Magistratura democratica

L’imparzialità del giudice come risultato

di Gaetano Azzariti

L’imparzialità del giudizio può essere compromessa nel giudizio quando, soprattutto nei processi ritenuti minori, il giudice si sente lontano, non partecipe dei fatti della vita che va a giudicare, quando la pigrizia, la superficialità o il conformismo prendono il sopravvento. Sono le motivazioni che devono essere considerate, poiché in esse può nascondersi un non equilibrato giudizio.
Magistratura democratica nasce dalla critica delle sentenze “ingiuste” e su questo piano dovrebbe proseguire, anche al fine di contrastare l’accusa di “non imparzialità” rivolta dalla politica per decisioni semplicemente non condivise. Il magistrato deve preservare anche l’immagine della imparzialità, ma il punto più delicato è il “soggettivismo”: quando il giudice, anziché essere sottoposto alla legge, ritiene di potersi fare creatore di giustizia. Anche in tal caso, l’antidoto è rappresentato dalla possibile verifica delle motivazioni e dalla discussione pubblica delle decisioni assunte.

1. Come può una persona essere imparziale di fronte alla vita? Nel processo, in fondo, si chiede al giudice di prendere parte. Valutare e dunque “schierarsi”: per rendere giustizia e riparare i torti. 

Si dice però che l’“imparzialità” del giudice è legata alla soggezione (solo) alla legge che è costituzionalmente imposta. Imparziale, dunque, nell’applicazione delle norme. Ma che vuol dire? Se con questa indicazione si volesse intendere che viene sottratta al giudice ogni possibilità di valutazione delle norme, dovendo questi limitarsi a tradurre nel caso concreto la volontà politica del legislatore, si commetterebbe un duplice errore. In primo luogo, si stabilirebbe una illecita soggezione al potere politico, che è proprio ciò che la Costituzione ha voluto evitare; in secondo luogo, si darebbe prova di una scarsa consapevolezza della realtà del diritto. Ci si dovrebbe infatti ricollegare al logoro mito della legge “chiara” e del giudice “bocca della legge”. Inutile perdere tempo a confutare questa immagine coltivata in passato, agli esordi dell’Età moderna, da un Illuminismo rivoluzionario ben presto abbandonato. Una visione ideologica e astratta tanto più falsa oggi, dove il vero problema dell’interpretazione è rappresentato dai suoi limiti. Ed è proprio qui – sui canoni dell’ermeneutica giuridica – che dovremmo concentrare l’attenzione ogni volta che si denuncia la non imparzialità del giudice, ovvero – per dirla più brutalmente – il rischio di un uso arbitrario o soggettivo del potere ad esso costituzionalmente attribuito.

Ecco allora che emerge con la dovuta chiarezza il duplice volto dell’imparzialità, che deve caratterizzare tanto l’attività dell’ordine giudiziario quanto quella del singolo magistrato. Imparzialità come non dipendenza dagli altri poteri («La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»: art. 104 Cost), ma anche imparzialità che è richiesta nello svolgimento dell’attività nel processo (da parte del magistrato giudicante, ma in fondo anche da parte del magistrato inquirente) affinché essa sia conforme ai “canoni” della legge, valutati in base all’esperienza giuridica («i giudici sono soggetti soltanto alla legge»: art. 101 Cost.). 

Oltre il non condizionamento da parte di altri poteri e la soggezione solo alla legge, si deve considerare però un terzo elemento che vale a configurare l’imparzialità dell’attività giudiziaria. Si deve, infatti, dare per scontato che vi sia una fisiologica distanza tra fatto e diritto che rende illusorio, in molti casi, limitarsi a confidare sulla mera applicazione della legge. Almeno in tutti i casi controversi, non potendo fare affidamento sulla sola, lineare e automatica sussunzione del fatto alla norma, diventa necessario definire i confini dell’imparzialità, che rappresenta un risultato e non un mero presupposto. Bisogna insomma fare i conti con la complessità dell’ermeneutica giuridica allo scopo di definirne i confini per evitare l’arbitrio.

È per questo che, ben più delle motivazioni soggettive o dei comportamenti tenuti dai singoli magistrati, si dovrebbe prestare attenzione al rispetto delle regole processuali di terzietà, all’instaurazione di un regolare contraddittorio, all’attenzione prestata alle regole formali e sostanziali del processo, al rispetto dei precedenti, ovvero alle motivazioni che legittimano cambiamenti di orientamento.

Ma sono soprattutto le motivazioni degli atti processuali (ordinanze, sentenze, provvedimenti vari) che devono essere considerate, poiché è in esse che può nascondersi un non equilibrato giudizio. 

L’imparzialità del giudizio può essere compromessa nel giudizio, non solo per espressa volontà del magistrato, ma anche indirettamente, a causa della sua incapacità. Quando, soprattutto nei processi ritenuti “minori” – quelli che fuoriescono dall’orbita e dall’attenzione dei mass media – il giudice si sente lontano, non partecipe dei fatti della vita che va a giudicare, opera senza prendere parte alla causa, senza spingersi a comprendere a fondo e nella realtà dei vissuti le ragioni e i torti delle parti in causa, magari perché sommerso da un carico di lavoro rilevante o solo per pigrizia, ecco allora che si manifesta una insopportabile violazione dell’imparzialità del giudizio. Giudizi parziali sono quelli in cui i tutori della giustizia si affidano agli “stamponi”, quando la pigrizia o la superficialità prendono il sopravvento, quando un magistrato “lontano e distratto” deve indagare o giudicare “le piccole cose”, le usuali e usuranti controversie civili, i reati di strada, la microcriminalità, questioni ritenute “banali”, ma che sono spesso decisive per la vita della gente comune. Può far più danni la malagiustizia che non le opinioni personali – politiche o culturali che siano – del giudice. A queste distorsioni nascoste, non manifeste, dovremmo prestare maggiore attenzione.

Per combattere in difesa dell’imparzialità come risultato dei processi, dovremmo appellarci maggiormente alla professionalità dei magistrati. Prestare attenzione al modo in cui si esercita il potere giudiziario è un compito che spetta a tutti, ma una responsabilità particolare è quella delle associazioni, delle correnti che operano entro il corpo della magistratura, troppo spesso accusate di occuparsi esclusivamente degli interessi di carriera dei propri aderenti e troppo poco attente al funzionamento della giustizia. Magistratura democratica nasce esattamente con questo spirito: per porre al centro dell’attenzione le politiche giudiziarie e l’operato dei giudici e nei giudizi. Una corrente di magistrati in grado di essere più sensibile alle ragioni di una giustizia che non a quelle della corporazione e che si è andata formando sulla critica delle sentenze “ingiuste”; sulla denuncia della sottovalutazione dei giudici nell’applicare le disposizioni prestando la dovuta attenzione alla Legge suprema, ponendosi “dalla parte della Costituzione”; sulla critica al formalismo di certe pronunce, che non affrontano le questioni, gli interessi, i fatti reali sottostanti la controversia; sulla denuncia della distanza della magistratura conservatrice dalle ragioni dei diritti, soprattutto dei diritti di coloro che non hanno potere, ma possono solo sperare di trovare un giudice consapevole; sulla lotta per la costruzione delle ragioni del garantismo. Una prassi, una cultura della giurisdizione che dovremmo provare a ritrovare, essendosi – a mio parere – un po’ sperduta.

L’imparzialità come risultato si impone assicurando la libera e consapevole discussione sull’operato dei giudici. Una discussione che deve coinvolgere tanto i giudici (all’interno della magistratura) quanto l’opinione pubblica (all’esterno dell’ordine giudiziario). Ma che, per poter essere svolta razionalmente, deve fondarsi su una chiara conoscenza dei fatti (quelli conoscibili e di effettiva rilevanza processuale) e delle motivazioni (quelle depositate). Ciò vuol dire che è necessario permettere all’opinione pubblica di essere informata su ciò che avviene nel corso del giudizio, senza limitare la conoscibilità degli atti depositati. Una maggiore apertura. Assai complessa, perché deve, ovviamente, tener ben presente quel delicato equilibrio tra diritto d’informare (meglio sarebbe evidenziare il diritto a essere correttamente informati) e le garanzie poste a tutela dei diritti fondamentali delle parti e dei soggetti estranei al processo (tutela della privacy). Così come gli altri valori costituzionali in gioco, dalla presunzione assoluta di non colpevolezza al rigoroso rispetto dei diritti di difesa, non sottovalutando peraltro anche le esigenze di riservatezza legate al segreto istruttorio e alla necessaria precauzione e delicatezza che circonda gli atti di indagine. Ciò non toglie, però, che un effettivo controllo dell’opinione pubblica può favorire il risultato di processi che siano imparziali. Una corretta e ampia informazione che possa rappresentare anche un filtro e un freno alla ormai diffusa spettacolarizzazione e all’abuso emozionale o irrazionale dei processi mediatici. 

Sarebbe peraltro opportuno che, anche dall’interno della magistratura, si favorisse la pratica della critica delle sentenze. La trasparenza del dibattito interno, il far emergere i diversi punti di vista nel valutare i fatti e i casi della vita, non potrebbe che favorire un più rigoroso modo di operare e di interpretare le norme da pare dei giudici. Senza scordare ovviamente che il migliore e più puntuale controllo delle sentenze (dunque, anche della loro imparzialità) è dettato dai normali criteri di impugnazione delle decisioni, che in fondo servono anche a dare interpretazioni imparziali, non invece semplicemente neutrali, all’attività dei giudici.

 

2. All’imparzialità sostanziale – quella di cui abbiamo sin qui discusso e che si definisce nel corso del processo – si affianca un’imparzialità soggettiva, che può riferirsi anche all’esigenza di preservare l’imparzialità “apparente” (l’immagine di imparzialità) del singolo giudice e, al limite, può coinvolgere un intero gruppo associativo di magistrati. Un profilo che non è da sottovalutare, foriero peraltro delle più comuni polemiche. A volte, l’accusa di operare sulla base di pregiudizi nello svolgimento delle indagini, ovvero di non essere nelle condizioni di giudicare correttamente alcuni soggetti o fatti in causa, è formulata a seguito di eccessi o errori comportamentali di singoli magistrati, nonché come conseguenza di oggettive situazioni che rendono inopportuno che un singolo magistrato si occupi di determinate questioni o specifici soggetti, anche se tali comportamenti o situazioni non dovessero rientrare nei casi di obbligatoria astensione per legge. È da rilevare, però, che molto spesso l’accusa di non imparzialità rivolta a un magistrato per i comportamenti tenuti o l’attività esercitata è stata utilizzata per contrapporsi strumentalmente a decisioni non condivise. Ovvero, proprio a fronte di quei provvedimenti che ben potrebbero essere discussi sul piano processuale per verificare il rispetto di quella cha abbiamo definito l’imparzialità come risultato. Anziché guardare al merito della decisone, contestare le motivazioni, richiedere o promuovere le impugnazioni dei giudicati, si preferisce valutare i comportamenti o le idee extraprocessuali degli attori dei provvedimenti. Il terreno è assai scivoloso perché si tendono a sovrapporre due piani, entrambi da preservare: da un lato, i diritti di cittadinanza dei singoli magistrati (di manifestare il proprio pensiero, ma spesso anche la titolarità di altri vari diritti costituzionali, se non addirittura coinvolgendo la vita privata delle persone); dall’altro, il principio di terzietà dei giudici e la correttezza nell’esercizio dei poteri di indagine. È necessario allora andare alla ricerca del fondamento reale che rende anche l’imparzialità soggettiva un valore da preservare, al di là delle possibili strumentalizzazioni nell’uso polemico dell’imparzialità rivolta ai singoli giudici, se non a interi gruppi di magistrati.

Escludo qui – come già accennato – ogni considerazione sulla parallela, ma diversa questione del conflitto di interessi e le ipotesi previste di obbligo del giudice o del pubblico ministero di astenersi, o di possibile ricusazione dei componenti dei collegi giudicanti. In tali casi, la non imparzialità come impedimento a proseguire il giudizio è prevista e sanzionata, pertanto si tratta – semmai – di farla rigorosamente valere. Quel che vorrei, invece, evidenziare sono altri due aspetti.

In primo luogo, vorrei rilevare il fondamento che rende necessario preservare la stessa immagine di imparzialità, oltre al doveroso rispetto dell’imparzialità sostanziale per come prima definita. C’è, in effetti, bisogno di non compromettere l’attività della magistratura, che si basa anche sull’aspettativa di trovarsi di fronte a giudici non pregiudizialmente avversi alle posizioni delle parti. Un’apparenza di imparzialità che può venire compromessa dai comportamenti individuali dei singoli magistrati (sia dei giudici terzi, ma anche di quelli inquirenti) ritenuti inappropriati. È il caso tipico dei giudici che esprimono valutazioni definitive sul processo prima di una loro formalizzazione processuale, ovvero che cedono alla tentazione di parlare delle proprie cause con atti non ufficiali, ovvero che esprimono giudizi moralistici ed esplicitamente preconcetti nei confronti di questioni, temi o comportamenti che possono poi pervenire al loro sindacato. In tutti questi casi, nei mille altri che possono immaginarsi, una regola di autolimitazione sarebbe opportuna al fine di salvaguardare la propria azione imparziale nel corso dei futuri processi. La stessa delicata questione del divieto non solo di iscrizione, ma anche di partecipazione «sistematica e continuativa» ai partiti politici, nonché «il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato» – che può determinare un illecito disciplinare e che è stata ritenuta non incostituzionale dalla Consulta (sent. n. 170/2018) –, in fondo, rende esplicito come può essere preteso un comportamento anche personale dai magistrati, ma solo e nei limiti in cui tali comportamenti o legami possano riflettere un possibile futuro pregiudizio nell’esercizio dell’attività giudiziaria. Oltre tale linea di confine (non sempre nettamente individuabile), non possono che rispandersi la libertà e i diritti costituzionalmente garantiti a tutti i cittadini: dalla libertà di manifestazione del pensiero, comprese ovviamente le proprie opinioni politiche, ai diritti di partecipazione alla vita sociale del Paese, ai connessi diritti di riunione e di associazione, etc. 

 

3. È inutile rilevare, da ultimo, che dal quadro descritto fuoriescono tutti i frequenti e infondati rilievi sui comportamenti soggettivi dei magistrati che vengono “incolpati” per la mera partecipazione a eventi politico-culturali o di rilevanza sociale. Per non parlare degli sconcertanti rilievi che vengono fatti su questioni del tutto private, come la vita coniugale o gli atteggiamenti personali dei singoli. 

Al di là di questi eccessi, possono dunque certamente assumere rilievo le condotte individuali di singoli magistrati, qualora esse possano compromettere l’imparzialità – anche solo apparente – nei giudizi, senza però scordare che il vero nemico dell’imparzialità è quello che si lega al soggettivismo delle decisioni. Vale la pena ricordare che il vero limite che un giudice non può superare è quello di farsi egli stesso creatore di giustizia: soggetto alla legge, con tutte le difficoltà che già ciò comporta e su cui abbiamo già accennato in precedenza. 

V’è poi un ultimo aspetto da considerare. Il più discusso e il meno pertinente. Non si può confondere la necessaria imparzialità del giudice con un presunto divieto di contrastare le decisioni politiche del Governo o l’applicazione delle leggi in un contesto integrato di normazione nazionale, costituzionale e sovranazionale. In questi casi, vige un obbligo inverso: l’imparzialità impone l’esercizio del potere giudiziario contro i comportamenti dei poteri e dei governi che non siano conformi alla legge, alla Costituzione, agli obblighi internazionali. Magistrati soggetti alla legge e non ai poteri.