (o, nel caso del pubblico ministero, ai controlli del giudice). È quello che accade ogni giorno e la situazione non cambia se gli orientamenti di quel giudice o di quel pubblico ministero sono noti o sono, in epoca più o meno recente, emersi nel dibattito pubblico. Potrei fare molti esempi. Mi limito a ricordare, con riferimento a una vicenda particolarmente drammatica, che l’estensore di uno dei provvedimenti che consentirono a Luana Englaro di porre fine a una vita non meritevole di essere vissuta era notoriamente impegnato in ambienti cattolici e, per passare a una questione assai più frivola, che il pubblico ministero istruttore del processo che portò, anni fa, alla retrocessione in serie B della Juventus era un accanito tifoso bianconero, abituale frequentatore dello stadio… Non devo aggiungere che quelle personali connotazioni, accompagnate da un riconosciuto rigore professionale, non ne hanno in alcun modo scalfito non solo l’imparzialità, ma anche la credibilità e la fiducia della collettività.

In ogni caso, a chi mi chiede cosa penserei se mi toccasse in sorte, in un processo, un giudice che ha manifestato idee opposte alle mie, rispondo con assoluta certezza: preferirei conoscere le sue idee piuttosto che saperle forzatamente occultate.