Magistratura democratica

La legislazione dell’Unione europea tra esigenze di armonizzazione e logiche emergenziali

di Ignazio (Juan) Patrone

1. La “lotta al terrorismo” agli albori delle politiche europee di cooperazione penale

L’Atto unico europeo, approvato nel 1986 ed entrato in vigore il 1 luglio 1987, è considerato l’atto costitutivo di un primo embrione di unione politica tra gli allora dodici Stati membri.

In quel contesto – nel quale per la prima volta si usano i termini di “cooperazione politica” e di Unione europea – vi è un primo (sia pure assai vago) accenno ad una possibile cooperazione penale e di polizia in una “Dichiarazione politica dei governi degli Stati membri” relativa alla libera circolazione delle persone, il cui testo era il seguente: «Per promuovere la libera circolazione delle persone gli Stati membri cooperano, senza pregiudizio delle competenze della Comunità, in particolare per quanto riguarda l’ingresso, la circolazione ed il soggiorno dei cittadini di Paesi terzi. Essi cooperano anche per quanto riguarda la lotta contro il terrorismo, la criminalità, gli stupefacenti e il traffico delle opere d’arte e delle antichità».

Erano impegni, come oggi si può agevolmente notare, del tutto generali (se non assolutamente generici), privi allora di qualsivoglia strumento di attuazione, tanto che nella successiva Dichiarazione «relativa agli articoli da 13 a 19 dell’Atto unico europeo», a scanso di equivoci circa la “inesistente” cessione di sovranità, si precisava che «Nulla in queste disposizioni pregiudica il diritto degli Stati membri di adottare le misure che essi ritengano necessarie in materia di controllo dell’immigrazione da Paesi terzi nonché in materia di lotta contro il terrorismo, la criminalità, il traffico di stupefacenti e il traffico delle opere d’arte e delle antichità».

Eravamo sul piano delle semplici buone intenzioni, dunque.

Ai limitati fini del presente discorso, al di là di alcuni aspetti storici[1] e persino curiosi[2] che emergono dalla lettura dell’Atto unico, ciò che preme rilevare è che “la lotta al terrorismo” è stata da allora sempre indicata – senza soluzione di continuità – tra gli obbiettivi primari della costruzione comunitaria e dell’Unione, sino al Trattato di Maastricht del 1992 ed al successivo Trattato di Amsterdam, entrato in vigore il 1 maggio 1999. 

Con quest’ultimo veniva stabilizzata la materia della cooperazione penale nel Titolo VI del Trattato sull’Unione, «Disposizioni sulla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale», il cui articolo 29 prevedeva un nucleo di reati (peraltro non sempre ben definiti) per i quali era previsto, nell’ambito di uno «spazio di libertà, sicurezza e giustizia», la prevenzione e la repressione della criminalità attraverso azioni comuni in materia di criminalità, organizzata o di altro tipo, e in particolare di terrorismo, di tratta degli esseri umani e reati contro i minori, di traffico illecito di droga e di armi, di corruzione e di frode. 

Lo strumento legislativo principe, del tutto nuovo, per l’attuazione delle politiche di cooperazione penale sarebbe stata nel decennio successivo la decisione quadro, un atto la cui adozione rimaneva saldamente nelle mani degli Stati attraverso il Consiglio, avente una bassa forza di armonizzazione[3], e che peraltro sarebbe restato sostanzialmente nei cassetti dei buoni propositi sino alla svolta rappresentata dall’11 settembre 2001, epifania di un “nuovo” terrorismo globalizzato e momento di svolta, bon gré mal gré, nella legislazione dell’Unione in materia penale.

2. Dopo l’11 settembre 2001: la “lotta al terrorismo” a parole si fa dura, ma la legislazione europea stenta ad essere applicata

Le politiche di cooperazione penale, nonostante le più ampie competenze attribuite all’Unione dal Trattato di Amsterdam e le pur ambiziose Conclusioni del Consiglio straordinario di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999[4] – con le quali gli Stati membri si erano reciprocamente impegnati ad una più efficace politica comune di contrasto alle più gravi forme di criminalità – non sono nei fatti efficacemente decollate sino all’impulso dato dall’attacco alle Torri Gemelle[5], che provocò, sul piano politico, la necessità di dare alla opinione pubblica europea e a quelle nazionali risposte che potessero essere ritenute, quantomeno, rassicuranti riguardo alla capacità di contrastare i terroristi anche sul piano della cooperazione penale internazionale ed europea in particolare.

Fu, secondo un’opinione all’epoca condivisa, l’allora Commissario europeo competente, il portoghese Vitorino, ad approfittare della volontà espressa dagli Stati membri (nel frattempo diventati 15) ed a lanciare la proposta di una prima serie di atti del terzo pilastro (come era denominata la politica comune in materia di giustizia) tra i quali – inevitabilmente, visto il momento politico – quella sul terrorismo: venne così introdotta la decisione quadro del 13 giugno 2002 sulla lotta contro il terrorismo (2002/475/GAI).

Interessante leggere i pur prolissi Considerando n. 4 e n. 5, che si riportano in nota[6] [7], dai quali sembrano  emergere, da un lato lo sforzo comune di lunga data di impegnarsi sul terreno del contrasto ad un fenomeno che, nel tempo, andava assumendo caratteristiche sconosciute sia ai terrorismi “nazionali” (quali quello basco e quello nord-irlandese) sia a quello più propriamente di ispirazione politica, che soprattutto in Italia e Germania aveva dato (e nel nostro Paese purtroppo stava ancora dando) ripetutamente prova di sé; dall’altro una certa confusione tra strumenti giuridici (tutti in ogni caso a bassissimo o nullo valore cogente) ad altri di tipo squisitamente politico.

La decisione quadro in questione, vista a molti anni di distanza, presentava alcune disposizioni di sicuro interesse ed altre di assoluta novità. Citerò solo un primo tentativo di definire da un punto di vista penale l’atto terroristico, le finalità terroristiche e le conseguenti condotte punibili (artt. 1-4) ; il primo tentativo (sempre salvo errore da parte di chi scrive) di stabilire sanzioni penali armonizzate nel diritto dell’Unione: il terzo comma dell’art. 5 infatti prevede infatti che «Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché i reati elencati all’articolo 2 siano punibili con una reclusione di durata massima non inferiore a 15 anni per i reati di cui all’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), e non inferiore a 8 anni per i reati di cui all’articolo 2, paragrafo 2, lettera b). Qualora il reato di cui all’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), si riferisca solo alla fattispecie di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettera i), la durata massima della reclusione non è inferiore a 8 anni».

Se oggi pensiamo, a Trattati modificati, alla difficoltà di dar seguito all’art. 83.1 del Tfue, che prevede la possibilità di emanare direttive per armonizzare le definizioni dei reati e stabilire anche le sanzioni applicabili, forse ci rendiamo conto della novità rappresentata allora dalla disposizione citata ed anche delle ragioni (o di alcune di esse) del suo insuccesso.

Ad onta dei roboanti impegni, i risultati furono infatti molto modesti se non deludenti: la Commissione (salvo errore di chi scrive) ha elaborato due report sulla base delle (assai carenti, a quanto pare) informazioni pervenute dagli Stati membri, secondo quanto dispone l’art. 11 della decisione quadro: si tratta dei documenti classificati Report from the Commission based on Article 11 of the Council Framework Decision of 13 June 2002 on combating terrorism, rispettivamente COM(2004)409 e COM(2007) 681: in poche parole, si tratta quasi di un pianto greco tra dati nazionali incompleti o addirittura non forniti, disposizioni non trasposte, equivoci interpretativi di ogni tipo, il tutto (secondo le generali regole del terzo pilastro) senza che la Commissione potesse far nulla, non essendo prevista – come detto – la procedura di infrazione per le decisioni quadro[8].

Sarebbe interessante – ma qui manca lo spazio – studiare la ragione (che presumibilmente era tutta politica) di tale generalizzato rifiuto ad adempiere: occorrerebbe a tale scopo andare ad analizzare la sorte, in genere stentata e poco fortunata, di quasi tutte le misure adottate nel vigore delle norme sulla produzione giuridica dell’ormai defunto terzo pilastro, dalle decisioni quadro alle Convenzioni, esclusi la Decisione quadro sul mandato di arresto europeo e la Convenzione del 2000 sulla mutua assistenza legale. Sta di fatto che anche la Decisione quadro n. 2002/475 non si è sottratta a tale non brillante  destino, neppure dopo l’introduzione delle modifiche di cui alla Decisione quadro 2008/919/GAI del Consiglio del 28 novembre 2008. Nel frattempo, infatti, la minaccia terrorista si era tutt’altro che spenta, basti pensare anche solo ai massacri di Madrid Atocha dell’11 marzo 2004 e della metropolitana di Londra del 7 luglio 2005, che destarono enorme impressione ed al conseguente coro di governi disposti, a loro dire, a cooperare ad ogni costo ma poco disposti a modificare le loro legislazioni nazionali.

La decisione quadro del 2008 presenta peraltro una marcata tendenza verso un diritto penale di prevenzione o dell’intenzione, slegato dalla effettiva commissione di atti e condotte rilevanti, ciò che non ha mancato di esser criticato da attenta dottrina[9] e che ha costituito una pesante ipoteca sulla legislazione successiva.

In conclusione possiamo dire che la legislazione europea del 2002-2008 in materia di contrasto penale al terrorismo è largamente rimasta sul terreno del diritto penale simbolico, senza riuscire veramente ad incidere sui sistemi nazionali, armonizzandoli solo in parte e molto lentamente e introducendo «tendenze preoccupanti, che non debbono essere trascurate: la tendenza a stabilire disposizioni penali che non perseguono un chiaro scopo di tutela, la tendenza a trascurare il principio dell’ultima ratio, la tendenza ad imporre obblighi di penalizzazione che conducono sul piano nazionale a fattispecie penali eccessivamente indeterminate, così come la tendenza a reagire ad ogni problema sociale con una crescente repressione e a vedere in ciò di per sé solo un plusvalore»[10].  

3. Arriva il Trattato di Lisbona: ma arriva anche l’IS

Il Trattato di Lisbona ha apportato numerose ed importanti modificazioni nella materia penale[11].

Il terrorismo, da sempre considerato tra le condotte criminali più pericolose e, per loro stessa natura, transnazionali, è stato perciò inserito tra i cd eurocrimes all’art 83 Tfue, secondo una linea coerente con le premesse sopra citate sub n. 1, venendo la materia ora disciplinata dalle norme generali dello Slsg: lo strumento giuridico diviene la direttiva, vi è il controllo della Corte di giustizia, sono possibili le procedure di infrazione. Purtroppo però anche la minaccia terroristica si è intensificata ed appare in tutta la sua pericolosità il fenomeno – nuovo, per le dimensioni che ha raggiunto – dei cd foreign fighters, i combattenti del sedicente Stato islamico reclutati in altri Paesi, anche europei; i quali, facendo poi ritorno alla loro origine, diventano militanti, regolari o irregolari, pronti a compiere attentati. Ma questa è la cronaca, ardua da accettare, di oggi.

È in corso di esame davanti al Consiglio ed al Parlamento una proposta delle Commissione per una nuova Direttiva in materia: si tratta della Proposta di direttiva del Pe e del Consiglio sulla lotta contro il terrorismo e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/475/GAI sulla lotta contro il terrorismo.

Sul piano del contrasto al finanziamento ai gruppi terroristici è stata emanata la direttiva 2015/849 del Pe e del Consiglio del 20 maggio 2015 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, che modifica il regolamento (Ue) n. 648/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 2005/60/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio e la direttiva 2006/70/Ce della Commissione[12]. Sul quadro di insieme e sulle prospettive del settore (che oltre alla giustizia tocca, inevitabilmente, delicate questioni relative al mercato interno) si può utilmente leggere un recente documento della Commissione, Com(2016) 50 final, Comunicazione della Commissione al Pe ed al Consiglio relativa a un piano d’azione per rafforzare la lotta contro il finanziamento del terrorismo[13].

Non si può seriamente esaminare un testo non ancora entrato in vigore, sul quale peraltro si sono da subito appuntate critiche, anche aspre, quale è quello della proposta di direttiva ora in esame.

Solo ci sembra di poter dire che un bilancio, vero, approfondito, serio, della legislazione ad oggi emanata non pare sia stato fatto e forse neppure tentato.

Si avanza sempre a tentoni, seguendo le emergenze senza una valutazione preventiva dei problemi già emersi nella applicazione degli strumenti precedenti.

Si tratta di una politica penale dell’emergenza, sulla quale non possiamo essere d’accordo.

[1] Nel 1986 era in corso un aspro confronto tra gli Stati Uniti e i loro alleati e la Libia a proposito del finanziamento di gruppi terroristici da parte di quel Paese (allora saldamente in mano a Gheddafi); erano inoltre aperte nel cuore dell’Europa le questioni nord irlandese e basca, con tutto quel che ne seguiva in termini di atti certamente qualificabili come terroristici, ma compiuti da forze che si autodefinivano – e molti anche in altri Paesi ritenevano essere – di “liberazione nazionale”.

[2] Del “traffico delle opere d’arte e delle antichità”, se non erro, non si è mai più parlato tra gli obbiettivi delle politiche penali e di polizia,  prima della Comunità e poi dell’Unione.

[3] Per l’adozione delle decisioni quadro era richiesta l’unanimità, non erano previste procedure di infrazione in caso di trasposizione omessa o carente ed il controllo della Corte di giustizia era molto limitato.

[4] Vero atto di fondazione “politica” della cooperazione penale e di polizia, base di tutte le iniziative legislative degli anni a seguire.

[5] Per un bilancio critico delle politiche del terzo Pilastro prima dell’11 settembre si veda Anne Weyembergh, Building a European Legal Area, What has been achieved and what has stille to be done, Lecture in the Cicero Foundation Great Debate seminar “Justice and Home Affairs - How to Implement the Amsterdam Treaty?”, Paris, 13-14 April 2000, www.cicerofoundation.org/lectures/p4weyembergh.html.

[6] (4) A livello di Unione europea, il 3 dicembre 1998, il Consiglio ha adottato il piano d’azione del Consiglio e della Commissione sul modo migliore per attuare le disposizioni del trattato di Amsterdam concernenti uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. È altresì necessario tener conto delle conclusioni del Consiglio del 20 settembre 2001 e del piano d’azione in materia di terrorismo del Consiglio europeo straordinario del 21 settembre 2001. Il problema del terrorismo è stato ricordato nelle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 e del Consiglio europeo di Santa Maria da Feira del 19 e 20 giugno 2000. È inoltre menzionato nella comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sull’aggiornamento semestrale del quadro di controllo per l’esame dei progressi compiuti nella creazione di uno spazio di «libertà, sicurezza e giustizia» nell’Unione europea (secondo semestre del 2000). Il 5 settembre 2001 il Parlamento europeo ha inoltre adottato una raccomandazione sulla lotta al terrorismo. È inoltre importante ricordare che il 30 luglio 1996, alla riunione dei Paesi più industrializzati (G7) e della Russia svoltasi a Parigi, sono state predisposte 25 misure per combattere il terrorismo.

[7] (5) L’Unione europea ha adottato numerose misure specifiche per lottare contro il terrorismo e la criminalità organizzata: la decisione del Consiglio, del 3 dicembre 1998, che incarica l’Europol di occuparsi dei reati commessi o che possono essere commessi nell’ambito di attività terroristiche che si configurano in reati contro la vita, l’incolumità fisica, la libertà delle persone e i beni(1); l’azione comune 96/610/GAI del Consiglio, del 15 ottobre 1996, sull’istituzione e l’aggiornamento costante di un repertorio delle competenze, capacità e conoscenze specialistiche nel settore dell’antiterrorismo, per facilitare la cooperazione fra gli Stati membri dell’Unione europea nella lotta al terrorismo(2); l’azione comune 98/428/GAI del Consiglio, del 29 giugno 1998, sull’istituzione di una Rete giudiziaria europea(3) con competenze per i reati terroristici (segnatamente l’articolo 2); l’azione comune 98/733/GAI del Consiglio, del 21 dicembre 1998, relativa alla punibilità della partecipazione a un’organizzazione criminale negli Stati membri dell’Unione europea; la raccomandazione del Consiglio, del 9 dicembre 1999, sulla cooperazione nella lotta contro il finanziamento dei gruppi terroristici.

[8] Per farsi un’idea del livello di non adempimento da parte degli Stati membri alle obbligazioni da essi stessi liberamente stipulate con l’approvazione della decisione quadro 22002/475, basta leggere un passo del report della Commissione del 2004: «By 31 December 2002, however, only five Member States (Austria, Germany, Ireland, Italy and Portugal) had provided the Commission with information on implementation and only two of them actually included the relevant transposing provisions. A document drawn up on this basis would have been virtually meaningless, so the Commission has had to admit late replies and gather complementary information from the contact persons, when designated by Member States. By February 2003, seven more Member States (Belgium, Denmark, France, Finland, Greece, Spain, and the United Kingdom) had responded although two of them just referred to new draft legislation. Sweden was the thirteenth Member State to reply, on 5 November 2003. Luxembourg and the Netherlands did not reply».

[9] V. in particolare V. Mitsilegas, Professor of European Criminal Law, Queen Mary, University of London, The third wave of third pillar law: which direction for EU criminal justice?, (2009) 34 E.L. REV. August 2009, il quale a pag. 526 scrive: «This disassociation of criminalisation from the actual commission of a terrorist act, along with the wide scope of the new offences, has led to the Framework Decision being strongly criticised for compromising freedom of expression (and academic freedom in particular), and for cementing a criminal law of prevention, where the focus is not on the actual commission of acts, but on the control of individuals who are perceived as a threat at a temporal stage far removed from the commission of crime.14 Indeed, the shift to prevention in the new offences is evident, as is the attempt to extend the criminal law sphere to certain profiles of individuals and subjective elements whose link with the actual commission of terrorist offences is more and more tenuous. A wide range of conduct could potentially be included within the criminalisation scope of the Framework Decision,15 while, on the other hand, the safeguards included in the instrument are drafted in rather general terms and their effect in the implementation process in Member States is unclear». 

[10] Cosi, molto efficacemente, gli studiosi europei di European Criminal Policy Initiative: crimpol.eu/manifesto/ nel loro Manifesto sulla politica criminale europea, pubblicato in molte lingue, tra cui l’italiano, nel 2009.  

[11] Mi permetto sul punto di rinviare al mio La dimensione costituzionale del diritto penale dell’Ue dopo il Trattato di Lisbona, europeanrights.eu, pubblicato il 6maggio 2016.

[12] Non c’è veramente lo spazio per trattare anche la complessa materia della prevenzione del finanziamento al terrorismo, a pena di un’inaccettabile superficialità.

[13] http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52016DC0050&rid=17