Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Quale tutela a fronte di un licenziamento discriminatorio?

di Anna Terzi
già magistrato
La tutela cautelare ex art. 700 cpc è compatibile con il rito "Fornero". La verifica della proporzionalità del licenziamento, rispetto al fatto disciplinare contestato, spetta al giudice del lavoro
Quale tutela a fronte di un licenziamento discriminatorio?

Nell’ordinanza 18.3.13 il Tribunale di Ravenna affronta e risolve alcune interessanti questioni che si pongono nella applicazione della Legge Fornero.

La prima attiene alla compatibilità della tutela ex art. 700 cpc sia -in via generale- con la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro, sia con il nuovo rito speciale ex art. 1, commi 47-69 L n. 92/12, da una opinione minoritaria ritenuto esaustivo di ogni altra possibile tutela, per i tempi rapidi in cui si dovrebbe svolgere e per la struttura a doppia fase, di cui la prima è a cognizione sommaria.

Con stringente consequenzialità logico sistematica il Tribunale indica i principi costituzionali di riferimento, gli ostacoli normativi e di fatto ad una adeguata protezione -nei tempi dell’azione ordinaria- dei diritti della persona che, nel caso specifico, verrebbero irrimediabilmente lesi (compreso il diritto all’elettorato passivo quale rappresentante sindacale).

A questa impostazione, aderente alla funzione di tutela e garanzia del diritto ex art. 3 e 36 cost. ed alla effettività delle condizioni di una vita libera e dignitosa, si è talora opposta, da una parte della giurisprudenza di merito, una visione astratta del diritto alla reintegrazione quale diritto a contenuto meramente patrimoniale, che trova ristoro nel pagamento dell’intera retribuzione dal momento del licenziamento a quello della riammissione in servizio (condizione oltretutto questa ormai solo eccezionale).

Nel ribadire la necessità della valutazione in ogni caso concreto del periculum in mora, con affermazioni sicuramente condivisibili quanto alla nozione di gravità e irreparabilità del danno, il Tribunale, richiamando Corte Costituzionale n. 326/97, afferma la compatibilità della tutela cautelare anche con il cd rito Fornero e la conclusione appare ineccepibile.

Non vi è alcuna disposizione dalla quale si possa desumere o che espressamente disponga esplicitamentel’incompatibilità del ricorso ex art. 700 cpc con la domanda di accertamento della illegittimità del licenziamento ex art. 1 commi 47-69 L n. 92/12, per l’esame nel merito della quale è comunque previsto un termine dilatorio di 40 giorni.

Si può, inoltre, osservare che il ricorso ex art. 700 cpc consente una tutela più celere anche perché, nella fase di cognizione sommaria, non consente l’ingresso di domande diverse da quella per la quale è dedotto il periculum in mora.

Né vi è una incompatibilità strutturale:il rigetto della domanda di provvedimento d’urgenza non preclude l’azione ordinaria e l’accoglimento della domanda del lavoratore (con conferma in sede di eventuale reclamo) da un lato può semplicemente consolidare l’accertamento giudiziale con effetto deflattivo sul contenzioso, dall’altro consente al datore di lavoro di introdurre una ordinaria domanda di merito.

Il secondo aspetto di particolare interesse dell’ordinanza in commento riguarda il ragionamento probatorio nell’accertamento dell’atto discriminatorio.

L’iter argomentativo viene focalizzato sugli elementi indiziari dell’intento discriminatorio e il giudice torna più volte sulla diversità di trattamento in situazione identiche o analoghe o di minor gravità, per desumerne la insussistenza di un reale interesse alla repressione della condotta sanzionata con il licenziamento.

Prima della Legge Fornero, l’impugnazione per discriminazione illecita non aveva dato luogo a una larga casistica ed era per lo più circoscritto ai motivi di genere e sindacali.

Non vi era alcun vantaggio a percorrere la strada in salita della prova delle ragioni o degli effetti discriminatori del licenziamento, quando l’onere di dimostrare la giusta causa o del giustificato motivo grava sul datore di lavoro (art. 5 L n. 604/66).

L’avere mantenuto, con la riforma, la reintegrazione piena, anche sotto il profilo risarcitorio, solo per casi specifici determina, invece, oggi un incentivo a introdurre in via principale l’impugnazioneper discriminazione e in via subordinata le altre domande per la tutela “depotenziata”.

E il criterio della disparità di trattamento di situazioni uguali o analoghe è naturalmente destinato, come è intuitivo, a essere uno degli elementi del ragionamento presuntivo, ma è un criterio che può mettere in crisi quello che fino ad oggi è stato considerato un dogma del diritto del lavoro nel settore privato ossia l’inesistenza di un obbligo datoriale di parità di trattamento.

L’ampia casistica che si sta già presentando è quindi suscettibile di portare a imprevedibili sviluppi, a una rivisitazione di alcune affermazioni di principio, a un approfondimento della nozione di discriminazione, a una ridefinizione del confine fra valutazione discrezionale, facoltà e obblighi di correttezza del datore di lavoro.

Basti pensare alle ricadute che può avere l’elemento presuntivo della disparità di trattamento nella valutazione dell’effetto discriminatorio del motivo oggettivo di recesso giustificato con ragioni tecnico produttive con riferimento alla scelta dei lavoratori da licenziare.

L’ultima questione riguarda la controversa interpretazione del nuovo quarto comma dell’art. 18 L n. 300/70 in relazione alla sopravvivenza e soprattutto all’ambito di applicazione dell’art. 2106 cod. civ.

Parte della dottrina ha sostenuto che la nuova disciplina impone al giudice di scindere il giudizio di legittimità in due successivi distinti passaggi.

Il primo riguarda l’accertamento della sussistenza del fatto in senso fenomenico: se il fatto contestato non sussiste, deve essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro, con indennità risarcitoria.

Il secondo, a cui si deve accedere se il fatto sussiste, riguarda la valutazione di proporzionalità della sanzione; se la sanzione è sproporzionata, il licenziamento è illegittimo ma deve essere accordata solo la tutela indennitaria, con l’unica eccezione delle specifiche ipotesi di sanzioni conservative previste dai contratti collettivi o codici disciplinari.

Questi ultimi sarebbero quindi fonte di integrazione della norma legislativa, con una sorta di automatismo che escluderebbe una valutazione di gravità da parte del giudice, che possa sostituirsi alle valutazioni del datore di lavoro al fine di riconoscere il diritto alla reintegrazione.

A questa interpretazione si sono opposti argomenti di ordine logico e sistematico, variamente ampi e articolati, accolti dal Tribunale, che sono condivisi dalla maggioranza della giurisprudenza di merito e paiono ormai essere fatti propri anche da buona parte della dottrina.In sintesi:

a) il “fatto” non può essere considerato solo nell’aspetto fenomenico, ma è il fatto disciplinare ossia il notevole inadempimento agli obblighi contrattuali, di cui agli artt. 3 L n. 604/66 e 2119 cod. civ. non modificati dalla riforma,

b) la soppressione nel passaggio della legge al Senato del riferimento alla “legge” nella previsione“nelle ipotesi in cui…accerta che non ricorrono gli estremi…per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra fra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili” è irrilevante atteso che l’art. 2106 cod. civ., che non è stato modificato dalla riforma, non prevede sanzioni conservative, ma solo detta un criterio per l’applicazione delle sanzioni, comprese quelle espulsive,

c) gli attuali contratti collettivi, quali atti negoziali a vocazione normativa, contemplano tutti un giudizio di proporzionalità da operare nel caso concreto, demandato al giudice in caso di contestazione, e non consentono alcun automatismo,

d) questi contratti vanno interpretati secondo i canoni di cui agli artt. 1362 2 ss. Cod. civ. e quindi, anche per le eventuali ipotesi per le quali è prevista quale sanzione “secca” il licenziamento, se vengono poste sullo stesso piano condotte fra loro eterogenee, non può essere considerato logico e coerente che solo per alcune condotte, in quanto genericamente descritte, venga consentita una valutazione in concreto della gravità dell'illecito, mentre per altre, in quanto apparentemente specifiche, questo esame venga escluso,

e) la tesi dell’ “automatismo valutativo” porta a conseguenze inaccettabili e di potenziale irrazionale disparità di trattamento per quanto riguarda i codici disciplinari, atti unilaterali del datore di lavoro, che potrebbero contenere qualsiasi tipo di illecito a piacimento di chi li predispone e comunque rimetterebbero all’insindacabile valutazione di una delle due parti del rapporto la valutazione della serietà dell’inadempimento dell’altra,facendo da ciò dipendere il diritto alla reintegrazione,

f) l’interpretazione proposta è l’unica compatibile con l’art. 24 della Carta sociale europea e con l'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, atteso che pur non vincolando queste disposizioni sul tipo di tutela (ripristinatoria o risarcitoria) da accordare in caso di licenziamento illegittimo, non appare dubitabile che il diritto ad essere licenziati solo in caso di un motivo giustificato sia garantito dall'art. 24 proprio attraverso la possibilità di ricorrere ad un organo imparziale,la cui cognizione non può quindi essere impedita attraverso limiti irrazionali.

19/04/2013
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