Imparzialità apolitica. La restaurazione giudiziaria in atto tra “politica” e neo-tecnicismo
Non si possono normalizzare la pubblica accusa e anche il giudice penale senza trasformare gli stessi caratteri della cultura dei giuristi in generale. La peggiore imparzialità che potrebbe verificarsi è quella di un giudice burocrate, ma anche di un interprete in generale che non può “fare politica”, perché non gli è neppure assicurata la dimensione giuridico-costituzionale della critica del diritto implicita nel controllo di legittimità (anche europea) delle leggi ordinarie e della interpretazione conforme.
Un controllo, deciso sempre più dall’alto e comunque sottomesso al dominio della volontà maggioritaria sulla gestione dei valori costituzionali. Si prospetta così, nel segno dell’efficientismo del diritto, un ruolo del giudice come esecutore di massime delle giurisdizioni superiori, ispirato a un neo-tecnicismo acritico.
1. Premesse scontate sulla imparzialità / 2. Il clima di una restaurazione politico-giudiziaria / 3. Il livello “costituzionale” dello scontro in atto / 4. La nuova imparzialità
1. Premesse scontate sulla imparzialità
Essere imparziale è un dovere di essenza del giudicare sul piano sostanziale. Apparire imparziale è invece solo un dovere di comportamento esterno, formale. Insuperabile il primo; meno rilevante il secondo in termini di identità professionale.
Ciò premesso, abbiamo già tracciato il primo confine su che cosa è davvero importante e qualificante l’attività professionale del giudice. Se poi egli frequenta “prostitute e pubblicani”, oppure rivoluzionari di destra o di sinistra, o soggetti con precedenti penali, giusto per intenderci, ciò resta inopportuno per la specifica veste pubblica del suo ufficio, ma non è decisivo per valutare il suo ius dicere. Resta libero di farlo, ma può essere censurato, in qualche caso.
C’è, peraltro, un aspetto di forte interferenza tra l’essere e l’apparire, che riguarda le opinioni politiche e i comportamenti economici del magistrato e del giudice, che sono in grado di condizionare e travolgere in modo diretto e profondo i giudizi espressi nel processo.
Credo che sia soprattutto su tali momenti di interferenza che debba vertere il dibattito avviato da Questione giustizia.
Perché il magistrato, che condivide i diritti fondamentali di tutti, ha tuttavia accettato uno statuto speciale, che non è quello dell’esponente di un gruppo ideologico, ma non è neppure del tutto ideologicamente neutro. Certo, è possibile sostenere che anche il diritto sia una ideologia e che dunque le posizioni ufficiali della Corte suprema di cassazione o della Corte costituzionale siano espressione di quella ideologia. A prescindere da questa critica, comunque, il magistrato ha tutti i diritti di dissentire dalle posizioni ufficiali di quegli organi. Non può agire disprezzandoli o senza argomentare, ma può dissentire argomentando.
E allora, in che cosa consiste lo “statuto speciale” del modo di pensare del magistrato e del giudice, in particolare?
Se si entra a far parte della Chiesa cattolica come esponente religioso, oppure di un partito politico o di una qualche associazione ideologicamente caratterizzata, come suoi rappresentanti, si accettano alcuni limiti “naturali” al proprio pensiero espresso in pubblico. Perché esistono linee di pensiero ufficiali su molte questioni disputabili.
Esempio. Come un sacerdote non può esprimere in pubblico una visione del mondo contrastante con i dogmi della sua chiesa, così un magistrato – il parallelo non è casuale – non può esprimere in pubblico una visione della lotta politica che segua programmi antidemocratici come metodo. Un libero pensatore può farlo, se non incita in pubblico alla violenza. Tuttavia, il magistrato può argomentare in modo irreprensibile sul perché perseguire o non perseguire i comportamenti ideologicamente ispirati alla violenza di alcuni gruppi politici alla luce della normativa vigente: per esempio, restando a vicende recentissime, la questione della rilevanza penale del saluto fascista da parte di un gruppo di milleduecento persone in una riunione pubblica, in merito all’applicazione o meno della legge Scelba o della legge Mancino in riferimento a condotte di espressione usuale per movimenti o formazioni che la legge vieta di ricostituire.
Il tema è delicatissimo e l’esempio fatto non ci esime dal ricordare che il principio di offensività ammette i reati di pericolo astratto e la persecuzione di comportamenti che esprimano in gruppo e pubblicamente ideologie antidemocratiche. Ma tant’è: nei discorsi “tecnici” si annidano molte insidie politiche e spesso si ammette che, pure restando un mero tecnico, il magistrato le coltivi solo in quel recinto argomentativo.
Il valore della imparzialità del giudice è, oggi, di nuovo attuale per una ragione del tutto specifica: la messa in discussione della libertà del magistrato e del giudice di manifestare la propria visione “politica” al di fuori dei provvedimenti giudiziari o giurisdizionali, e il rapporto di questa libertà negata con il divieto di inserire surrettiziamente dentro a quei provvedimenti la visione politica che si professa.
Il provvedimento deve o escluderla o celarla, dovendo restare tecnico. Il tecnicismo giuridico è di nuovo tornato a essere un modello culturale: ce ne siamo accorti?
Si pone al riguardo come preliminare una definizione di che cosa si intende per “politica” vietata o permessa. Prima di chiarire questo profilo centrale, dobbiamo inquadrare il nostro discorso nel clima di fondo della discussione pubblica odierna. Così anche un lettore dell’anno 2030 o 2040, se avrà ancora interesse a questi temi, potrà capire perché scriviamo cose inimmaginabili nella discussione degli anni novanta (per non parlare degli anni settanta) del secolo trascorso e forse troppo poco “funzionali” per il dibattito o la prassi giudiziaria dei prossimi anni.
2. Il clima di una restaurazione politico-giudiziaria
L’attuale governo di destra-centro, garantista con determinati tipi d’autore, e punitivista con altri, mal sopporta i giudici schierati, o che criticano in forma associata provvedimenti legislativi o disegni di legge. Si preferisce un giudice, se non burocrate, comunque tecnico-giuridico che si attesti su questioni qualificatorie delle fattispecie che è tenuto ad applicare, senza troppo discutere. Ma se è “critico” in chiave restauratrice, conservatrice o reazionaria, quel magistrato non subirà censure.
Questo è il clima dei rapporti fra politica e magistratura, aggravato da una sempre rinviata resa dei conti con le procure onnivore e onnipotenti, responsabili in alcuni casi di una gestione politica dell’esercizio dell’azione penale, spesso infruttuosa ma pregiudizievole, verso parlamentari, sindaci, imprenditori e amministratori, contro le quali il Ministro della giustizia si pronuncia di frequente.
La burocratizzazione della magistratura è da tempo in atto.
Il magistrato teme per la carriera anche un mero richiamo. Non ha più il coraggio di essere sottoposto “solo” alla legge, ma anche a ispezioni e contestazioni di addebiti disciplinari. Il magistrato penale, sicuramente colpevole di troppe politicizzazioni in passato, “deve” ora essere normalizzato.
La separazione delle carriere è sempre in attesa di essere varata (domanda: ma lo sarà mai?); sono in corso di avanzata elaborazione parlamentare l’abolizione della improcedibilità dell’appello per superamento dei termini di fase (un pasticcio da molti criticato a ragione) e il ritorno a una prescrizione solo sostanziale, secondo la “riforma Orlando” del 2017; la riforma delle intercettazioni e dei diritti di garanzia (interrogatorio previo) della persona sottoposta a misure cautelari, dei limiti alla pubblicazione delle notizie di reato e del contenuto delle ordinanze cautelari; una riforma annunciata dei reati contro la p.a., insieme all’abrogazione secca del reato di abuso di ufficio e alla modifica del reato di traffico di influenze illecite.
È dunque in atto un disegno che, accanto ad alcune riforme processuali valutabili anche positivamente in astratto (prescrizione, intercettazioni, diritti dell’indagato da sottoporre a misure cautelari, separazione delle carriere a seconda di come venisse attuata) e ad altre più meditate, affidate a commissioni di studio lontane dai riflettori populistici, le inserisce in realtà in un contesto complessivo di regolarizzazione e contenimento dell’azione delle procure della Repubblica, in un clima generale di “garantismo penale” a corrente alternata: garanzia di condanne e carcere per certi tipi d’autore (numerosi i provvedimenti “urgenti” di marca populista), garanzia di maggiore impunità o protezione per altri, meno perseguibili oppure condonati da varie misure di sanatoria anche penale. Del resto, quando si potrebbe amnistiare, ma non si può per il vincolo del quorum costituzionale, si preferisce abrogare i delitti, o mandarli in prescrizione. Un penale “duro” per alcuni, ed estremamente (o finalmente?) “liberale” per altri.
Non è poi così sorprendente quello che accade. Né per la caratterizzazione espressiva del tipo di governo in carica, né per la logica reazione alla gestione del penale da parte di alcune procure negli anni passati, se non in generale dopo Tangentopoli. Solo un governo di destra-centro avrebbe potuto attuare questa reazione, non certo la sinistra, da sempre sedotta dal giustizialismo penale e ancora incapace di una politica della giustizia libera da quel passato. Peccato che ciò avvenga, come detto, secondo un “disegno” complessivamente reazionario rispetto a modelli di democrazia interna al potere giudiziario e alle sue grandi (e sempre più temute) capacità di intervento nel controllo sui poteri pubblici e privati, la cui gestione ha però rivelato eccessi di lesione processuale dei diritti fondamentali, inaccettabili nel bilanciamento politico complessivo degli interessi.
3. Il livello “costituzionale” dello scontro in atto
La vera novità è un’altra.
Si tratta del livello costituzionale dello scontro e del regolamento di conti in atto. È su un terreno di assoluta parresia che occorre, a mio avviso, discutere dell’imparzialità “politica” del giudice. Il mio discorso riguarda la questione penale, ma ci sono altrettanti risvolti civilistici del tema. Dopo la vicenda Apostolico, attraverso vari interventi sui media di diversi esponenti dell’esecutivo, e la persistente, minacciosa presenza di azioni penali che riguardano personaggi della classe politica, si percepisce che è sempre forte il timore che i governi possano cadere o entrare in crisi per mano giudiziaria. Il controllo di legalità o di etica pubblica mediante l’azione penale è oggi sempre meno una peculiarità italiana, come ci appariva ancora alcuni anni fa: ma rimane, ed è fenomeno internazionale, l’immanente e pervasiva presenza di questo controllo, e di una contrastante reazione politica alle iniziative della magistratura. Altri poteri, del resto, agiscono nella sfera pubblica: l’estensione dell’azione penale all’area di parenti o affini del politico, contro ogni logica di personalità della responsabilità penale, dà corpo a un riflesso massmediatico raccapricciante delle notizie di reato. È come scoprire ogni mese un nuovo virus della macchina del fango.
Si comincia a percepire sempre meglio che lo scontro in atto non può essere ricondotto a un semplice contesto di lotta politica contingente: non perché i protagonisti siano consapevoli di questo livello più alto (non si vuole nobilitarne la levatura), ma perché una lettura in termini di cronaca quotidiana resterebbe in superficie. Infatti, il piano della discussione si sposta “logicamente” dalla legge ordinaria a quella costituzionale. Non trattiamo ora di riforme costituzionali del premierato, ma anche soltanto dei diffusi proclami secondo i quali il modello costituzionale della Carta del 1948 non sarebbe più adeguato al tempo presente. Mi chiedo se ciò sia vero. Certo l’obbligatorietà dell’azione penale, per esempio, è del tutto superata nei fatti, ben al di là delle politiche di qualche esecutivo di breve o media durata. A ragione di ciò, questo giudizio deve tenere presente che non ci si può riferire solo alla Costituzione originaria, che per vari aspetti non esiste più: è, piuttosto, la norma fondamentale, come è stata più volte reinterpretata e direi sovrainterpretata nei decenni, che dobbiamo tenere fissa davanti. Allora si potrà comprendere che il livello costituzionale dello scontro non riguarda, se non in parte, una normativa del passato. Nella dialettica tra i poteri dello Stato è in discussione la riscrittura di un testo il cui contenuto è in buona parte cambiato in via ermeneutica o applicativa (prasseologica).
Orbene, in tale clima politico-giuridico i rischi maggiori sono quelli di una revisione del modello costituzionale della legge penale, ma non solo di essa: da un lato, l’idea che il giudice non deve criticare “né in pubblico né in sentenza” le leggi votate dal Parlamento in nome di una sua lettura della Carta fondamentale; dall’altro, la problematica della possibile occupazione della Corte costituzionale secondo un disegno politico di maggioranza, sì da condizionare la sua azione e la sua giurisprudenza in una direzione “maggioritaria”.
Già nella prima posizione è contenuto un attacco diretto al modello costituzionale: la sua riduzione a regola “disponibile” politicamente da parte della volontà della maggioranza.
Solo una concezione maggioritaria della giurisprudenza e della cultura costituzionale può permettersi di prefigurare un magistrato che debba prioritariamente sottomettersi alla legge del Parlamento prima che a quella della Costituzione. L’idea è che spetta alla “politica”, vale a dire innanzitutto ai partiti della maggioranza, condizionare e orientare il pensiero giuridico, sia esso quello dei magistrati ordinari, sia quello da sottintendere ai testi costituzionali, almeno nelle questioni più scottanti e attuali che la “democrazia maggioritaria” è stata legittimata a dirimere dal voto elettorale.
Il giudice, invece, ha un mandato diretto a essere soggetto anche alla legge superiore nella tutela dei diritti fondamentali.
Il livello dello scontro è, dunque, tra una visione politico-maggioritaria della Carta fondamentale e una sua concezione sovralegislativa classica. Una visione politico-maggioritaria, che sembra essere vicina a modelli americani di politicizzazione della scelta dei giudici, intende dominare, o ammettere come legittimamente condizionabile, la formazione e l’orientamento della Corte ben oltre l’equilibrio nella sua composizione, realizzato con sapienza dai Costituenti attraverso il meccanismo di cui all’art. 135 Cost.
Nella vita ordinaria del diritto non ci sono lacerazioni politiche e richieste di prese di posizione: il magistrato resta organo che applica le leggi. Eppure, non sono isolati o insignificanti i casi di un impegno diretto nella lotta per un diritto migliore. Giuste o sbagliate che siano le posizioni “progressiste” assunte, sono questi i casi che occupano la polemica in corso.
4. La nuova imparzialità
C’è peraltro anche un livello giuridico-costituzionale del neo-tecnicismo, che riguarda proprio il costume giudiziario.
La nuova “imparzialità” sostenuta dai neoconservatori è un attacco diretto al modello costituzionale, non solo originario, ma vigente.
Non è certo ammesso che il magistrato professi posizioni di partito o di chiesa nei provvedimenti, né è opportuno che ostenti in pubblico le sue legittime opzioni di fede politica o di critica delle leggi in forme di contestazione violenta o aggressiva.
È questo un limite “naturale” alla posizione istituzionale del magistrato. Ben altro è in discussione, sotto l’apparente conferma dei vincoli ora ricordati. L’interprete giudicante non può “fare politica”, perché non gli è neppure assicurata la dimensione giuridico-costituzionale della critica del diritto implicita nel controllo di legittimità delle leggi ordinarie. Non dovrebbe neppure arrischiarsi in una interpretazione conforme, rivendicata oggi dai vertici delle magistrature e concessa con molte limitazioni ai giudici di merito. Eppure si tratta di una “politica dell’interpretazione”, intrinseca all’ermeneutica giuridica post-costituzionale, senza la quale in diritto penale saremmo ancora al codice Rocco.
D’altro canto, l’attenzione della politica dei partiti si rivolge perfino alla vita privata del magistrato, per sindacare la sua posizione non allineata. Sono schemi da Stato di polizia, inusitati e impensabili fino all’altro ieri. Esattamente per questo viene vista come disfunzionale al ruolo giudicante una critica costituzionale delle leggi. È imparziale e terzo il magistrato acritico ed esecutore.
Noi sappiamo, invece, che la Costituzione vigente impone un modello di interprete critico, educato a una rilettura costituzionalmente orientata delle leggi attraverso i diritti fondamentali, da qualunque maggioranza governativa provengano: è questa l’educazione a un controllo di costituzionalità diffuso, anche se rimane accentrato il giudizio di illegittimità. Si tratta di un modello che ha estensione europea, essendo imposto anche un dovere di lettura delle leggi conforme al diritto Ue e Cedu.
Discostarsene implicherebbe una manovra di restaurazione giudiziaria. La nostra preoccupazione è che non si tratti dell’eccesso contingente del movimento di riforma dei poteri “smisurati” delle procure della Repubblica, come li ha definiti il Ministro della giustizia, ma di un disegno revanscista più ampio e sistematico: un neo-tecnicismo acritico e burocratizzato. Sarebbe esattamente un modello antitetico a tutto l’approccio costituzionalistico al diritto penale sviluppatosi in Italia sin dagli anni settanta del secolo scorso. Il che esige una attenta riflessione.
Non credo che la restaurazione qui descritta, ma ancora in fase di attuazione cangiante, abbia una dignità culturale capace di resistere al modello della Costituzione vigente. Sono tuttavia persuaso che occorra vigilare e resistere a questi indirizzi, la cui modestia culturale conserva il fascino dell’utilità a logiche di puro dominio.
Una destra liberale non dovrebbe restarne avvinta, ma questa aggettivazione, come molte altre, del resto, rimane ambigua o contraddittoria nel confronto tra lessico e prassi.