Magistratura democratica

Terrorismo internazionale. Contrasto giudiziario e prassi operative

di Franco Roberti

Le nuove minacce del terrorismo internazionale di matrice islamista rendono necessario il progressivo adeguamento degli strumenti normativi e delle prassi operative a uno scenario di criminalità organizzata in costante mutamento. Numerose organizzazioni criminali presentano una struttura reticolare caratterizzata da alti livelli di flessibilità, mobilità, connettività ed interetnicità, nonché da una capacità di infiltrazione e di mimetismo accentuata. Si registra, inoltre, una crescente propensione alla mutua assistenza tra le varie strutture criminali, che riescono così a superare le differenze linguistiche o di interessi commerciali per convergere verso traffici comuni, così diminuendo i costi e massimizzando i profitti in un periodo di crisi economica mondiale.

Il fenomeno del terrorismo internazionale, nelle sue forme attuali, non conosce confini di Stati e di regioni, in uno scenario sempre più accentuato di globalizzazione e di interdipendenza tra Stati e organismi internazionali. Il concetto di interdipendenza strategica tra i vari soggetti, che condividono la stessa minaccia, postula che le scelte di ognuno di essi in ordine alle tipologie di intervento siano influenzate dalle decisioni degli altri e che, quindi, ciascuno debba prevedere tali decisioni.

Il fenomeno fu reso di drammatica evidenza dai più gravi attentati terroristici a partire dall’11 settembre americano. Le stragi di Madrid del 2004 e di Londra del 2005 avevano già dimostrato, secondo i più acuti analisti, che affrontare secondo vecchi schemi chi pratica la guerra asimmetrica è del tutto inutile. Tanto più se questa guerra si estende a livello globale. La trasformazione del terrorismo globale mette in crisi anche le consolidate tecniche di intelligence occidentali. 

Il rapporto di complementarietà tra il terrorismo internazionale e l’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio è uno dei temi più significativi nel complesso di relazioni tra la criminalità organizzata di tipo mafioso e il terrorismo.

Le attività terroristiche richiedono disponibilità di fondi e di mezzi materiali che significano – secondo la Convenzione Onu per il contrasto al finanziamento del terrorismo (9 dicembre 1999) – denaro e mezzi di ogni genere, strutture logistiche, armi, documenti contraffatti, coperture e rifugi, che la criminalità organizzata può fornire e – come numerose indagini dimostrano – frequentemente fornisce.

Le connessioni tra terrorismo e criminalità organizzata di tipo mafioso – evidenziate fin dalla Posizione Comune adottata dal Consiglio dell’unione europea del 27.12.2002 – si riferiscono direttamente alle caratteristiche della criminalità organizzata transnazionale.

Basti pensare ai profondi e radicati legami tra criminalità organizzata e terrorismo nel settore del contrabbando di merci e dei traffici di materiali da armamento. Il terrorismo internazionale si autofinanzia soprattutto con i traffici di stupefacenti e di armi, nonché con le estorsioni e con i sequestri di persona.

Nel mercato globale del crimine, le organizzazioni di tipo mafioso, a loro volta, tendono sempre più ad agire su scala transnazionale, in alleanza o in competizione con altre organizzazioni criminali, in particolare con quelle terroristiche.

Né va dimenticato che negli anni ‘80, in Italia, le mafie sono cresciute anche grazie al terrorismo, che provocò la mobilitazione delle migliori risorse dello Stato nell’azione di contrasto, distogliendo l’attenzione investigativa dalle altre forme di criminalità organizzata. Il terrorismo è fattore di forza per la mafia. A loro volta, anche le organizzazioni mafiose possono avere una valenza terroristico eversiva[1].

L’evoluzione del terrorismo internazionale e le indagini finora svolte sulle attività delittuose dello Stato Islamico e dei suoi affiliati (o aspiranti “martiri”) nel nostro Paese – delle quali si dà conto nella seconda parte della Relazione – confermano l’intreccio tra criminalità organizzata di tipo mafioso e terrorismo internazionale. Più che un intreccio, una totale compenetrazione.

A differenza delle altre formazioni terroristiche internazionali, l’IS è una associazione criminale che si è fatta Stato, con un territorio controllato (tra Siria e Iraq, con insediamenti in Libia), una popolazione, un ordinamento giuridico e una organizzazione amministrativa. Ma è uno Stato-mafia, perché, assieme al radicalismo ideologico e alla violenza terroristica, esprime anche imprenditorialità criminale e dominio territoriale con proiezioni transnazionali: i connotati essenziali e tipici delle associazioni di tipo mafioso.

Secondo stime recenti, l’IS accumula circa tre miliardi di dollari l’anno con attività criminali di vastissima portata, confermate dalle Risoluzioni adottate dalle Nazioni Unite nel 2015: traffici di stupefacenti, contrabbando di petroli e di opere d’arte, traffici di armi, contrabbando di tabacchi, traffici di migranti, estorsioni e sequestri di persona, corruzione e riciclaggio dei proventi illeciti. Si tratta di attività criminali che, per essere realizzate, necessitano di una vasta rete relazionale di complicità esterne alla associazione terroristico-mafiosa. Che, per generare profitti, tendono a interagire anche con l’economia legale e attraverso circuiti ufficiali (si pensi alle condotte di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo realizzabili attraverso i circuiti money transfer). D’altra parte, per una elementare e ineludibile legge di mercato, ogni scambio suppone un venditore e un acquirente, un’offerta che intercetta una domanda. All’offerta terroristica corrisponde una domanda globalizzata di servizi e prodotti illeciti. 

 

Quanto accaduto a Parigi il 13 novembre 2015 ha certamente rappresentato una escalation rispetto ai pur drammatici attentati registrati non solo nei mesi scorsi, ma anche negli ultimi anni in Europa.

Le dimensioni e modalità degli attacchi hanno dato forma a quelle che erano le maggiori preoccupazioni di analisti ed investigatori, ossia la possibilità che soggetti europei “reduci” da teatri di conflitto quali l’Iraq e la Siria – i cd. foreign fighters – potessero rientrare in Europa e portare a termine azioni terroristiche programmate all’estero, avvalendosi non solo delle esperienze e delle capacità militari acquisite, ma anche della collaborazione di elementi stanziati sul territorio europeo e del supporto di miliziani stranieri inviati appositamente per partecipare agli attacchi.

È poi emerso che diversi dei soggetti coinvolti erano già a vario titolo noti alle autorità francesi e belghe quali estremisti, alcuni dei quali “reduci”.

La domanda che ci poniamo è semplice e diretta: è adeguato il nostro sistema normativo ad una minaccia di tale intensità? 

Di certo la normativa italiana, specie alla luce degli interventi del legislatore del 2015 è una delle più moderne ed avanzate in materia di contrasto al terrorismo.

Data la recente promulgazione è evidentemente ancora presto per analizzarne con completezza l’efficacia ed evidenziarne eventuali criticità, ma sicuramente – come dimostrato dai tragici fatti di Parigi – ha dedicato particolare attenzione a contrastare il fenomeno che si è rivelato essere maggiormente pericoloso: quello dei foreign fighters.

Ci si riferisce, in particolare, alla norma che prevede la punibilità degli “arruolati”: l’introduzione del secondo comma dell’art. 270 quater, con il quale viene ampliata la sfera punitiva anche nei confronti dei reclutati, ha sanato le lacune della precedente legislazione, che prevedeva la possibilità di sanzionare solamente l’arruolatore e non l’arruolato.

Come detto, questa norma, con pene di certo non lievi – la reclusione da 5 a 8 anni – ha correttamente individuato come condotte estremamente pericolose e da contrastare i casi di arruolamento spontaneo o su istigazione che sempre più frequentemente si registrano grazie anche alla rete internet.

È stato evidente l’interesse del legislatore a colpire il fenomeno dei foreign figthers ed in questa ottica è stato anche introdotto nel codice penale l’art. 270 quater 1, che sanziona l’organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo, cercando di punire anche coloro che li aiutano sotto il profilo organizzativo.

Anche la nuova fattispecie criminosa dell’autoaddestramento, in un’ottica di prevenzione, punisce con la stessa pena prevista per addestrati e addestratori anche coloro che avendo acquisito autonomamente istruzioni sulla preparazione o sull’impiego di esplosivi, armi, sostanze chimiche o comunque nocive nonché sulle tecniche per il compimento di atti violenti o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali per finalità di terrorismo, pongano in essere comportamenti con le medesime finalità.

Tra i comportamenti che consentono la punibilità, senz’altro, rientra il cercare di raggiungere – dopo aver acquisito questa esperienza – il teatro siro – iracheno per unirsi a formazioni terroristiche.

I problemi interpretativi delle nuove norme saranno affrontati dalla giurisprudenza, così come l’esigenza di parametrare le vecchie norme – a partire dall’art. 270 bis cp – alle nuove emergenze. Al riguardo, merita di essere segnalata la recente sentenza della Corte di cassazione (Sez. I, 6 ottobre 2015, depositata il 1 dicembre 2015) che, quanto ai limiti spaziali all’applicabilità delle legge italiana ai reati plurisoggettivi commessi in parte anche all’estero, ha affermato che la presenza dell’IS sul territorio italiano attraverso cellule attive comporta l’applicabilità a tale sodalizio della legge penale italiana, in specie l’art. 270-bis cp[2].

Inoltre le misure di prevenzione, in particolare la sorveglianza speciale con finalità antiterrorismo prevista nella nuova normativa anche per coloro che intendano raggiungere le aree di conflitto per unirsi a organizzazioni terroristiche, costituiscono un valido strumento di contrasto.

Tuttavia, su quest’ultimo punto è forse opportuno fare delle ulteriori riflessioni.

Dovrebbe essere anzitutto valutata, in un’ottica di progressivo adeguamento normativo alle esigenze di una efficace prevenzione, la disposizione di cui all’articolo 4 lettera d) del Codice antimafia, che prevede l’applicabilità della misura di prevenzione personale a «coloro che, in gruppi o isolatamente, pongono in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti ... alla commissione di reati con finalità di terrorismo anche internazionale». Tale formula potrebbe risultare eccessivamente restrittiva rispetto a coloro che, pur non ponendo (ancora) in essere atti preparatori obiettivamente rilevanti e diretti alla commissione di atti di terrorismo, si presentino tuttavia già pericolosi, come nel caso di coloro che dichiarano pubblicamente, su internet, la loro adesione ai proclami fondamentalisti, di apologia del Califfato e incitamento all’esecuzione di atti di terrorismo, lanciati via web da altri soggetti[3]. Non va mai dimenticato che simili proclami non sono mera espressione di opinioni, ancorché estreme, ma atti di guerra, anelli di una catena di azioni, che può condurre a omicidi e stragi di persone inermi[4].

Potrebbero, inoltre, essere immaginate delle nuove modalità attuative della sorveglianza speciale con finalità antiterrorismo anche con l’utilizzo di tecnologia innovativa con strumenti elettronici di controllo. 

Detta tecnologia, potrebbe consentire di contenere la pericolosità dei soggetti sottoposti alla sorveglianza speciale e ottimizzare l’utilizzo delle risorse per il loro controllo, anche prevedendo misure restrittive per il mancato rispetto delle prescrizioni previste.

 

Per essere assolutamente efficace, il contrasto giudiziario al terrorismo internazionale deve essere condotto in connessione con la lotta alle altre forme di criminalità organizzata e con spirito unitario tra tutte le istituzioni coinvolte, pur nel rigoroso rispetto dei ruoli.

Un diritto penale internazionale ancora non esiste, mentre appare pressante l’esigenza di reagire alla minaccia terroristica con risposte unitarie o, quantomeno, coordinate. Risposte che dovrebbero consistere nell’adeguamento dei sistemi giuridici e degli strumenti di cooperazione alle nuove caratteristiche, particolarmente insidiose e sfuggenti, del terrorismo internazionale e nella instaurazione di moduli e prassi uniformi di collaborazione tra i vari organismi giudiziari, investigativi e di intelligence.

Se il pubblico ministero può acquisire, anche di propria iniziativa, la notizia di reato (art. 330 cpp) e se il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo deve raccogliere ed elaborare dati, notizie e informazioni ai fini del coordinamento e dell’impulso investigativo (art. 371-bis, comma 2, cpp) anche in materia di terrorismo[l’art. 371-bis, comma 3 lett. c) parla di criminalità organizzata senza ulteriori specificazioni), sembra indispensabile prevedere una prassi di raccordo tra investigazione giudiziaria e attività di intelligence, in termini di scambio di informazioni e di analisi relative alla conoscenza generale del fenomeno terroristico. Il principio del raccordo informativo è peraltro già presente nell’ordinamento processuale agli artt. 118-bis, 256-bis e 270 bis cpp, introdotti con la legge 124/2007.

L’Italia è già riconosciuta nelle sedi internazionali per la sua cultura del coordinamento, della cooperazione e delle garanzie individuali. Abbiamo affrontato e vinto il terrorismo interno con la sola forza del diritto e con lo strumento dei collaboratori di giustizia. Da oltre venti anni ci misuriamo con il terrorismo internazionale di matrice islamista. Poniamo al servizio della comunità internazionale questa grande esperienza.

[1] A questo riguardo vanno ricordati alcuni episodi sintomatici. Gli appartenenti a Cosa Nostra che realizzarono le stragi nel continente nel 1993 (maggio: Roma, via Fauro; Firenze, via dei Georgofili; luglio: Roma, Chiesa di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro; Milano, Museo Nazionale d’Arte Moderna; ottobre: Roma, Stadio Olimpico) sono stati condannati per tali delitti ritenuti aggravati dall’aver agito per finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine costituzionale (art. 1 dl n. 625/1979, conv. dalla l. 15/1980). La stessa aggravante della finalità di terrorismo è stata, più di recente, riconosciuta per la strage di extracomunitari consumata il 19 settembre 2008 in Castelvolturno dal gruppo stragista del clan dei casalesi capeggiato da Giuseppe Setola.

[2] Muovendo dal consolidato principio secondo cui «è sufficiente che in Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti», con la conseguenza che deve ritenersi «integrante il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative “cellulari” o “a rete”, in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici ovvero informatici anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete, che realizzi anche una delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all’assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione di armi o di documenti falsi, all’arruolamento, all’addestramento», la sentenza conclude per l’applicabilità della legge penale italiana anche «in caso di cellula operante in Italia per il perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base della attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio dei nuovi adepti, da inviare all’occorrenza nelle zone teatro di guerra, e della raccolta di denaro destinato al sostegno economico dei combattenti del “Jihad” all’estero».

[3] Con la stessa sentenza la Cassazione ha affermato che la diffusione di contenuti via web, su siti ad accesso libero, può essere inquadrata nella previsione di cui all’art. 266, comma 4, cp, che definisce il reato avvenuto pubblicamente quando è commesso «col mezzo della stampa o con altro mezzo di propaganda».

[4] In tal senso il decreto del Tribunale di Vicenza 8 gennaio 2016 che, in accoglimento della proposta della Direzione Antimafia e Antiterrorismo, ha affermato che l’adesione ai proclami apologetici del jihadismo e la loro diffusione in rete integrano gli atti preparatori obiettivamente rilevanti alla commissione di reati con finalità di terrorismo internazionale.